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Manifestazione d’arte folclorica e di tradizioni popolari nell’ambito del Progetto Culturale “Le donne nella cultura popolare della Lombardia” “Folclore ai Castelli” GROSIO (So) 15 - 16 SETTEMBRE 2007 Comune di Grosio Provincia di Sondrio

Donna Lombarda CAP.8-Grosio

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Manifestazione d’arte folclorica e di tradizioni popolarinell’ambito del Progetto Culturale

“Le donne nella cultura popolare della Lombardia”

“Folclore ai Castelli”

GROSIO (So) 15 - 16 SETTEMBRE 2007

Comunedi Grosio

Provinciadi Sondrio

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Sabato 15 Settembre 2007Corte di Villa Visconti Venosta – Grosio

Intrattenimento culturale: “L’abito tradizionale femminile in Valtellina”“Il costume tradizionale di Grosio nelle fonti documentate” – relatore Gabriele Antonioli, vicepresidente dell’Istituto diDialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.“Il costume tradizionale nella provincia di Sondrio” – relatore Bruno Ciapponi Landi, direttore del Parco delle incisionirupestri di Grosio.

Con l’intervento di:Gabriella Ricetti Abramini, presidente della Pro Loco di Delebio.

Con la partecipazione delle donne del gruppo folclorico “La Tradizion” di Grosio.

Moderatore dell’intrattenimento culturale: Romualdo Massironi, presidente associazione “Culture Popolari e Tradizionidella Lombardia”.

Mostra Fotografica “Il costume tradizionale di Grosio” a cura di Giorgio Della Vite, storico.____Salone del teatro dell’oratorio “R. G. Frassati”:

spettacolo folclorico del gruppo “KERPATY” di Bratislava – Repubblica di Slovacchia.

Domenica 16 settembre 2007Castello “nuovo” di San Faustino

“FOLCLORE AI CASTELLI”

Manifestazione di arte folclorica con la partecipazione dei gruppi:LA TRADIZION – Grosio OROBICO – BergamoRENZO E LUCIA – MilanoLA BRIANZOLA – Olgiate Molgora SBANDIERATORI E MUSICI “DELLA TORRE” – Primaluna CORPO MUSICALE “CONCORDIA SANTA CECILIA” – Caronno Pertusella

e la partecipazione del gruppo folclorico “KERPATY” di Bratislava – Repubblica di Slovacchia.

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All’ingresso del paese si possono ammirare, abbarbicatisu un’altura all’imbocco della Val Grosina, due castellimedievali: quello “Vecchio” di San Faustino e quello“Nuovo”, affiancato dall’imponente Rupe Magna. Il primo, risalente al secolo XI, è affiancato dalla più an-tica chiesetta dedicata ai santi Faustino e Giovita, rico-noscibile dal grazioso campanile in stile romanico ancoraben conservato. Nel periodo feudale era il castello dipieve, affidato dal Vescovo di Como alla famiglia Veno-

sta, che vi abitò fino al XVI secolo. Il castello “Nuovo”,o visconteo, fu edificato nella seconda metà del ’300 pervolere dei Visconti di Milano, con lo scopo strategico emilitare di presidiare la zona di Grosio con una fortifi-cazione che controllasse il corridoio della valle e l’accessoalla Val Grosina.I recenti restauri hanno rafforzato la doppia cinta murariae i torrioni, valorizzando l’imponente struttura.L’attenzione dei visitatore è inoltre catturata da un im-

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Parco delle incisioni rupestri

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menso roccione, levigato dall’azione dei ghiacciai e deno-minato “Rupe Magna” dallo scopritore Davide Pace. Egli,a partire dagli anni ’70, portò alla luce numerosissime in-cisioni rupestri di epoca preistorica, con significato prin-cipalmente cultuale.Il Parco delle incisioni rupestri di Grosio è gestito da unconsorzio di enti locali istituito per valorizzare i beni ar-cheologici, etnografici e ambientali che caratterizzano icolli sorgenti fra Grosio e Grosotto, sul versante destroorografico della Valtellina, tra il fondovalle, l’abitato diGiroldo e l’ultimo tratto del torrente Roasco.Il prevalente interesse del sito è determinato dalle incisionirupestri preistoriche databili dal tardo Neolitico alle etàdel Rame, del Bronzo e del Ferro, la cui scoperta si deveall’archeologo milanese Davide Pace (1966). Le incisioni,presenti un po’ ovunque sulle rocce emergenti, sono so-prattutto concentrate sulla “Rupe Magna” che, con le sueoltre 5.500 incisioni rilevate e catalogate, si è rivelata laroccia più incisa dell’Arco Alpino. Recenti scavi hannopermesso di individuare nell’area dei castelli un abitatodell’età del Ferro e di acquisire molto materiale, ancoraallo studio, la cui importanza è tale da imporre di rivedere,alla luce dei ritrovamenti, buona parte della storia anticavaltellinese.

L’interesse dell’area si estende inoltre alle caratteristichegeomorfologiche, alla vegetazione tipica, alle tracce del-l’agricoltura del passato, ad alcune costruzioni rurali, pernon parlare delle imponenti rovine dei castelli medievaliche caratterizzano la sommità dei colli e che attendono diessere valorizzate.Il parco che è dotato di un Antiquarium presso il Centrodi accoglienza e documentazione presso la Ca’ del Cap,dove sono ordinati i rilievi delle incisioni, la fototeca e labiblioteca specializzata, ha promosso mostre, organizzatoconvegni, curato edizioni di libri e di filmati, nel quadrodi una costante e proficua collaborazione col Ministero peri Beni Culturali- Sopraintendenza Archeologica per laLombardia.La visibilità delle incisioni varia in dipendenza dell’illu-minazione solare a seconda delle stagioni. Le migliori con-dizioni di visibilità si hanno nel pomeriggio.

