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Dibattito teorico e indirizzi di governo nella politica agraria della Democrazia cristiana (1944-1951)* Nell’esame della politica agraria del secondo dopoguerra vanno tenuti presenti due piani. Il primo è quello del dibattito, acceso e ricchissimo di spunti teo- rici, che immediatamente si sviluppò ai vari livelli delle organizzazioni partiti- che, sindacali, professionali, tecniche. Il secondo è quello relativo al concreto indirizzo che i governi vollero imprimere ad un tale problema, al modo in cui tentarono di risolverlo. Il nodo importante da sciogliere è quello relativo ai tempi ed ai modi in cui via via tali piani s’incontrarono. Rapporto sfuggente, apparentemente inesistente a volte, come nel caso delle leggi di riforma che, a giudicare dalle accuse che da ogni parte furono mosse, scontentarono tutti, quasi si trattasse di provvedimenti portati avanti artificiosamente, fuori da ogni dibattito e al riparo da ogni influsso esterno. In verità tutta la politica agraria governativa, a partire dal quarto ministero De Gasperi, subisce, e non può essere altrimenti, l’evoluzione della Democra- zia cristiana che in quanto partito di maggioranza relativa rappresenta proprio quella realtà in cui i due piani, quello del dibattito politico-teorico e quello delle operazioni di governo, si intersecano. Diventa quindi fondamentale, nella comprensione della politica agraria del dopoguerra, da una parte rendere con- to della storia del partito cattolico, delle sue posizioni teoriche, del dibattito politico tra le correnti che lo lacerò ma riuscì a rinnovarlo; dall’altra indivi- duare i punti d’incontro che, di volta in volta, la Democrazia cristiana riuscì a stabilire con gli altri partiti, le organizzazioni sindacali, le forze economiche. Con questo lavoro ci proponiamo di approfondire il primo punto, relativo all’evoluzione del partito democristiano, dall’immediato dopoguerra ma in par- ticolare dal momento in cui, dopo l’allontanamento dei partiti operai dal go- verno, il partito assume più coerentemente la sua fisionomia, fino alla gestione Fanfani. Una tale analisi deve passare attraverso due fondamentali nodi inter- pretativi: il problema della modernizzazione della Democrazia cristiana e quel- lo della dialettica interna delle sue correnti. L ’assunzione della modernizzazione del partito come criterio interpretativo del- la questione agraria, e di tutta la politica democristiana, salva dal facile sche- * La stesura di questo saggio è anteriore alla pubblicazione dell’opera G. B aget B ozzo, Il partito cristiano al potere, Firenze, Vallecchi, 1974.

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Dibattito teorico e indirizzi di governo nella politica agraria della Democrazia cristiana (1944-1951)*

Nell’esame della politica agraria del secondo dopoguerra vanno tenuti presenti due piani. Il primo è quello del dibattito, acceso e ricchissimo di spunti teo­rici, che immediatamente si sviluppò ai vari livelli delle organizzazioni partiti­che, sindacali, professionali, tecniche. Il secondo è quello relativo al concreto indirizzo che i governi vollero imprimere ad un tale problema, al modo in cui tentarono di risolverlo. Il nodo importante da sciogliere è quello relativo ai tempi ed ai modi in cui via via tali piani s’incontrarono. Rapporto sfuggente, apparentemente inesistente a volte, come nel caso delle leggi di riforma che, a giudicare dalle accuse che da ogni parte furono mosse, scontentarono tutti, quasi si trattasse di provvedimenti portati avanti artificiosamente, fuori da ogni dibattito e al riparo da ogni influsso esterno.

In verità tutta la politica agraria governativa, a partire dal quarto ministero De Gasperi, subisce, e non può essere altrimenti, l ’evoluzione della Democra­zia cristiana che in quanto partito di maggioranza relativa rappresenta proprio quella realtà in cui i due piani, quello del dibattito politico-teorico e quello delle operazioni di governo, si intersecano. Diventa quindi fondamentale, nella comprensione della politica agraria del dopoguerra, da una parte rendere con­to della storia del partito cattolico, delle sue posizioni teoriche, del dibattito politico tra le correnti che lo lacerò ma riuscì a rinnovarlo; dall’altra indivi­duare i punti d’incontro che, di volta in volta, la Democrazia cristiana riuscì a stabilire con gli altri partiti, le organizzazioni sindacali, le forze economiche.

Con questo lavoro ci proponiamo di approfondire il primo punto, relativo all’evoluzione del partito democristiano, dall’immediato dopoguerra ma in par­ticolare dal momento in cui, dopo l ’allontanamento dei partiti operai dal go­verno, il partito assume più coerentemente la sua fisionomia, fino alla gestione Fanfani. Una tale analisi deve passare attraverso due fondamentali nodi inter­pretativi: il problema della modernizzazione della Democrazia cristiana e quel­lo della dialettica interna delle sue correnti.

L ’assunzione della modernizzazione del partito come criterio interpretativo del­la questione agraria, e di tutta la politica democristiana, salva dal facile sche­

* La stesura di questo saggio è anteriore alla pubblicazione dell’opera G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, Firenze, Vallecchi, 1974.

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matismo di chi vede nella storia della DC un primo momento di maggiore apertura e sensibilità democratica, ed una seconda fase di caratterizzazione esplicitamente reazionaria. Si tratta invece, noi crediamo, della evoluzione ideologica, ma soprattutto politica, di un partito che abbandona l ’eredità del Partito popolare per compiere le scelte necessarie alla sua funzione di partito di governo, in un contesto anche internazionale assai mutato. E la politica agraria della DC, con il suo demagogico e strumentale uso delle parole d’or­dine ruralistiche e con la sua successiva utilizzazione del settore agricolo in senso capitalistico, bene riflette l ’evoluzione del partito da una linea ruralistica economicamente arretrata ed ideologicamente conservatrice, ad una ipotesi di sviluppo economico avanzata, ma che tuttavia si muove dentro gli stessi pre­supposti ideologici di conservazione di valori e modelli tradizionali '.

L ’evoluzione in senso capitalistico della Democrazia cristiana è nella logica stessa dei fatti, in un contesto internazionale che offre già un’ipotesi capitalistica di ricostruzione. Una tale realtà fa compiere alla DC, partito di governo che ha ricevuto dal ventennio l ’eredità dell’intervento della stato in economia, quel fondamentale salto ideologico che, trasformandola da partito della piccola pro­prietà contadina in partito della grande borghesia, niente però toglie ad una continuità reazionaria e intimamente conservatrice.

Si spiega pure in questo quadro l ’importante ruolo delle correnti cosiddette di sinistra che finirono con il gestire il partito, portando avanti proprio un mo­dello capitalistico di sviluppo.

Una tappa fondamentale del processo qui tratteggiato è rappresentata dalla vicenda delle leggi di riforma agraria del 1950, di cui la DC è certamente pro­tagonista. In primo luogo come governo, in secondo luogo, ma non secondaria­mente, come partito che fa i conti con la dottrina sociale e, specificamente, con le teorie rurali di quel popolarismo che, specie in un primo momento, rap­presenta il passato della nuova formazione democristiana, la sua tradizione, la sua matrice. E la constatazione che gli anni cinquanta, successivi alla riforma, rappresenteranno il superamento di tale impostazione, l ’affrancamento dal pas­sato per un inserimento del settore agricolo dentro le scelte capitalistiche del­l ’economia italiana, niente toglie all’importanza che ancora questa ideologia contadinistica, in quanto strumento di conservazione sociale, riveste per la DC. Brevi cenni ad alcune tappe fondamentali di questa prima fase della politica agraria democristiana lo confermano: si pensi al posto che, al primo congresso nazionale democristiano, dell’aprile del ’46, occupava il problema agrario, in­serito dall’intervento di Gonella sotto il titolo « libertà di possedere » 1 2. An­cora una volta, come già nei primi documenti3 alla « radicale riforma agraria » si riconobbe come fine l’immissione dei lavoratori della terra nel possesso e nel

1 In questa chiave vanno letti gli scritti di Alcide D e G asperi, I cattolici dall’opposizio­ne al governo, Bari, 1955; Discorsi politici, a cura di T. Bozza, Roma, 1956; La Democra­zia Cristiana e il momento politico, « Quaderni della Democrazia cristiana », n. 4, ed. SELI a cura della Democrazia cristiana, s.d.2 I congressi nazionali della Democrazia cristiana, Roma, 1959.3 In particolare la quarta e quinta mozione del Consiglio nazionale (9-10-11 settembre 1944). Cfr. Atti e documenti della Democrazia cristiana, a cura di A. Damilano, Roma, 1968.

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godimento diretto di essa: « Questa democrazia della terra intende eliminare il bracciantato, trasformare il lavoratore agricolo in piccolo proprietario con­duttore ». Il risvolto legislativo di questa impostazione ideologica è rappre­sentato dai decreti Segni, riproposizione, seppure con modifiche, dei decreti Gullo del 1944.

Ma la parola d ’ordine « tutti proprietari, nessun proletario », tenderà a scom­parire allorché si sarà definita la scelta di campo operata dal governo italiano e si sarà delineato un modello capitalistico di ricostruzione. È, infatti, di tono assai diverso la mozione proposta da Segni e approvata dal Consiglio nazio­nale del maggio 1948. Passa in secondo piano il mito dell’accesso indifferen­ziato alla proprietà della terra, mentre diviene centrale l ’obiettivo della massi­ma occupazione, a cui solo parzialmente si può ricondurre la piccola proprie­tà contadina. D ’altra parte, dal senso generale della mozione emerge la linea di « svecchiamento delle campagne », finalità che si sarebbe rivelata in netto contrasto con quello della massima occupazione in agricoltura. Ma una tale contraddizione tarderà ad esplodere, e il partito cattolico potrà abilmente ca­valcare la tigre della piccola proprietà, obiettivo ridimensionato ma pur sem­pre proposto come imperativo di giustizia sociale, nonché quello dello svec­chiamento delle campagne, del loro inserimento nell’organizzazione capitali­stica nazionale.

