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De Leonardis D. (2006), Le vallate olimpiche e le loro prospettive di sviluppo post-olimpiche, in Dansero E., Santangelo M. “Progetti, attori, territorio, territorialità. Sviluppo

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Il working paper contiene un altro contributo del sottoscritto:Bignante E., De Leonardis D. (2006), Brevi considerazioni sulle emigrazioni nelle vallate alpine della Provincia di Torino, in Dansero E., Santangelo M. “Progetti, attori, territorio, territorialità. Sviluppo locale a Nord e Sud del mondo, DiTer, working paper n.28/2006, pp. 79-82

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Indice

Introduzione 1 di E. Dansero e M. Santangelo

Progetti, attori, territorio, territorialità: una chiave di lettura 3 di M. Bertoncin e A. Pase

Territorio, territorialità e attori.

Le politiche di sviluppo locale come azioni collettive territorializzate 9

di F. Governa

1. Gruppo di lavoro: Sviluppo locale e turismo (coord. G. Sistu) 29 1.1. Turismo e diritti umani: il ruolo della cooperazione internazionale per lo sviluppo locale

nell’altrove turistico a democrazia debole in Africa (G. Sistu) 1.2. Sviluppo locale e turismo in ambiente alpino (F. Bocchetti) 1.3. Costruzioni immaginarie e usi disneyani delle risorse nelle politiche del turismo per lo sviluppo

locale (F. Corrado) 1.4. L’insostenibile leggerezza dell’invenzione patrimoniale (G. Dematteis) 1.5. Il territorio è un prodotto turistico? E tutti i territori lo sono? (A. Mazzoccoli) 1.6. Turismo sostenibile e sviluppi per il territorio nell’area Bassa Valsugana e Tesino (F.

Marin) 1.7. Turismo, sviluppo locale e mobilità umana. Il caso dell’Abruzzo (A. Montanari e B.

Staniscia) 1.8. Le vallate olimpiche e le loro prospettive di sviluppo post olimpiche (D. De Leonardis)

2. Gruppo di lavoro: Sviluppo locale e trasformazioni produttive 55 (coord. P. Doccioli e F. Dini)

2.1. Sviluppo locale e trasformazioni produttive (P. Doccioli e F. Dini) 2.2. La transazione produttiva in Europa centro-orientale. Il difficile ruolo degli attori locali (G.

Cotella) 2.3. Sviluppo locale e trasformazioni produttive: governance, logica distrettuale e agricoltura tra

Piemonte e Lombardia (P. Molinari) 2.4. Lo sviluppo locale nella fase “post-distrettuale” (F. Randelli)

3. Gruppo di lavoro: Sviluppo locale e mobilità umana (coord. M. L. Gentileschi) 73 3.1. Ripensare alcuni momenti dell’immigrazione riguardo agli arrivi, agli spostamenti successivi e

ai rientri (M. L. Gentileschi)

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3.2. Brevi considerazioni sulle migrazioni nelle vallate alpine della Provincia di Torino (E. Bignante e D. De Leonardis)

3.3. Deconcentration e mobilità umana nell’area metropolitana di Chieti-Pescara (A. Montanari e B. Staniscia)

4. Gruppo di lavoro: Sviluppo locale, risorse e sostenibilità territoriale 85

(coord. M. Tinacci Mossello) 4.1. Ambiente versus territorio? (M. Tinacci Mossello) 4.2. Territorio senza ecosistemi o ecosistemi senza territorio? (M. Bagliani) 4.3. Alcune considerazioni sullo sviluppo locale sostenibile e il caso del Piemonte Orientale (D.

Gavinelli) 4.4. Sviluppo sostenibile e sviluppo locale: una rinnovata dicotomia? (C. Pirovano) 4.5. Ambiente, terra e territorio: alcune riflessioni tratte da Reclus, Geddes e Mumford (P.

Romei) 4.6. Politiche di sviluppo locale come politiche territoriali. Riflessioni a partire dalla ricerca (M.

Santangelo)

5. Gruppo di lavoro: Sviluppo locale e valori culturali (coord. G. Botta) 109 5.1. Sviluppo locale e valori culturali (G. Botta) 5.2. Tradizioni e modernità tra nord e sud del mondo (V. Bini) 5.3. Fotografia africana e sviluppo locale (T. Gilardi) 5.4. Tradizioni tecniche e territorio (A. Pagani) 5.5. I saperi locali come valori culturali (C. Pirovano) 5.6. Valori culturali, sviluppo locale e sostenibilità nel contesto alpino: alcuni spunti di riflessione

(M. Puttilli) 5.7. Cultura e studi geografici. Brevi considerazioni personali (G. Scaramellini) 5.8. “Trasformazioni” teatrali a Nairobi: valori culturali a confronto per il recupero di nuove

socialità urbane (M. Vitale Ney)

6. Gruppo di lavoro: Sviluppo locale e cooperazione (coord. P. Faggi) 131 6.1. Sviluppo locale e cooperazione (P. Faggi e M. Loda) 6.2. Dati spaziali, indicatori e scale geografiche: alla ricerca di ‘codici’ di indagine per progetti di

cooperazione internazionale (B. Bellini) 6.3. La cooperazione allo sviluppo locale in Africa. Questione aperta per una riflessione (S. Bin) 6.4. Oltre il progetto? Cooperazione allo sviluppo e complessità del territorio (V. Bini) 6.5. Riflessioni sui percorsi dello sviluppo locale nei PVS (G. Chiusano) 6.6. Sviluppo locale e cooperazione allo sviluppo, tra dinamismi locali e pratiche globali (E.

Dansero) 6.7. Ricomposizione territoriale e sviluppo locale (L. Yameogo) 6.8. L’impresa cooperativa: un’istituzione appropriata per lo sviluppo locale nei PVS? (E.

Luzzati) 6.9. Partecipazione e sviluppo locale nei PVS (C. Scarpocchi) 6.10. La démarche partecipative nell’Africa saheliana: tra spinte esogene e “creatività” endogena. Il

caso del Senegal (G. Chiusano)

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Introduzione

Nel quadro della ricerca nazionale PRIN Sviluppo locale, territorio, attori, progetti: confronti internazionali, coordinata dal prof. Faggi dell’Università di Padova, l’unità locale torinese1 ha organizzato un seminario sullo sviluppo locale in una prospettiva comparata tra nord e sud del mondo. Il seminario, tenutosi a Torino nei giorni 15 e 16 dicembre 2005, nella sede del Castello del Valentino, ha visto la partecipazione di studiosi dei diversi modelli dello sviluppo locale in contesti europei (Francia, Spagna, Gran Bretagna) e italiani (dalle diverse sedi delle unità locali partecipanti alla ricerca: Cagliari, Firenze, Milano, Padova, Pescara, Siena, Torino, Trento). Se la prima giornata si è concentrata sull’esperienza francese, spagnola e inglese, la seconda ha invece rappresentato un momento di confronto e di dibattito su alcune esperienze italiane e sui diversi approcci allo sviluppo locale che in esse si possono riscontrare2. Nella giornata del 16 dicembre il seminario è stato organizzato per gruppi di lavoro tematici, secondo i filoni di ricerca rappresentativi delle diverse unità locali presenti nel PRIN e delle istanze analitiche alle quali rivolgere attenzione. I sei gruppi di lavoro, cui hanno preso parte studiosi delle diverse unità locali, nonché accademici, esperti, studenti e professionisti interessati ai temi in discussione, hanno affrontato i temi del rapporto tra sviluppo locale e turismo (con il coordinamento di G. Sistu, dell’Università di Cagliari), sviluppo locale e trasformazioni produttive (coordinamento di P. Doccioli e F. Dini, dell’Università di Firenze), sviluppo locale e mobilità umana (coordinamento di M. L. Gentileschi, dell’Università di Cagliari), sviluppo locale e sostenibilità territoriale (coordinamento di M. Tinacci, dell’Università di Firenze), sviluppo locale e valori culturali (coordinamento di G. Botta, dell’Università di Milano), sviluppo locale e cooperazione (coordinamento di P. Faggi, dell’Università di Padova). Le riflessioni dei diversi gruppi sono raccolte in questo working paper, sotto forma di contributi che i partecipanti hanno prodotto subito dopo la conclusione delle giornate torinesi. L’idea che sta alla base di questo lavoro, quindi, è legata alla possibilità che il clima di scambio e di arricchimento reciproco che ha caratterizzato il seminario possa dare un risultato utile ad un numero più vasto di studiosi e di attori impegnati nell’attuazione di politiche, programmi, progetti, azioni che promuovono sviluppo locale. Le riflessioni emerse, infatti, si inseriscono in un dibattito generale sullo sviluppo locale, sulle modalità di promozione di nuovi processi o di rafforzamento dei processi in corso, sulle teorie e le pratiche, su temi che attraversano il dibattito in maniera trasversale.