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La Villa Visconti Venosta è immersa nel suo grande giar-dino a cui si accede da un cancello in ferro battuto di stilesettecentesco. L’edificio ha un corpo centrale con porticoa quattro arcate sormontato da un loggiato e due ali. Inquella di sinistra, che costituisce la parte più antica del-l’edificio (XVII sec.), vi sono stanze con decorazioni pit-toresche ispirate all’arte orientale (XVIII sec.). Il corpo centrale e l’ala di destra, di costruzione ottocen-tesca, custodiscono arredamenti, quadri e oggetti di pre-

gio. Particolarmente interessante è il grande salone di ispi-razione rinascimentale. La Villa era la residenza estiva della famiglia Venosta, ilcui personaggio di maggior spicco fu Emilio Visconti Ve-nosta, diplomatico di caratura internazionale, stretto col-laboratore di Cavour, esponente della Destra storica eMinistro degli Esteri in sei governi dall’Unità d’Italia al1900. La Villa venne donata nel 1982 al Comune di Gro-sio dall’ultima discendente dell’illustre casata: la marchesa

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Villa Visconti Venosta

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Margherita Pallavicino Mossi, vedova di Giovanni Vi-sconti Venosta. La Villa, aperta al pubblico come museo,ospita al pian terreno la ricca Biblioteca comunale che con-serva libri di pregio.

Chiesa di San GiorgioLa chiesa di San Giorgio risale al XIII sec. e fu la parroc-chiale di Grosio fino al 1818. La chiesa, gioiello dell’artetardo-medievale lombarda, è fra i monumenti architetto-nici più importanti del paese. San Giorgio è fra i pochiedifici sacri valtellinesi che ha mantenuto il suo originarioaspetto quattrocentesco anche all’interno. La chiesa, che sorge nel centro storico, impreziosisce unapiccola piazza con una caratteristica fontana poligonale inpietra. All’esterno appare il portale aperto su un prato re-cintato, cimitero di Grosio fino al 1830 e, al di sopra, ilfianco settentrionale con scala che dà accesso alla balconatainterna della chiesa.La facciata a capanna presenta, sopra il portone principalein marmo, un affresco della Deposizione (A. De Passeris)protetto da un tettuccio. L’interno si sviluppa su un’unicanavata, a pianta rettangolare, col tetto a capriate in legnoa vista, cui sono innestati il presbiterio quadrato con voltaa crociera archiacuta e l’abside semicircolare. L’opera più preziosa della chiesa è l’ancona lignea dellaNatività intagliata da P. Bussolo e decorata da A. De Pas-seris (1494), custodita nella Cappella della Beata Vergine.

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Il gruppo nasce negli anni venti come“dopolavoro” della AEM di Milano.L’Azienda milanese posava i propriimpianti idroelettrici sul suolo gro-sino annoverando fra i dipendenti lagente del posto. L’organizzazione dell’antico nucleo delgruppo è dovuta ad alcuni appassionati

di folclore che attraverso le risorse storiche e sociali con illoro patrimonio di cultura si resero promotori della divul-gazione dell’immagine di Grosio. Immagine raccontata at-

traverso l’abito tradizionale, la musica, il ballo e il canto po-polare. Il cammino del gruppo sarebbe poi sempre stato inar-restabile, attraversando le varie epoche storiche del secolo,grazie alla volontà di persone che con la loro dedizione hannofatto la storia del gruppo portandolo fino ai giorni nostri.Fedeli agli insegnamenti precedenti, gli attuali compo-nenti del gruppo continuano a proporre un folclore moltogenuino e semplice, con l’obiettivo di far diventare il fol-clore uno strumento creativo ed educativo nella convin-zione che così inteso esso costituisca un messaggio diamicizia e fratellanza fra i popoli nel pieno rispetto delle

Gruppo folclorico “La Tradizion”

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reciproche identità. Felici di ereditare e consapevoli didover tramandare “Emozion” e “Tradizion”. Attualmente il gruppo si propone in paese, in provincia,in Italia e con diverse tournèe in Europa e nel mondo, conuno spettacolo di balli e musiche nonchè di presentazionedell’abito tradizionale ricevendo consensi nelle diverse ma-nifestazioni. Sensibile ai drammi del nostro tempo, ilgruppo porta il proprio contributo affiancando le associa-zioni di volontariato nel difficile tentativo di costruire unmondo migliore.

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Datare l’origine dell’abito tradizionale grosino non è sem-plice, le prime notizie sicure risalgono al XVII sec.,quando per ragioni di lavoro un numero non trascurabiledi grosini emigrò in terra di San Marco, venendo così acontatto con quel miscuglio di razze che era Venezia, dasecoli frequentatissimo porto di mare.Secondo la tradizione orale, alcuni paesani sarebbero rim-patriati portandosi appresso, oltre al sudato gruzzolo,anche un carico di belle schiave armene perchè dessero illoro contributo al ripopolamento e alla rivitalizzazione delpaese di Grosio devastato dalla guerra dei trent’anni, dallescorrerie delle soldataglie imperiali e dalla peste di man-zoniana memoria.Ebbero inizio, proprio in questo periodo, l’arricchimentoe l’evoluzione dell’abito che si differenziò subito da tuttigli altri per lo splendore dei colori e la raffinatezza dellalavorazione. Con quella sua contaminazione fra elementi della culturaalpina e foggia di stile orientale, acquisiva effettivamenteun che di esotico che avrebbe poi sempre contribuito alsuo successo. Dal ’600 in poi gli uomini si cinsero della fascia veneziana;anche se a sua volta pittoresco, il costume maschile è menocaratteristico di quello femminile. In tale data le donne cominciarono ad indossare gonne dipanno finemente pieghettate, fazzoletti e grembiuli diseta, cappelli di feltro ornati con piume di struzzo, fili dinumerose granate, orecchini, spille ed anelli in oro e in fi-ligrana d’oro. Immancabile la croce, segno di una fede re-ligiosa profondamente radicata. A seconda delle necessità e delle circostanze in cui vieneindossato, l’abito grosino si distingue nelle varie “Mude”:- “Muda da Contadini”.È la variante dell’abito che si indossa tutti i giorni peril lavoro;

