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Diario di un quarantenne perdente - prpchannel.com fileuomo come mio padre. In realtà la vita mi piace, ... Ora mi hanno detto che si è ritirato, ma ... nel mio vissuto questo ha

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Francescomaria Tuccillo

DIARIO DI UN QUARANTENNEPERDENTE

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Table of contents

Un'introduzione necessaria

Il Karatè

Le pubblicazioni

Giuseppe Rassello

Il Tribunale

L'Africa

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U N ' I N T R O D U Z I O N EN E C E S S A R I A

Quando ho preso la decisione di

trasferirmi a vivere a Nairobi, in Kenya,

nell’Africa Sub Sahariana, quella vera e nera,

mio padre era deluso di questa scelta.

A muso duro mi ha detto: "Il tuo

problema è sempre stato e continua ad essere lo

stesso! E’ da quando eri piccino che ogni volta che

inizi qualcosa riesci sempre a farla e… devo

ammettere, anche bene.

Poi però, quando sei arrivato molto vicino a

completarla, allora riesci sempre a distruggere

tutto, e vuoi ricominciare una cosa nuova,

completamente daccapo…”.

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Allora gli ho risposto che la vedevo

come una cosa positiva e che il motivo era

che mi piacevano le sfide nuove da

affrontare e che questo doveva solo renderlo

orgoglioso di me. Lui mi ha risposto:

“Guarda che un uomo si misura anche sulla

capacità di consolidare la posizione, non solo su

quella di costruire cose nuove”.

E poi la sentenza: “Le persone che credono

in te e che ti hanno appoggiato o ti hanno

sostenuto durante i vari percorsi che hai fatto

finora vedono solo che all’improvviso molli tutto

e te ne vai…e questo è tradimento”.

Naturalmente ho riflettuto molto su

queste parole così forti e così abituali per un

uomo come mio padre.

In realtà la vita mi piace, è veramente

bella da conoscere e da vivere, in ogni sua

componente.

Noi, donne e uomini, amiamo creare i

"sistemi", piccoli o grandi che siano, e

chiuderci nel nostro piccolo labirinto,

vivendo tranquilli con il nostro equilibrio

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personale e sociale. Consolidare la nostra

posizione nell’ambiente in cui viviamo,

lavoriamo, amiamo, possediamo.

A me da piccolo piaceva immaginare di

poter vivere un pochino di ogni micro

mondo prima di poter scegliere di crearmi il

mio.

Oggi, però, a quarant’anni ho visto che

non ho più voglia di crearmi un micro

mondo nel quale rinchiudermi e allora mi

sto rassegnando sempre più all’idea che

forse sono e sarò sempre un perdente.

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I L K A R AT È

Qualcuno mi definisce un combattente.

E’ una definizione ricorrente nella mia vita.

E forse lo sono.

Quando mia madre decise che all’età di

dodici anni era assolutamente necessario

iscrivermi ad una palestra dove insegnavano

il karatè, ha dato un corso diverso alla mia

formazione ed alla mia vita.

Detta così sembra un passo affascinante,

ma la motivazione non era poi così poetica:

il mio professore di scuola aveva suggerito

tale scelta a mia madre per insegnarmi un

po’ di autodisciplina, essendo troppo

violento e aggressivo con i compagni di

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scuola. E mia madre concordò con lui,

poiché a casa facevo lo stesso con i miei

fratelli più piccoli.

E così sono diventato un agonista del

kumitè, il combattimento dell’arte marziale

che affascina ancora i bambini di ogni età.

Il nome del mio Maestro è ancora oggi

difficile da dimenticare: Isidoro, come il

famoso gatto delle vignette e dei cartoni

animati, e Volpe di cognome.

E’ stato per me un grande Maestro.

Ora mi hanno detto che si è ritirato, ma

aveva anche pubblicato un libro sulle

tecniche di proiezione degli avversari, in

sostanza come fare volare per aria una

persona con le leve del corpo.

Mi ha insegnato come attaccare e come

difendermi sul tappeto da combattimento, il

Tatami. Mi ha fatto studiare le tecniche e la

gestualità degli avversari, mi ha insegnato ad

intuire il loro coraggio, e la loro paura. Ho

imparato a leggere i pensieri che scorrevano

nei loro occhi, il ritmo del loro respiro, i

battiti del loro cuore… per dieci anni

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finquando sono arrivato a conquistare la

cintura nera.

Nella mia formazione dell’epoca ha

trovato posto un articolo di una rivista di

arti marziali che ricordo ancora. Diceva: “I

pensieri devono fluire nella mente, ma lo spirito

non deve fissarli. Come l’acqua di un fiume che

scorre senza fermarsi. E’ la via per giungere al

Mokuso, al Vuoto Mentale. E’ quello il solo

momento in cui si può combattere veramente”.

