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2
Table of contents
Un'introduzione necessaria
Il Karatè
Le pubblicazioni
Giuseppe Rassello
Il Tribunale
L'Africa
3
U N ' I N T R O D U Z I O N EN E C E S S A R I A
Quando ho preso la decisione di
trasferirmi a vivere a Nairobi, in Kenya,
nell’Africa Sub Sahariana, quella vera e nera,
mio padre era deluso di questa scelta.
A muso duro mi ha detto: "Il tuo
problema è sempre stato e continua ad essere lo
stesso! E’ da quando eri piccino che ogni volta che
inizi qualcosa riesci sempre a farla e… devo
ammettere, anche bene.
Poi però, quando sei arrivato molto vicino a
completarla, allora riesci sempre a distruggere
tutto, e vuoi ricominciare una cosa nuova,
completamente daccapo…”.
4
Allora gli ho risposto che la vedevo
come una cosa positiva e che il motivo era
che mi piacevano le sfide nuove da
affrontare e che questo doveva solo renderlo
orgoglioso di me. Lui mi ha risposto:
“Guarda che un uomo si misura anche sulla
capacità di consolidare la posizione, non solo su
quella di costruire cose nuove”.
E poi la sentenza: “Le persone che credono
in te e che ti hanno appoggiato o ti hanno
sostenuto durante i vari percorsi che hai fatto
finora vedono solo che all’improvviso molli tutto
e te ne vai…e questo è tradimento”.
Naturalmente ho riflettuto molto su
queste parole così forti e così abituali per un
uomo come mio padre.
In realtà la vita mi piace, è veramente
bella da conoscere e da vivere, in ogni sua
componente.
Noi, donne e uomini, amiamo creare i
"sistemi", piccoli o grandi che siano, e
chiuderci nel nostro piccolo labirinto,
vivendo tranquilli con il nostro equilibrio
5
personale e sociale. Consolidare la nostra
posizione nell’ambiente in cui viviamo,
lavoriamo, amiamo, possediamo.
A me da piccolo piaceva immaginare di
poter vivere un pochino di ogni micro
mondo prima di poter scegliere di crearmi il
mio.
Oggi, però, a quarant’anni ho visto che
non ho più voglia di crearmi un micro
mondo nel quale rinchiudermi e allora mi
sto rassegnando sempre più all’idea che
forse sono e sarò sempre un perdente.
6
I L K A R AT È
Qualcuno mi definisce un combattente.
E’ una definizione ricorrente nella mia vita.
E forse lo sono.
Quando mia madre decise che all’età di
dodici anni era assolutamente necessario
iscrivermi ad una palestra dove insegnavano
il karatè, ha dato un corso diverso alla mia
formazione ed alla mia vita.
Detta così sembra un passo affascinante,
ma la motivazione non era poi così poetica:
il mio professore di scuola aveva suggerito
tale scelta a mia madre per insegnarmi un
po’ di autodisciplina, essendo troppo
violento e aggressivo con i compagni di
7
scuola. E mia madre concordò con lui,
poiché a casa facevo lo stesso con i miei
fratelli più piccoli.
E così sono diventato un agonista del
kumitè, il combattimento dell’arte marziale
che affascina ancora i bambini di ogni età.
Il nome del mio Maestro è ancora oggi
difficile da dimenticare: Isidoro, come il
famoso gatto delle vignette e dei cartoni
animati, e Volpe di cognome.
E’ stato per me un grande Maestro.
Ora mi hanno detto che si è ritirato, ma
aveva anche pubblicato un libro sulle
tecniche di proiezione degli avversari, in
sostanza come fare volare per aria una
persona con le leve del corpo.
Mi ha insegnato come attaccare e come
difendermi sul tappeto da combattimento, il
Tatami. Mi ha fatto studiare le tecniche e la
gestualità degli avversari, mi ha insegnato ad
intuire il loro coraggio, e la loro paura. Ho
imparato a leggere i pensieri che scorrevano
nei loro occhi, il ritmo del loro respiro, i
battiti del loro cuore… per dieci anni
8
finquando sono arrivato a conquistare la
cintura nera.
Nella mia formazione dell’epoca ha
trovato posto un articolo di una rivista di
arti marziali che ricordo ancora. Diceva: “I
pensieri devono fluire nella mente, ma lo spirito
non deve fissarli. Come l’acqua di un fiume che
scorre senza fermarsi. E’ la via per giungere al
Mokuso, al Vuoto Mentale. E’ quello il solo
momento in cui si può combattere veramente”.
L’articolo proseguiva così: “L’unica vera
guardia è non avere guardia. L’unico vero
pensiero è il non pensare. La vera vittoria è il
non combattere. Se guarderai il tuo nemico egli si
impadronirà della tua mente. Se guarderai la sua
spada ti ucciderà. Se penserai al suo attacco sei
sconfitto. Il solo modo di vincere è il non agire.