- “Muda da Montanari”.È la variante dell’abito che si indossa per andare inmontagna;

- “Muda da Festa”. È la variante dell’abito che si indossa nelle feste comuni;

- “Muda da Lutto”. È la variante dell’abito che si indossa nelle occasioni dilutto;

- “Muda da Sposi”. È la variante dell’abito che si indossa in occasione delmatrimonio.

Modi di vestire al femminile a GrosioLa bellezza di un costume paesano è solitamente espressadall’originalità d’ogni singolo vestito, dalla possibilità eco-nomica che sta dietro di esso, dall’estrosità di chi lo fab-brica e, spesso, dall’utilizzo di scampoli di tessuto diversiche lo rendono unico e irripetibile, seppur concorde conla tradizione.Il mondo degli accessori dell’abito è assai variegato e sipuò distinguere in due sottoclassi diverse: quella operatadirettamente sul corpo che veste l’abito, come l’acconcia-tura e il trucco, e quella che ne fa parte come addobboesterno, fra cui si elencano: le calze, le calzature, i gioielli,il cappello e i fazzoletti, la pezza per lo stomaco e tuttauna serie di piccoli particolari più o meno visibili che sonoa completamento dell’abito.Nella descrizione delle diverse mude si ricorre spesso agliaccessori; questi variano per tessuti, filati, colori, ricami,ma mai per la funzione che assolvono.Numerosi sono gli accessori del costume di Grosio, rite-nuti assolutamente indispensabili, perché gli conferisconoquell’eleganza in grado di suscitare riverenza e lo rendono(nel contesto territoriale valtellinese) unico, appariscentee in certi casi anche invidiabile.

L’ABITO TRADIZIONALE FEMMINILE DI GROSIOa cura degli alunni dell’Istituto Comprensivo “Visconti Venosta”

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L’abito da lavoro, o “al strasc de tuc i dì”II costume da lavoro può essere considerato il cavallo dibattaglia dell’abbigliamento femminile, ancora nei primidecenni del XX secolo. Le donne lo hanno portato per la maggior parte della lorovita, fatta di fatiche e privazioni, lavorando la terraimpervia e a volte poco generosa, unica fonte di reddito

per il sostentamento delle loro numerose famiglie, durantela costante assenza dei mariti, costretti ad emigrare incerca di fortuna. Il detto che: “a Grosio lavoravano solo le donne” è un re-taggio arcaico riferito a queste grandi lavoratrici sole emolto attive, in grado d’assumere quotidianamente la re-sponsabilità educativa ed economica dell’intero nucleo

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familiare e non chiaramente dall’inoperosità degli uomini,che in tempi trascorsi erano assenti dal paese per necessitàe non per ozio. L’abito da lavoro detto STRASC, molto simile al vestitocontadino valtellinese, può essere chiamato anche “l’abitodelle fatiche” e, pur nascondendo in sé gli elementi dei ve-stiti più importanti, è confezionato in modo economico econ lavorazioni meno accurate e costose.

Molto più semplice delle altre mude, mantiene però i suoicolori vivaci ed è ricco di particolari.1. I gioielli: orecchini e granate.L’utilizzo di ori e pietre preziose può sembrare inusualein un abito contadino; ma era consuetudine per ledonne adornarsi il collo con una o più file di coralli(meno preziosi delle granate che invece venivano indos-sate nei soli giorni di festa) e sfoggiare orecchini tipiciad anello con un cerchio piatto sul davanti per coronarel’ovale del viso.2. Le calze di lana rossa.Lunghe fino al ginocchio, terminavano originariamentenella parte superiore con righe in cotone azzurre e viola.Avevano un sottopiede, detto SCALFIN, in cotone greg-gio sbiancato: meno ingombrante, più fresco e di più fa-cile rammendo, permetteva di sostituirlo senza buttarel’intera calza.3. La camicia.Di cotone bianco (anticamente lino) con manica quadrataa tassello, lunga in inverno e a 3/4 o al gomito in estate,sotto cui si porta la sottoveste o TRAVERSA SOTT. Lacamicia leggermente scollata ha un’allacciatura sul davantiformata da due asole entro cui passano bottoni argentati odorati, che sostengono un doppio nastro ripiegato fermatoda una spilla: la GALA.4. La SCARSELA SOTT.Una specie di sacchetto di cotone bianco (sempre presentee ben legato in vita) dove si inserivano, a mo’ di tasca:l’agoraio in legno, la corona del rosario e il pudait (coltel-lino a serramanico con lama ricurva).5. Lo STRASC.Gonna posta sopra la sottana, lunga e nera, con busto espalline fatti di panno, fustagno e mezza lana in inverno esatin pesante in estate. Questa è plissettata per otto ditasotto la vita e poi lasciata libera e ampia; si indossa strettae fermata in vita da una stringa. Per confezionare la gonnasono necessari complessivamente 3,5 mt. di tessuto.Sotto di essa viene inserita la PÈZA DEL STOMEC, a

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forma di cuore, che sorregge il seno. Generalmente dipanno rosso, ricamato e contornato con sbieco verde espesso personalizzata con ricami che possono richiamarele iniziali del nome, o anche motivi floreali e religiosi.Originariamente questo pezzo era damascato finemente oin seta ricamata a mano. La fodera era di canapa e untempo, per rendere rigido il tessuto, si utilizzavano stecchedi legno.Sulla parte posteriore della gonna esiste un fiocco rosso aventaglio fatto di “spighetta”, il bindèl.