L’articolo proseguiva così: “L’unica vera

guardia è non avere guardia. L’unico vero

pensiero è il non pensare. La vera vittoria è il

non combattere. Se guarderai il tuo nemico egli si

impadronirà della tua mente. Se guarderai la sua

spada ti ucciderà. Se penserai al suo attacco sei

sconfitto. Il solo modo di vincere è il non agire.

L’azione deve scaturire dallo spirito, non dal

corpo”.

Interpretato in modo

adolescenzialmente estremista, nel mio

vissuto questo ha significato raggiungere

anche un vuoto di spirito.

La ricerca del momento per combattere

mi ha nel tempo portato all’estremo di un

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vuoto anche emozionale. Una apatia nei

confronti di tutti gli altri. E, soprattutto, mi

ha fatto interpretare gli anni successivi della

mia vita come uno scontro permanente con

tutto e tutti.

Per molti, in realtà, la crescita personale

si ferma ad uno stadio simile a quello

appena descritto. E la vita viene interpretata

come una continua gara con se stessi e gli

altri.

A me, però, è piaciuto pensare che era

possibile fare uno sforzo ulteriore di

crescita.

Un mio caro amico ultimamente mi ha

detto che il progresso dell’Umanità nasce da

continui scontri (semplicemente la teoria

della tesi e dell’antitesi hegeliane). E che, in

fondo, questa sarebbe la Vita.

A me, però, piace pensare che non sia

così.

E’ vero che è la vittoria quella che

conta… ma la vera vittoria è il non

combattere.

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Ho risposto a questo mio amico che la

mia riflessione da un po’ di tempo a questa

parte si era spostata dal fine ai mezzi.

In sostanza ho sostenuto che un uomo

va giudicato per il modo in cui ha

perseguito il suo fine, e non se lo ha

raggiunto o meno.

Questa prospettiva ancora oggi mi

affascina tanto, ma è difficile da sostenere

perché, di solito, la storia non la scrivono i

perdenti ma i vincitori, cioè quelli che il fine

lo hanno comunque e in qualche modo

raggiunto.

Il mio amico quella volta mi ha sorriso.

E mi ha dato dell’illuso. Come se fosse stata

una tesi alquanto ridicola.

Le illusioni, o come le chiama lui, io,

però, le chiamo speranze. E come sarebbe

un mondo fatto di uomini senza speranze?

Un ricordo che mi è rimasto dei tre

giorni a settimana di faticosi allenamenti in

palestra è legato agli odori. Non mi riferisco

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a quelli (o almeno non solo a quelli) difficili

da digerire dei ritardatari che non si

lavavano i piedi dopo aver camminato per

un’intera giornata con calzini e scarpe da

ginnastica. Mi riferisco, piuttosto, agli oli

canforati che i più diligenti ed appassionati

professionisti delle arti marziali si passavano

sui muscoli prima dell’allenamento

all’interno dello spogliatoio. Karatè vuol

dire “mano aperta” e quei riti così orientali

che mi affascinavano tanto, di cura del

proprio corpo, corrispondevano a quello dei

cavalieri medioevali che prima di una sfida

affilavano le spade ed ungevano le pesante

armature di ferro. Crema sui capelli e

kimono inamidato e stirato di tutto punto. Il

kimono merita qualche parola in più.

E’ fatto di cotone molto spesso e doppio

e viene trattato in modo tale da diventare di

un bianco quasi lucido. Il tessuto è rigido in

modo che strusciando ad ogni colpo inferto

provoca l’effetto sonoro di un fendente che

taglia anche l’aria. Unito al kiai (l’urlo

gutturale soffocato del karateka che

colpisce) sul viso volutamente inespressivo e

controllato incute negli spettatori un

sentimento di timoroso rispetto per il

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combattente che si esibisce.

Comunque ad un certo punto ho avuto

il rigetto del karatè, e mi sono ritirato. Ed ho

abbandonato l’agonismo sportivo.

Era il giugno del 1991 quando ho

affrontato l’ultimo impegno agonistico (e

forse anche il più importante): un

triangolare tra la rappresentativa russa e

quella kazaka e noi, l’Italia. Combattemmo a

Mosca ed a Leningrado.

Quello che mi è rimasto impresso di

quella ultima esperienza non furono le

esibizioni ed i combattimenti (con l’effetto

di un dente scheggiato che mi accompagna

ancora oggi), ma il fatto che quella notte mi

addormentai a Leningrado e la mattina

successiva mi svegliai a San Pietroburgo. Lo

scrisse il giornalista sportivo che ci seguiva

in quella esperienza, riferendosi al risultato

del referendum popolare sul cambio del

nome della città.