La legge « stralcio » rappresenta una tappa fondamentale di questo sviluppo e non solo per il modo in cui fu utilizzata dopo, ma anche per il senso che immediatamente la stessa DC seppe attribuirle. La caratteristica della politica agraria democristiana nel periodo che consideriamo sta proprio nel sapere unire, anche attraverso palesi contraddizioni, equivoci ed errori, i criteri eco­nomici con l ’impostazione demagogica della « giustizia sociale ». E quando parliamo di criteri economici dobbiamo intenderli non come criteri stretta- mente produttivistici, ma come criteri di una possibile evoluzione economica dell’agricoltura e, in genere, di tutti i settori, in senso anche diverso rispetto a quello fino allora seguito. Nell’evoluzione della politica agraria della DC, so­prattutto dopo il ’48, non si ravvisa solo l ’interesse a conservare la stabilità già raggiunta; non v’è quindi solo un motivo strettamente politico di manovra delle masse che bisogna pagare con qualche concessione. L ’abilità del partito democristiano sta anche nel modo in cui fa diventare positiva, efficace ed utilizzabile per i suoi fini questa riforma. Contemporaneamente alla lenta svol­ta considerata si può infatti notare come per la DC il problema della riforma agraria, cioè dell’intervento nelle campagne attraverso la redistribuzione della proprietà terriera, perda il carattere spiccatamente politico per assumere un carattere essenzialmente tecnico.

È difficile stabilire il ruolo che all’interno di questa vicenda ebbero i singoli uomini. Certamente non si tratta di scelte individuali ma di un processo dia­lettico, dell’intersecarsi appunto di quei due piani, dibattito politico e teorico e operazioni di governo, di cui si diceva. Proprio per questo sarebbe assai utile una ricerca volta a determinare i reali contributi che alla politica agraria vennero dai politici democristiani e, sull’altro versante, dai tecnici e dai teorici della riforma che con diverse sfumature si richiamavano al partito cattolico. Il contributo che alla questione agraria democristiana venne da uomini come

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Mario Bandini, Giuseppe Medici, Manlio Rossi Doria, offre un terreno d’inda­gine poco esplorato e assai stimolante. E particolarmente illuminante sarebbe una documentata valutazione degli originali apporti di Antonio Segni, la sua consapevolezza dei meccanismi che la riforma agraria avrebbe messo in atto, quando fosse in lui chiara la necessità di una scelta a favore dello sviluppo industriale e per la compressione del settore agricolo non concorrenziale. Non è possibile farlo in questa sede: possiamo solo riconoscere a Segni una volon­tà riformatrice spesso in anticipo sui tempi — come dimostra la vicenda del progetto di legge sui contratti agrari. Tuttavia l ’ipotesi di sviluppo del set­tore agricolo prospettata da Segni non fu sufficientemente realistica rispetto al quadro generale dell’economia italiana. Fanfani (e la sinistra democristiana) sarà il primo a comprendere la necessità di abbandonare l ’ipotesi della piccola proprietà come modello di sviluppo economico e di stabilità sociale, dando inizio ad una duratura compenetrazione d ’interessi tra la DC e la destra eco­nomica. A un tale processo, che determinerà un ricambio di uomini all’interno della dirigenza del partito, contribuisce molto il dibattito tra le correnti, ele­mento essenziale alla comprensione della politica agraria come di tutto Pat­teggiarsi politico della DC.

Di riforma agraria si era molto parlato sin dall’immediato dopoguerra4 5; an­che la destra, desiderosa di non restare tagliata fuori dal gioco politico, in cui un posto notevole avrebbe avuto il problema agrario, non mancava di dichia­rarsi disposta ad una riforma dell’assetto agricolo, limitando però tale adesione con numerose riserve, prima fra tutte la subordinazione della ridistribuzione della terra alla bonifica e alla trasformazione del territorio tramite la bonificas.

Va però notato che il dibattito relativo all’indirizzo che lo stato avrebbe dovuto perseguire in economia si esaurì negli schemi tradizionali, se si esclude la posi­zione socialcomunista, concretatasi in particolare nella proposta del Piano del Lavoro, che peraltro, proprio in quanto proposta alternativa, inconciliabile con i tradizionali meccanismi economici rapidamente ricostituitisi, ebbe eco modestissima nel « paese legale ».

Ma se si sentiva il bisogno di esorcizzare un interventismo statale di tipo fascista, non per questo si negava la necessità di un controllo dell’attività pri­vata da parte degli organi pubblici. Tali posizioni non furono radicalmente av­

4 Citiamo alcuni fondamentali scritti del dibattito sulla riforma: Emilio Sereni, La questione agraria e la rinascita nazionale, Roma, 1946; Ruggero G rieco, Introduzione alla riforma agraria, Torino, 1949; Idem, La riforma fondiaria e la legge stralcio, Roma, 1950; Manlio Rossi D oria, Riforma agraria e azione meridionalista, Bologna, 1948 e Dieci anni di politica agraria nel mezzogiorno, Bari, 1958; G iu seppe Medici, Politica agraria 1945- 1952, Bologna, 1952; Mario Bandini, Economia agraria e limite alla proprietà, Bologna, 1949; Arrigo Serpieri, Scritti di economia agraria 1946-1953, Firenze, 1957 e Riforma agraria come redistribuzione della proprietà, Bologna, 1949.5 Per un approfondimento di questo punto sono essenziali le opere citate di Serpieri. Si vedano anche gli articoli di Serpieri pubblicati su « Il corriere della sera », sotto le pseudo­nimo di « Rusticus », negli anni 1949-1951. Fondamentali sono pure le pubblicazioni della Confagricoltura sul problema della riforma (ricordiamo fra queste: Memoria sulla riforma agraria, settembre, 1948; Primi appunti al memoriale progetto sulla riforma fondiaria, s.d., Riforma fondiaria, osservazioni e proposte, agosto, 1949; Appunti ed emendamenti al di­segno di legge per la riforma fondiaria di strdcio, luglio, 1950) e le riviste tecniche ed eco­nomiche, quali « Rivista di economia agraria » e « Italia agricola ».

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versate neppure dagli stessi ceti padronali, che dell’esperienza del ventennio avevano fatto tesoro: un moderato intervento dello stato sarebbe stato tut- t’altro che negativo se con la loro forza contrattuale essi si fossero garantiti situazioni di privilegio. In questo quadro va vista l ’assenza di un dibattito radicale sul problema dell’intervento statale che, ripetiamo, non costituì un serio punto di rottura e non pose le premesse per un radicale ripensamento delle funzioni dello stato. Diventerà regola degh organi di governo e della burocrazia un pragmatismo empirico, travestito di neutralità politica nei rap­porti di classe.

Posto di fronte al grave problema della terra, il partito cattolico dovette con­temporaneamente controllare l ’opposizione di sinistra e le spinte sociaU che sempre più, attraverso le lotte contadine, minacciavano di esplodere, e tener testa alle continue richieste della destra. Riguardo a questo secondo aspetto del dilemma entro cui il partito fu costretto a destreggiarsi, è importante non con­siderare globalmente l ’opposizione di destra, che fu viceversa ben differenziata e articolata. Altra cosa è la posizione del gruppo parlamentare liberale rispetto alla posizione dei tecnici o a quella della destra economica, anche se a volte le posizioni, insieme agli uomini, s’intrecciano e convergono. Oltre a queste opposizioni esterne la DC subisce una lacerazione interna, conseguenza della eterogeneità delle forze che rappresenta. La destra interna al partito può age­volmente definirsi tale in quanto contesta la linea ufficiale del partito da posi­zioni conservatrici o apertamente reazionarie, ma questo comune denominatore non esclude una differenziazione che non è solo ideologica ma strettamente politica. Vale la pena di riferirne più estesamente. V’è una destra costituita da uomini che rappresentano clientele locali, uomini per lo più legati ai ceti agrari del sud e che esprimono posizioni spesso più retrive e miopi della de­stra tradizionale. Tale è il caso di Vincenzo Rivera, ex popolare, agronomo e rappresentante degli agrari abruzzesi alla Camera, che si distinse nei tentativi di affossamento della legge Sila, temendo, come ebbe ad affermare, che l’ap­provazione di una tale legge potesse costituire una premessa per norme non specifiche per la Calabria, ma per tutte le regioni6.

Al Senato la destra de è rappresentata da personaggi come Jacini e Reggio D ’Aci che Zangrandi opportunamente definì destra storica, di indirizzo monar­chico, fautrice della conservazione delle strutture tradizionali dello stato, for­temente avversa alla legge di riforma agraria7. Jacini, pur non opponendosi, per disciplina di partito, alla discussione degli articoli, attaccò il disegno di legge Segni, la futura « legge stralcio », in un intervento che, a differenza del­l ’opposizione di marca confindustriale, nessuna indicazione concreta dava alla soluzione del problema della terra, visto come fatto statico e immutabile: fin­ché il capitale impiegato dalle aziende agrarie — sostiene Jacini — proverrà da risparmi realizzati sulla terra stessa, esso poco gioverà all’incremento della produzione, anche se integrato da sussidi statali, perché il reddito del suolo è

6 Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Discussioni, vol. XII, CDXL seduta, 19 aprile 1950, pp. 17229-17231.7 Ruggero Zangrandi, Il groviglio delle correnti nel partito de, in Nuovi orientamenti dei cattolici e lotte di tendenza nella DC, in « Rinascita », anno XI, n. 1, gennaio 1954, pp. 13-19.

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modesto, e il coltivatore diretto è costretto a impiegarne la maggior parte nel sostentamento proprio e della famiglia, né può darsi il lusso di esperimenti ri­schiosi 8.

Ma l ’opposizione di destra interna alla DC di gran lunga più importante e po­liticamente più attiva è quella che finirà con l ’esprimersi in un controprogetto, presentato dall’on. Carmine De Martino, e firmato da ben 117 deputati demo- cristiani Al Senato questa linea era rappresentata da Giovanni Pallastrelli, presidente dell’associazione nazionale dei dottori in scienze agrarie.