1 La ricerca dell’unità locale torinese ha come titolo: “Territorialità e sviluppo locale tra nord e sud: un approccio comparativo”. Il gruppo di ricerca è composto da: Giuseppe Dematteis, Enrico Luzzati, Egidio Dansero (responsabile scientifico), Francesca Governa, Paolo Giaccaria, Angelo Besana, Cristiana Rossignolo, Cristina Scarpocchi (Università della Valle d’Aosta), Marco Santangelo, Raffaella Dispenza, Federica Corrado, Elisa Bignante, Domenico De Leonardis, Germana Chiusano, Alessia Toldo, Marta Parodi, Giancarlo Cotella, Matteo Puttilli. 2 I risultati del seminario del 15 dicembre, sugli approcci allo sviluppo locale al di fuori dall’Italia, saranno presentati nel Working Paper n. 29 del Dipartimento Interateneo Territorio, in corso di pubblicazione, a cura di P. Giaccaria e F. Governa.

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Nelle pagine che seguono sono riportati trentanove contributi, suddivisi per i temi dei gruppi di lavoro. Il quadro di insieme che emerge dalla lettura dei contributi è certamente ricco e complesso, ma il valore di quanto emerge sta soprattutto nella freschezza ed estemporaneità con la quale i temi sono stati affrontati. Come si può notare si tratta di contributi molto diversi, di approcci differenti, di attenzioni a tematiche e istanze molto generali o molto particolari. Questa diversità è però sufficientemente rappresentativa della complessità dello sviluppo locale e dei molteplici punti di vista che è non solo possibile, ma è necessario, adottare. Ai contributi si affiancano delle relazioni introduttive, di M. Bertoncin e A. Pase (“Progetti, attori, territorio e territorialità: una chiave di lettura”), di F. Governa (“Territorio, territorialità e attori. Le politiche di sviluppo locale come azioni collettive territorializzate”). In queste relazioni si riflette su quella che appare come una retorica dello sviluppo, o “nuova ortodossia”, cui è necessario affiancare una logica anche critica, ma costruttiva e aperta, capace di promuovere alternative strategiche per lo sviluppo del territorio. L’approccio geografico, l’attenzione al territorio, alla sua centralità nel dibattito contemporaneo, diventano elementi essenziali di questa logica alternativa, riflessiva e propositiva, dello sviluppo locale. Questa raccolta di scritti si propone di presentare aspetti, temi, specificità del dibattito sullo sviluppo locale in Italia in questi anni, a partire da esperienze concrete e da riflessioni “parlate”, condivise. In questo senso, questo volume è uno stimolo a prossimi aggiornamenti, a scambi tra studiosi, ad approfondimenti e, per questo motivo, ha per noi il senso di un vero e proprio work in progress da effettuarsi in sedi diverse, con modalità differenti, senza scadenze prefissate. Con l’intento esplicito però di riportare al presente e nel territorio il dibattito sullo sviluppo locale.

Egidio Dansero, Marco Santangelo

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Progetti, attori, territorio, territorialità: una chiave di lettura

Marina Bertoncin e Andrea Pase∗

1. Premessa

Questo contributo intende presentare le riflessioni di avvio di un percorso di ricerca che si concentra attorno al tema della territorialità -interpretazione della territorialità- come chiave di lettura degli elementi di adeguatezza di progettualità territoriali idrauliche nella relazione tra una categoria di attori portatori di uno specifico problema (a) con i territori di riferimento (t) e di questi con gli attori e i territori di contesto (A, T). La formalizzazione di tali riflessioni è quindi, a questo livello, necessariamente concisa.

La ricerca continuerà a breve termine su due filoni: - il modo di connettere la massa delle relazioni considerate nella prospettiva di

costruire un sapere metodologico per trattare la problematica territoriale da una prospettiva che si concentra su categorie -attori, territori, problemi- a una che si concentra sulle relazioni. Quindi da una prospettiva della problematica territoriale fondata su un concetto di mancanza e riparazione o prevenzione, a una fondata su un concetto di difetto relazionale tra a, t, A, T. In particolare ci si occuperà di: i. il passaggio dalle categorie a, t, A, T come fruitrici/beneficiarie di interventi alla

relazione a, t, A, T come soggetto progettuale; ii. il passaggio dall’autoevidenza dei problemi territoriali all’emersione

dell’instabilità delle relazioni nella territorialità; iii. il passaggio da priorizzazioni dell’agire territoriale in ordine a attori, territori,

progetti a priorizzazioni stabilite in ordine al livello di condizionalità (opportunità/vincoli) dell’instabilità;

iv. il passaggio dall’individuazione di risorse visibili a risorse individuabili in rapporto alle condizionalità (opportunità/vincoli) dell’instabilità;

v. il passaggio da individuazione di ruoli e funzioni decisi rispetto agli attori, ai progetti e ai territori a individuazione di ruoli e funzioni rispetto alle condizionalità (opportunità/vincoli) dell’instabilità;

- la decostruzione delle rappresentazioni di sé e reciproche di attori forti/deboli e dei territori forti/deboli e i loro fondamenti, attraverso l’analisi dei difetti procedurali individuati nelle progettualità a disposizione che può divenire la premessa alla costruzione di nuove logiche di territorializzazione foriere di territorialità più stabili. Lo ricordiamo, relazioni meno dissimmetriche, strategie riproduttive pertinenti (a scarto sempre più ridotto tra razionalità territorializzante e razionalità sociale).

∗ Università di Padova.

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Sullo sfondo, ma non secondaria, la questione della partecipazione come esito territoriale di collettività competenti in grado di indirizzare le linee riproduttive dei propri territori attraverso la connessione di nodi e reti corte da un orientamento verticale a uno orizzontale e reti medie e lunghe prima verticali e poi orizzontali. Per differenza si sottolineerà ciò che non è partecipazione: coinvolgimento, valorizzazione, pseudo-partecipazione e intelligenza del territorio come convenzionali pratiche se-dicenti bottom-up, in realtà top-down, non in grado di promuovere sviluppo locale autosostenibile.

2. Presentazione del primo livello della ricerca

Obiettivo generale: delineare la chiave interpretativa utilizzata nella nostra ricerca su progetti, attori, territorio, territorialità in termini di analisi relazionale (territorialità instabile).

Obiettivi specifici: • descrivere la questione della territorialità instabile (disagio territoriale, inefficacia ed

inefficienza dei progetti…) come esito di una relazionalità inadeguata tra attori del progetto, territorio del progetto, attori di contesto, territorio di contesto;

• attraverso un’analisi di caso evidenziare gli elementi di instabilità derivanti dalla mancata considerazione dell’intero campo dinamico composto dalle relazioni sopra evidenziate.

3. La territorialità instabile

Riconosciamo la territorialità come funzione del campo dinamico che si definisce dall’insieme delle relazioni tra a, t, A, T, dove a indica gli attori artefici, interessati, coinvolti da una progettualità, t il territorio individuato dal contesto di senso, dal campo operativo di tale progettualità, A gli attori che si muovono all’esterno della progettualità, T il territorio di contesto in cui si inserisce il ritaglio specifico della progettualità considerata. Nello Schema 1 il termine “progetto” indica una determinata progettualità sociale, esplicita o implicita: i “progetti di sviluppo” ne sono una delle possibili, molteplici declinazioni seppur di particolare interesse in questo contesto e più in generale all’interno della nostra ricerca. Questa definizione di territorialità intende evidenziare l’insieme delle relazioni e l’interazione reciproca tra esse. I riferimenti di partenza per la presente riflessione sono E. W. Soja, R. D. Sack, M. Crozier e E. Friedberg, C. Raffestin, A. Turco, A. Magnaghi, G. Dematteis e F. Governa, B. Latour, assieme a K. Lewin, uno dei pionieri della psicologia sociale e teorizzatore della ricerca-azione.

All’interno di questa definizione, la problematicità di tanti progetti (anche di tanti progetti di sviluppo: le discrepanze tra attese e risultati, le crisi ricorrenti…) è interpretabile come effetto di una territorialità instabile, generata dalla inadeguatezza delle relazioni coinvolte nel campo dinamico. Se una territorialità stabile è data in prima approssimazione da relazioni “relativamente” simmetriche, dalla permanenza nel tempo degli attori (dal successo delle loro strategie autoriproduttive) e dalla pertinenza degli attori coinvolti rispetto alle dinamiche territoriali, sono la mancata considerazione di alcune delle relazioni del campo dinamico, lo sbilanciamento delle relazioni e la tensione tra esse a determinarne l’instabilità. La freccia a sinistra dello Schema 2 indica appunto l’impostazione di quei progetti che considerano i singoli elementi (a, t, A, T) o le singole relazioni (a/A, t/T, a/t, A/T) determinando in tal modo una territorialità instabile, che ha ripercussioni più o meno gravi sugli esiti dei progetti stessi.