La Russia cambiava, Gorbaciov

imprimeva delle svolte epocali con la sua

“Perestroika”, il teatro internazionale stava

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velocemente mutando.

La Mosca che ho conosciuto io in quella

esperienza era quella della gente faceva la

fila dinanzi ai negozi per comprare il pane.

Sono tornato da Mosca ed ho lasciato il

Karatè.

Avevo 21 anni, mi sentivo pronto ad

affrontare la vita ed a non perdere il mio

appuntamento con la Storia.

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L E P U B B L I C A Z I O N I

Per ottenere il tesserino di giornalista

pubblicista avevo già dovuto scrivere su un

quotidiano napoletano molti risultati di gare

ippiche e di arti marziali, ma mi emozionò

a 24 anni vedere pubblicare un mio saggio

su una importante rivista di studi politici.

Era uno scritto sulle prospettive politiche

della unificazione europea ed io mi ero

sbizzarrito nella formulazione di analisi geo

politiche sugli “equilibri della storia”.

In poche parole io dicevo che l’Italia

poteva giocare una partita importante nella

nuova Europa solo se interpretava bene il

suo ruolo di cerniera e ponte sul continente

africano.

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Era stato pubblicato da pochi mesi,

quando mi arrivò un fax da un numero non

identificato scritto in stampatello ed

anonimo. L’ho sempre conservato quel fax:

«Roma 29/09/1995.

Caro Francesco, ho letto con molto interesse

il tuo articolo. I temi sono attuali e ben narrati.

Permettimi alcune considerazioni.

Io credo che noi ci troviamo in una fase

temporale di espansione, in sostanza il medioevo

è alle nostre spalle ed un nuovo rinascimento si

appresta. L’epoca buia dei totalitarismi è stata

sconfitta dallo spirito mercantile dei Medici e

della Lega anseatica, cosicché nuove sintesi

umanistiche sono pronte ed a questo progetto

sono stati convocati gli spiriti liberi del nostro

tempo.

I Portatori del Faro dovettero ritirarsi in

terre vergini, apparentemente sconfitti dalla

Vecchia Europa; (come il Davide della Bibbia)

ma ora ciò che i Portatori del Faro realizzarono

è davanti a noi: una nazione globale, che ha

varcato l’oceano Atlantico per sconfiggere le

dittature escatologiche. E’ il commercio il vero

motore della Civiltà ed è il Banchiere il modello

politico, colui che fa Politica e Cultura, punto di

riferimento intellettuale della Polis.

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A noi interessa l’Europa globale dei

Mercanti, questa è l’Europa rinnovata che ha

spezzato il muro di Berlino.

Per un breve arco di tempo i cattolici sono

stati ignari compagni di strada, ma ora l’opera si

va compiendo ed è venuto il tempo che i

Portatori del faro riprendano il ruolo che dopo il

secolo dei lumi furono costretti ad abbandonare

ritirandosi in terre vergini o su isole desolate.

Nell’Europa rinnovata le zone cerniera non

interessano e sono un ostacolo; in Italia la

vecchia classe politica non era all’altezza, anzi

nemica di questa nuova fase, così è stata

giudicata e condannata.

I nuovi patti sono stati sanciti, i grandi

guasti dei democristiani impediranno a tutta

l’Italia di fare parte della nuova Europa

rinnovata, forse solo una parte di essa sarà

all’altezza di coloro che sono tornati.»

Qualche anno dopo il membro esterno

della commissione di valutazione dell’esame

di Dottorato di Ricerca dell’Università, il

prof. Marcello Gallo, un “mostro sacro” del

Diritto Penale venuto per l’occasione da

Torino, durante il colloquio mi disse più o

meno così: “Caro dottore, c’è una sola cosa che

io non ammetto, ed è quando qualcuno scrive

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cose palesemente false sul proprio curriculum

vitae e sfortunatamente per lei io sono abbonato

alla rivista su cui lei millanta di aver scritto quel

saggio. E si da il caso che proprio quello scritto

l’ho notato, letto e riletto…”

Io continuavo a guardarlo incredulo e

con aria innocentemente trionfante ed

orgogliosa di quegli inaspettati

complimenti, e non osavo né volevo

fermarlo o ribattere “Guardi che l’ho scritto

proprio io”. Finché lui ha concluso il nostro

scambio di sguardi dicendo: “Farò molta

fatica a rileggere quel saggio, accettando è

stato scritto da un ragazzino di 24 anni”.

Quell’anno ho anche provato a scrivere

la mia prima fiaba. Mi ero da poco laureato

e mi piaceva l’idea di poter scrivere delle

storie per bambini.

All’epoca mi avrebbe anche fatto piacere

farla illustrare, con dei disegni semplici,

come quelli del Piccolo Principe.