6. IMBECHÉ (BECH).Sul petto, passato intorno al collo, è posto piegato insbieco un fazzoletto colorato generalmente su toni rossi, icui angoli s’inseriscono, per essere trattenuti, fra la pèzadel stomec e il CURDON DEL STRASC ( cintura).7. Il PANET DE LA TESTA.É adattato a quello del collo, in cotone e/o di lana; gene-ralmente a sfondo giallo con disegni floreali, allacciatodietro la nuca per proteggere la pettinatura a trecce.8. Il grembiule di cotone.Nel corso della storia ha subito l’influsso delle nuove

tecniche di tessitura e di stampa e copre in tuttala sua lunghezza il davanti della gonna.

Chi ha qualche annetto in più,senz’altro ricorderà le

nonne che

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nel loro grembiule, come fosse una sacca (o ghèda), racco-glievano fieno e riponevano verdure dell’orto.

Curiosità su quest’abitoPer ripararsi dal freddo, soprattutto nel periodo invernale,si usava un corpetto in panno rosso, RUSETA, sostituitopiù tardi da un golfino in lana grezza, dai colori naturali(marroncino); il grembiule antico era di mezza lana otte-nuto dalla tessitura di fili d’ordito di canapa tramati confili di lana.Si usava anche un giacchino corto in cotone pesante di tipomilitare allacciato sul davanti, l’ABLOSC.Anticamente la donna, negli spostamenti in montagna,portava in testa un cappello nero con poche piume, carat-teristica tipica di Grosio e non usata in altri territori val-tellinesi, che privilegiavano il fazzoletto.Ai piedi si calzavano zoccoletti, le cui alette in pelle veni-vano allacciate con un nastro rosso o verde. Per i tragittilungo i sentieri di montagna e per i lavori pesanti, si uti-lizzavano invece gli SCIUPEI, a mo’ di scarpa, con suolain legno ricurva in punta e con tomaia in pelle fermatacon brocche lungo la pianta del piede in legno. Sopra s’in-dossavano i TRAUCH in lana grezza solitamente rossi. La donna, solita portare la gerla per un’infinità di bisogni,evitava di consumare la gonna legando in vita una speciedi fascia imbottita detta PALTRAC.L’abito da lavoro è sicuramente quello più attinentealla realtà contadina valtellinese, usato similarmentenell’intero territorio dei Terzieri e dei Contadi retici eorobici, tanto che anche a Bormio il medico condottoLuigi Picci, nel 1820, riferendosi all’abito seicentescoaffermava:“Vestivasi anticamente le donne con una gonna di pelle di pecoraconciata con la lana all’interno, la quale attaccasi alle spallemediante due stradaletti pure di pelle simile e sotto aveasi un cor-setto di panno casalingo rosso...”dove la pelle della gonna e delle bretelle era soventementesostituita da tessuto scuro.

L’abito da festaIl vestito della festa rappresenta l’abito consueto della do-menica.Come per la muda da contadina esso deve essere indossatosopra la camicia bianca, che risulta però più curata nel ri-camo intorno al collo, possedendo una chiusura con bot-toni dorati, abbelliti da una gala colorata. Le donne di unacerta età testimoniano che per feste o riti religiosi straor-dinari, la camicia veniva sostituita da un “davantino”posto sopra la camicia più modesta e che riproduceva i ri-cami e i festoni dello scollo.

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Lo strasc è infaldato fino ai piedi e le donne fanno moltaattenzione nel sedersi per non sciuparne la fitta plisset-tatura. Sulla parte posteriore si trova anche il bindel rosso o in setache forma una sorta di ventaglio molto elegante.La pèza del stomec collocata alla base dello stomaco fungeda reggiseno.Per completare quest’abito si indossa, inoltre, il fazzolettoin lana da collo dai colori diversi legati alle varie liturgieo all’età di chi se ne serve. Il fazzoletto della testa è generalmente in lana o in saia ri-camata a mano, con frange in fili di bemberg, utilizzatianche per il ricamo. In chiesa il fazzoletto viene posto sul capo non legato, so-stituito durante il giorno da uno più piccolo rigorosa-mente legato sul retro del capo, rendendo invisibili il nododi chiusura e gli angoli, attentamente arrotolati all’internosulla nuca.La domenica si indossa il corsetto che è il capo più impor-tante dell’abito da festa: ha la manica arricciata “a pro-sciutto” con il polsino terminante a punta per affusolare eingentilire la mano.Il polsino trattiene un susseguirsi di filette alternate chevengono riprese nella parte centrale della manica. Il cor-setto termina in vita stretto da pinces e ha un taglio a Vsulla parte posteriore dove è fissato il fiocco nero in seta.Sulla parte anteriore un’altra V molto accentuata deter-mina la scollatura che, bordata da una mustrina in vellutonero come sui polsini, lascia intravedere il bianco della ca-micia, il fazzoletto da collo, la gala con i bottoni e il filodi granata.Per foderare le maniche del corsetto viene utilizzata la ca-napa, mentre per tutto il resto della semplice tela.Anticamente questo capo veniva realizzato in tessuti dipanno fine in tinta unita di colore verde smunto, mar-rone bruciato, oppure in seta damascata o in cotone. Iltessuto poteva essere anche rigato, scozzese a quadretti oa piccoli motivi.