I punti qualificanti di questo progetto possono così essere riassunti: 1) in un primo tempo, lavoro per 200 mila persone da impiegare nelle opere di tra­sformazione; 2) immissione, in un tempo successivo, di 100 mila famiglie in altrettanti poderi; 3) possibilità di riscatto da parte dei conduttori attraverso una lunga rateazione; 4) incremento della produzione agricola per un valore di 200 miliardi all’anno; 5) introito dello stato attraverso il maggior gettito delle imposte.

Da notare in questa formulazione l’eliminazione dell’esproprio e la precedenza delle opere di trasformazione sull’appoderamento, che viene concepito solo come « possibile », e a costo di una rateazione in cui il conduttore non avrebbe avuto alcun sussidio statale. Il progetto De Martino è un piano sufficiente- mente organico, assai vicino ai voti degli ambienti della Confagricoltura, che proprio in quegli anni elaborava un piano di ristrutturazione agraria, economi­camente avanzato e razionale, puntando sulla valorizzazione di alcune zone più progredite e sull’intervento dello stato con agevolazioni a difesa del settore. Relativamente all’accesso dei lavoratori alla proprietà della terra, la Confa­gricoltura, rifacendosi alla legge Serpieri ma soprattutto alla legge di coloniz­zazione del latifondo siciliano, sosteneva la necessità della bonifica e trasfor­mazione della terra prima della sua ridistribuzione 10.

II senatore democristano Pallastrelli definiva il progetto De Martino un’ap­prezzabile iniziativa, che dava lavoro ai contadini senza sacrificare due punti di eccezionale importanza: l ’aumento della produzione e l’inserimento dell’a­gricoltura nella mutata compagine del mercato mondiale 11.

A questo punto, alla fine dell’aprile 1950, la sinistra democristiana, e in par­ticolare Fanfani, provocarono un chiarimento sulla « legge stralcio ». La si­tuazioni venutasi a creare era infatti singolare: si erano formulati ben tre progetti — Sila, stralcio e di riforma generale — che, in tempi diversi e con diversa procedura sarebbero stati presentati ai due consessi parlamentari; si aggiungeva adesso un quarto progetto, di iniziativa parlamentare, che rendeva *

* Senato della repubblica, Atti parlamentari, Resoconti delle discussioni, voi. XVI, CDXCVIII seduta, 28 settembre 1950, pp. 19409-19415.’ Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Disegni di Legge, vol. IX. Proposta di legge n. 1003 De Martino Carmine e altri, Trasformazione fondiario-agraria dei terreni privi o poveri di investimenti stabili ed estensivamente utilizzabili, pp. 1-13.10 Confagricoltura op. cit.11 «Giornale di agricoltura», LX, n. 4, 22 gennaio 1950, p. 1.

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necessaria una chiarificazione al partito. La sinistra pensava infatti che « la omo­geneità delle decisioni tra le due Camere e il risparmio di tempo potessero con­seguirsi, correggendo occasionalmente e in parte i difetti della bicameralità, attraverso almeno la previa intesa tra i due gruppi parlamentari del partito maggiore sulle eventuali modifiche da apportare ai progetti di riforma agraria davanti all’una e all’altra Camera ». Ma soprattutto, precisava Fanfani, « quella che poteva essere una proposta utile per tutti i gruppi parlamentari è divenuta indispensabile per la DC dal momento che, in seno ad essa, Fon. De Martino [...] ha formulato un progetto di trasformazione fondiaria [...] . C ’è quindi non soltanto da coordinare, ma anche da scegliere, cioè valutare e confron­tare » 12.

Il 6 maggio il gruppo parlamentare democristiano, messo di fronte alla re­sponsabilità di una chiara presa di posizione, si pronunciava: su 260 deputati presenti a Roma, 193 si dichiararono per appello nominale a favore del pro­getto Segni, salvo emendamenti parziali, mentre i deputati contrari non inter­vennero alla discussione 13 14.

Considerando che i deputati democristiani erano complessivamente 307, ne consegue che ben 114 non approvarono « un disegno di legge che realizzava solo in modesta misura quello che era uno dei fondamentali impegni del par­tito ” .

A questo punto, comunque, l’opposizione De Martino era formalmente bat­tuta. Il deputato dissenziente non si esporrà più in prima persona nel dibattito parlamentare e la sua linea verrà assorbita dalla destra economica. Al Senato sarà invece Pallastrelli che si farà carico d’esprimere la linea di De Martino. Sosterrà come l ’errore fondamentale della legge stesse nel volere attuare, con la riforma, una redistribuzione terriera come fatto di massa anziché come sele­zione, nel fare precedere le quotizzazioni all’azione bonificatrice, nell’imporre la piccola proprietà improduttiva, la « miserabile impresa contadina », anche là dove l’agricoltura è già soddisfacente: «N on illudiamoci [...] che la piccola proprietà improduttiva sia da considerarsi, quando la si intende formare con le leggi riformatrici invece che col sistema di agevolare uno spontaneo moto di ascesa, elemento di pace sociale e come in fondo molti sperano, anche come elemento conservatore » 1S.

Ma l’efficacia del progetto De Martino, la sua importanza, non era affidata alla battaglia parlamentare. La sua importanza stava altrove: nella sua funzione di mediazione tra la DC e la destra agraria, nel ricatto politico che implicita­mente rappresentava per il partito cattolico. Se quindi il partito riuscirà a fare rientrare questa opposizione, con richiami alla disciplina interna, in real­

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12 Amintore F anfani, La commissione interparlamentare de per la riforma agraria, in « Cronache Sociali, IV, n. 3, 15 maggio 1950, pp. 1-2.13 G. Galli, P. Facchi, La sinistra democristiana, Milano, 1962.14 Ibid., p. 105.15 Senato della repubblica, Atti Parlamentari, Resoconti delle discussioni, vol. XVI, CDXCVI seduta, 26 settembre 1950, p. 19260.

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tà il costo di una tale operazione era il compromesso con molte delle richieste della sua destra e quindi della destra economica in genere.

E l ’iter parlamentare del progetto n. 1173, la futura «legge stralcio», lo testimonia ampiamente. Presentato con carattere d’urgenza, solo dopo più di due mesi venne discusso dalla IX Commissione della Camera (Agricol­tura e Alimentazione) i cui lavori venivano peraltro resi difficili dalle continue assenze del gruppo democristiano, riunito in altra sede per risolvere i dissensi interni.

Solo in piena estate, il 21 luglio, il progetto fu discusso in assemblea, e un così lungo iter inevitabilmente ridusse l ’esame di una delle più attese e di­scusse leggi in poche sedute, in un clima di smobilitazione. Il comunista Mi­celi, all’apertura della discussione alla Camera, notava che proprio il 21 giugno, data della comparsa in commissione del progetto, il marchese Rodino, presidente della Confagricoltura, era stato ricevuto alla presidenza del Consi­glio e, secondo quanto riferiva « 24 ore » del 22 giugno, aveva illustrato il pensiero della Confederazione sul progetto ministeriale della riforma agraria e sulle modifiche proposte; l’aw . Rodino aveva inoltre ribadito « la necessità che, nell’interesse dell’agricoltura e del paese, nel progetto si ten [esse] par­ticolarmente conto del fine produttivistico della riforma, cercando di integrare il progetto Segni con alcuni principi contenuti nel progetto De Martino » I#.

Miceli va ancora più in là nell’interpretazione del ruolo di mediazione da attri­buire al progetto Carmine De Martino. Questo gruppo politico, egli afferma, non può fare paura a nessuno: se le sue firme sono 117, in realtà solo 15 persone hanno votato la mozione De Martino. « Voi fingete di paventarlo per servirvene da paravento nel giustificare la vostra capitolazione alla grande pro­prietà » 16 17.

Giudizio che per quanto audace, coglie una realtà di fatto incontestabile: la predisposizione della DC ad una operazione di destra. Il progetto De Martino fu certamente un grosso affare per la destra agraria; tuttavia la Confagricol­tura aveva altre e più valide carte da giocare nella partita con il governo, prima fra tutte una proposta di politica economica che era la sola praticabile in base al posto che l’Italia occupava nel mercato capitalistico.

Ebbe la « legge stralcio » — e in genere la politica agraria democristiana — un’opposizione da parte della sua sinistra? Le correnti di sinistra del partito elaborarono una linea alternativa a quella maggioritaria? Per rispondere a que­ste domande bisogna partire da lontano: il discorso sulla sinistra democristia­na investe più globalmente che non l ’opposizione di destra, facilmente ricon-

16 Riferito dall’on. Miceli, Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Discussioni, voi. XV, DXXXVIII seduta, 22 luglio 1950, p. 21291. Due importanti emendamenti De Mar­tino furono di fatto accolti dalla Commissione bicamerale democristiana: 1) esclusione dal- 1 esproprio delle aziende modello; 2) facoltà ai proprietari di alienare direttamente una forte quota di scorporo entro il termine di un anno a favore di contadini coltivatori diretti (in « Il Nuovo corriere della Sera », 15 luglio 1950).17 Intervento dell’on. Miceli, cit. p. 21311.

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eludibile alla tradizionale ideologia conservatrice o alle esigenze del grande capitale, la stessa essenza del partito.

Alla formazione della Democrazia cristiana concorrono due diverse matrici che daranno dialetticamente fisionomia al partito cattolico. Come osserva Cicchit- to !8, si tratta di due diverse generazioni, delle quali quella dei popolari profes­sava un ritorno all’indirizzo liberista, allo stato di diritto, alla neutralità dello stato di fronte ai contrasti del lavoro, nonché il rispetto per l’iniziativa privata. L ’altra è la generazione giovane, formatasi durante il fascismo, proveniente dalle organizzazioni giovanili della FUCI e della A.C., che avevano filtrato l ’esperienza della compenetrazione tra politica ed economia, ovvero tra lo sta­to ed il mondo del lavoro, attraverso i pensatori cattolici anticapitalistici e, sul piano economico, attraverso la teoria keynesiana. Da questa seconda matrice può farsi discendere la sinistra democristiana. All’interno di un tale gruppo, tuttavia, è possibile trovare posizioni divergenti e molteplici: basti pensare che assumendo come elemento di caratterizzazione l ’atteggiamento di fronte al fascismo — e in particolare il problema del rapporto tra la Chiesa ed il regi­me — , Amintore Fanfani, esponente della sinistra democristiana, fu tra i fau­tori della collaborazione.