A distanza di un anno l’una dall’altra alla

fine ne ho scritte due. Da poco le ho

ritrovate e rileggendole ho dovuto

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riconoscere quanto siano stati fortunati tutti

quei bambini che hanno potuto vivere una

infanzia felice senza aver avuto l’occasione,

anche solo fortuita, di avere tra le mani

questi due racconti.

PRIMA FIABA: “IL VECCHIO SAGGIO”

C'era una volta...

un bambino di nome Dodo.

Se qualcuno avesse potuto leggere quel

velo di misteriosa tristezza, che appariva

solo al termine della giornata, passata un pò

come tutte le altre, non avrebbe creduto che

gli occhi di Dodo erano quelli di un

bambino.

Eppure, quando Dodo giocava con gli

altri bambini, la sua allegria e la sua bellezza

erano calamite irresistibili.

Un giorno, carico di quell’entusiasmo

che la vita ama donare a chi nasce e che la

monotonia del nulla tenta continuamente di

affievolire,

Dodo incontrò gli occhi di un vecchio

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saggio.

Aveva la barba ed i capelli lunghi e

bianchi tanto da sembrare una grande

montagna ricoperta di neve.

In cima alla montagna i suoi occhi

brillavano come due meravigliose stelle, e

Dodo, guardandole, sentì quegli strani e

forti brividi che percorrono la schiena dalla

nuca fin dentro ogni vertebra, e che al solo

ricordo ritornano con la stessa intensità.

Stranamente, però, a quella prima

meravigliosa sensazione di gioia subentrò

una morsa dolorosa al cuore, che fece calare

il solito, terribile velo nei suoi occhi. E

questo gli era sempre capitato quando era

solo nel suo letto, mai in presenza di altri.

Allora aprì la bocca e tutto di un fiato,

aggrappandosi alla barba del Vegliardo,

disse: "Quando sono solo, sento uno strano

dolore dentro di me, e la tristezza mi fa

venire le lacrime, mentre senza motivo un

bambino non dovrebbe piangere: non mi

manca nulla e..."

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Si fermò per un istante, poi, lasciando la

barba lunga e bianca, con un filo di voce

continuò dicendo: "...qualche volta penso

che in fondo devo essere molto cattivo,

perchè subito dopo voglio rompere tutti i

miei giocattoli ... e il mio letto ... e la mia

stanza ... e tutta la mia casa ... e le case di

tutti e ..." riprese fiato per continuare, ma

non riuscì a dire nemmeno una parola di

più.

Allora si girò e andò via.

Mentre si allontanava, con passo deciso,

si ricordò improvvisamente che quando

aveva iniziato a parlare al suo fianco c'era il

vecchio saggio dagli occhi come le stelle,

che lo guardava in silenzio con

un'espressione di dolce serenità ed un

sorriso appena visibile sotto la lunga barba.

Tornò di corsa indietro e si fermò

davanti a lui, affannando.

Il Vegliardo stava fissando degli uccelli

che in quel cielo limpido si rincorrevano.

Dodo si sedette accanto a lui ed iniziò a

guardare nella sua stessa direzione.

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"Che belli gli uccelli, che volano liberi"

disse Dodo, subito ripresosi dall'affanno,

"chissà perché loro non hanno i momenti di

tristezza che ho io".

Le parole uscirono dalla bocca del

vecchio saggio come un fiume di lava che

scende lento ed inesorabile dal cratere: "Fin

quando si è in un labirinto, caro Dodo, la

libertà è una parola priva di significato",

disse posando teneramente lo sguardo nei

suoi occhi, "qualsiasi direzione tu prenda, la

via di uscita, ammesso che vi sia, è una sola.

"Il gran numero di strade, che tu vedi, è

solo un'illusione, come è un'illusione la

libertà di scelta fra l'una e l'altra via.

"Ma tu, piccolo mio, riesci a capire che si

tratta di un labirinto" continuò il Vegliardo

"solo quando riesci a venirne fuori, anche

solo per un attimo, ed a guardarlo

dall'esterno".

Poi, alzando di nuovo lo sguardo al cielo

concluse con un tono carico di tutta la forza

di cui è capace la dolcezza: "Coraggio, Dodo,

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un colpo d'ala. Un colpo d'ala!".

Fu una doccia fredda per Dodo, che si

alzò di scatto. Guardò per un attimo ancora

il vecchio saggio, poi con lo sguardo fisso a

terra prese la strada del ritorno.

Le parole di quel vecchio non lo

avevano aiutato a risolvere un bel nulla!

Ma perchè gliene aveva parlato? Perchè

gli aveva confidato quel suo doloroso

segreto? Perchè?

Mentre tornava a casa, mentre ritornava

nel suo piccolo mondo, in un attimo

accadde ciò che non avrebbe mai voluto

accadesse: vide il labirinto.