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4. Una prima verifica

È possibile tentare una prima verifica degli assunti formulati rispetto ad uno specifico caso di studio: la gestione dell’acqua sui monti Mandara nell’Estremo Nord del Camerun3.

Queste montagne-rifugio per le popolazioni scacciate dalle pianure ciadiane dalla pressione fulbé sono sovra-popolate, con poche terre in via di erosione e un’unica stagione delle piogge che non è in grado di garantire una buona ricarica degli acquiferi.

Nel tempo è possibile identificare almeno tre territorialità: la tradizionale, quella relativa ai primi progetti (pozzi moderni) e quella relativa ai “progetti partecipativi”. Tali territorialità sono compresenti, con una progressiva sostituzione dei primi progetti con i progetti partecipativi.

Si vedrà come la considerazione, da parte dei progetti di sviluppo esogeni che interverranno sull’area, di un solo elemento o di una sola relazione tra quelle identificate dal campo dinamico (t/T, a/A, a/t, A/T) contribuisca a delineare punti critici nella ideazione e nella realizzazione degli interventi.

In questo contesto non vi è la possibilità di una analisi dettagliata dei tre campi dinamici e delle reciproche interazioni. Osserviamo solo alcuni elementi di crisi, relativi in particolare alla gestione delle risorsa acqua.

Nella territorialità tradizionale, la necessità di praticare l’agricoltura in tutti gli spazi concessi dalla tormentata morfologia del rilievo ha condotto alla definizione di elaborate tecniche di controllo della pendenza e dell’erosione dei suoli (terrazzamento) e di reperimento di acqua: pozzi tradizionali e micro-dighe (proto-bief) sui corsi d’acqua temporanei (mayo). L’esplosione demografica che si è verificata a partire dagli anni ‘60 ha determinato una drastica scarsità di terra e soprattutto di acqua. Si rompe la relazione a/t ed entra in crisi la territorialità tradizionale: emerge un “bisogno evidente” (l’insufficienza d’acqua), facilmente leggibile dall’esterno.

I primi progetti idraulici intervengono su t senza considerare a. Essi propongono un “approccio minerario” alla scarsità d’acqua, con lo scavo di pozzi via via più profondi e con la conseguente “scalata” nelle tecniche utilizzate, trasferendo un modello generale T su uno specifico territoriale (t/T) con una modalità di replicazione standardizzata di interventi tecnici. La categoria generale A (i bisognosi d’acqua) viene trasferita su a, con conseguente omologazione dello specifico al generale e con riduzione dei valori relativi alla risorsa acqua all’unico “bisogno evidente”. Un A/T “saheliano” è la chiave delle politiche su t: in tal modo si perdono i bisogni sentiti, che potrebbero essere definiti solo dagli attori stessi. La crisi radicale di questo modello (mancata manutenzione dei pozzi, abbandono…) è indice appunto di relazioni non considerate e/o inadeguate all’interno del campo dinamico.

La nuova stagione dei progetti di sviluppo che si afferma sui monti Mandara dalla metà degli anni ‘80 ha taglio partecipativo e si fonda su una diversa tecnica: il rinnovo degli acquiferi attraverso la costruzione di soglie (detti bief) sui mayo al fine di favorire l’infiltrazione dell’acqua. Vengono coinvolti gli a nel territorio del progetto. Ma il coinvolgimento non conduce alla partecipazione perché è inserimento di a in un set di proposte già deciso. Anche quando si attuano forme di intelligenza del territorio, inchieste sui bisogni delle popolazioni locali, queste finiscono con il creare ulteriore distanza, perché gli attori sono coinvolti nel fornire dati ma non nell’elaborazione degli stessi in

3 Per una ricostruzione di dettaglio del caso qui accennato si può fare riferimento a: Bertoncin M., Pase A., Attori, acqua e territorio nell’Estremo Nord del Camerun. Forme dell’agire, Materiali 24, Dipartimento di Geografia, Padova 2001.

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informazione ed inoltre le tecniche conoscitive utilizzate sono per lo più estranee all’universo conoscitivo disponibile.

Infine la relazione a/t (progetto) non si rapporta con gli attori esterni A e territori T, in questo caso della tradizione, quindi con il campo dinamico della territorialità tradizionale. La valorizzazione di tecniche tradizionali (la lavorazione della pietra, il controllo dell’acqua e dell’erosione) è inserita nel t del progetto senza valutare gli effetti che l’espropriazione del controllo della risorsa acqua ha sui capi delle chefferie, chiamati significativamente “principi della pioggia”, e quindi sull’intero assetto della legittimazione politica consuetudinaria. Inoltre su t si proietta una politica generale T1 relativa al riequilibrio territoriale del Camerun tra un Sud relativamente ricco e un Nord povero, densamente abitato e a rischio carestia. La distinzione di T e T1 dimostra la compresenza di molte scale d’azione, che devono essere considerate come campi dinamici interagenti.

Una primissima e quanto mai provvisoria conclusione ci porta a dire che (Schema 2) il passaggio da una concezione dei progetti che separa elementi e relazioni ad una che considera l’intero campo dinamico può favorire l’emersione di territorialità più stabili.

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Schema 1

Attori del progetto

a

Territorio del progetto

t Territorio di contesto

T

Attori del territorio (di contesto)

A

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Schema 2

a

t T

A

a, t, A, T, a/t, A/T, a/A, t/T

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Territorio, territorialità e attori. Le politiche di sviluppo locale come azioni collettive territorializzate

Francesca Governa∗

1. Introduzione

Questo contributo intende individuare alcuni nodi problematici aperti dall’utilizzo di diversi concetti di territorio e di territorialità nell’ambito delle teorie e delle pratiche di sviluppo locale, discutendo alcune ipotesi per il loro trattamento. Per raggiungere questi obiettivi, il testo è articolato in quattro passaggi principali. Il primo passaggio intende delineare il dibattito generale sullo sviluppo locale, indicando in particolare in che quadro di attenzione al tema si situa la nostra ricerca: che cosa vuole dire cioè fare una ricerca sullo sviluppo locale adesso. Questo quadro influenza gli obiettivi della ricerca, richiede di inserire le nostre riflessioni nel sempre più ampio dibattito relativo alla necessità di una sorta di bilancio critico delle teorie e delle pratiche di sviluppo locale e porta a confrontarci con tre “temi trasversali” che emergono da tale dibattito. Il secondo passaggio affronta criticamente il tema della centralità del territorio nell’ambito delle teorie e delle pratiche di sviluppo locale, discutendone i limiti e proponendo alcune ipotesi per affrontarli. Il terzo passaggio riguarda la nozione di territorialità e intende chiarire, in particolare, quale concezione di territorialità può essere utile per cogliere la molteplicità dei territori dello sviluppo locale, la molteplicità di relazioni che i soggetti instaurano tra loro e con i luoghi, le differenti modalità di azione che derivano da tali relazioni. Il quarto e ultimo passaggio, infine, discute limiti e possibilità dell’azione collettiva e, più in particolare, intende chiarire in che senso le politiche di sviluppo locale possono essere interpretate come azioni collettive territorializzate o, in altri termini, quale sia il valore aggiunto della territorializzazione dell’azione collettiva delle politiche di sviluppo locale.

Molte delle riflessioni qui contenute rimangono del tutto aperte. Non siamo infatti in grado di sciogliere i nodi, teorici e metodologici, che si celano dietro i problemi individuati. Tuttavia, fornire materiale per la discussione, indicando possibili percorsi di ricerca, è il primo passo per approfondire le questioni poste e arrivare, seppure in via tentativa, al loro trattamento. Nessuna delle riflessioni che seguono si pone quindi in maniera risolutiva; alcune, più di altre, sono però ad uno stadio solo iniziale di approfondimento e sono quindi appena accennate.

∗ Dipartimento Interateneo Territorio – Politecnico e Università di Torino.

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2. Lo sviluppo locale: il quadro del dibattito, gli obiettivi della ricerca, i temi emergenti

2.1. Lo sviluppo locale come “nuova ortodossia”: la necessità di una riflessione critica La nostra ricerca si situa in una fase ormai matura, o per lo meno consolidata, del

dibattito sullo sviluppo locale. Lo sviluppo locale, cioè, non è più un tema pionieristico, ma è diventato una “nuova ortodossia”: tutti parlano di sviluppo locale (istituzioni di diversa importanza e di diverso livello: sovra-nazionali - dalla Banca Mondiale all’Ue - nazionali, regionali, locali, ma anche operatori economici e finanziari, …); non c’è progetto o programma che non evochi lo sviluppo locale. Tutto è, oramai, sviluppo locale. Se così è, il rischio è che niente sia sviluppo locale, che dietro l’etichetta sviluppo locale si celino le pratiche più diverse di promozione dello sviluppo o, ancora, modalità di azione del tutto tradizionali dei principali attori politici, economici e sociali.