L’azione deve scaturire dallo spirito, non dal
corpo”.
Interpretato in modo
adolescenzialmente estremista, nel mio
vissuto questo ha significato raggiungere
anche un vuoto di spirito.
La ricerca del momento per combattere
mi ha nel tempo portato all’estremo di un
9
vuoto anche emozionale. Una apatia nei
confronti di tutti gli altri. E, soprattutto, mi
ha fatto interpretare gli anni successivi della
mia vita come uno scontro permanente con
tutto e tutti.
Per molti, in realtà, la crescita personale
si ferma ad uno stadio simile a quello
appena descritto. E la vita viene interpretata
come una continua gara con se stessi e gli
altri.
A me, però, è piaciuto pensare che era
possibile fare uno sforzo ulteriore di
crescita.
Un mio caro amico ultimamente mi ha
detto che il progresso dell’Umanità nasce da
continui scontri (semplicemente la teoria
della tesi e dell’antitesi hegeliane). E che, in
fondo, questa sarebbe la Vita.
A me, però, piace pensare che non sia
così.
E’ vero che è la vittoria quella che
conta… ma la vera vittoria è il non
combattere.
10
Ho risposto a questo mio amico che la
mia riflessione da un po’ di tempo a questa
parte si era spostata dal fine ai mezzi.
In sostanza ho sostenuto che un uomo
va giudicato per il modo in cui ha
perseguito il suo fine, e non se lo ha
raggiunto o meno.
Questa prospettiva ancora oggi mi
affascina tanto, ma è difficile da sostenere
perché, di solito, la storia non la scrivono i
perdenti ma i vincitori, cioè quelli che il fine
lo hanno comunque e in qualche modo
raggiunto.
Il mio amico quella volta mi ha sorriso.
E mi ha dato dell’illuso. Come se fosse stata
una tesi alquanto ridicola.
Le illusioni, o come le chiama lui, io,
però, le chiamo speranze. E come sarebbe
un mondo fatto di uomini senza speranze?
Un ricordo che mi è rimasto dei tre
giorni a settimana di faticosi allenamenti in
palestra è legato agli odori. Non mi riferisco
11
a quelli (o almeno non solo a quelli) difficili
da digerire dei ritardatari che non si
lavavano i piedi dopo aver camminato per
un’intera giornata con calzini e scarpe da
ginnastica. Mi riferisco, piuttosto, agli oli
canforati che i più diligenti ed appassionati
professionisti delle arti marziali si passavano
sui muscoli prima dell’allenamento
all’interno dello spogliatoio. Karatè vuol
dire “mano aperta” e quei riti così orientali
che mi affascinavano tanto, di cura del
proprio corpo, corrispondevano a quello dei
cavalieri medioevali che prima di una sfida
affilavano le spade ed ungevano le pesante
armature di ferro. Crema sui capelli e
kimono inamidato e stirato di tutto punto. Il
kimono merita qualche parola in più.
E’ fatto di cotone molto spesso e doppio
e viene trattato in modo tale da diventare di
un bianco quasi lucido. Il tessuto è rigido in
modo che strusciando ad ogni colpo inferto
provoca l’effetto sonoro di un fendente che
taglia anche l’aria. Unito al kiai (l’urlo
gutturale soffocato del karateka che
colpisce) sul viso volutamente inespressivo e
controllato incute negli spettatori un
sentimento di timoroso rispetto per il
12
combattente che si esibisce.
Comunque ad un certo punto ho avuto
il rigetto del karatè, e mi sono ritirato. Ed ho
abbandonato l’agonismo sportivo.
Era il giugno del 1991 quando ho
affrontato l’ultimo impegno agonistico (e
forse anche il più importante): un
triangolare tra la rappresentativa russa e
quella kazaka e noi, l’Italia. Combattemmo a
Mosca ed a Leningrado.
Quello che mi è rimasto impresso di
quella ultima esperienza non furono le
esibizioni ed i combattimenti (con l’effetto
di un dente scheggiato che mi accompagna
ancora oggi), ma il fatto che quella notte mi
addormentai a Leningrado e la mattina
successiva mi svegliai a San Pietroburgo. Lo
scrisse il giornalista sportivo che ci seguiva
in quella esperienza, riferendosi al risultato
del referendum popolare sul cambio del
nome della città.
La Russia cambiava, Gorbaciov
imprimeva delle svolte epocali con la sua
“Perestroika”, il teatro internazionale stava
13
velocemente mutando.
La Mosca che ho conosciuto io in quella
esperienza era quella della gente faceva la
fila dinanzi ai negozi per comprare il pane.