E capì.

Un anno dopo, da giovane laureato che

si affacciava molto poco timidamente alla

professione forense, avevo ritrovato

nell’archivio di mio padre le carte

processuali di un processo alla “colonna

napoletana” delle Brigate Rosse. Le carte

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raccontavano per filo e per segno le azioni

di sangue, avvenute nel corso degli anni ’80.

Con quei documenti, circa dieci anni

dopo, mio fratello ed io abbiamo scritto un

libro, che è stato anche pubblicato.

In quel periodo, dunque, mi sono

cimentato sulla mia seconda ed ultima fiaba.

SECONDA FIABA: “IL BAMBINO CON

LA FIONDA”

«Dodo aveva incontrato gli occhi del

vecchio saggio.

Quegli occhi, ora, brillavano nel cielo e

facevano sì che non rimanesse mai al buio e

che non si perdesse lungo la strada.

Se poi il cielo nascondeva

dispettosamente le stelle con minacciose

nuvole nere, Dodo poteva sempre dare un

colpo d'ala. Anche questo glielo aveva

insegnato il saggio.

E allora spiccava il volo, superava le

nuvole nere ed arrivava dove l'aria si fa più

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fresca sul volto bagnato e dove il vento fa

delle coccole carezzando dolcemente i

capelli. Così riusciva a ritrovare le sue stelle

che erano sempre lì a sorridergli con

dolcezza.

Ma il colpo d'ala Dodo lo usava anche

quando prendeva una strada nuova, per

vedere dove lo avrebbe condotto e, se finiva

in un labirinto, aveva imparato a cambiare

direzione.

Ogni giorno rappresentava per lui una

nuova avventura.

Imparava a capire ed a conoscere i fiori,

le foreste, gli uccelli ... gli occhi degli

uomini. E scopriva ogni giorno di più da

dove veniva, chi era e dove andava.

Ma, vivendo fuori dei labirinti, Dodo

aveva perso tutti i suoi vecchi amici, e da

quando aveva imparato a dare il colpo d'ala

non aveva più incontrato altri bambini

come lui. E questo lo faceva sentire ancora

molto solo.

Ricordava che una volta, mentre

giocava con le aquile, le aveva sentite

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parlare di altri bambini, che, come lui,

vivevano fuori dei labirinti, ma che si

incontravano difficilmente, poiché gli spazi

lì fuori erano molto, molto grandi.

Un bel giorno Dodo decise di non

aspettare più, e, alzatosi di buon mattino

s'incamminò per andare in cerca di un

nuovo amico.

Giunse in cima ad una collina verde,

dalla quale si vedeva tutta la Città, che dalle

colline circostanti scendeva fin dentro il

mare, mentre il sole timidamente spuntava

dietro al grande vulcano e nell'aria iniziava

a circolare la grande energia che risveglia la

natura.

Dodo stava ammirando quello

spettacolo meraviglioso, quando si accorse

della presenza di qualcuno.

Si guardò attorno e vide poco distante

un bambino, che, accovacciato, era intento a

cercare qualcosa tra i rami di un piccolo

alberello appena spezzato.

Gli occhi di Dodo s'illuminarono di

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gioia.

"Ehi bimbo!", gridò correndo verso di

lui, "Posso aiutarti?".

"No!", rispose seccato il bambino senza

distogliere lo sguardo da un piccolo ramo a

forma di "Y", che aveva appena trovato.

Dodo a quella risposta si fermò a

distanza.

Il bambino, ora, era impegnato a legare

un grosso elastico ai due capi della

biforcazione del ramoscello.

Dodo non aveva alcuna intenzione di

lasciarsi scappare quell'occasione: "Cosa stai

costruendo?", chiese, senza avvicinarsi oltre.

"Una fionda, non lo vedi?", rispose il

bambino, che intanto aveva iniziato a

cercare delle pietre adatte alla sua nuova

arma.

"Una fionda? E per farne cosa?", chiese

Dodo preoccupato per i suoi amici uccellini.

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"Lo vedi quel labirinto li giù?", rispose

puntando l'indice verso la Città, che alle

prime luci dell'alba si stava lentamente

svegliando, "Sto andando a distruggerlo". "E

visto che i grandi, che ci vivono dentro sono

vili ed incapaci", continuò con tono che era

stranamente fra il disprezzo e l'esaltazione, "

vi andrò io al centro ed ucciderò con la mia

fionda il mostro che l'ha costruito".