Se accettiamo il fatto che lo sviluppo locale sia una “nuova ortodossia”, gli obiettivi generali di una ricerca sul tema non possono più essere quelli di affermare un diverso punto di vista nella lettura e costruzione dei processi di sviluppo, una “alternativa strategica”. Ciò che appare oggi necessario è piuttosto entrare dentro i processi, al fine di “smontare” le retoriche e gli slogan ricorrenti nella pluralità dei modelli teorici di sviluppo locale, nonché delle politiche e delle pratiche che a tali modelli fanno riferimento, per capire se e come i presupposti di cambiamento alla base dell’idea dello sviluppo locale siano stati perseguiti o possano esserlo. In questa direzione, un approccio geografico allo sviluppo locale ha, probabilmente, parecchio da dire, proprio perché, come argomenteremo successivamente, molti degli slogan che hanno contribuito a costruire la retorica dello sviluppo locale sono connessi al ricorrente, quanto problematico, richiamo alla “centralità del territorio”. Non si tratta però di operare una difesa di tipo corporativo del nostro ruolo di ricercatori e di geografi, quanto di interrogarsi sulla possibilità di mettere al servizio di un’idea (quella dello sviluppo locale) un sapere critico come vuole (deve) essere quello della ricerca e, in specifico, della ricerca geografica (Amato e Governa, 2006).

Qual è, dunque, il valore aggiunto di una lettura geografica dello sviluppo locale? Dematteis (2001), all’inizio della ricerca SLoT, così riassumeva il contributo specifico della geografia nel quanto mai affollato dibattito multidisciplinare: la capacità di fornire rappresentazioni multiscalari della territorialità e dei relativi processi, che connettano e facciano interagire positivamente (cioè progettualmente) tra loro le visioni parziali, tipiche di altri approcci disciplinari. In maniera non dissimile, Y. Rydin (2005) indica come contributo delle discipline geografiche alla costruzione di politiche di trasformazione e di sviluppo territoriale l’abilità di comprendere il locally embedded e, nello stesso tempo, di vedere le relazioni multi e transcalari che legano i diversi livelli territoriali implicati nelle trasformazioni. Tradurre tali sollecitazioni nella nostra ricerca può voler dire, ad esempio, lavorare su tre piani:

• sul piano teorico, attraverso una riflessione su alcuni concetti chiave della retorica dello sviluppo locale, in particolare su quelli che fanno parte della tradizione geografica (territorio, territorialità, luogo, regione,….) contribuendo così ad una loro re-immaginazione come sollecita, ad esempio, anche Doreen Massey (2001);

• sul piano metodologico e dell’analisi di casi di sviluppo locale, con una lettura critica dei processi in atto (capire cosa si fa);

• sul piano delle pratiche, con il tentativo di “mettersi alla prova” nel fornire un sapere critico utile alla costruzione e valutazione di programmi, azioni e processi di sviluppo locale.

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Interrogarsi su questi tre livelli potrebbe permettere di affrontare la difficoltà, ormai sempre più avvertita, di fare seguire a dichiarazioni di principio e a ragionamenti teorici più o meno convincenti metodologie di indagine coerenti e possibili strategie di azione.

2.2. Un bilancio dello sviluppo locale: temi trasversali Vista in questo quadro, la nostra ricerca può (e probabilmente deve) inserirsi nel sempre

più ampio dibattito relativo alla necessità di una sorta di bilancio dell’esperienza internazionale dello sviluppo locale e, almeno in Italia, delle politiche per la promozione dello sviluppo locale a circa un decennio dal loro avvio4. E’ questa una strada da percorrere per non incorrere in due rischi, diversi ma strettamente correlati. Il primo rischio è quello di continuare a commettere alcuni errori (o, almeno, a riprodurre concezioni semplicistiche e semplificate del modo di intendere e praticare lo sviluppo locale) che, se potevano essere accettabili nella fase iniziale del dibattito e di sperimentazione delle politiche, non possono essere ignorati adesso. Il secondo rischio è quello di accodarsi a quanti, con sempre maggiore insistenza, ritengono ormai chiusa la stagione dello sviluppo locale e le prospettive di cambiamento che in essa si sono andate consolidando.

C’è però un aspetto ancora più importante. All’interno di tale dibattito è infatti possibile individuare alcuni temi trasversali, che meritano di essere considerati, almeno come sfondo, delle nostre riflessioni.

2.2.1 Tema 1: la riproducibilità dello sviluppo locale Un primo tema riguarda la riproducibilità dello sviluppo locale o, meglio, la possibilità di

riprodurre un percorso virtuoso di sviluppo in tutte quelle aree che, per una ragione o per un’altra, non hanno conosciuto uno sviluppo giudicato soddisfacente o sono entrate in una fase “critica”, sperimentando così situazioni di arretratezza, marginalità, vero e proprio declino e degrado. Oppure la possibilità di riorientare l’evoluzione dello sviluppo nel caso in cui alcune sue conseguenze appaiano indesiderabili. A tale tema generale, che può essere declinato sia facendo riferimento al contesto italiano sia in riferimento al rapporto fra sviluppo locale nel Nord e nel Sud del mondo, fanno da corollario quattro questioni più specifiche, diverse anche se strettamente connesse.

La prima questione concerne il meccanicismo insito nella trasposizione delle condizioni (endogene e esogene) che possono garantire l’attivazione di processi di sviluppo locale perché presenti in “casi di successo” (definiti da chi? Rispetto a quali parametri?, ecc.).

La seconda questione riguarda l’istituzionalizzazione dei processi di sviluppo locale (eccessiva burocratizzazione delle esperienze, rigidità delle procedure, ecc.) i cui effetti sono tendenzialmente ambivalenti5. I processi di istituzionalizzazione tendono infatti ad appiattire la ricchezza progettuale a livello locale, ma parallelamente garantiscono (o almeno dovrebbero garantire) di non cadere in un indeterminismo pericoloso che porta o a legittimare le intenzionalità dei soggetti forti o alla riproposizione di immagini di territorio e

4 Per quanto riguarda il dibattito italiano, si veda ad esempio Bottazzi, 2005; CSS, 2005; Magnati et al, 2005. La critica del modello di sviluppo occidentale, condotta da autori come Latouche, Goldsmith o Rist, è discussa in Cary (2003) il quale, richiamando A. Escobar, sottolinea la necessità di ricostruire l’“archeologia” del concetto di sviluppo. 5 I processi di istituzionalizzazione sono qui intesi come quei «processi per cui progressivamente certi comportamenti vengono promossi, richiesti, persino resi obbligatori, da attori, diversi da quelli che li mettono in atto, che richiedono conformità ai loro valori e alle loro credenze, premiano questa conformità mettendo a disposizione risorse, e hanno la possibilità di sanzionare negativamente comportamenti non conformi» (Pichierri, 2002, pp. 80-81).

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strategie di sviluppo in qualche modo predefinite. Se facciamo riferimento alla situazione italiana, l’indicazione, da parte delle Regioni o del Governo, di assi, sottoassi, misure o sottomisure da privilegiare nella risposta ai bandi se, da un lato, ha il pregio di indirizzare le strategie locali, dall’altro lato, sembra aver condotto ad una sorta di “appiattimento” della progettualità locale verso forme e strategie di sviluppo tutte uguali (è il caso, ad esempio, della grande enfasi sullo sviluppo turistico in molte regioni Ob. 1, con i PIT, e 2, con i PISL). L’istituzionalizzazione dei processi di sviluppo locale tende inoltre a favorire l’adozione di comportamenti opportunistici, cioè di adattamento solo rituale alle richieste istituzionali (in particolare per quanto riguarda la costruzione di partenariati e la messa in atto di pratiche di partecipazione) o, addirittura, corrotti o collusivi. Tale “deriva” appare il risultato di ciò che Pichierri (2002) chiama lo “spostamento dei fini”: «gli scopi originari dell’organizzazione sono dimenticati, e unico fine rilevante diventa quello della sua sopravvivenza» (p. 104).

Una terza questione rimanda alla differente dotazione di potenzialità dei territori e, in particolare, alla presenza di territori sottodotati o dormienti per i quali non è facile pensare a politiche di promozione dello sviluppo che facciano presa su potenzialità di sviluppo scarse o poco evidenti e su attori locali poco attivi6.

Una quarta questione, infine, riguarda la possibilità dello sviluppo locale di porsi come modalità di intervento in ogni situazione e in ogni luogo: in maniera più esplicita, ogni intervento di trasformazione territoriale può/deve essere affrontato in termini di sviluppo locale ovvero esistono altri modi (quali? Per quali questioni e/o luoghi?) per affrontare le trasformazioni territoriali e la promozione dello sviluppo? La risposta a queste domande richiede di ragionare su (almeno) due piani: (i) le caratteristiche dei territori, con il riconoscimento delle già ricordate differenti dotazioni delle potenzialità di sviluppo e delle differenti dinamiche di sviluppo presenti al loro interno (maggiore componente endogena o forte dipendenza sovralocale) e (ii) i problemi da affrontare (es.: rilanciare la produzione industriale, riorganizzare la produzione agricola, promuovere il turismo, affrontare problemi di degrado sociale, confrontarsi con le questioni inerenti allo spopolamento della montagna, gestire flussi migratori in entrata e/o in uscita, rispondere alle necessità dell’accessibilità fisica, organizzare la raccolta differenziata dei rifiuti, ….)7.