Volendo comunque fare un tentativo d’individuazione delle componenti della sinistra democristiana, possiamo servirci dell’indicazione di Galli-Facchi che ne individuano un primo filone in quella parte del movimento cattolico fautore di una più ampia democrazia e di una più marcata presenza dei lavoratori; un secondo filone è quello della tendenza (che deriva dall’esperienza internaziona­le di un più preciso intervento dello stato nell’economia) a « conseguire il potere economico per altre vie che non siano quelle della carriera manageriale nella società capitalistica [...] ma attraverso un’investitura da parte del potere politico » ‘9.

L ’ideologia di derivazione popolare ispirò la corrente sindacalista di Gronchi e Ravaioli; la seconda caratterizzò il dossettismo e, più avanti l ’ala fanfaniana di Iniziativa Democratica. Sarà in particolare sull’esperienza di Dossetti che soffermeremo la nostra analisi.

A nostro avviso l’aspetto più interessante dell’esperienza dossettiana è da rav­visarsi nelle istanze economiche, e non tanto per quello che esse rappresentano immediatamente, ma perché costituiscono in seno al partito democristiano un primo e importante, anche se estremamente ambiguo e contraddittorio, inter­vento nel dibattito sulla politica di piano ed in generale sull’intervento dello stato18 * 20. Ma questo discorso esula dai nostri programmi. È sufficiente nei limiti di questa in d agine fornire alcuni cenni sulle posizioni dei dossettiani relativa­mente al problema agrario. La sinistra dossettiana non ebbe funzione rilevan­te nella concreta elaborazione della linea agraria del partito. Il peso dell’op­

18 F. Cicchitto, La politica economica della DC, in AA.VV., La DC dopo il primo ventennio, Padova, 1968, p. 23.15 G. G alli, P, Facchi, op. cit., p. 15.20 Per questo problema rimandiamo a F. Cicchitto, Pensiero cattolico ed economia ita­liana, s.l., Editrice sindacale italiana, s.d.

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posizione dossettiana deve essere considerato globalmente, come sintomo di dialettica interna in un partito in cui le correnti, per la sua stessa struttura, sono inevitabili, e non come causa diretta di scelte specifiche nei diversi set­tori.

G. Galli mette in risalto più volte l’importanza che ebbe la sinistra democri­stiana nell’accelerare l ’approvazione della legge di riforma agraria. Ciò è vero, purché si precisi che i dossettiani sostenevano la riforma agraria in quanto riforma, senza cioè entrare nel merito dei singoli provvedimenti e della conce­zione generale che stavano alla base di tale riforma. E in realtà stupisce la fiduciosa delega che la corrente concede al partito su una questione di tale im­portanza; sembrerebbe quasi che si sopravvaluti il peso che in una riforma come quella presentata dal ministro Segni e modificata dalla Commissione possa avere l ’intervento dello stato, attraverso la costituzione di Enti, di cui non era certo difficile prevedere la funzione clientelare piuttosto che di controllo del­l ’attività privata. In ogni caso il problema agrario appare particolarmente tra­scurato dal gruppo dossettiano. Tale disattenzione è forse spiegabile nel qua­dro di quelle che sono le carenze del gruppo, poco legato alle istanze che pro­vengono dalla base, in particolare dalle masse contadine.

Da un esame della loro rivista, la Enea agraria dei dossettiani appare assai duttile non si entra quasi mai nel merito dei problemi tecnici ed economici, preferendo l ’approccio meramente politico, con grande attenzione al problema delle alleanze. A questo proposito la linea dossettiana riflette anche le preoc­cupazioni e le tendenze della corrente sindacalista.

Va da sé che queste posizioni subiscono un’evoluzione lungo gli anni da noi considerati.

In due articoli della fine del ’47, Paolo Vicinelli si sofferma con particolare attenzione sulla necessità della collaborazione in agricoltura. Esaminando suc­cessivamente il congresso della Confederazione nazionale coltivatori diretti e il congresso della Confederazione nazionale degli agricoltori21, senza peraltro affrontare criticamente l’esame dei punti rivendicati in entrambi i congressia, ne nota la convergenza, ma lamenta che non si giunga ad una unione di tutte le forze sindacali dell’agricoltura, includendo in questo anche la Federterra.

Su questo punto, quindi, la sinistra si allinea alle posizioni del governo che proprio in quel periodo predicava la pacificazione sociale nelle campagne e faceva ampie promesse di salomoniche soluzioni del problema.

Su singole questioni non manca però, in alcuni casi, il dissenso. Tale è il caso del giudizio sulle esperienze che il PCI conduceva in Sicilia ed in particolare sull’assemblea promossa dalla Costituente della terra il 12 gennaio 1948, a Palermo. Questa assemblea « rientra nel più vasto movimento che le sinistre

21 P aolo V i c i n e l l i , L ‘organizzazione dei coltivatori diretti, in « Cronache Sociali », I, n. 13, 30 novembre 1947, p. 8., L ’atteggiamento, degli agricoltori italiani, in «Cronache Sociali », I, n. 14-15, 13 dicembre 1947, pp. 21-22.

Proteste contro le tassazioni locali, insofferenza di ogni vincolo sulla produzione e ri­chiesta che tutta la struttura consortile ritorni nelle mani degli interessati.

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e specie il PCI stanno attuando per superare, con un formale rispetto della volontà popolare (intesa come volontà delle masse politiche più attive) il re­gime di democrazia parlamentare nel quale viviamo » 23. Accanto a questo giu­dizio, di tipica marca democristiana, v ’è però un richiamo diverso: « La DC, vedendo forse più il lato politico del movimento dei contadini, si è posta in una posizione quasi esclusivamente polemica ed ha parlato su « Sicilia del Popolo » di illegalità dell’azione, ed ha fatto dell’umorismo sul convegno di Palermo che, se è vero che non riuniva ventimila contadini, deve pur essere considerato e valutato con molta serietà » 24.

Viceversa, « più concreto e intelligente » viene giudicato l ’atteggiamento del governo siciliano, il cui vice presidente, Restivo, in un telegramma alla Feder- terra regionale, esprimeva l’interesse del governo regionale verso ogni manife­stazione « diretta a studiare e ad approfondire il problema che la Regione saprà risolvere nelle leggi della sua Assemblea » 25.

In sostanza si vuole riconoscere la gravità del problema, ma si tende a scin­dere le responsabilità sui metodi e sulle soluzioni prospettate. Come afferma Novacco nell’articolo citato, i sindacalisti cristiani, pur essendosi opposti a tutto quello che nell’agitazione aveva valore e funzione politica, non hanno voluto negare la sostanziale rilevanza del problema ed hanno dato adesioni singole, di sindacalisti, di tecnici e anche di sacerdoti.

Il motivo della netta separazione tra rivendicazioni sindacali e interessi « po­litici » (intesi in senso partitico), viene ripreso in un altro articolo di No­vacco 26. Ma l’aspetto più significativo sta nel tentativo di superare il tradizio­nale anticomunismo, per andare oltre, per arrivare al centro del problema: « La presenza attiva e organizzata dei comunisti fa perdere la calma all’opinione pubblica, che non riesce più a distinguere un’azione sindacale da un’azione politica, e rifiuta ogni sciopero solo perché ad esso i comunisti imprimono la mano più evidente dei loro metodi. In tutto questo è certo grave la responsa­bilità del PCI, per l’abuso che esso ha fatto, per fini non sindacali dell’arma legittima dello sciopero, ma è anche qui che si manifesta la carenza dell’azione formativa ed educativa della DC, la quale, presa anch’essa nell’ingranaggio della propaganda anticomunista, non riesce a chiarire, non diciamo all’opinio­ne pubblica, ma nemmeno a se stessa, la portata di uno sciopero27 su cui la Confagricoltura punta le sue carte, convinta com’è della debolezza organizza­tiva dei braccianti e della necessità di una dimostrazione di forza nel momen-

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23 N in o N o vacco , La « Costituente della terra » in Sicilia, in « Cronache Sociali », II, n. 2, 31 gennaio 1948, p. 24.24 Ibid.25 Ibid.26 N . N o vacco , Significato dello sciopero dei braccianti, in « Cronache Sociali », III , n. 10, giugno 1949, p. 5.27 Lo sciopero dei braccianti, proclamato il 18 maggio, dalla Valle Padana si era via via esteso in tutta Italia. Dopo l’undici giugno, in seguito alla rottura delle trattative da parte degli agrari, si era verificata una intensificazione, fino ad arrivare, il 15 giugno, allo sciopero generale di 24 ore.

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to in cui il parlamento discute la legge sui contratti agrari e in cui è in di­scussione la riforma fondiaria » “ .

Considerazioni estremamente interessanti, per la decisa, anche se parziale, critica all’atteggiamento della DC, e per il superamento della distorta istanza di collaborazione nelle campagne. Viene infatti bene individuata, nell’articolo citato, la posizione degli agrari che oppongono il veto agli schemi, pure molto moderati, dei sindacati, e rivendicano il contratto provinciale, ben compren­dendo che la forza dei lavoratori della terra sta nell’azione concertata a livello nazionale. E anche a questo proposito le responsabilità si allargano e investono la DC:

L ’atteggiamento di un numeroso gruppo di deputati del partito di maggioranza durante le discussioni parlamentari dei contratti agrari — argomento che la direzione del Gruppo Parlamentare de non ha evidentemente ritenuto fosse di tale peso e impegno politico da ri­chiedere, come invece è avvenuto per altri fatti non programmatici, il vincolo di disciplina di partito — e la nessuna azione di propaganda per illuminare l’opinione pubblica su que­sto sciopero, che è uno degli episodi più sintomatici della situazione dei rapporti di classe in Italia, ci pare possano segnare una indicazione del periodo di involuzione politica della de e del governo democristiano.Se è vero, come è vero, che una delle componenti della de è la componente operaia e con­tadina, non esitiamo a dire che la posizione di pura attesa assunta dal partito di governo ci sembra piena di gravi responsabilità per l ’evoluzione democratica del Paese s .