Sono tornato da Mosca ed ho lasciato il
Karatè.
Avevo 21 anni, mi sentivo pronto ad
affrontare la vita ed a non perdere il mio
appuntamento con la Storia.
14
L E P U B B L I C A Z I O N I
Per ottenere il tesserino di giornalista
pubblicista avevo già dovuto scrivere su un
quotidiano napoletano molti risultati di gare
ippiche e di arti marziali, ma mi emozionò
a 24 anni vedere pubblicare un mio saggio
su una importante rivista di studi politici.
Era uno scritto sulle prospettive politiche
della unificazione europea ed io mi ero
sbizzarrito nella formulazione di analisi geo
politiche sugli “equilibri della storia”.
In poche parole io dicevo che l’Italia
poteva giocare una partita importante nella
nuova Europa solo se interpretava bene il
suo ruolo di cerniera e ponte sul continente
africano.
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Era stato pubblicato da pochi mesi,
quando mi arrivò un fax da un numero non
identificato scritto in stampatello ed
anonimo. L’ho sempre conservato quel fax:
«Roma 29/09/1995.
Caro Francesco, ho letto con molto interesse
il tuo articolo. I temi sono attuali e ben narrati.
Permettimi alcune considerazioni.
Io credo che noi ci troviamo in una fase
temporale di espansione, in sostanza il medioevo
è alle nostre spalle ed un nuovo rinascimento si
appresta. L’epoca buia dei totalitarismi è stata
sconfitta dallo spirito mercantile dei Medici e
della Lega anseatica, cosicché nuove sintesi
umanistiche sono pronte ed a questo progetto
sono stati convocati gli spiriti liberi del nostro
tempo.
I Portatori del Faro dovettero ritirarsi in
terre vergini, apparentemente sconfitti dalla
Vecchia Europa; (come il Davide della Bibbia)
ma ora ciò che i Portatori del Faro realizzarono
è davanti a noi: una nazione globale, che ha
varcato l’oceano Atlantico per sconfiggere le
dittature escatologiche. E’ il commercio il vero
motore della Civiltà ed è il Banchiere il modello
politico, colui che fa Politica e Cultura, punto di
riferimento intellettuale della Polis.
16
A noi interessa l’Europa globale dei
Mercanti, questa è l’Europa rinnovata che ha
spezzato il muro di Berlino.
Per un breve arco di tempo i cattolici sono
stati ignari compagni di strada, ma ora l’opera si
va compiendo ed è venuto il tempo che i
Portatori del faro riprendano il ruolo che dopo il
secolo dei lumi furono costretti ad abbandonare
ritirandosi in terre vergini o su isole desolate.
Nell’Europa rinnovata le zone cerniera non
interessano e sono un ostacolo; in Italia la
vecchia classe politica non era all’altezza, anzi
nemica di questa nuova fase, così è stata
giudicata e condannata.
I nuovi patti sono stati sanciti, i grandi
guasti dei democristiani impediranno a tutta
l’Italia di fare parte della nuova Europa
rinnovata, forse solo una parte di essa sarà
all’altezza di coloro che sono tornati.»
Qualche anno dopo il membro esterno
della commissione di valutazione dell’esame
di Dottorato di Ricerca dell’Università, il
prof. Marcello Gallo, un “mostro sacro” del
Diritto Penale venuto per l’occasione da
Torino, durante il colloquio mi disse più o
meno così: “Caro dottore, c’è una sola cosa che
io non ammetto, ed è quando qualcuno scrive
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cose palesemente false sul proprio curriculum
vitae e sfortunatamente per lei io sono abbonato
alla rivista su cui lei millanta di aver scritto quel
saggio. E si da il caso che proprio quello scritto
l’ho notato, letto e riletto…”
Io continuavo a guardarlo incredulo e
con aria innocentemente trionfante ed
orgogliosa di quegli inaspettati
complimenti, e non osavo né volevo
fermarlo o ribattere “Guardi che l’ho scritto
proprio io”. Finché lui ha concluso il nostro
scambio di sguardi dicendo: “Farò molta
fatica a rileggere quel saggio, accettando è
stato scritto da un ragazzino di 24 anni”.
Quell’anno ho anche provato a scrivere
la mia prima fiaba. Mi ero da poco laureato
e mi piaceva l’idea di poter scrivere delle
storie per bambini.
All’epoca mi avrebbe anche fatto piacere
farla illustrare, con dei disegni semplici,
come quelli del Piccolo Principe.
A distanza di un anno l’una dall’altra alla
fine ne ho scritte due. Da poco le ho
ritrovate e rileggendole ho dovuto
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riconoscere quanto siano stati fortunati tutti
quei bambini che hanno potuto vivere una
infanzia felice senza aver avuto l’occasione,
anche solo fortuita, di avere tra le mani
questi due racconti.