Dodo si era chiesto qualche volta chi

fosse il costruttore dei labirinti, ma, tra le

varie ipotesi che aveva fatto, non aveva mai

pensato ad un mostro, tipo quelli che

vengono descritti nelle favole, e comunque

quello era il momento meno adatto per

pensarci. Era molto emozionato per aver

sentito quel bambino parlare di labirinto,

perchè per lui significava una sola cosa: "Hai

incontrato anche tu il vecchio saggio?", gli

chiese con voce che nascondeva appena

l'emozione.

"Cosa? Quale vecchio?", rispose il

bambino, continuando a guardare quella

Città illuminata dal sole che fra poco

sarebbe andato a distruggere.

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"Ma come? ... il saggio ... gli occhi ... le

stelle ... il colpo d'ala ... andiamo insieme a

giocare con gli uccelli?", disse confusamente

Dodo.

Il bambino con la fionda, sentendo

Dodo pronunciare parole prive di un filo

logico e per lui anche di significato, si voltò

e per la prima volta da quando erano vicini i

suoi occhi incontrarono quelli di Dodo.

Erano opachi, pieni di odio e gonfi di

disprezzo: vuoti.

"Ma cosa dici? Tu sei un pazzo!". E detto

questo si girò e si mise a correre giù per la

collina verso la Città, con la sua fionda ben

stretta nella mano sinistra e le pietre

bianche nella destra.

Dodo non tentò di fermarlo. Rimase lì

muto, immobile, come se stesse ancora

ascoltando l'eco di quelle parole dure e

fredde. Nel suo campo visivo il bambino era

ormai un puntino nero, che si avvicinava

sempre più al suo labirinto.

Nell'istante in cui il bambino con la

fionda entrava nella Città, Dodo si riprese

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da quello strano torpore in cui era caduto e

provò un leggero rimorso.

Avrebbe potuto dirgli che al centro del

labirinto non avrebbe trovato alcun mostro.

Dodo, lì, c'era già stato.

Il bambino con la fionda avrebbe

trovato solo un grande specchio.»

Quelli che conoscono la tematica

terroristica, ritroveranno facilmente lo

spunto del racconto nel libro di un militante

dissociato proprio delle BR, che usò il

paragone di Teseo ed il Minotauro, nella sua

riflessione.

Poi, per il servizio di leva, mi sono

arruolato nei Carabinieri, come Ausiliare, ed

ho lasciato perdere anche le fiabe. E, come

ho già detto, fortunatamente per i bambini,

non ho mai più ripreso a scriverle.

Ma per le pubblicazioni in generale

mentirei se dicessi che ho lasciato del tutto.

In fondo scrivere mi piace. Ed ogni tanto ho

continuato a mandare articoli dall’Africa e

sull’Africa a quotidiani italiani, troppo poco

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interessati al continente nero. Li hanno

pubblicati a firma di uno pseudonimo, che

non posso ancora rivelare.

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G I U S E P P E R A S S E L L O

Mi capita spesso di sentire parlare del

Potere, alle volte come una specie di

mostro.

Durante la mia infanzia mi hanno

insegnato che i mostri sono solo frutto della

nostra mente, che recepisce le nostre paure

inconsce. Ma allora che cosa è il Potere.

“Potere” per sua natura è un verbo, esso

va dunque coniugato. Il verbo è al servizio

del soggetto ed il concetto si sviluppa da

solo: io posso, tu puoi, egli può ... e così via.

Quando noi sostantiviamo l’infinito “Il

potere”, esso stesso può divenire il soggetto

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della frase e dunque può diventare

protagonista. E’ una semplice operazione

grammaticale, frutto della nostra mente.

Ma, come tutto ciò che è razionale può

determinare una patologia terminologica

e/o sostanziale.

La patologia nasce quando si cristallizza

questa inversione di ruoli. Per cui chi

dovrebbe essere al servizio (in questo caso il

verbo) finisce per essere servito, mentre chi

dovrebbe essere servito (il soggetto) finisce

per servire.

Poi qualcuno nel corso della storia ha

creato, con il pensiero, le condizioni perché

questo “strumento” avesse una propria

autonomia strutturale, il Potere è stato

dotato di un proprio DNA in grado di

regolarne la crescita e l’auto-conservazione.

Si sono così venute a creare delle regole

sempre più perfette all’interno di questo

corpo, che rimane però incapace di divenire

un organismo vivente, avendo bisogno per

poter vivere dei veri soggetti (gli uomini), i

quali “gestendolo” in realtà lo servono.

Infatti, per poter muovere questo corpo

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bisogna rispettarne le leggi, ormai

cristallizzate dalla storia e dalla pseudo-

cultura.

Mi piaceva ragionare di questi concetti

con Giuseppe Rassello, un uomo

eccezionale. Per esempio lui parlava spesso

di un altro concetto: il Sistema.

L’origine del termine, come spesso

accade, è greca, dove “tema” vuol dire un

insieme (concetto matematico) di cose e sys

(in greco si legge sius) vuole dire mettere

insieme. Quindi il sistema è l’insieme degli

insiemi.