L’abito da sposaII costume da sposa è senz’altro il più ricco, curato sia neicolori che nella scelta dei tessuti e degli accessori. Le calze di lana rossa sono ricamate in seta, una volta eranointeramente di seta pura. La sottogonna presenta una ab-bondante arricciatura sui fianchi, ricami traforati e pizzimolto alti con festoni a punta e decorazioni di fiori a puntopieno per l’orlatura. La camicia bianca, assai curata, mettein risalto uno sprone allungato da cui dipartono 4 o 5 pie-ghe terminanti sul seno. Il davantino è finemente ricamatoa mano, i punti inglese, rodi, veneziano fanno emergere

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delicati fiori e festoni sullo scollo e sul petto. L’allacciaturamediante due asole che trattengono i preziosi bottonid’oro fissano la gala, in seta su fondo bianco, con ricamidorati o color ciclamino.La rossa pèza del stomec è ricamata finemente, a mezzopunto, in colori sfumati con fili di seta, può essere orlatacon passamaneria verde.Lo strasc, gonna importante per l’occasione, era dipanno di lana fino e pregiato, panfin, o di fustagno, fu-stanìn, plissettato fino in fondo e terminante con unastriscia-balza di colore azzurra e rossa oppure intera-mente nera. La gonna verrà poi utilizzata per tutte lefeste. Sul dietro, in vita risalta un fiocco delicato di setarosa sfumato o rigato in oro. Il grembiule bianco, dipregiato pizzo Sangallo ricamato a mano, verso la finedel ’700 è realizzato in organzino. Oltre ai grembiulibianchi vengono adottati grembiuli in seta e a tinte vi-vaci rosso-bordeaux.Anche per l’abito da sposa permane la forma consueta delcurset con applicazioni di velluto nero e maniche rigonfiea prosciutto e la tipica filettatura trattenuta dal polsino.La parte del busto è arricchita dal fazzoletto giallo di setapura con frange dorate posizionate a cascata sulle spalle,l’effetto del fazzoletto che avvolge come uno scialle il die-tro e il petto risalta come un sole sui colori scuri dell’abito.L’accessorio determinante, nella foggia da sposa, è il cap-pello in panno nero, originario delle zone di Verona e Vi-cenza (portato in tempi lontani dagli emigranti alle lorodonne), abbellito da piume di struzzo nere e da un doppiofiocco di seta nella parte posteriore, mazzon a coda di topo. La scarpa, sciabò, completava l’abbigliamento di classe inun contesto di eleganza e ricchezza. Nere, con tacco di 4cm., le scarpe erano ambidestre, realizzate utilizzando unaforma in legno inchiodato con stecchetti. Modello decoltéa coda di rondine, erano arricchite da fibbia anche d’ar-gento, con pietre di diamante e fiocco nero di raso.L’abito da sposa veniva indossato con l’unica variante delfazzoletto bianco al posto del cappello durante la ricor-

renza di grandi cerimonie quali battesimi, funerali deibambini, Pasqua, Natale.

L’abito da luttoMolta importanza viene data alla “foggia da lutto” che sidifferenzia per i diversi gradi di parentela. Le calze sonosempre in lana, ma a differenza degli abiti precedente-mente descritti che usano il rosso, queste sono di un colorviola acceso, finemente ricamate in bemberg nei colorigiallo-oro, rosa, verde e blu.Nonostante possa sembrare insolito e poco opportuno, perla foggia da lutto si impiegano i capi più ricercati, la sceltaè dettata dal rispetto dovuto al defunto.La camicia e la sottoveste sono le stesse delle altre mude.Solo il colore della gala nero, o con motivi su sfondo scuroprevalentemente blu o viola, sono segno di lutto.Lo strasc è sempre lo stesso, pieghettato fino ai piedi.Sulla parte posteriore il fiocco a ventaglio in seta simbo-leggia con i suoi colori il lutto.La pèza del stomec conserva la sua forma triangolare, ma ilcolore base, solitamente rosso, è invece sulle tonalità deiverdi. Il fazzoletto del collo in questo caso ha sfondo nerocon motivi a piccoli fiori in raso, mentre in testa si utilizzail fazzoletto bianco con le rosette agli angoli.Il grembiule da lutto presenta alcune varianti: può esserenero (per i parenti stretti) o viola in lanetta.I colori dei fazzoletti e dei nastri simboleggiano il lutto,per il periodo dovuto al lutto in relazione al grado di pa-rentela.

I fazzolettiNel costume due sono le funzioni del fazzoletto: una perla testa e l’altra per il collo. Il fazzoletto panèt de la testa èil copricapo usuale della donna, portato in ogni situazionedi festa o di lavoro. Raramente la donna è a capo scoperto.La quotidianità vedeva usato un fazzoletto per la testa dipiccole dimensioni di cotone o di lana, a seconda della sta-gione, con piccoli motivi floreali su sfondo dalle tonalità

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per lo più gialle. Le donne lo legavano piegato atriangolo ben stretto sulla nuca con i lembi rivoltati,in modo da nascondere completamente i capelli. Ladomenica, giorno da santificare, la donna si vestiva“dalla festa” indossando i fazzoletti più belli di lanaricamati con fili di seta, tono su tono, e bordaticon lunghe frange. Essi si portavano gene-ralmente senza annodarli, e a volte fermaticon il mento o con un piccolo anello den-tro il quale far passare le estremità.I fazzoletti per le feste variavano nei co-lori a seconda della liturgia domenicaleo dei riti (nero, da lutto con frange osenza; granata per il periodo quaresi-male; marrone bruciato in genere pertutte le feste).Bianco il panet dei ruseti, un copricapo uniconel suo genere che si può definire un veropezzo d’arte per la maestria delle ricamatrici.Formato da un rettangolo di lino di cm 100 x 50finemente orlato con quattro rosette a forma difiore a sei petali, ognuno diverso e ricamato con il“punto Venezia”, seguendo un disegno impostatosu cartoncino. Esso veniva usato nelle feste solenni,nei cortei funebri e durante i battesimi. La sposalo indossava in chiesa, ma al termine della cerimo-nia lo cambiava sostituendolo con il cappello nerodalle piume di struzzo.Al collo si usava un fazzoletto, panèt del còl, piegatoin sbieco, le cui estremità si fissavano sopra la pèzadel stomech infilate nel laccio del busto della gonna.Sull’abito contadino prevaleva il rosso, mentre peril lutto il nero. Nella muda da festa il panèt era benabbinato e risaltava sul corpetto. Una nota particolare merita il panèt di franzi dasposa in seta gialla (con frange) sistemato a mo’di scialle e fissato sul davanti a coprire la cami-cia bianca.