PRIMA FIABA: “IL VECCHIO SAGGIO”
C'era una volta...
un bambino di nome Dodo.
Se qualcuno avesse potuto leggere quel
velo di misteriosa tristezza, che appariva
solo al termine della giornata, passata un pò
come tutte le altre, non avrebbe creduto che
gli occhi di Dodo erano quelli di un
bambino.
Eppure, quando Dodo giocava con gli
altri bambini, la sua allegria e la sua bellezza
erano calamite irresistibili.
Un giorno, carico di quell’entusiasmo
che la vita ama donare a chi nasce e che la
monotonia del nulla tenta continuamente di
affievolire,
Dodo incontrò gli occhi di un vecchio
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saggio.
Aveva la barba ed i capelli lunghi e
bianchi tanto da sembrare una grande
montagna ricoperta di neve.
In cima alla montagna i suoi occhi
brillavano come due meravigliose stelle, e
Dodo, guardandole, sentì quegli strani e
forti brividi che percorrono la schiena dalla
nuca fin dentro ogni vertebra, e che al solo
ricordo ritornano con la stessa intensità.
Stranamente, però, a quella prima
meravigliosa sensazione di gioia subentrò
una morsa dolorosa al cuore, che fece calare
il solito, terribile velo nei suoi occhi. E
questo gli era sempre capitato quando era
solo nel suo letto, mai in presenza di altri.
Allora aprì la bocca e tutto di un fiato,
aggrappandosi alla barba del Vegliardo,
disse: "Quando sono solo, sento uno strano
dolore dentro di me, e la tristezza mi fa
venire le lacrime, mentre senza motivo un
bambino non dovrebbe piangere: non mi
manca nulla e..."
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Si fermò per un istante, poi, lasciando la
barba lunga e bianca, con un filo di voce
continuò dicendo: "...qualche volta penso
che in fondo devo essere molto cattivo,
perchè subito dopo voglio rompere tutti i
miei giocattoli ... e il mio letto ... e la mia
stanza ... e tutta la mia casa ... e le case di
tutti e ..." riprese fiato per continuare, ma
non riuscì a dire nemmeno una parola di
più.
Allora si girò e andò via.
Mentre si allontanava, con passo deciso,
si ricordò improvvisamente che quando
aveva iniziato a parlare al suo fianco c'era il
vecchio saggio dagli occhi come le stelle,
che lo guardava in silenzio con
un'espressione di dolce serenità ed un
sorriso appena visibile sotto la lunga barba.
Tornò di corsa indietro e si fermò
davanti a lui, affannando.
Il Vegliardo stava fissando degli uccelli
che in quel cielo limpido si rincorrevano.
Dodo si sedette accanto a lui ed iniziò a
guardare nella sua stessa direzione.
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"Che belli gli uccelli, che volano liberi"
disse Dodo, subito ripresosi dall'affanno,
"chissà perché loro non hanno i momenti di
tristezza che ho io".
Le parole uscirono dalla bocca del
vecchio saggio come un fiume di lava che
scende lento ed inesorabile dal cratere: "Fin
quando si è in un labirinto, caro Dodo, la
libertà è una parola priva di significato",
disse posando teneramente lo sguardo nei
suoi occhi, "qualsiasi direzione tu prenda, la
via di uscita, ammesso che vi sia, è una sola.
"Il gran numero di strade, che tu vedi, è
solo un'illusione, come è un'illusione la
libertà di scelta fra l'una e l'altra via.
"Ma tu, piccolo mio, riesci a capire che si
tratta di un labirinto" continuò il Vegliardo
"solo quando riesci a venirne fuori, anche
solo per un attimo, ed a guardarlo
dall'esterno".
Poi, alzando di nuovo lo sguardo al cielo
concluse con un tono carico di tutta la forza
di cui è capace la dolcezza: "Coraggio, Dodo,
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un colpo d'ala. Un colpo d'ala!".
Fu una doccia fredda per Dodo, che si
alzò di scatto. Guardò per un attimo ancora
il vecchio saggio, poi con lo sguardo fisso a
terra prese la strada del ritorno.
Le parole di quel vecchio non lo
avevano aiutato a risolvere un bel nulla!
Ma perchè gliene aveva parlato? Perchè
gli aveva confidato quel suo doloroso
segreto? Perchè?
Mentre tornava a casa, mentre ritornava
nel suo piccolo mondo, in un attimo
accadde ciò che non avrebbe mai voluto
accadesse: vide il labirinto.
E capì.