Applicato alla società in cui viviamo, il

sistema è la gestione dell’equilibrio delle

diverse realtà. E se le realtà rappresentano

un potere, il sistema è la gestione del potere

che mette insieme i poteri. Diceva Rassello

che quando arrivi a toccare il Sistema, ti

trovi accerchiato ed attaccato da tutto

l’insieme di poteri, che per istinto di

conservazione ti distruggono. E lui lo ha

fatto.

Giuseppe Rassello era nato a Procida nel

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1950, rimasto orfano con il fratello più

piccolo, entrato giovanissimo in seminario è

diventato sacerdote. Una profonda

conoscenza del greco antico e del latino.

Una grande cultura, esperto in archeologia e

conoscitore dei labirinti.

Quando non insegnava al liceo e non si

occupava della sua parrocchia nel quartiere

della Sanità nel cuore di Napoli, Giuseppe

studiava, leggeva. Notti intere. Nella sua

biblioteca fatta di libri antichi e manoscritti

trovati e comprati qua e là.

Io l’ho conosciuto il giorno in cui fu

arrestato, nell’estate del 1991. Accusa

infamante quella contro di lui. All’inizio lo

guardavo con diffidenza, ma poi il giudice

decise di mandarlo agli arresti domiciliari a

casa del suo avvocato, mio padre. E

dividemmo la mia stanza per mesi. Ne

nacque un’amicizia profonda durata 9 anni.

Il giorno che lui morì io ero in Marocco.

Una telefonata di mia madre in piena notte:

“Giuseppe è morto”. Lo ha stroncato un

cancro ai polmoni. Quella malattia la cui

origine è troppo spesso legata a dolori

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profondi che non si riescono a superare.

La fine di un calvario che durava

ancora. Quel processo infinito. La sua parola

contro quella di un adolescente, accolto ed

accudito da altri preti.

In Africa si attribuisce tutto al Destino.

Io non so se è così, ma certo è che mentre

scrivevo queste pagine ho ricevuto una

telefonata dall’Italia. Mi hanno detto che il

prete che accolse il ragazzo in seminario è

appena morto, tranciato dalle eliche di un

motoscafo al largo di Capri.

Giuseppe andava ogni anno a portare i

fiori a Ravenna, sulla tomba di quello che

considerava il più grande di tutti: Dante

Alighieri. Si commuoveva sulla sua tomba e

non gli piaceva come veniva curata. I fiori

non erano mai freschi. Poiché me ne

parlava in quel modo, mi sono deciso ad

andare anche io. E mi sono commosso.

Qualche giorno prima di morire mi

chiamò. Andai da lui. Era divorato dal

cancro, seduto sulla sedia a rotelle. Mi ha

consegnato una selezione di carte e

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documenti e lettere e memoriali. Mi ha

detto: “Franchetiell’ (era il modo affettuoso

in napoletano stretto con cui mi chiamava,

N.d.A.), tu dovrai scrivere la mia storia e la

verità di quello che è successo in quel

processo. Dovrai togliermi l’infamia che mi

hanno affibbiato addosso”.

Glie l’ho promesso. E lo farò. Ma non

ancora.

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I L T R I B U N A L E

Mio padre mi ha sempre raccontato che

da piccolissimo un giorno andai nella sua

stanza, e, mentre si radeva, con aria

innocente gli ho chiesto: “Papà, ma quando

morirai, potrò prendere io la tua borsa?”.

Mi riferivo a quella da tribunale, che

portava sempre con sé quando usciva la

mattina per andare al lavoro.

Lui, da buon napoletano scaramantico

mi ha risposto con la prontezza del penalista

navigato e di successo: “Facciamo così, io te

la regalo subito e ne compro un’altra per

me, va bene?”.

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E’ stato più o meno così che mi sono

trovato la strada spianata per la professione

forense di penalista. Frequentavo le aule di

giustizia di processi che finivano sui

giornali, prima ancora di terminare la

Facoltà di Giurisprudenza della “Federico

II”, l’Università di Napoli fondata nel 1242

dall’illuminato re normanno.

Poi quasi dieci anni nelle aule di

giustizia interpretando la professione da

karateka: la giacca e la cravatta al posto del

bianco kimono, le aule di tribunale al posto

del tatami. Ma anche l’esperienza del caso

Rassello come una bussola nella giungla

degli operatori della giustizia.

Ed ho continuato ad interpretare la vita

come un combattimento. Ogni persona che

incontravo era un avversario, ogni causa

una lotta, ogni arringa uno sfogo di

adrenalina.