Queste accese polemiche, in accordo con il tipo di rapporto che si stabilisce tra i dossettiani e il governo dopo il ’49, vengono superate, fino ad arrivare ad una convergenza sul tema della riforma agraria. Proprio la corrente dos- settiana si impegna per la sua attuazione, in un momento in cui la riforma è ferocemente attaccata dalle forze economiche e dalle correnti di destra interne alla DC (in particolare la cosiddetta « Vespa » di Carmine De Martino). Cer­to la « legge stralcio » non è la legge che i dossettiani avrebbero voluto, e solo parzialmente ne riflette le istanze; va tuttavia rilevato che la corrente non si impegnò, in parlamento o in altre sedi, in una battaglia sui punti qualificanti del progetto. Essa quindi, nel momento in cui si assumeva il compito di fare arrivare in commissione un disegno di legge estremamente contestato, indiret­tamente accettava le possibili modifiche che sull’originale canovaccio sareb­bero state apportate da destra nelle varie sedi parlamentari. Un’interessante messa a fuoco delle posizioni del gruppo dossettiano sulla riforma può tut­tavia trovarsi in un articolo apparso sulla rivista del gruppo nel maggio del ’50. Un primo aspetto significativo è quello relativo al concetto distributivo che deve sottendere la riforma, assai più che non quello di creazione di nuova ricchezza (anche se non deve essere trascurato il potenziamento della produ­zione). Viene poi sottolineato il carattere di eccezionalità di un tale provve­dimento, che va al di là dei normali interventi dello stato a regolamento del diritto e dei rapporti economici: « Una riforma agraria non può concepirsi solo quale frutto di contingenze eccezionali, le quali, mentre non creano esse stesse i presupposti economico-sociali spesso maturati nei secoli, deter-

2829

Ibid.Ibid.

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minano tuttavia quei nuovi equilibri di forze politiche atti a rendere possibile la modifica dei rapporti di diritto » M.

E la situazione dell’agricoltura è attualmente tale che a nulla servirebbero le bonifiche, poiché « la realtà di salari e di quote di compartecipazione più elevate pone già da tempo il difficile problema di bilancio dell’impresa agraria, tanto più difficile quanto maggiore è la partecipazione del lavoro nel ciclo pro­duttivo: sicché il capitale rifugge dai nuovi investimenti specie nelle terre più arretrate, mentre la rigidità del reddito fondiario — legata in Italia alla scarsità del fattore terra e alla sua posizione di monopolio nei confronti del­l’elevata pressione demografica — si riflette o in un freno al miglioramento dei compensi di lavoro o in una pressione per più alti prezzi di vendita delle derrate agricole » 51. È una visione indubbiamente interclassista, che cerca di fare della questione agraria un indifferenziato problema di bilancio, ponendo il fattore della rigidità del reddito fondiario come denominatore comune delle classi agricole. Operazione assai simile a quella condotta dalla Coltivatori Di­retti, e tale da garantire l’alleanza corporativa nel cosiddetto « mondo della agricoltura », di cui tipica espressione è l’alleanza tra la Coldiretti e la Confa- gricoltura.

Le conseguenze che da tale discorso si traggono sono però radicalmente diverse da quelle delle organizzazioni agrarie: « Non è possibile — afferma Vicinelli nell’articolo citato — istaurare in Italia, a spese della collettività, un regime di difesa dei prezzi dei prodotti agricoli a salvaguardia delle classi rurali; si fi­nirebbe col togliere respiro ad ogni altra attività: e ciò proprio mentre l’evo­luzione generale pone sempre più la necessità di inserire la nostra economia in quella del resto del mondo e in particolare dell’Europa » 30 31 32.

Quale allora la via da seguire? Premesso che la pressione esercitata sulla terra come esigenza strumentale di lavoro porta inevitabilmente a valori fon­diari molto elevati anche per la terra nuda, la riforma agraria « è chiamata a spezzare il cerchio di tanti elementi convergenti, dalla tradizione, dal diritto e dai contratti economici ». Si tratta di « avviare una struttura produttiva che, senza aumentare l ’incidenza complessiva dei costi sulla produzione, assi­curi remunerazione sufficiente alla famiglia lavoratrice » 33.

Ritroviamo qui i motivi comuni a molte forze interne, o comunque legate alla DC, quali le ACLI e la « Libera CGIL ». Si tratta di istanze che, per certi versi, furono accolte anche dalla legislazione del ministro Segni, che nel 1948 aveva presentato con il disegno di legge n. 175 la formulazione più avanzata che il governo avesse mai dato al problema agrario. Questo progetto, avversato dalla maggioranza della DC, approvato alla Camera con sostanziali

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30 P. V i c i n e l l i , Le ragioni di una riforma agraria in Italia, in « Cronache Sociali », IV , n. 2, 1 maggio 1950, pp. 11-12.31 Ibid.32 Ibid.

Ibid.33

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modifiche che quasi completamente lo deformavano, restò fermo al Senato e cadde alla fine della legislatura.

Non intendiamo qui esaminare la storia della riforma dei contratti, storia che va parallela alla questione della redistribuzione della proprietà e come quella è segnata da paure e minacce della destra e dai tentativi dei partiti ope­rai di radicalizzare il provvedimento. Si vuole solo riferire della posizione as­sunta dal gruppo di Dossetti che proprio su questo problema, più che su quello della riforma come creazione di piccola proprietà contadina, elaborò una posizione più articolata ed esplicita. Come detto, la sinistra democristiana aveva aderito pienamente al progetto Segni nella sua formulazione originaria e più radicale.

In una serie di articoli, che riportavano il testo del progetto assieme alle osservazioni opposte ad ogni titolo dalla Confagricoltura, « Cronache Sociali » difendeva i punti qualificanti del progetto quali la giusta causa, l ’equo canone, il diritto di prelazione34. Una tale difesa veniva condotta con caute e moderate motivazioni, che spesso si rifacevano allo stesso codice civile; complessiva­mente però si esprimeva la proposta di un’agricoltura svecchiata, in cui una funzione nuova era attribuita all’impresa, in cui veniva contestato alle forze della conservazione il principio secondo cui solo la proprietà può garantire la produttività.

Può dirsi a questo proposito che il gruppo dossettiano rappresenti l ’ala più moderna e spregiudicata della DC e che, pur riconoscendo l’importanza di un accesso più largo alla terra per i lavoratori, anziché attardarsi sul problema della creazione della piccola proprietà, prospettiva che nasconde tentazioni con­servatrici e che comunque rischia di fermarsi ad una visione ruralistica ormai superata, invita a una maggiore attenzione per i problemi relativi ai rapporti di lavoro nelle campagne e ai problemi dei costi e del mercato, in una vi­sione certamente più spregiudicata del mondo rurale e del suo inserimento nel processo capitalistico. In tal senso l ’insegnamento della sinistra democri­stiana non fu vano; e se questa prima battaglia fu persa, con l’affossamento del progetto Segni, furono proprio allora poste premesse di azioni politiche che si sarebbero in seguito sviluppate, offrendo preziose indicazioni al modello di sviluppo che il partito cattolico andava creandosi.

Una più completa valutazione della funzione che il dossettismo ha avuto nel limitato arco di tempo da noi considerato può darsi solo se si tiene conto, con rapidissimo ma complessivo sguardo, di quella che è stata l’evoluzione del partito dall’immediato dopoguerra ad oggi. Una prima considerazione ri­guarda il rapporto tra le forze di centro e quelle cosiddette di sinistra, forze che non sono mai radicalmente in opposizione, ma si mostrano sempre pron­te a quel compromesso e a quella coesistenza che la responsabilità governativa

34 Progetto di legge per la riforma dei contratti agrari — Commento di « Cronache So­ciali » al commento della Confederazione Italia degli Agricoltori (Confida), in «Cronache Sociali », I I I , n. 1, 2, 3, 4-5, 15 gennaio, 31 gennaio, 15 febbraio, 15 marzo, 1949, pp. 27- 31, 20-24, 23-24, 30-32.

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richiede. Ciò significa che la DC diventa strumento di conservazione sociale, pur conservando la capacità di continue innovazioni che tuttavia scaturiscono sempre da una stessa matrice reazionaria. In ogni caso la vera garanzia del­l ’intrinseco conservatorismo del partito democristiano è la sua fede interclas­sista. Interclassismo che significa astratto appello alla libertà, al progresso, alla ricostruzione armonica e concorde, ad una non meglio identificata « giustizia sociale »; che significa anche alternativa tra due concezioni, dell’economia e della vita politica: quella liberista e quella autoritaria, entrambe superate per la DC. De Gasperi, il rappresentante più prestigioso del gruppo tradizionale, è — proprio per la sua posizione all’interno del partito e del governo — l’abilis­simo mediatore delle due forze, sino a quando esse resteranno operanti.

L ’avvento di Fanfani non segna certo il prevalere della corrente di sinistra sulle forze del centro, ma segna il confluire di entrambe le tendenze in una linea di più decisa valorizzazione del partito come strumento di controllo e di direzione sulle masse.

In questa nuova visione si ritrovano, opportunamente filtrate, tanto istanze proprie dell’ala tradizionale del partito, quanto elementi propri della sinistra.

Il gruppo di Dossetti si divide proprio sulla soglia di un tale compromesso: Dossetti si ritira dalla scena politica, mentre Fanfani non intende più continua­re la prova di forza con la maggioranza del partito e sceglie la via dell’inse­rimento nella direzione del partito stesso, via peraltro già indicata a Venezia da Dossetti e che si rivelerà assai fruttuosa. La sinistra de ha, in determinati momenti, se pure più per contingenze oggettive che per vocazione soggettiva, rischiato di incrinare l ’equilibrio conservatore delle classi dirigenti. E se in un primo momento non ha retto alla prova, con il fallimento dell’esperienza dossettiana, più tardi, attraverso la mediazione fanfaniana, le istanze economi­che di quella che era allora la sinistra democristiana, sono entrate più agevol­mente nel patrimonio del partito. Possiamo collegare questa acquisizione al passaggio da una linea arretrata, non ancora libera dai condizionamenti del pensiero einaudiano, ad una concezione del partito e dello stato notevolmente diversa, che passa attraverso l’affermazione dello stretto rapporto tra potere economico e potere politico, e la valorizzazione della funzione dei monopoli35.