Un anno dopo, da giovane laureato che
si affacciava molto poco timidamente alla
professione forense, avevo ritrovato
nell’archivio di mio padre le carte
processuali di un processo alla “colonna
napoletana” delle Brigate Rosse. Le carte
23
raccontavano per filo e per segno le azioni
di sangue, avvenute nel corso degli anni ’80.
Con quei documenti, circa dieci anni
dopo, mio fratello ed io abbiamo scritto un
libro, che è stato anche pubblicato.
In quel periodo, dunque, mi sono
cimentato sulla mia seconda ed ultima fiaba.
SECONDA FIABA: “IL BAMBINO CON
LA FIONDA”
«Dodo aveva incontrato gli occhi del
vecchio saggio.
Quegli occhi, ora, brillavano nel cielo e
facevano sì che non rimanesse mai al buio e
che non si perdesse lungo la strada.
Se poi il cielo nascondeva
dispettosamente le stelle con minacciose
nuvole nere, Dodo poteva sempre dare un
colpo d'ala. Anche questo glielo aveva
insegnato il saggio.
E allora spiccava il volo, superava le
nuvole nere ed arrivava dove l'aria si fa più
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fresca sul volto bagnato e dove il vento fa
delle coccole carezzando dolcemente i
capelli. Così riusciva a ritrovare le sue stelle
che erano sempre lì a sorridergli con
dolcezza.
Ma il colpo d'ala Dodo lo usava anche
quando prendeva una strada nuova, per
vedere dove lo avrebbe condotto e, se finiva
in un labirinto, aveva imparato a cambiare
direzione.
Ogni giorno rappresentava per lui una
nuova avventura.
Imparava a capire ed a conoscere i fiori,
le foreste, gli uccelli ... gli occhi degli
uomini. E scopriva ogni giorno di più da
dove veniva, chi era e dove andava.
Ma, vivendo fuori dei labirinti, Dodo
aveva perso tutti i suoi vecchi amici, e da
quando aveva imparato a dare il colpo d'ala
non aveva più incontrato altri bambini
come lui. E questo lo faceva sentire ancora
molto solo.
Ricordava che una volta, mentre
giocava con le aquile, le aveva sentite
25
parlare di altri bambini, che, come lui,
vivevano fuori dei labirinti, ma che si
incontravano difficilmente, poiché gli spazi
lì fuori erano molto, molto grandi.
Un bel giorno Dodo decise di non
aspettare più, e, alzatosi di buon mattino
s'incamminò per andare in cerca di un
nuovo amico.
Giunse in cima ad una collina verde,
dalla quale si vedeva tutta la Città, che dalle
colline circostanti scendeva fin dentro il
mare, mentre il sole timidamente spuntava
dietro al grande vulcano e nell'aria iniziava
a circolare la grande energia che risveglia la
natura.
Dodo stava ammirando quello
spettacolo meraviglioso, quando si accorse
della presenza di qualcuno.
Si guardò attorno e vide poco distante
un bambino, che, accovacciato, era intento a
cercare qualcosa tra i rami di un piccolo
alberello appena spezzato.
Gli occhi di Dodo s'illuminarono di
26
gioia.
"Ehi bimbo!", gridò correndo verso di
lui, "Posso aiutarti?".
"No!", rispose seccato il bambino senza
distogliere lo sguardo da un piccolo ramo a
forma di "Y", che aveva appena trovato.
Dodo a quella risposta si fermò a
distanza.
Il bambino, ora, era impegnato a legare
un grosso elastico ai due capi della
biforcazione del ramoscello.
Dodo non aveva alcuna intenzione di
lasciarsi scappare quell'occasione: "Cosa stai
costruendo?", chiese, senza avvicinarsi oltre.
"Una fionda, non lo vedi?", rispose il
bambino, che intanto aveva iniziato a
cercare delle pietre adatte alla sua nuova
arma.
"Una fionda? E per farne cosa?", chiese
Dodo preoccupato per i suoi amici uccellini.
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"Lo vedi quel labirinto li giù?", rispose
puntando l'indice verso la Città, che alle
prime luci dell'alba si stava lentamente
svegliando, "Sto andando a distruggerlo". "E
visto che i grandi, che ci vivono dentro sono
vili ed incapaci", continuò con tono che era
stranamente fra il disprezzo e l'esaltazione, "
vi andrò io al centro ed ucciderò con la mia
fionda il mostro che l'ha costruito".
Dodo si era chiesto qualche volta chi
fosse il costruttore dei labirinti, ma, tra le
varie ipotesi che aveva fatto, non aveva mai
pensato ad un mostro, tipo quelli che
vengono descritti nelle favole, e comunque
quello era il momento meno adatto per
pensarci. Era molto emozionato per aver
sentito quel bambino parlare di labirinto,
perchè per lui significava una sola cosa: "Hai
incontrato anche tu il vecchio saggio?", gli
chiese con voce che nascondeva appena
l'emozione.