Ho ritenuto di essere al centro del

mondo e, non mi vergogno a dirlo, tutto

sembrava confermarmelo… grandi battaglie

legali, processi importanti, la stampa, i

colleghi, l’università, gli incontri politici.

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Avevo innalzato la mia esperienza

forense ad una specie di missione

sovrannaturale. Mi sentivo come Enjorras (il

protagonista del Capitolo “I ragazzi

dell’ABC” nel romanzo di Victor Hugo, I

Miserabili, N.d.A.), un sacerdote del Diritto.

Il mio motto era “il diritto, l’unica difesa

dei deboli contro gli abusi del Potere”.

Ma avevo, nei momenti di lucidità, un

pensiero ricorrente: Il Piccolo Principe, che

diceva più o meno così, “Quando

incontravo una persona che mi sembrava

adatta le facevo vedere il mio disegno

numero 1 (il pitone che aveva ingerito un

elefante, N.d.A.) e se mi rispondeva che era

un cappello, deluso, non parlavo dei baobab

o delle stelle, ma mi abbassavo al suo livello

e parlavo di affari, di politica, di bridge…”

Ricordo, come fosse ieri, l’ultima

arringa che ho pronunciato in tribunale. Era

un processo per corruzione a carico di

alcuni componenti della Polizia Stradale,

accusati di imporre pagamenti indebiti ai

conducenti dei carri di soccorso stradale. Di

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solito me la cavavo bene, qualcuno veniva

anche ad ascoltare le mie arringhe

appassionate. Quella ultima volta fu un

disastro. I clienti mi guardavano

preoccupati, persino i giudici erano

imbarazzati. Uscendo dall’aula ho solo avuto

la forza di ripetere a bassa voce: “Non ci

credo più. Mi dispiace, ma non ci credo

più…” .

Avevo già lasciato Napoli, era il 2002.

Vivevo a Roma. Presi la macchina e

guidando sull’autostrada continuavo a

ripetere la stessa frase.

Finché non sono arrivato a casa. Mi

sono sdraiato sul letto, ho spento il cellulare

ed ho pianto. L’edificio che avevo tanto

faticosamente costruito si era dissolto, come

un castello di sabbia all’arrivo di un onda del

mare.

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L'A F R I C A

In principio non pensavo che la

passione per l’Africa avrebbe fatto prendere

alla mia vita una direzione così diversa.

Avevo cambiato professione. Sempre

avvocato, ma non più combattente penalista

di prima linea in tribunale, bensì

consulente, specializzato in diritto

internazionale ed in sviluppo di business.

Inizialmente ho vissuto l’esperienza

dell’associazione degli Avvocati senza

Frontiere. Da segretario generale ho

partecipato a diverse sessioni internazionali

di un certo prestigio, che mi hanno

arricchito e non solo professionalmente. Ho

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potuto seguire processi in paesi difficili e

tanto diversi. La Cina, la Turchia e poi il

Mali, lo Yemen, la Grecia, gli Stati Uniti, il

Brasile, la Tailandia, la Russia, la Libia, il

Kuwait.

L’esperienza più difficile però è stata

quella in Iraq, nel 2003. Finita la guerra, per

una strana combinazione del destino, sono

stato nominato advisor del Governo

Provvisorio iracheno, guidato da Paul

Bremer. A Bagdad c’erano carri armati

ovunque. Per proteggerci ce ne era uno

anche fuori l’albergo dove alloggiavamo.

Cecchini pronti a far fuoco appostati sui

palazzi dirupati colpiti dai bombardamenti,

posti di blocco con soldati armati fino ai

denti.

E poi l’Africa!

Un continente così grande, uccelli così

grandi, animali ed insetti così grandi, grandi

problemi ed una cultura così diversa. Ma

tutto così familiare.

Io ho iniziato la mia esperienza ad

Addis Abeba, sull’altopiano etiope. Le

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passeggiate a cavallo a quelle altitudini sono

il ricordo più ricco di emozioni che mi

accompagna. Poi sono andato a vivere,

come ho già detto, a Nairobi in Kenya.

Nel dicembre del 2007 a seguito delle

elezioni è scoppiata una guerra civile, noi

siamo stati costretti a rimanere chiusi nelle

nostre case con cibo e rifornimenti. Ma il

primo gennaio del 2008 ho dovuto fare uno

strappo alla regola del coprifuoco...mentre

sparavano per le strade della città, io stavo

per diventare padre di Ascanio.

Ma ero padre per la seconda volta,

perché quando sono rientrato in Italia,

Giulia aveva da poco compiuto 18 anni ed

ora poteva finalmente decidere da sola se

fare le analisi per accertare la mia paternità.

Il giorno del risultato delle analisi è stato

uno dei giorni più luminosi della mia vita. E

da un giorno all’altro ho iniziato a fare il

padre di una giovane donna.

F I N E

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