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Nastri e fiocchiNel costume sono inseriti numerosi accessori realizzati connastri e fettucce fra cui i tanti fiòch, elementi coreograficifissati sulla parte posteriore del stràsc, che si diversificanoin relazione alle mude.Nella muda contadina è usuale il fiocco rosso, realizzato amano con fettuccia di lana, nelle altre mude sono invece aventaglio fatti con nastri di raso o seta. Sul retro del cor-petto, al centro (in vita), a chiudere il taglio a “V” è ap-plicato il fiocco nero, vaporoso e morbido, fatto di fili diseta lucenti. La gala era, come si è già detto, il nastro por-tato sul petto che univa i lembi della camicia bianca.

I gioielliA completare l’acconciatura e a mettere in risalto i linea-menti del viso tutte le donne grosine portavano, e in parteportano ancora oggi, grandi orecchini d’oro. Particolaritàdi questi è la tipica forma ad anello liscio con borchia ap-piattita sul davanti.Ci sono poi orecchini, utilizzati generalmente per le feste,lavorati a filigrana.La scollatura abbastanza profonda della camicia bianca èunita mediante asole con due bottoni in oro o di altri metallipreziosi, e perlati, intorno ai quali si fa passare un nastropiù o meno raffinato fissato in basso con una spilla. Oltre aibottoni viene sempre indossata una collana di granate.Queste collane sono costituite da pietre preziose con coloretra il granato e il rubino.La collana di granate costituisce l’ornamento essenzialedel costume, ma di essa viene necessariamente fatta unadistinzione; esistono infatti i curai (cioè la collana di gra-nate di un giro o due, portata piuttosto alta sul collo edindossata dalle ragazze o anche dalle donne con la muda detuc’ i dì) e i granadi, cioè la collana di granati vera e propriacon 5 o 7 giri fermati da un paset, ovvero da una placchettadi metallo prezioso che trattiene tutti i giri. Originaria-mente la collana veniva fermata dietro la nuca con un na-stro verde. A volte poteva succedere che oltre alle granate

si indossassero catenine con crocifissi d’oro o d’argento.Tutti i gioielli di Grosio sembra abbiano provenienza ve-neziana e le pietre granate color rosso cupo pare tragganoil loro nome dal colore dei melograni, detti per l’appuntogranate.

L’acconciaturaL’acconciatura del costume grosino era molto complicatae richiedeva una certa abilità nell’eseguirla, abilità che ledonne assunsero con l’esercizio della quotidianità. Le donneche portavano abitualmente il costume avevano capelli lun-ghi e questa era una caratteristica importante. I loro capellierano divisi in due parti, da orecchio a orecchio, pettinatipiatti con una riga in mezzo. La parte davanti era divisa dinuovo in due risch e in mezzo veniva posta una fettucciaverde (che diveniva blu nell’abito da lutto). La parte dietroera divisa in due trecce che si fissavano sulla nuca per poirivoltarle su se stesse verso il centro della testa. Obbliga-torio era puntare il tutto con uno spillone. La frequenza con cui ci si pettinava era di un giorno sudue e il fazzoletto (panet de la testa) spesso rimediava l’im-possibilità di presentare le proprie capigliature in disor-dine per i duri lavori nei campi. Ancora oggi ci si avvale dell’esperienza delle nonne peracconciare le giovani che vestendo il costume partecipanoa manifestazioni culturali e focloriche.

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Viene qui pubblicato in forma di articolo, riveduto e integrato neitesti, il powerpoint presentato al convegno di Grosio del 2007 dal-l’autore, che si è avvalso della documentazione da lui raccolta dal1973 in poi presso il Museo Etnografico Tiranese.

La Fiera alla Madonna di Tirano qui riprodotta è certa-mente il più importante documento iconografico sul co-stume tradizionale locale di cui riproduce diverse varietà. La dipinse nel 1860 il pittore sondriese Antonio Caimi,

I COSTUMI TRADIZIONALI DELLA PROVINCIA DI SONDRIO nella documentazione iconografica di Bruno Ciapponi Landi

INTRATTENIMENTO CULTURALEL’abito tradizionale femminile in Valtellina15 settembre 2007 – Villa Visconti Venosta

A. Caimi, (1811-1878), Fiera alla Madonna di Tirano, olio su tela, collezione Caccia Dominioni.

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professore e segretario dell’Accademia di Brera di Milano,che fu il primo fra gli artisti a occuparsi con attenzionedi ricercatore dell’abbigliamento popolare che diversifi-cava la foggia degli abiti degli abitanti di molti paesidella nostra provincia. Ogni costume raffigurato nel quadroè tratto dal vero ed è stato prima disegnato con cura dall’ar-tista nel suo album con tanto di annotazioni, come testimo-nia il disegno qui riprodotto. Sono del Caimi anche le due illustrazioni con i sei paesanivaltellinesi in costume pubblicati da Cesare Cantù nellaGrande illustrazione del Lombardo Veneto, la più importanteedizione divulgativa sulla Lombardia, stampata a Milanofra il 1857 e il 1861.