"Cosa? Quale vecchio?", rispose il
bambino, continuando a guardare quella
Città illuminata dal sole che fra poco
sarebbe andato a distruggere.
28
"Ma come? ... il saggio ... gli occhi ... le
stelle ... il colpo d'ala ... andiamo insieme a
giocare con gli uccelli?", disse confusamente
Dodo.
Il bambino con la fionda, sentendo
Dodo pronunciare parole prive di un filo
logico e per lui anche di significato, si voltò
e per la prima volta da quando erano vicini i
suoi occhi incontrarono quelli di Dodo.
Erano opachi, pieni di odio e gonfi di
disprezzo: vuoti.
"Ma cosa dici? Tu sei un pazzo!". E detto
questo si girò e si mise a correre giù per la
collina verso la Città, con la sua fionda ben
stretta nella mano sinistra e le pietre
bianche nella destra.
Dodo non tentò di fermarlo. Rimase lì
muto, immobile, come se stesse ancora
ascoltando l'eco di quelle parole dure e
fredde. Nel suo campo visivo il bambino era
ormai un puntino nero, che si avvicinava
sempre più al suo labirinto.
Nell'istante in cui il bambino con la
fionda entrava nella Città, Dodo si riprese
29
da quello strano torpore in cui era caduto e
provò un leggero rimorso.
Avrebbe potuto dirgli che al centro del
labirinto non avrebbe trovato alcun mostro.
Dodo, lì, c'era già stato.
Il bambino con la fionda avrebbe
trovato solo un grande specchio.»
Quelli che conoscono la tematica
terroristica, ritroveranno facilmente lo
spunto del racconto nel libro di un militante
dissociato proprio delle BR, che usò il
paragone di Teseo ed il Minotauro, nella sua
riflessione.
Poi, per il servizio di leva, mi sono
arruolato nei Carabinieri, come Ausiliare, ed
ho lasciato perdere anche le fiabe. E, come
ho già detto, fortunatamente per i bambini,
non ho mai più ripreso a scriverle.
Ma per le pubblicazioni in generale
mentirei se dicessi che ho lasciato del tutto.
In fondo scrivere mi piace. Ed ogni tanto ho
continuato a mandare articoli dall’Africa e
sull’Africa a quotidiani italiani, troppo poco
30
interessati al continente nero. Li hanno
pubblicati a firma di uno pseudonimo, che
non posso ancora rivelare.
31
G I U S E P P E R A S S E L L O
Mi capita spesso di sentire parlare del
Potere, alle volte come una specie di
mostro.
Durante la mia infanzia mi hanno
insegnato che i mostri sono solo frutto della
nostra mente, che recepisce le nostre paure
inconsce. Ma allora che cosa è il Potere.
“Potere” per sua natura è un verbo, esso
va dunque coniugato. Il verbo è al servizio
del soggetto ed il concetto si sviluppa da
solo: io posso, tu puoi, egli può ... e così via.
Quando noi sostantiviamo l’infinito “Il
potere”, esso stesso può divenire il soggetto
32
della frase e dunque può diventare
protagonista. E’ una semplice operazione
grammaticale, frutto della nostra mente.
Ma, come tutto ciò che è razionale può
determinare una patologia terminologica
e/o sostanziale.
La patologia nasce quando si cristallizza
questa inversione di ruoli. Per cui chi
dovrebbe essere al servizio (in questo caso il
verbo) finisce per essere servito, mentre chi
dovrebbe essere servito (il soggetto) finisce
per servire.
Poi qualcuno nel corso della storia ha
creato, con il pensiero, le condizioni perché
questo “strumento” avesse una propria
autonomia strutturale, il Potere è stato
dotato di un proprio DNA in grado di
regolarne la crescita e l’auto-conservazione.
Si sono così venute a creare delle regole
sempre più perfette all’interno di questo
corpo, che rimane però incapace di divenire
un organismo vivente, avendo bisogno per
poter vivere dei veri soggetti (gli uomini), i
quali “gestendolo” in realtà lo servono.
Infatti, per poter muovere questo corpo
33
bisogna rispettarne le leggi, ormai
cristallizzate dalla storia e dalla pseudo-
cultura.
Mi piaceva ragionare di questi concetti
con Giuseppe Rassello, un uomo
eccezionale. Per esempio lui parlava spesso
di un altro concetto: il Sistema.
L’origine del termine, come spesso
accade, è greca, dove “tema” vuol dire un
insieme (concetto matematico) di cose e sys
(in greco si legge sius) vuole dire mettere
insieme. Quindi il sistema è l’insieme degli
insiemi.