6 E’ il caso, ad esempio, di alcuni programmi di sviluppo locali che riguardano quelle che, senza entrare nel merito di tale definizione, sono considerate aree marginali per le quali sarebbe forse utile riconoscere altre architetture relazionali e coniugare diversi connettori per promuovere sviluppo (cfr. Rullani, 2005 che, oltre al territorio, indica come media per promuovere sviluppo il mercato, la gerarchia proprietaria e il network trans-territoriale). In questi casi, inoltre, è spesso evidente il ruolo non trascurabile esercitato dai “consulenti” che preparano piani di sviluppo “a tavolino” e “a richiesta” senza conoscenze specifiche dei contesti, né coinvolgimento attivo dei soggetti locali. 7 Le Galès e Voelzkow (2001) identificano, in riferimento a Hollingsworth e Boyer, cinque modelli regolativi principali della governance delle economie locali: il mercato, l’organizzazione (integrazione verticale), lo stato, la comunità e l’associazione. I diversi modi di regolazione sono, in diversa forma e misura, compresenti in ogni sistema socio-territoriale: ogni caso presenta configurazioni regolative inedite, in cui predomina un modello, spesso combinato con altri. In maniera non dissimile, Rullani (2005) sottolinea come, «in funzione dei vantaggi competitivi dei quattro media considerati [il territorio, il mercato, la gerarchia proprietaria e il network trans-territoriale], il moltiplicatore cognitivo sarà affidato a media diversi a seconda delle aree e dei problemi da affrontare. In certi campi prevarrà il mercato, in altri la gerarchia, in altri ancora la rete territoriale o quella globale, trans-territoriale. Di conseguenza, i quattro media non sono soltanto concorrenti: in certi campi sono invece complementari» (pp. 160-161).

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2.2.2 Tema 2: la valutazione dello sviluppo locale Un secondo tema riguarda la necessità di valutazione. La scommessa delle politiche di

sviluppo locale, almeno nel caso italiano, si basa molto sul cambiamento delle modalità attraverso le quali sono distribuite le risorse finanziarie, con il passaggio da finanziamenti “a pioggia” a finanziamenti a chi se lo merita, poiché è in questi casi che (teoricamente) si produce un maggior “valore aggiunto”. Anche in attuazione del principio di sussidiarietà, l’ideazione del percorso di sviluppo da intraprendere è così lasciato ai livelli locali, concepiti come ambiti privilegiati di regolazione in funzione della capacità – supposta o reale – di tali livelli di elaborare progetti e strategie. Se però il livello locale non realizza progetti e strategie, e/o se i progetti e le strategie locali non sono coerenti rispetto alle regole stabilite, non si ottengono i finanziamenti o non si accede a premialità. L’affermarsi di meccanismi competitivi per accedere ai finanziamenti pone quindi alcuni problemi, di ordine teorico e pratico, che possono essere riassunti nei seguenti aspetti.

Il primo aspetto riguarda la definizione delle regole che devono essere rispettate per accedere al finanziamento (cioè, banalmente, la scrittura dei bandi) con la necessità di confrontarsi con i problemi già precedentemente ricordati relativi agli effetti ambivalenti dei processi di istituzionalizzazione. Il secondo aspetto concerne la competizione fra i territori per ottenere i finanziamenti (chi ce la fa e chi no. E cosa ne facciamo di quelli che non ce la fanno?). Il terzo aspetto, infine, è relativo al come e al cosa valutare. E’ questo un tema aperto, sia dal punto di vista pratico (definizione dei criteri e degli indicatori), sia da quello teorico, poiché richiede di riflettere sugli approcci valutativi, nonché su ciò che intendiamo per sviluppo locale, su quali siano le variabili chiave che intervengono nella sua attivazione e che richiedono di essere valutate. Non bastano infatti criteri di tipo economicistico e di efficienza (la capacità di spesa, la cantierabilità dei progetti), ma è necessario inserire anche criteri relativi all’aumento delle capacità locali in termini di capacità cognitive, relazionali (capitale sociale) e di riproduzione non distruttiva delle specificità territoriali. Nell’ambito delle discipline valutative, inoltre, la necessità di confrontarsi con lo sviluppo locale sembra aver portato al passaggio da un approccio alla valutazione come procedura di conformità rispetto a parametri definiti in anticipo, ad un approccio alla valutazione come procedura prestazionale (Ferrero, 2004). In questo caso, la valutazione non è più intesa come chiusura del processo decisionale, parola finale che permette di validare o falsificare scelte già effettuate, ma piuttosto come momento interno al processo di definizione e attuazione di politiche e interventi attraverso il quale valutare «le diverse strategie di utilizzo delle risorse locali, quelle espresse dal (…) nuovo intervento e quelle degli altri soggetti presenti nella area» (Zeppetella, 1999, p. 153).

2.2.3 Tema 3: le scale delle politiche di sviluppo Un terzo e ultimo tema, infine, riguarda il rapporto tra politiche di sviluppo locale e politiche di

sviluppo a scala più ampia (dal livello regionale a quello nazionale e sovranazionale). L’ipotesi che sembra farsi strada è infatti quella di considerare lo sviluppo locale non solo come locale, ma come un processo che può (deve) essere una risorsa anche per le politiche di sviluppo a scala superiore, costruendo sinergie e interazioni fra progetti e programmi a diverse scale. In maniera più esplicita: lo sviluppo locale non ha come orizzonte solo lo sviluppo del territorio su cui agisce, ma costruisce sinergie tra territori, tra interventi, tra politiche e processi a diversa scala poiché è a partire dal livello locale che si crea sviluppo anche ai livelli superiori e si può contribuire, ad esempio nel caso Europeo, agli obiettivi della coesione territoriale a scala comunitaria.

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3. La centralità del territorio: un salto dalla teoria alle pratiche

3.1. Lo sviluppo locale come sviluppo territorialmente ancorato Il dibattito sullo sviluppo locale ha messo in evidenza l’importanza della dimensione

territoriale all’interno dei processi dello sviluppo e delle politiche rivolte alla sua promozione (Dematteis e Governa, 2005). Questa considerazione appare rafforzata dal confronto con la letteratura internazionale che si interroga sul ruolo del territorio nella globalizzazione sottolineando, in maniera apparentemente paradossale, la nuova centralità assunta dal locale e dai luoghi all’interno di tali processi (Cox, 1997; Amin, 2002). Anche le riflessioni, presenti soprattutto nella letteratura anglosassone, sulla cosiddetta “rinascita regionale” (Storper, 1997a; 1997b; Scott, 1998; Scott e Storper, 2003; Agnew, 2000; Paasi, 2002), riconoscono, pur con accenti diversi, il ruolo del territorio come “attore” dei processi dello sviluppo.

Partendo da questo dibattito, è possibile riconoscere una sorta di evoluzione del modo in cui la dimensione territoriale “entra” nei processi dello sviluppo locale. In effetti, a partire dall’individuazione, ormai consolidata, del ruolo dell’agglomerazione e delle esternalità nel favorire lo sviluppo economico locale e la costruzione di uno specifico vantaggio competitivo per i sistemi locali di produzione (Crouch et. al., 2001), il riferimento al territorio nei processi di sviluppo locale si complessifica progressivamente, soprattutto attraverso il contributo della prospettiva istituzionalista (Amin, 1999) e, più in generale, del cosiddetto cultural turn nella geografia economica (Amin e Thrift, 2000; Rodríguez-Pose, 2001). In questo quadro, la dimensione territoriale entra non già come semplice spazio di localizzazione di fenomeni e attività, ma come connessione fra la dimensione identitaria, la dimensione politica, la dimensione economica, la dimensione simbolica e di mobilitazione sociale, la dimensione temporale (Di Méo, 2000). Di conseguenze, lo sviluppo locale non è più unicamente inteso come crescita di un settore produttivo o di un agglomerato di imprese, ma come un processo complesso in cui interagiscono diverse dimensioni (economico, sociale, culturale, politico,…), che si basa sull’autoorganizzazione dei soggetti locali e sulla valorizzazione condivisa e non distruttiva delle specificità dei luoghi (Dematteis e Governa, 2005). In tale concezione, il richiamo alla sostenibilità dei processi dello sviluppo costituisce un attributo fondativo, e non accessorio, dello sviluppo locale (cfr., la concezione di sviluppo locale autostenibile proposta da Magnaghi, 2000).