Questa complessa vicenda spiega perché la politica di piano e la programma­zione si realizzino in forma antidemocratica, dal momento che vengono portate avanti da un nuovo gruppo (i dorotei) in cui si esprimerà, dopo l ’esperienza fanfaniana, l ’evoluzione neocapitalistica, moderna e avanzata, ma politica- mente reazionaria, del partito cattolico.

È in questo quadro che si rivela la contraddizione di fondo di tutta la vicenda della sinistra democristiana, che noi esamineremo in particolare nei suoi primi anni, quando cioè si espresse nel dossettismo.

Va premesso che la sinistra interna al partito democristiano non solo non esauriva, ma neppure parzialmente esprimeva le istanze di rinnovamento del

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35 C fr . F . C ic c h it t o , Pensiero cattolico ed econom ia ita liana , c it ., p . 38 .

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dissenso cattolico, il quale, in realtà numericamente esiguo e riducibile ad un gruppo ristrettissimo di intellettuali, s ’era organizzato (attorno all’espressione programmatica « inveramento cristiano del marxismo lasciandone inalterate le impostazioni politiche ») nel Partito della sinistra cristiana.

Lorenzo Bedeschi34 ha chiaramente tracciato la storia di questo gruppo, sgan­ciato dalle esperienze culturali più propriamente cattoliche, privo di remore confessionalistiche e che nulla aveva a che spartire con la sinistra democristia­na, la quale si richiamava al magistero ecclesiastico, distinguendosi per l ’inte­gralismo derivato dall’Università cattolica del Sacro Cuore. Viceversa la Si­nistra cristiana formulava nei confronti del partito democristiano nel suo complesso un giudizio lucidamente critico (e stupisce una tale chiarezza in un momento — siamo intorno al ’45 — in cui ancora assai incerto era il giu­dizio sul partito cattolico, che abilmente teneva aperta la questione della sua definizione politica in senso conservatore o progressivo) riconoscendo nelle correnti la conseguenza dell’interclassismo e definendo il partito come il per­no della reazione, ovvero lo strumento di cui si servono i gruppi reazionari per agganciare a sé direttamente una parte delle masse, spezzando i collegamenti con la classe operaia36 37. Non sarà quindi il dossettismo, che « nasceva e si muoveva nella placenta del partito di De Gasperi » 38 a raccogliere l’eredità della Sinistra cristiana, allorché, nel ’45, il gruppo si scioglierà per l’intervento del­le autorità religiose.

Quali allora le caratteristiche di questa opposizione interna alla DC? Pen­siamo che sia opportuno andare a ritroso, partire dalla fine dell’esperienza dossettiana, da quel fenomeno che è insieme la sua continuazione e il suo involgarimento: il fanfanismo.

Come detto, l’ascesa di Fanfani coincide con lo sfaldamento del gruppo dos- settiano — entro il quale, peraltro, Fanfani aveva sempre mantenuto una fi­sionomia autonoma —- e si concretizza nella nomina al ministero del Lavoro35 40, e poi a quello dell’Agricoltura “ .

Fanfani raccolse, in tale occasione, i consensi della destra economica41, di quella stessa Confagricoltura che così pesantemente aveva giudicato il mini­stro Segni e le sue « velleità riformiste ». Certo, c’è già nel 1951 un muta­

36 L. B e d e s c h i , La sinistra cristiana e il dialogo con i comunisti, Parma, 1966.37 Cfr. l’articolo di Mario Motta, La DC perno della reazione, in « Voce del lavoratore », 18 novembre 1945, e numerosi articoli sullo stesso foglio e su « Voce Operaia ».38 L. B e d e s c h i , op. cit., p. 15.39 Complessivamente dal 31 maggio 1947 al 27 gennaio 1950 (quarto e quinto ministero De Gasperi).40 Dal 26 luglio 1951 al 16 luglio 1953 (settimo ministero De Gasperi).41 Così « Rusticus », cioè A. Serpieri, commentava l ’ascesa di Fanfani dalle colonne del « Corriere »: « In un rinato clima di distensione la riforma potrà conseguire nei territori latifondistici mete gloriose [...]. Nello stesso tempo i proprietari non espropriati potranno riprendere fiducia». ( « I l Nuovo corriere della sera», 31 luglio 1951). Paolo Bonomi sul­l ’organo della Federconsorzi così scriveva: « È nel cuore di tutti gli agricoltori l ’augurio fervido che il ministro Fanfani [...] possa affrontare col suo spirito battagliero e con la sua volontà tenace il complesso poderoso di problemi » (« Giornale di agricoltura », a. LXI, n. 30, 29 luglio 1951, p. 1.

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mento di tono nelle recriminazioni della destra, che ha vinto numerose bat­taglie all’interno della discussione parlamentare dei paventati progetti di ri­forma e che comunque incomincia a intuire la valenza padronale che tali leggi in potenza contengono. Tuttavia, l ’entusiastica accoglienza riservata al mini­stro Fanfani, sedicente uomo di sinistra, lascia pur sempre sconcertati. C’è da credere che le forze economiche intuiscano la presenza, nel « sinistrismo fan- faniano », di presupposti che sarebbero stati utilmente sfruttati sul piano per essi più importante, cioè quello del profitto economico.

E l ’attività del nuovo ministro si caratterizzò subito con l ’abbandono del di­battito sulla redistribuzione della proprietà per sviluppare tutta una serie di temi ruotanti attorno alla questione di una razionale organizzazione del­l ’agricoltura, proprio ciò che da tempo Confagricoltura, bonomiana e tecnici agrari in generale sostenevano.

Va da s é che « organizzazione razionale » era da essi intesa come difesa cor­porativa di alcuni privilegi.

Il « Giornale di agricoltura », nel riferire che il ministro Fanfani aveva rice­vuto il gruppo parlamentare dei coltivatori diretti, riportava i punti su cui si era svolto il colloquio: necessità di una chiara impostazione di politica agra­ria; tutela dell’economia delle aziende agricole; collaborazione tra il ministro e le organizzazioni sindacali dei produttori.

Molte le assicurazioni ricevute: revisione del prezzo del grano; riesame del problema della liberalizzazione degli scambi di prodotti riguardanti l ’agricol­tura; valide provvidenze per la piccola proprietà contadina; adeguate disponi­bilità di mezzi al credito agrario42. Tutti questi punti, anche quelli riguardanti più da vicino i piccoli coltivatori, erano facilmente armonizzabili con i piani fanfaniani, volti a favorire la grande proprietà, in un disegno complessivo che tenesse conto del ruolo dell’agricoltura nel quadro economico generale. Che poi i piccoli e medi contadini, tramite la Coldiretti (la quale, è bene ricordarlo, aveva già inaugurato un’azione assolutamente concorde con quella della Confagricoltura43), fossero tenuti a bada e che pure fosse concesso, ai più meritevoli, di accrescere il loro peso economico, tutto questo non era in con­traddizione con il disegno di sviluppo di grosse aziende capitalistiche.

Precise assicurazioni ricevettero gli agrari dalle dichiarazioni del ministro Fanfani in un discorso a Lod i44 e al congresso di Parma45, e rassicurante, in­

42 « Giornale di agricoltura », a. LXI, n. 32-33, 12-19 agosto 1951, p. 1.43 Un tale accordo maturò in un terreno di maggiore distensione quando, ormai varata la legge di riforma (di cui la Coldiretti non poteva non essere sostenitrice, per quanto mo­derata), veniva a cadere l ’unico punto di contrasto tra la Confederazione degli agricoltori e la Coltivatori diretti, che ampio terreno d’incontro trovarono nella rivendicazione corpo­rativa di un ruolo privilegiato dell’agricoltura.44 A Lodi il ministro aveva precisato che la politica del suo dicastero mirava a rianimare le speranze degli agricoltori e a valorizzare i loro sforzi. Cfr. « Giornale di agricoltura », a. LXI, n. 38, 23 settembre 1951, p. 1.45 « Produrre, produrre di più, il massimo possibile nelle più razionali condizioni, ricavando il massimo risultato », Atti del convegno nazionale economico dell’agricoltura, Parma, 15-16 settembre 1951, Parma, 1951.

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direttamente, fu il suo discorso a conclusione del bilancio dell’agricoltura: Fanfani mentre si dichiarava fiducioso nella burocrazia relativamente all’at­tuazione della riforma, affermava che le difficoltà venivano piuttosto dal clima di delusione, conseguenza di una propaganda che aveva lasciato sperare molto di più: « È facile dire: estendete la legge stralcio. Qui bisogna scegliere tra far bene qualche cosa o fare male tutto. Io scelgo di fare bene qualche cosa [...] se non si vogliono mettere i contadini sulla terra per farli morire di fame »“ . Ad una attenta interpretazione, tali affermazioni, insieme ad una im­plicita critica di quanto precedentemente operato dal ministero, contengono un’assicurazione di rigida delimitazione dell’applicazione della riforma e, di conseguenza, una esautorazione della medesima.

Anche riguardo alla riforma dei contratti, il cui progetto era fermo da tempo al Senato, le affermazioni di Fanfani dovevano suonare rassicuranti nella loro ambiguità: « L ’opposizione pensa che il governo voglia insabbiare tale rifor­ma ». Il governo pensa invece che « bisogna finirla col prorogare questa si­tuazione di incertezze e di provvisorietà di tutte le campagne italiane » 46 47.