Applicato alla società in cui viviamo, il
sistema è la gestione dell’equilibrio delle
diverse realtà. E se le realtà rappresentano
un potere, il sistema è la gestione del potere
che mette insieme i poteri. Diceva Rassello
che quando arrivi a toccare il Sistema, ti
trovi accerchiato ed attaccato da tutto
l’insieme di poteri, che per istinto di
conservazione ti distruggono. E lui lo ha
fatto.
Giuseppe Rassello era nato a Procida nel
34
1950, rimasto orfano con il fratello più
piccolo, entrato giovanissimo in seminario è
diventato sacerdote. Una profonda
conoscenza del greco antico e del latino.
Una grande cultura, esperto in archeologia e
conoscitore dei labirinti.
Quando non insegnava al liceo e non si
occupava della sua parrocchia nel quartiere
della Sanità nel cuore di Napoli, Giuseppe
studiava, leggeva. Notti intere. Nella sua
biblioteca fatta di libri antichi e manoscritti
trovati e comprati qua e là.
Io l’ho conosciuto il giorno in cui fu
arrestato, nell’estate del 1991. Accusa
infamante quella contro di lui. All’inizio lo
guardavo con diffidenza, ma poi il giudice
decise di mandarlo agli arresti domiciliari a
casa del suo avvocato, mio padre. E
dividemmo la mia stanza per mesi. Ne
nacque un’amicizia profonda durata 9 anni.
Il giorno che lui morì io ero in Marocco.
Una telefonata di mia madre in piena notte:
“Giuseppe è morto”. Lo ha stroncato un
cancro ai polmoni. Quella malattia la cui
origine è troppo spesso legata a dolori
35
profondi che non si riescono a superare.
La fine di un calvario che durava
ancora. Quel processo infinito. La sua parola
contro quella di un adolescente, accolto ed
accudito da altri preti.
In Africa si attribuisce tutto al Destino.
Io non so se è così, ma certo è che mentre
scrivevo queste pagine ho ricevuto una
telefonata dall’Italia. Mi hanno detto che il
prete che accolse il ragazzo in seminario è
appena morto, tranciato dalle eliche di un
motoscafo al largo di Capri.
Giuseppe andava ogni anno a portare i
fiori a Ravenna, sulla tomba di quello che
considerava il più grande di tutti: Dante
Alighieri. Si commuoveva sulla sua tomba e
non gli piaceva come veniva curata. I fiori
non erano mai freschi. Poiché me ne
parlava in quel modo, mi sono deciso ad
andare anche io. E mi sono commosso.
Qualche giorno prima di morire mi
chiamò. Andai da lui. Era divorato dal
cancro, seduto sulla sedia a rotelle. Mi ha
consegnato una selezione di carte e
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documenti e lettere e memoriali. Mi ha
detto: “Franchetiell’ (era il modo affettuoso
in napoletano stretto con cui mi chiamava,
N.d.A.), tu dovrai scrivere la mia storia e la
verità di quello che è successo in quel
processo. Dovrai togliermi l’infamia che mi
hanno affibbiato addosso”.
Glie l’ho promesso. E lo farò. Ma non
ancora.
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I L T R I B U N A L E
Mio padre mi ha sempre raccontato che
da piccolissimo un giorno andai nella sua
stanza, e, mentre si radeva, con aria
innocente gli ho chiesto: “Papà, ma quando
morirai, potrò prendere io la tua borsa?”.
Mi riferivo a quella da tribunale, che
portava sempre con sé quando usciva la
mattina per andare al lavoro.
Lui, da buon napoletano scaramantico
mi ha risposto con la prontezza del penalista
navigato e di successo: “Facciamo così, io te
la regalo subito e ne compro un’altra per
me, va bene?”.
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E’ stato più o meno così che mi sono
trovato la strada spianata per la professione
forense di penalista. Frequentavo le aule di
giustizia di processi che finivano sui
giornali, prima ancora di terminare la
Facoltà di Giurisprudenza della “Federico
II”, l’Università di Napoli fondata nel 1242
dall’illuminato re normanno.
Poi quasi dieci anni nelle aule di
giustizia interpretando la professione da
karateka: la giacca e la cravatta al posto del
bianco kimono, le aule di tribunale al posto
del tatami. Ma anche l’esperienza del caso
Rassello come una bussola nella giungla
degli operatori della giustizia.
Ed ho continuato ad interpretare la vita
come un combattimento. Ogni persona che
incontravo era un avversario, ogni causa
una lotta, ogni arringa uno sfogo di
adrenalina.
Ho ritenuto di essere al centro del
mondo e, non mi vergogno a dirlo, tutto
sembrava confermarmelo… grandi battaglie
legali, processi importanti, la stampa, i
colleghi, l’università, gli incontri politici.