Nel complesso, dunque, sviluppo locale è sinonimo di sviluppo territoriale non solo perché è un processo di sviluppo localizzato (si attua cioè in certi luoghi), ma anche e soprattutto perché è specifico di un certo luogo, è ancorato al suo interno, i percorsi di sviluppo che possiamo immaginare per un certo luogo non possono essere semplicemente trasferiti altrove perché specifici, e quindi localmente differenziati, sono le specificità dei luoghi da valorizzare e i soggetti che in tali processi agiscono. Sviluppo locale, quindi, come sviluppo territoriale; e, ancora, sviluppo territoriale come sviluppo territorialmente ancorato8.

3.2. Il territorio dimenticato Tuttavia, benché si sia ormai affermato l’assunto che lo sviluppo sia per definizione

territoriale, spesso il territorio rimane una dimensione nascosta, tanto da portare, al di là delle dichiarazioni verbali, alla progressiva “opacità” e “evanescenza” della nozione di territorio. Ciò deriva da vari problemi. Ne citiamo due, quelli che ci sembrano essere i principali. 8 L’ancoraggio, o il radicamento?, territoriale dello sviluppo locale meriterebbero di essere discussi, anche in riferimento alla nozione di embeddedness del dibattito anglosassone (cfr. Hess, 2004).

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Il primo problema concerne la molteplicità di definizioni di territorio poste alla base delle diverse interpretazioni: nell’ambito dello studio dello sviluppo locale, le concezioni di territorio sono infatti molte, diverse, confuse. In sé, la presenza di una molteplicità di concezioni e di definizioni di territorio non è un aspetto problematico. Lo diventa nel momento in cui si erigono steccati che portano a definire e trattare le diverse concezioni di territorio in maniera mutuamente esclusiva. Tali steccati appaiono poi particolarmente “rigidi” perché segnano i confini fra diversi ambiti disciplinari. La molteplicità di concezioni e di definizioni di territorio deriva infatti anche dalla molteplicità di discipline che si occupano di sviluppo locale: per economisti, sociologi, politologi, geografi, planner, psicologi e quant’altro il territorio è “cosa” diversa. L’ampiezza degli studi e delle ricerche sullo sviluppo locale, prodotte in diversi ambiti disciplinari, rischia così di trasformarsi in un limite per il trattamento di alcune questioni, in specifico il ruolo del territorio nei processi dello sviluppo, vista la difficoltà di dialogo e confronto tra le diverse posizioni culturali e scientifiche, le diverse, e spesso contraddittorie, genealogie di riferimenti teorici e metodologici.

Il secondo problema riguarda lo scarso collegamento fra le riflessioni teoriche sullo sviluppo locale, e sul territorio, e le pratiche attuate per promuovere lo sviluppo locale in diversi contesti. Come ci dicono gli stessi studiosi di politiche territoriali, ad esempio P. Healey (2001), spesso le politiche per la promozione dello sviluppo, appaiono rivolte al raggiungimento di obiettivi del tutto avulsi dal riferimento al territorio in cui e su cui agiscono.

Nelle pratiche la situazione non è migliore. Facendo riferimento alla situazione italiana, nelle pratiche attuate sembra infatti essersi affermata una concezione estremamente semplificata e quasi “burocratica” di sviluppo locale in cui il territorio in realtà non c’è oppure, se c’è, è concepito in maniera estremamente riduttiva. Semplice “supporto”, schermo neutro su cui proiettare progetti e interventi, contenitore di risorse da sfruttare, indipendentemente da ogni verifica degli esiti (territoriali, ambientali, ecc.) di tale sfruttamento o, ancora, insieme di valori imprescindibili che “l’esperto” è in grado di riconoscere prima e al di fuori di ogni processo di interazione sociale (ad esempio: i beni culturali da tutelare). Particolarmente pervasive, forse anche perché funzionali alla definizione di una gerarchia di attività, sono le concezioni di territorio come contenitore, secondo la quale «ogni territorio ha (…) una dotazione differente di risorse che gli sono state assegnate e che rimangono per qualche motivo in esso “localizzate”» (Rullani, 2005, p. 123) e quella del territorio path-dependent, nella quale «la differenza fra un territorio e l’altro può essere (…) [attribuita] a diversi sentieri (paths) seguiti dai vari territori nell’autoproduzione della propria base materiale e della propria identità» (ibidem, pp. 124-125)9.

Il territorio quindi, nonostante sia ampiamente evocato, è variamente definito e concettualizzato, in realtà poco studiato e malamente “praticato”. Rimane quindi il problema: cos’è il territorio dello sviluppo locale? Come definirlo e analizzarlo?

3.3. Due semplificazioni Il modo in cui è pensato, definito e, quindi, valorizzato il territorio nei modelli teorici di

sviluppo locale, nelle politiche e nelle pratiche che a tali modelli fanno riferimento può essere schematicamente ricondotto a due semplificazioni.

9 C. Donolo (2003) individua una sorta di gerarchia, che segue l’ordine delle funzioni assegnate, del modo in cui le diverse “facce” del territorio sono richiamate nelle politiche e nelle pratiche: « in primo luogo e prevalentemente è contenitore, poi risorsa, poi un luogo, poi un paesaggio (se c’è turismo), poi è un ambiente, e così via» (p. 53).

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La prima semplificazione è quella che interpreta un territorio senza attori, con una visione naturale e naturalizzata del territorio che pone come postulato l’integrazione dell’uomo con il suo ambiente all’interno di un insieme avente la sua propria coerenza “naturale” e data (Berdoulay e Souberayn, 1991). Secondo J. Lévy (1999), la difficoltà di concettualizzare il ruolo del soggetto come attore, in relazione cioè alle intenzionalità e alle azioni che esso attua, si colloca in una concezione della geografia, erede della tradizione vidaliana, in cui la specificità dei luoghi e del territorio è descritta con un inventario oggettivo delle possibilità che si sono offerte e che si offrono all’agire umano in un dato contesto. Da questa concezione sono del tutto escluse le logiche propriamente sociali e politiche delle dinamiche territoriali: i soggetti sociali, e le azioni che essi svolgono, sono considerati come dei casi particolari, delle eccezione, degli annessi. I soggetti non sono quindi considerati come attori dotati di intenzionalità e razionalità proprie, ma sembrano per lo più agire secondo logiche determinate da strutture ambientali, economiche o storico-culturali o, al limite, obbedendo a criteri del tutto astratti di ottimizzazione del potere o del profitto (Berdoulay e Entrikin, 1998). Tale concezione porta a trascurare i soggetti come attori dei processi di trasformazione territoriale e di sviluppo, a eliminare i rapporti di potere delle relazioni sociali e, di conseguenza, ad espungere il conflitto. Con un curioso cortocircuito, infine, tale concezione tende a legittimare forme di conoscenza e di azione di tipo puramente tecnico, individuando nel “sapere esperto” l’unica forma di sapere “utile”. Ciò porta a ignorare, di fatto, il contributo conoscitivo che deriva dal rapporto tra diverse forme di conoscenza, dalla “conoscenza locale” e degli insiders. Si afferma così l’illusoria superiorità di una conoscenza ‘oggettivante’, in cui il territorio, gli agenti economici, le istituzioni, la società locale sono un ‘altro da sé’ su cui si applicano modelli interpretativi elaborati entro un sistema concettuale di tipo autoreferenziale, al di fuori di qualsivoglia rapporto di “scambio” tra ricercatore e contesto (sociale, territoriale, …) della ricerca.

Sia la concezione del territorio come contenitore di risorse, sia quella del territorio path dependent sono riconducibili a questa semplificazione. In entrambi i casi, infatti, non si tiene conto del ruolo degli attori. Nel primo caso, la differenziazione fra i diversi territori deriva dalla differente dotazione di risorse che caratterizza, come un dato, i diversi “contenitori”. Tale dotazione attrae, o respinge, le imprese, i capitali, i soggetti economici, i quali si localizzano nello spazio effettuando delle scelte che rispondono a comportamenti prevedibili e razionali, in relazione a convenienze unificate e standard che non si modificano nello spazio e nel tempo (Rullani, 2005). Nel secondo caso, la differenziazione spaziale deriva invece dallo svolgersi dei processi sociali nel tempo, è prodotto dalla storia indipendentemente dall’azione dei soggetti che in tali processi agiscono e dalle innovazioni (rotture, cambiamenti di rotta) che tali azioni possono delineare. Mentre nel primo caso, il rischio in agguato è quello di un riduzionismo economicistico, nel secondo è quello di un territorio sempre uguale a sé stesso, imbalsamato e fisso, in un riduzionismo storicista che si presta, in realtà, a diverse manipolazioni della memoria collettiva10.