Tali affermazioni vengono positivamente commentate dall’organo della Fe- derconsorzi: « Una conclusione è chiara: il disegno di legge verrà emendato dal Senato. Come? È difficile dirlo [...] . Un fatto è certo: siamo sulla via della saggezza » 48 49. Via della saggezza veniva in sostanza definita l’organizza­zione del ministero dell’Agricoltura come ministero non tanto « politico » quanto « tecnico » (nell’accezione particolare in cui tali termini venivano usati dalla destra agraria), come ebbe ad affermare lo stesso Fanfani: mini­stero cioè diretto a guidare lo sforzo di quanti attendono a trarre dalla terra il massimo della produzione. Una visione così corporativa coincide perfetta­mente con ciò che il prof. Calzecchi-Onesti, facendosi portavoce delle istanze del mondo dell’agricoltura, auspica: l’armonizzazione delle forze economiche. « In definitiva i lineamenti di una nuova politica economica e sociale sono da ricercare [...] in una politica d’armonizzazione delle forze economiche con particolare riferimento a quelle del lavoro. Corporativismo? Non esattamente, dal momento che la nuova politica non intende abbandonare il metodo demo­cratico » *.

Se ci siamo tanto attardati nelle considerazioni sul ministero di Fanfani, è perché siamo convinti che esso segna un’importante cesura nella politica agra­ria della DC e, più in generale, in tutta l ’organizzazione e la realtà del partito.

Non va dimenticato che proprio in questi anni Fanfani compie la sua scalata al potere e che proprio in quanto ministro dell’Agricoltura potrà organizzare quegli enti di riforma che tanta parte avranno nella formazione di uomini nuovi e nella elaborazione di un nuovo rapporto governo-partito e partito- masse.

46 « Giornale di agricoltura », a. LXI, n. 44, 4 novembre 1951, p. 2.47 Ibid.4! « Giornale di agricoltura, a. LXI, n. 46, 18 novembre 1951, p. 5.49 Ibid., a. LXI, n. 9, 4 marzo 1951, p. 1.

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Se si è parlato di cesura non si intende con ciò indicare una frattura: da una parte De Gasperi, dall’altra Fanfani; oppure, nel caso delle questioni agrarie: da una parte Segni, dall’altra Fanfani; si tratta invece di cogliere il momento del rinnovamento interno alla DC, la sua nuova organizzazione e la sua nuova ideologia, nella consapevolezza di trovarci di fronte ad un unico processo. La ne­cessità di un ricambio politico in seno al governo è data dalle domande, sempre più precise e pressanti, poste dal capitale ristrutturato che cerca una collocazione internazionale e, quindi, una solida garanzia politica.

L ’operazione di ricambio con cui la DC riesce a mantenere il potere politico sarà l’operazione Fanfani, l ’organizzazione del partito, che non è solo attivismo organizzativo ma « rientra in un disegno più vasto, si collega in sostanza ad una determinata concezione dello stato, cioè al problema del potere » M. Pro­blema che viene da Fanfani affrontato non in termini di alleanze e di aperture ad altre forze. « Una politica nuova non si pone in termini di nuova maggio­ranza e nuovo governo, non si pone in termini di maggiore o minore sociali­tà, ma si pone come esigenza di una qualificazione politica della DC capace di assumere una funzione compositiva nei confronti di quelle forze di svi­luppo che oggi premono sullo stato in forme eversive » 50 51 52.

Emerge, da queste affermazioni, una chiarificazione della funzione di Fanfani e, retrospettivamente, di certe istanze del vecchio gruppo dossettiano. Raf­forzare il partito, e non solo come strumento di organizzazione interna, ma so­prattutto come strumento di « istaurazione di un regime paternalista e cleri­cale in cui ci sia posto solo per la Democrazia cristiana » B. Una tale svolta si era rilevata necessaria allorché le elezioni amministrative del 1951-’52 aveva­no rilevato che il partito perdeva terreno; si impose quindi la ricerca di nuovi legami con la base elettorale, legami che non furono concepiti come ricerca di una linea politica, di una strategia, ma come originale creazione di strumenti di potere. Sul nuovo canovaccio del « terzo tempo » e sulle formulazioni pro­prie della sinistra democristiana relative all’intervento dello stato nell’economia, si inserivano i vecchi strumenti del clientelismo e del favoreggiamento. Il ri­sultato è facilmente immaginabile: l ’uso clientelare di alcune posizioni e strut­ture fondamentali di cui il partito è riuscito ad impadronirsi53 54.

Gli enti di riforma, la Cassa per il Mezzogiorno, PENI, la CISL, le ACLI, la Federconsorzi, attraverso tutti questi strumenti la DC di Fanfani, pure in mezzo a gravi problemi politici, può ben dire di dominare la situazione H.

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50 A. R e ic h l i n , L’attivismo organizzativo democristiano è una tendenza all’autoritarismo, in « Rinascita », XI, 1954, n. 11-12, nov.-dic., pp. 790-794.51 Queste considerazioni, riportate da Reichlin nell’articolo citato, sono di Luciano Radi, uomo assai vicino a Fanfani.52 A. R e i c h l i n , op. cit.53 Ed è bene notare che la DC, superati gli sbandamenti iniziali — e il problema del­l ’eredità popolare — si accorge di avere in mano, in quanto partito di governo, una ben più grossa e importante eredità: quella di dovere amministrare una « notevole quota del­l ’apparato produttivo del Paese che il capitalismo italiano aveva “ generosamente” ad­dossato allo Stato dopo la crisi del 1929 », F. C i c c h it t o , op. cit. p. 162.54 Sul funzionamento di tali enti e in generale sulla organizzazione della DC nel Sud, cfr. S. G. Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, 1972, pp. 270-

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Quanto vi è di dossettiano nell’esperienza di Fanfani? Quali in sostanza i rapporti tra la sinistra democristiana dell’immediato dopoguerra e la corrente fanfaniana?

La questione va affrontata prescindendo dalla valutazione della diversa statura etica dei due personaggi, o anche dalle stesse tarde affermazioni di Dossetti55.

Il punto di maggiore collegamento tra le due esperienze è certamente il di­scorso sul potenziamento del partito, la ricerca di una sua funzione autonoma, differenziata dall’attività parlamentare. Accanto a questa istanza è presente in Dossetti una preoccupazione sociale di carattere chiaramente populista (come si nota per esempio nelle posizioni di G. La Pira) che solo con Fanfani sarà opportunamente valorizzata e strumentalizzata in funzione del rafforzamento del partito; prima di allora, sotto questo aspetto, l ’incidenza del dossettismo fu insignificante. Certamente la DC mutuò dal dossettismo alcune istanze sociali, ma più per una valutazione di opportunità politica che per la capacità della corrente di imporre determinate scelte. Né poteva essere altrimenti, dal mo­mento che l ’azione della sinistra democristiana non seppe mai collegarsi al mondo del lavoro54 e preferì restare sul terreno di una vasta e continua critica alla direzione del partito.

Sotto questo aspetto, se è vero che Fanfani era uno dei luogotenenti di Dos­setti, non può certo dirsi che sia eredità dossettiana la sua abilità politica ed organizzativa: proprio mettendo in atto le istanze della sinistra dossettiana, Fanfani ne rivelò le contraddizioni e le incongruenze.

E da allora può dirsi che il fanfanismo abbia trovato modo d’esprimersi a di­versi livelli nella società italiana; in particolare, anche nei momenti politici ad esso meno favorevoli, attraverso l ’originale coesistenza d’integralismo vec­chia maniera e spinte innovatrici verso una « nuova e diversa dimensione so­ciale »: tali sono le componenti di alcune organizzazioni giovanili cattoliche57. L ’involuzione della sinistra democristiana non può quindi imputarsi solo

314. Un grave problema era ad esempio quello del rapporto con le destre, che rischiò, in certi momenti — soprattutto nel Sud attraverso le collusioni col Partito monarchico popo­lare di Lauro — di divenire assai impegnativo, quando invece l ’equilibrio fanfaniano si fondava sulla capacità di avere l’appoggio delle destre ma senza restarne soffocato.55 A. C o p p o l a , Profilo di Fanfani, in « Rinascita », XXX, 1973, n. 25, pp. 5-6. Coppola riferisce l ’intervista a « Panorama » in cui Dossetti così giudicò i suoi antichi seguaci: « Hanno imparato subito la lezione, hanno scelto la strada dello zigzagare tra i meandri di una crisi di governo e un’elezione presidenziale, pilotandosi abilmente tra i traboc­chetti delle lotte intestine di partito ».54 La consapevolezza di un tale limite fu una delle motivazioni che spinsero il leader ad abbandonare la vita politica. Su questo punto, che non è nostro intento esaminare, ri­mandiamo in particolare all’articolo cit. di A. C o p p o l a e all’opera di G a l l i-Fa c c h i , op. cit., pp. 117-119.57 II discorso ci condurrebbe assai lontano. Sulla più attuale tra queste organizzazioni, « Comunione e Liberazione », rimandiamo ai penetranti e documentati articoli di S andro B ia n c h i , Dalle ceneri del ’68, la « rivincita » dell’integralismo spregiudicato e barricadiero; Nelle fabbriche, nelle scuole e nelle caserme cogestione e non contestazione; Dna strut­tura organizzativa da fare invidia al bolscevismo (e all’Opus Dei)- Vengono « d a lontano» per ricomporre la crisi dell’interclassismo cattolico, in « Il Manifesto », I II , 5, 6, 11, 12 aprile 1973.