Donna del Masino, contadino e Montagnona e Donne neicostumi di Grosio, Montagna e zona di Morbegno (unaper ciascun terziere della Valtellina). I due disegni figurano allepp. 32 e 167 del 5° volume pubblicato a Milano nel 1859.

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Questa statuetta di terracotta (Tirano, coll. privata), fumodellata dallo scultore Salvatore Pisani nel 1877. RitraeOrsola Capetti all’età di 20 anni. È probabilmente l’unicocaso in cui l’elegante costume femminile grosino comparein una scultura. Si noti il cappello, che non è più l’altocappello virile del “brigante italiano” con attorno la piumadi pavone di un tempo, ma non è ancora il cappello con lepiume di struzzo adottato ai primi del Novecento.

Una serie di cinque illustrazioni sul costume valtellinesecompare nell’album In Valtellina edito a cura della Sezionevaltellinese del CAI e stampato a Sondrio, senza data, trala fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, dallo Sta-bilimento tipo-litografico di Emilio Quadrio. I disegni di Aristide Gaibazzi (Parma 1858-Milano 1899),riprodotti con clichet al tratto, riprendono contadini di De-lebio, Grosio, una coppia di Montagna ed una donna diValmasino. Compaiono anche in Ricordi di Valtellina.Album d’un alpinista (Sondrio 1884) e in Cento città d’Italia,(Milano 1895).

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Il costume del Comune di Montagna in Valtellina sullacopertina di due libri: il primo è la guida di Sondrio diCarlo Safratti del 1895, il secondo è un volume sul dia-letto locale pubblicato nel 1996 dalla biblioteca comunaledi Montagna.

Nei primi anni del Novecento l’editore Paul Trabert pub-blicò a Firenze la prima edizione di sei cartoline a coloridedicate ai Vecchi costumi popolari valtellinesi.Non si conosceil nome dell’autore dei disegni da cui sono tratte le carto-line che sono state ripubblicate dal Museo Etnografico Ti-ranese nel 1990.

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In quegli anni lo sviluppo del turismo e il crescente inte-resse per il folclore favoriscono la scelta dei costumi val-tellinesi come soggetto delle cartoline postali che vannodiffondendosi sempre più. Ne pubblicherà diverse la Pre-miata Ditta Umberto Trinca di Sondrio.

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La cartolina documenta uno dei primi gruppi in costume (èquello di Montagna in Valtellina, tipica zona di produzionedi vini pregiati) e il suo utilizzo a scopo di promozione turi-stico-commerciale.

La diapositiva a colori qui riprodotta (purtroppo un po’sfocata) è stata rintracciata da Maria Grazia Vigo che neha gentilmente concesso la riproduzione. È stata realizzatanel primo Novecento da un fotografo di Boston e, come silegge nella scritta a margine, ritrae una giovane di Tiranoin costume.

Ma cosa s’intende per “costume”?Il costume è l’abito tradizionale – spesso di gala –degli abitanti di un luogo, la cui foggia, entrata nel-l’uso e mantenuta nel tempo, diventa una caratteri-stica distintiva della popolazione del paese che laadotta, conservandone forme, materiali, tecniche direalizzazione, come elemento della propria identità. Il “costume” è un abito storico, anzi una delle com-ponenti della storia del paese e dalla sua “storicità”dipende l’importanza stessa di un costume. Non può quindi essere considerato “costume”, per esem-pio, il normale modo di vestire di tutti i contadini comeè accaduto per la cartolina che segue, peraltro non privadi interesse documentario e di fascino romantico.

Più o meno lento, ma inesorabile, il declino del costumeè stato frenato dal suo “rilancio” in ambito turistico, chesegna anche il suo passaggio da abito tradizionale a “di-visa” di gruppi folcloristici o, più raramente alberghiera,come ci testimoniano le immagini che seguono.

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Un significativo interessamento per i costumi locali si hanegli anni che precedono la mostra del Folklore che si terràa Roma nel 1911 per il 50° anniversario della fondazionedel regno. La raccolta etnografica è coordinata in provinciadal referente locale prof. Omero Franceschi (che è stato in-dicato da Pio Rajna). Lascerà dietro di sé un’importante do-cumentazione fotografica e per l’occasione verranno ancherealizzati alcuni rifacimenti di costumi tradizionali oggi con-servati al Museo delle arti e delle tradizioni popolari di Roma.

Il Franceschi curò anche una rubrica sul periodico Pro Val-tellina in cui comparvero sistematicamente le notizie viavia raccolte. Le fotografie dei costumi di Cino, Dazio,Campovico e Mello provenienti dal suo archivio, sono pro-babilmente l’unica documentazione originale rimastadell’abbigliamento tradizionale di quei paesi.In Val Chiavenna viene individuato un solo costume aGordona, ma forse è solo un abito di vecchia foggia.

Sul finire degli anni Venti del Novecento l’O.N.D. (OperaNazionale Dopolavoro) si fece promotrice di una vastacampagna di valorizzazione del costume su tutto il terri-torio nazionale. L’iniziativa produsse la costituzione di un gran numero digruppi folcloristici, ma anche di mostre. A Sondrio le Mas-saie Rurali ne organizzarono una sugli scialli tipici del-l’abbigliamento femminile contadino. In campo nazionale si promosse un inventario dei co-stumi che fornì il materiale alla pittrice Emma Calderiniper il suo libro I costumi popolari d’Italia pubblicato a Mi-lano nel 1930 a cura dell’O.N.D. Si tratta di due grossivolumi illustrati con le riproduzioni a colori realizzatedall’autrice.

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Personale di un albergo moderno in abiti che richiamano il costume.

Gruppo folcloristico in costume dell’O.N.D. della zona di Morbegno ad unafesta dell’uva.