La seconda semplificazione è quella che, in maniera speculare, interpreta degli attori senza territorio. E’ questa una concezione che vede il territorio unicamente come insieme degli attori che in esso agiscono, secondo una visione che si è andata consolidando nell’ambito del dibattito sullo sviluppo locale soprattutto a partire dagli studi dei politologi sui processi 10 Da dove partire nella ricostruzione del path di un certo territorio? Quali “strati” della storia sono considerati rilevanti e da chi? Per quali fini? Non è un caso che, come ci ricorda Di Méo (1998), il concetto di “memoria collettiva”, definito negli anni ’20 dal sociologo Maurice Halbwachs come «una ricostruzione del passato in funzione dei bisogni del presente» (p. 55), trovi significative esemplificazioni nelle pratiche attuali di marketing territoriali, di uso folklorico delle tradizioni, di identità inventate.

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decisionali delle trasformazioni territoriali. In questo caso, le relazioni fra i soggetti sono viste e interpretate come se gli attori si muovessero in una sorta di “vuoto pneumatico” che esclude ogni collegamento con le caratteristiche e le specificità territoriali. Il territorio è così chiamato a svolgere il ruolo di semplice supporto delle interazioni fra attori, riconoscendo, nei migliori dei casi, l’importanza della prossimità tra i soggetti nel favorirle.

Entrambe le semplificazioni richiamate sacrificano la complessità del territorio, trascurando, da un lato, il ruolo dei soggetti sociali come agenti di cambiamento, dotati di intenzionalità e razionalità proprie, le relazioni di potere, e i relativi conflitti, delle relazioni sociali ed eliminando, dall’altro lato, le diverse dimensioni del territorio fra le quali individuare gli elementi di cambiamento e di sviluppo.

3.4. Per una concezione relazionale di territorio Le concezioni di territorio presenti nel dibattito italiano sullo sviluppo locale si

confrontano con le semplificazioni prima ricordate fornendo indicazioni utili per superarle, sia dal punto di vista teorico sia con prime “incursioni” nelle pratiche11.

Il punto di partenza di tali concezioni è la nota definizione di territorio di C. Raffestin (1981a), secondo il quale «il territorio è generato a partire dallo spazio, è il risultato di un’azione condotta da un attore sintagmatico (attore che realizza un programma) a qualsiasi livello. Appropriandosi concretamente o astrattamente (per esempio, mediante la rappresentazione) di uno spazio, l’attore “territorializza” lo spazio» (p. 149). Sulla base di questa definizione, il territorio è concepito e interpretato come patrimonio territoriale (Magnaghi, 2000), sottolineando in particolare i valori di cui il territorio è portatore, e come capitale territoriale, che riconosce principalmente le risorse di cui un territorio è dotato, intese però come beni comuni, non appropriabili privatamente, ma solo in maniera condivisa12. Per accedere o poter utilizzare tali risorse, quindi, «bisogna partecipare, in prima persona e senza mediatori, ad un processo di interazione che si svolge in un luogo specifico e si lega alla natura del contesto locale» (Rullani, 2005, p. 144) o, ancora, «la via di accesso alla risorsa “territorio” (…) non è né pubblica, né privata, ma esperienziale: passa per il fare esperienza del luogo, delle sue relazioni, della sua identità e cultura» (ibidem, p. 146). La risorsa territoriale non è dunque separabile dall’esperienza e dalla condivisione (con altri attori, interessi, ecc.) di un certo luogo.

Le concezioni di patrimonio territoriale e di capitale territoriale sono per tanti versi simili, ma non perfettamente coincidenti. Senza entrare nel merito delle somiglianze e delle differenze, ciò che è importante sottolineare è che esse permettono di interpretare il territorio come un insieme multidimensionale in cui si intrecciano risorse e valori, componenti oggettive e soggettive, il “senso del luogo”, soggettivo e simbolico, e la “concezione del luogo”, relativamente oggettiva e naturalistica (Entrikin, 1991). Questa interpretazione rende esplicita la natura relazionale del territorio: per comprendere il territorio è quindi necessario “appostarsi” sul crocevia di tali relazioni (Dematteis, 1999). Il territorio dello sviluppo locale non è pertanto interpretabile come una realtà data, rigidamente individuabile e delimitabile sulle carte, ma è piuttosto un divenire possibile che

11 Tentativi di applicazione di concezioni non banali di territorio sono presentati e discussi in Dematteis, Governa e Vinci (2003); Dansero, Dematteis e Governa (2005) e nei lavori di A. Magnaghi (ad esempio, il PTCP della Provincia di Prato; cfr. Magnaghi, 2004). 12 L’espressione capitale territoriale è stata utilizzata nel corso dell’elaborazione del 3° Rapporto sulla coesione economica e sociale della Commissione europea, nel Territorial Outlook 2001 dell’OCDE e poi ripresa, nell’ambito della ricerca SLoT, proprio in relazione ai processi dello sviluppo locale (Dematteis e Governa, 2005).

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si costruisce nel passato, ma la cui valorizzazione permette di dare senso alle azioni e ai progetti del presente e del futuro, un costrutto sociale che deriva dalla interazione fra i soggetti e le componenti fisse (fixed assets; cfr. Amin, 2000), materiali e immateriali, del territorio. In definitiva, la concezione relazionale di territorio permette di:

(i) sottolineare il ruolo dei soggetti come attori territoriali, cioè come portatori di un’intenzionalità che trova la sua logica nel riferimento al territorio. Gli attori sociali agiscono cioè come portatori di pratiche e di conoscenze, “costruttori” di territorio e di logiche di riferimento identitario ai luoghi;

(ii) considerare i territori locali come “costruzioni sociali” che derivano dalla mobilitazione dei gruppi, degli interessi e delle istituzioni territoriali, in un processo in cui le interazioni fra soggetti prendono varie forme: il confronto, la cooperazione, il conflitto e

(iii) riconoscere come tali “costruzioni sociali” si definiscono, si attivano e danno luogo a specifiche territorialità, esito di processi, di azioni e di comportamenti che definiscono le pratiche (anche conoscitive) degli uomini in rapporto alla realtà materiale.

4. La territorialità nello sviluppo locale

4.1. Esteriorità, alterità, mediatori, autonomia Dobbiamo a questo punto interrogarci sulla nozione di territorialità e, in particolare,

chiederci quale concezione di territorialità può essere utile per cogliere la molteplicità dei territori dello sviluppo locale, la molteplicità di relazioni che i soggetti instaurano fra loro e con i luoghi, le differenti modalità di azione cui tali relazioni danno origine13.

Per rispondere a questa domanda, partiamo dalla definizione di territorialità di C. Raffestin (1981a) secondo il quale la territorialità è un «insieme di relazioni che nascono in un sistema tridimensionale società-spazio-tempo in vista di raggiungere la più grande autonomia possibile compatibile con le risorse del sistema» (p.164). E ancora, la territorialità è l’«insieme delle relazioni che una società, e perciò gli individui che ne fanno parte, intrattengono con l’esteriorità e l’alterità per soddisfare i propri bisogni con l’aiuto di mediatori (médiateurs), nella prospettiva di ottenere la maggior autonomia possibile, tenendo conto delle risorse del sistema» (Raffestin, 1999, corsivo nostro). La territorialità, dunque, non indica solo la relazione dei soggetti con le “cose”, ma anche le relazioni fra i soggetti; non solo, inoltre, il rapporto con spazi concreti, ma anche con spazi astratti e simbolici (Governa, 2005). La rete di relazioni che definisce la territorialità si attua attraverso l’azione di mediatori, in una sorta di relazione triangolare oggetto/mediatore/soggetto.

Da questa definizione emergono quattro elementi-chiave: le relazioni con l’esteriorità, cioè le relazioni dei soggetti locali con il territorio, il milieu, l’ambiente; le relazioni con l’alterità, cioè le relazioni dei soggetti locali con altri soggetti, locali e sovra-locali; i mediatori; l’autonomia. Per quanto riguarda i mediatori, Raffestin (1981b) sottolinea come, nella territorialità umana, essi siano rappresentati non solo da strumenti endosomatici (appartenenti cioè all’organismo), ma anche esosomatici (non appartenenti cioè all’organismo, ma prodotti dall’uomo; Raffestin cita a questo riguardo il ruolo di mediatore svolto dalla lingua). Nell’ambito dello sviluppo locale, i progetti (intesi in senso ampio, come visioni condivise di un futuro desiderabile e realizzabile attraverso trasformazioni materiali e non, con vari mezzi: programmi, piani, progetti in senso stretto ecc.), e le azioni collettive da cui derivano,