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Avevo innalzato la mia esperienza
forense ad una specie di missione
sovrannaturale. Mi sentivo come Enjorras (il
protagonista del Capitolo “I ragazzi
dell’ABC” nel romanzo di Victor Hugo, I
Miserabili, N.d.A.), un sacerdote del Diritto.
Il mio motto era “il diritto, l’unica difesa
dei deboli contro gli abusi del Potere”.
Ma avevo, nei momenti di lucidità, un
pensiero ricorrente: Il Piccolo Principe, che
diceva più o meno così, “Quando
incontravo una persona che mi sembrava
adatta le facevo vedere il mio disegno
numero 1 (il pitone che aveva ingerito un
elefante, N.d.A.) e se mi rispondeva che era
un cappello, deluso, non parlavo dei baobab
o delle stelle, ma mi abbassavo al suo livello
e parlavo di affari, di politica, di bridge…”
Ricordo, come fosse ieri, l’ultima
arringa che ho pronunciato in tribunale. Era
un processo per corruzione a carico di
alcuni componenti della Polizia Stradale,
accusati di imporre pagamenti indebiti ai
conducenti dei carri di soccorso stradale. Di
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solito me la cavavo bene, qualcuno veniva
anche ad ascoltare le mie arringhe
appassionate. Quella ultima volta fu un
disastro. I clienti mi guardavano
preoccupati, persino i giudici erano
imbarazzati. Uscendo dall’aula ho solo avuto
la forza di ripetere a bassa voce: “Non ci
credo più. Mi dispiace, ma non ci credo
più…” .
Avevo già lasciato Napoli, era il 2002.
Vivevo a Roma. Presi la macchina e
guidando sull’autostrada continuavo a
ripetere la stessa frase.
Finché non sono arrivato a casa. Mi
sono sdraiato sul letto, ho spento il cellulare
ed ho pianto. L’edificio che avevo tanto
faticosamente costruito si era dissolto, come
un castello di sabbia all’arrivo di un onda del
mare.
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L'A F R I C A
In principio non pensavo che la
passione per l’Africa avrebbe fatto prendere
alla mia vita una direzione così diversa.
Avevo cambiato professione. Sempre
avvocato, ma non più combattente penalista
di prima linea in tribunale, bensì
consulente, specializzato in diritto
internazionale ed in sviluppo di business.
Inizialmente ho vissuto l’esperienza
dell’associazione degli Avvocati senza
Frontiere. Da segretario generale ho
partecipato a diverse sessioni internazionali
di un certo prestigio, che mi hanno
arricchito e non solo professionalmente. Ho
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potuto seguire processi in paesi difficili e
tanto diversi. La Cina, la Turchia e poi il
Mali, lo Yemen, la Grecia, gli Stati Uniti, il
Brasile, la Tailandia, la Russia, la Libia, il
Kuwait.
L’esperienza più difficile però è stata
quella in Iraq, nel 2003. Finita la guerra, per
una strana combinazione del destino, sono
stato nominato advisor del Governo
Provvisorio iracheno, guidato da Paul
Bremer. A Bagdad c’erano carri armati
ovunque. Per proteggerci ce ne era uno
anche fuori l’albergo dove alloggiavamo.
Cecchini pronti a far fuoco appostati sui
palazzi dirupati colpiti dai bombardamenti,
posti di blocco con soldati armati fino ai
denti.
E poi l’Africa!
Un continente così grande, uccelli così
grandi, animali ed insetti così grandi, grandi
problemi ed una cultura così diversa. Ma
tutto così familiare.
Io ho iniziato la mia esperienza ad
Addis Abeba, sull’altopiano etiope. Le
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passeggiate a cavallo a quelle altitudini sono
il ricordo più ricco di emozioni che mi
accompagna. Poi sono andato a vivere,
come ho già detto, a Nairobi in Kenya.
Nel dicembre del 2007 a seguito delle
elezioni è scoppiata una guerra civile, noi
siamo stati costretti a rimanere chiusi nelle
nostre case con cibo e rifornimenti. Ma il
primo gennaio del 2008 ho dovuto fare uno
strappo alla regola del coprifuoco...mentre
sparavano per le strade della città, io stavo
per diventare padre di Ascanio.
Ma ero padre per la seconda volta,
perché quando sono rientrato in Italia,
Giulia aveva da poco compiuto 18 anni ed
ora poteva finalmente decidere da sola se
fare le analisi per accertare la mia paternità.
Il giorno del risultato delle analisi è stato
uno dei giorni più luminosi della mia vita. E
da un giorno all’altro ho iniziato a fare il
padre di una giovane donna.
F I N E
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