Costume di Gordona.

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I costumi valtellinesi sono rappresentati in cinque tavole: Nel 1936 al costume tipico valtellinese riservò un postod’onore il pittore Gianfilippo Usellini che li riprodusse incinque delle sei pitture murali ad encausto dedicate alleattività economiche della Valtellina e della Valchiavennache ornano la sala del Consiglio provinciale di Sondrio. Il-lustrano la tessitura e la pesca, la vendemmia, la mietitura,l’alpeggio, il taglio del bosco e la caccia e l’attività estrat-tiva. Attorno al 1970 la Provincia ha curato l’edizione diuna serie di cartoline con la loro riproduzione.

Si notino: il costume di Montagna nell’illustrazione della ven-demmia, del Bormiese in quella dell’alpeggio, della zona diMorbegno in quella della tessitura. Il costume di Grosio - digala e di lavoro - è riprodotto nelle illustrazioni del taglio delbosco e la caccia e della mietitura.

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Il costume grosino, nelle due versioni, di gala e da lavoro,va prendendo il sopravvento nell’interesse degli osservatorie nelle manifestazioni folcloristiche.

Una nuova serie di cartoline sui costumi valtellinesi vienepubblicata dall’Ente Provinciale del Turismo di Sondrionel 1940. Non si conosce il nome dell’artista che ha rea-lizzato i sei disegni che riproducono ciascuno una coppiadi sposi nei costumi di Bormio, Montagna, Delebio, Cosioe Grosio. Per quest’ultimo le cartoline sono due, una conil costume di gala e una con quello da lavoro. La serie funuovamente stampata dall’ente del dopoguerra ed ebbeun’ampia diffusione negli anni Cinquanta in occasionedelle varie edizioni del Settembre Valtellinese.

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… oltre a quelli tradizionali si scoprono (o si “inventano”)nuovi costumi …

Nel 1958 l’editore Görlich di Milano pubblica il terzo vo-lume dell’opera “Costumi popolari italiani”. In tutto sono248 tavole dei pittori Aldo Fornini e Maria Angela Grassi. Se ne stampano solo 500 esemplari su carta Pescia appo-sitamente realizzata dalla Cartiera Magnani e le tavolesono accuratamente acquerellate dagli autori.Sette delle dodici tavole riservate alla Lombardia riguar-dano i costumi della Valtellina: 1-2 donna e uomo diCosio; 3-4 donna e uomo di Montagna; 5-6 festivo e dalavoro delle donne di Grosio; 7 donna di Delebio.

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Costumi pubblicati sul periodico La Valtellina negli anni 1934-1935.

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Negli ultimi anni del XX secolo si registra un nuovo ap-proccio al costume popolare segnato da un rinnovato in-teresse per l’argomento e da una ricerca più scientifica-mente fondata da parte dei ricercatori.In ambito locale nel 1989 la rivista Contract, house organdella Pezzini spa di Morbegno di cui è art director FrancoMonteforte, dedica all’abbigliamento locale del passatol’intero secondo numero del semestrale con approfondi-menti tematici sul costume accompagnati da belle illu-strazioni a colori affidati a Paola Venturelli, esperta di ab-bigliamento, a Fabrizio Caltagirone, studioso di etnografiae autore di un saggio sul costume di Grosio pubblicatonel 1986 da Glauco Sanga su “La ricerca folklorica”, aMichela Canepari autrice di un saggio sul costume tradi-zionale bormino e a Bruno Ciapponi Landi su “Le fontiiconografiche del costume valtellinese”. Corredavano ilnumero un articolo di Lina Rini Lombardini del 1955 euno scritto di Franco Monteforte.

Nel 1995 esce nella collanaMondo Popolare in Lom-bardia il 15° volume, Son-drio e il suo territorio, la piùampia e organica raccoltadi studi etnografici sullaprovincia di Sondrio, cheall’argomento dedica unsaggio di Remo Giattisull’abbigliamento tradi-zionale di Berbenno, De-lebio e Grosio.

La situazione documentata presenta casi di recupero diun costume originale come quello di Delebio, di costumiricostruiti come quello di Berbenno e casi di straordinaria

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Delebio. Berbenno.

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sopravvivenza, quanto meno in momenti rituali, comequello di Grosio, documentato in questa foto.

Remo Giatti, architetto efunzionario regionale, maanche raffinato pittore conascendenze grosine, avevapubblicato a Sondrio nel1991 una cartella con lariproduzione di venti illu-strazioni ad acquerello dicostumi tradizionali di Val-tellina e Valchiavenna conaltrettante schede e una in-troduzione di Graziella Bu-tazzi. Le venti illustrazioniregistrano la situazione delmomento con sopravvivenze di costumi, oculate conser-vazioni a scopo documentario, ricostruzioni volonterose ocon finalità turistico-promozionali.

Il crescente interesse per la ricerca sull’abbigliamento tradizio-nale nelle valli dell’Adda e della Mera iniziato in quegli anni èdocumentato da una serie di iniziative editoriali che scandisconoil divenire di una ricerca tuttora in corso di approfondimento.

L’opuscolo del 1991 di Michela Canepari sul costume bor-mino; il volume di Antonio Cesare Corti e Gabriella Ri-cetti Abramini sui costumi della Bassa Valle edito nel1995 dalla Comunità Montana Valtellina di Morbegno;la ricerca sul costume grosino pubblicata dall’Istitutocomprensivo “Visconti Venosta” di Grosio, nel 2005; Uncostume, una comunità curato da Marino Amonini per la bi-blioteca comunale di Piateda nel 2008, testimoniano lavitalità di questo interesse.

La bibliografia è disponibile sul sito web:www.brunociapponilandi.it/index.php?p=ricerche

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