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all’uomo Fanfani: essa era già presente, in mice, in tutta la storia del dosset- tismo, ed è esplicitamente presente già al Congresso di Venezia del ’49, che segna il trionfo e insieme il riassorbimento della corrente. Il problema dello stato e il problema del partito stanno al centro della proposta dossettiana, por­tata avanti al congresso in polemica con l ’intervento di Piccioni. Quest’ultimo aveva ribadito la necessità che il partito proseguisse nel rapporto di collabora­zione con gli altri partiti democraticiM, resistendo alla tentazione, pure legit­timata, a suo dire, dal risultato del 18 aprile, di prendere su di sé la somma del potere; si era opposto energicamente alla tendenza a fare del governo il « Comitato esecutivo del partito », rivendicando al primo una più ampia azio­ne di rappresentanza dell’interesse collettivo del paese. L ’on. Piccioni si faceva carico della difesa della linea che il partito aveva sempre seguito e che veniva adesso messa in discussione dal gruppo di Dossetti, allorché la corrente pro­spettava una funzione autonoma del partito, politicamente differenziata dalla attività del parlamento e del governo. Al congresso, i dossettiani abbandona­vano la tematica delle riforme, alla cui realizzazione veniva posta come pre­giudiziale la costruzione di una organizzazione statale diversa, compito affidato al partito. Una diversa realtà statale, uno stato forte ed efficiente era la sola garanzia per mantenere la preminenza democristiana nel paese55. Così Domenico Ravaioli, su « Cronache Sociali » vedeva la presenza del suo gruppo al II I Congresso:

Gli interventi di Dossetti e Ardigò hanno indicato nel sostanziale rinnovamento del vecchio stato liberale — spiritualmente agnostico e fisicamente disorganico ■—, nella buona ammi­nistrazione, nella collaborazione popolare mediante la valorizzazione del partito e della sua autonomia, il compito principale della DC. Ed è difficile contestare il fondamento di questa impostazione. Ma essa è attiva per la sua provenienza, oltre che per la sua esattezza: in quanto proposta cioè da quella corrente che nei congressi precedenti s’era distinta per la sua sensibilità sociale. Si poteva supporre che anche questa volta avrebbe messo l’ac­cento sul problema sociale più che sul politico, proponendo, ad esempio, come principale obiettivi della DC le riforme del governo laburista. Invece ha seguito un’altra direttiva. E l ’attivo sta in ciò; nel fatto in specie d’essersi resa tempestivamente conto che le riforme economiche, sociali ed assistenziali del governo laburista, pur costituendo la premessa di un mondo più giusto e umano, presuppongono l’esistenza di una democrazia il più in­tegrale possibile, di uno Stato organico, di una amministrazione limpida, di una coscienza politica, di una disciplina spontanea, di una stampa tanto più responsabile quanto più li­bera, di una burocrazia efficiente, di una giustizia; di quell’ordine democratico, in altre parole, che l’Italia deve costruire.

Può, in nome di questo esperimento, giustificarsi anche l’uso di un elettorato di destra, di cui, opportunisticamente, non viene considerata la componente più autenticamente reazionaria, politicamente ed economicamente più definita, ma quella massa «difficile da discriminare », perché si trova a destra per tra­dizione, per motivi prevalentemente psicologici, per immaturità di coscienza politica 58 59 60.

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58 Su questo punto le divergenze con la corrente di sinistra erano assai sottili: i dosset­tiani non intendevano mettere in crisi la composizione governativa — positivo era anzi il loro giudizio sull’operato del PSLI e del PRI, — ma affermare l’importanza di convo­gliare tutte le forze sul potenziamento del partito, inteso nella sua connotazione autonoma, libero dai problemi governativi.59 Cfr. F .M . M a l f a t t i , Analisi del I I I Congresso nazionale della DC, in « Cronache Sociali », III , n. 11, giugno 1949, pp. 13-14.60 D. R a v a io l i , La funzione della DC e i suoi compiti, in « Cronache Sociali », III , n. 11, 15 giugno 1949, pp. 233-234.

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Tali considerazioni chiariscono il significato della posizione assunta a Venezia da Dossetti, e la liberano da ogni equivoco progressista che gli elementi di polemica sociale potevano favorire.

Un cenno a parte merita l ’anticomunismo della sinistra dossettiana, elemento tutt’altro che secondario. Esso ha come sottofondo la pretesa del gruppo di porsi come interprete delle istanze popolari, in alternativa alla egemonia eser­citata su questo terreno dai partiti marxisti: il crollo del tripartito, ad esempio, fu visto assai positivamente dai dossettiani, proprio in quanto apriva ad essi un tale ruolo dentro il governo.

È lecito quindi domandarsi quale sia stata la forza della corrente, se e quale realtà di massa abbia rappresentato e quali, di conseguenza, siano stati i suoi rapporti con il partito nel suo complesso. Il problema della base di massa della corrente è tanto più importante in quanto chiama in causa tutta la realtà so­ciale del partito, la sua composizione, la sua funzione. È proprio considerando la composizione della DC di quegli anni, i suoi iscritti ma soprattutto i suoi elet­tori, che appare più evidente l ’inesistenza di una base di massa avanzata dentro il partito. Si può anzi affermare che nei confronti di un elettorato di destra, sanfedista addirittura, il partito, conscio dei problemi e delle esigenze di una società moderna, abbia esercitato una funzione progressiva, di traino. Vicever­sa la corrente dossettiana, con il suo porre l ’accento sulla povera gente, sui la­voratori, quella povera gente e quei lavoratori che certamente non alla sinistra democristiana fanno capo, rivela il suo velleitarismo. Una distinzione va però posta su questo punto, tra un elemento più demagogico, forse più sincero e ge­neroso ma politicamente sterile, e un elemento più politico e lungimirante. Tra i due elementi non v’è contrapposizione ma rapporto di funzionalità: il pri­mo sarà fatto proprio e politicamente valorizzato dal secondo. Terreno comune ad entrambi è l’individuazione del momento economico come il più impor­tante nella soluzione dei gravi nodi che si presentano alla società italiana. Ma su questo terreno comune affiorano diversità di toni: si tratta di temi che pos­sono inserirsi nel problema, oggettivamente prioritario per ogni minoranza, del ruolo e del posto riservati alla corrente dentro gli indirizzi del partito; oppure si tratta di temi che vengono agitati prospettando facili soluzioni che facciano riferimento costante ai principi cristiani, rivelando in pieno l’integralismo della corrente. In « Cronache Sociali », espressione teorica e politica del gruppo, en­trambi questi due piani sono presenti. Vivissimi sono i temi inerenti appunto alla democrazia interna, alla possibilità per le minoranze di esprimere positiva- mente le proprie potenzialità dentro il partito. Una tale battaglia viene con­dotta, in alcuni lucidi articoli, sul terreno della riflessione critica della propria origine e dei propri compiti. “ 61

61 Così la corrente giustifica la propria esistenza in un interessante articolo di G. Ba- g e t Bozzo: « La repubblica nacque nel paese dall’alleanza tra la parte più progressiva del ceto medio e la classe operaia: era un successo della formula resistenziale. La Resistenza però era nata bacata: bacata a sinistra [...]_ La classe operaia non dissociò le sue ragioni da quelle del PCI e le formule della Resistenza fallirono [...]. Tuttavia, mentre le posi­zioni che dovevano la propria consistenza politica alla Resistenza si sgretolavano, la sini­stra de si trovava inserita in una formazione storica complessa, che era stata capace di sostituire, grazie alla abilità del suo leader, alla caduta formula resistenziale, la formula

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Ma altrove, in particolare negli scritti di Dossetti e di Giorgio La Pira, forte è l ’elemento demagogico e integralista. Vàlga un esempio per tutti:

C’è, anzi tutto, una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano — per un Governo -— parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organica- mente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione ed il bisogno che sono i più temibili nemici esterni della persona [...]. E si badi; non si tratta soltanto (come spesso si crede) di atti di carità confinati nell’orbita d’azione dei singoli [...]: no, si tratta di un impegno che parte dai singoli e che investe l ’intiera struttura e l ’essenziale finalità del corpo sociale. Costruire una società cristianamente significa appunto costruirla in guisa che essa garanti­sca a tutti il lavoro, fondamento della vita, e, col lavoro, quel minimo di reddito necessario per il « pane quotidiano » 62.

Demagogia, dunque, e integralismo, che rischiano di divenire politicamente fallimentari perché non hanno alle spalle, né mettono in moto, una realtà di massa, che sarebbe necessaria per garantire credibilità alla corrente di fronte al partito nel suo complesso. La sinistra democristiana non conquisterà quindi con questa istanza la sua giustificazione politica, anche se la politica economica sarà sempre il terreno più fruttuoso. Ma si tratterà allora di proposte che matureranno — e Venezia e le alterne e complesse vicende successive lo mo­strano esplicitamente63 — non più come discorso rivolto alla povera gente, ma sul terreno di un confronto politico con il partito nel suo complesso, primo passo verso il riconoscimento della funzione politica della corrente, del suo diritto ad intervenire attivamente, e con uno spazio via via sempre più grande, nel partito e nel governo. Al congresso di Venezia tutti questi elementi, — anticomunismo, tendenza all’autoritarismo e all’integralismo, dimensione so­ciale che si risolve in demagogia e che sottende una ben strana concezione del­la partecipazione e della democrazia — , sono ancora confusamente presenti. Perché essi siano filtrati e opportunamente composti manca solo una defini­tiva vittoria politica sulla maggioranza. Il tempo lavorerà a favore di Fanfani

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politica tradizionale e che, in conseguenza di questo fatto, vedeva crescere di giorno in giorno i consensi del paese. Il blocco politico di tutte le forze anticomuniste significava il mantenimento dell’ordine capitalistico e l’indebolimento progressivo della classe operaia [...]. Ma questo blocco avveniva attorno agli istituti democratici e attorno al metodo del­la libertà: attorno ad uno dei termini del binomio resistenziale [Giustizia e Libertà]. La sinistra de accettò la politica del blocco libertario, convinta che, se essa fosse stata appli­cata fino in fondo, avrebbe riproposto prima o poi il binomio integrale, sia pure in termini e circostanze profondamente mutate ». G. B a g e t B o zzo , L o schieramento della DC di fron­te al Congresso, in «Cronache Sociali», I II , n. 9, 15 maggio 1949, pp. 11-12.62 G. L a P ir a , L ’attesa della povera gente, in « Cronache Sociali », IV, 15 aprile 1950,pp. 2-3. Si fa discendere insomma l ’organizzazione politica della società dai principi cri­stiani. Dal Vangelo a Keynes il passo è breve: « E che queste intuizioni della povera gente (basate sulle cose e sul Vangelo) non siano scientificamente errate lo dimostra l’im­postazione delle più moderne e vitali teorie economiche ».63 Le vicende della DC dal congresso di Venezia all’ultima crisi di Governo, in « Crona­che Sociali », IV, n. 1, 15 aprile 1950, pp. 15-18.