13 Una più approfondita discussione intorno alla nozione di territorialità è in Governa (2005).

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possono essere considerati dei mediatori nella costruzione delle relazioni fra soggetti e fra attori e territorio. Avremo quindi una relazione triangolare territorio/progetto/soggetto. Tali mediatori saranno tanto più efficaci tanto più permetteranno il passaggio dall’autonomia del soggetto individuale all’autonomia collettiva, facendo sì che le relazioni fra attori e fra attori e territorio costruiscano l’identità collettiva dei soggetti e, infine, favorendo la mobilitazione degli stessi e la valorizzazione di risorse territoriali specifiche. Per quanto riguarda l’autonomia, è invece necessario superare le semplificazioni insite nel riferimento a tale concetto nell’ambito delle politiche di promozione dello sviluppo locale in cui l’autonomia è vista come un dato, una caratteristica statica, posseduto o no dai diversi luoghi (De Filippis, 1999)14. Al contrario, essa è un concetto relazionale: «autonomy is an expression of power, and as such, it is not a static thing granted or possessed by individuals, states, or localities, but is instead a relational construct» (ibidem, p. 979). Essendo una espressione del potere, quindi, l’autonomia non è una cosa, ma un processo che deriva da: (i) la composizione, più o meno conflittuale, fra le forze, le pratiche, i processi e le relazioni del dominating power (cioè la direzione top-down delle relazioni di potere) e le forze, le pratiche, i processi e le relazioni del resisting power (cioè la direzione bottom-up delle relazioni di potere) (Sharp et al., 2000) e (ii) l’intreccio delle azioni messe in atto dagli attori nel locale e rivolte sia verso l’interno (autorappresentazione), sia verso l’esterno (apertura, partecipazione alla rete di relazioni sovra-locali, dal livello regionale a quello globale) (Governa, 2005).

Partendo da qui, possiamo provare a ridefinire la nozione di territorialità in relazione alle dinamiche dello sviluppo locale. In questo caso, avremo che la territorialità è l’insieme delle relazioni che i soggetti locali instaurano con le specificità dei luoghi (l’esteriorità) e con altri soggetti, locali e sovra-locali (l’alterità), le quali, attraverso il ruolo di progetti di sviluppo locale (mediatori), danno origine a diverse modalità di azione che, componendo relazioni di potere di tipo top-down e bottom-up e tenendo conto (valorizzando) le risorse del sistema territoriale in cui si attivano, permettono di promuovere e/o incrementare lo sviluppo locale (l’autonomia locale) dello stesso. Le relazioni con l’esteriorità possono essere di diverso tipo poiché, come abbiamo visto, l’esteriorità (schematizzando: il territorio) è variamente definito. Così come anche le relazioni con l’alterità possono assumere diverse forme: in particolare, possono essere relazioni di tipo inclusivo (o includente) e relazioni di tipo esclusivo (o escludente)15. 14 Per Turco (1988) l’autonomia è il metro per valutare il successo di un’azione: «ciò che ci importa dell’agire non è solo la coerenza – spesso solo illusoria – funzionale al raggiungimento di un risultato più o meno esplicitamente perseguito; ci importa anche e soprattutto la sua coerenza sostanziale, consistente nel mantenere le dinamiche dell’autonomia in una “coltura” dialettica anziché contraddittoria» (p. 49). 15 Un’azione inclusiva è un’azione cui «prendono parte, su un piano di parità, tutti coloro che sono coinvolti dalle conseguenze della decisione» (Bobbio, 2005, p. 68). Nelle pratiche esistono diversi gradi di inclusione. Le esperienze concrete tendono infatti a collocarsi entro due estremi: «da una parte si trovano le arene tendenzialmente chiuse, formate da pochi attori con interessi omogenei (anche se contrapposti). Dall’altra le arene tendenzialmente aperte e formate da molti attori con interessi disomogenei. Il primo caso (…) è tipico delle arene neocorporative (…). Sul fronte opposto (…) troviamo esperienze (…) [in cui] si mescolano interessi di diversa natura (economici, sociali, ambientali) sostenuti da una rappresentanza plurima e frammentata. In una posizione intermedia tra questi due estremi possiamo collocare i casi di concertazione per lo sviluppo locale (come i patti territoriali) dove la rappresentanza è più variegata rispetto alle arene neocorporative, ma gli interessi in campo sono prevalentemente economici» (ibidem, pp. 76-77). Il problema delle condizioni di uguaglianza dei partecipanti è discusso in Cammelli (2005), che sottolinea come essa sia praticabile solo in ordine a microdecisioni relative ad oggetti e ambiti fortemente limitati (e che, quindi, non intercettano interessi di maggior rilievo). Un altro problema riguarda la definizione di chi

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4.2. Territorialità e azione collettiva: una schematizzazione Per ragionare su questi diversi elementi, possiamo situare diversi tipi di relazioni fra

soggetti, diversi tipi di rapporto che legano le azioni dei soggetti al territorio e diversi tipi di politiche e strategie di azione in uno schema che incrocia le relazioni con l’esteriorità (considerando da un minimo, in cui il territorio è visto come un semplice supporto, ad un massimo, in cui il territorio è visto come patrimonio/capitale territoriale) e le relazioni con l’alterità (considerando anche in questo caso, da un minimo, azioni di tipo esclusivo, che mirano cioè ad escludere soggetti e risorse, ad un massimo, azioni di tipo inclusivo, che mirano ad includere soggetti e risorse). Otteniamo così 4 quadranti, 4 situazioni, 4 diverse strategie e modalità di azione (fig. 1).

Figura 1 – Territorialità e azione collettiva: una schematizzazione

PATRIMONIO/CAPITALE TERRITORIALE

Alterità

SUPPORTO, SCHERMO, TABULA RASA

Esteriorità

AZIONE ESCLUSIVA  AZIONE INCLUSIVA 

Territorio senza attori  

politiche di tipo vincolistico su “oggetti”

Territorialità attiva  

azione collettiva territorializzata 

Territorialità passiva  

politiche top‐down impositive e autoritative

Attori senza territorio  

politiche areali, pratiche di consensus building 

Nel quadrante in basso a sinistra, le relazioni con l’esteriorità e con alterità sono minime:

il territorio è cioè visto come un supporto e le relazioni fra soggetti si basano su azioni di tipo esclusivo, che mirano cioè a separare ed escludere (altri soggetti, altre risorse, ecc.). In questo caso, abbiamo una territorialità di tipo passivo come quella descritta da R. D. Sack (1986): la territorialità cioè come primaria espressione geografica di potere sociale e di

sono coloro coinvolti dalle conseguenze della decisione e che, quindi, devono prendere parte all’azione per connotarla come azione inclusiva.

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controllo dello spazio, una strategia spaziale per influenzare o controllare risorse o persone controllando un’area. Essa si esprime secondo strategie di controllo dello spazio e di coercizione dei soggetti, che si esplicano, anche se non esclusivamente, attraverso il tracciamento di confini. Dal punto di vista delle politiche, tale concezione di territorialità fa riferimento ad una concezione delle stesse del tipo “comando e controllo”. In definitiva, questo tipo di territorialità trova il suo referente nei modelli regolativi di tipo top-down, che agiscono secondo modalità autoritative, in cui (almeno teoricamente) c’è un unico soggetto che agisce (colui che definisce la politica: il soggetto pubblico, il pianificatore onnisciente, la razionalità tecnico-strumentale, ecc.), esprimendo una forma specifica di potere, cioè un potere di controllo e coercizione, impositivo e/o manipolativo del consenso. Gli altri soggetti, i soggetti sociali in senso lato, hanno solo dei comportamenti passivi, predefiniti e conformi rispetto alle aspettative esterne e indotti dalle strutture di controllo, ma non hanno intenzionalità proprie (non svolgono delle azioni)16. Nonostante le apparenze, tuttavia, non sempre la territorialità passiva si pone obiettivi negativi. Anzi, spesso il controllo si esercita “a fin di bene”: questo “bene” è però definito dai controllori, mentre i controllati non hanno autonoma possibilità di giudizio e di azione per far emergere i propri bisogni o far valere i propri interessi. E’ questa una modalità di “trattamento” dei bisogni e dei modi per soddisfarli tipica della tradizione amministrativa e della pianificazione territoriale intesa come regolazione autoritativa delle scelte e strutturazione gerarchica del conflitto (Tosi, 1994).

Nel quadrante in alto a sinistra abbiamo minime relazioni con l’alterità e maggiori relazioni con l’esteriorità: il territorio è infatti considerato come patrimonio/capitale territoriale, dotato quindi di valori e risorse specifici, mentre le relazioni fra soggetti sono impostate secondo una logica esclusiva. In questo caso, abbiamo una concezione del tipo territorio senza attori, in cui le differenze e le specificità locali sono (i) individuate da pochi (“tirate fuori” dalla interazione sociale, enfatizzando così il ruolo del tecnico e della conoscenza oggettivante) e (ii) sottoposte a strategie esclusive (sono valori e risorse solo per pochi o, comunque, basate su politiche puramente conservative e vincolistiche come, ad esempio, le politiche sul patrimonio culturale che puntano alla museificazione di singoli oggetti; cfr. Dansero, Emanuel e Governa, 2003).

Nel quadrante in basso a destra abbiamo invece maggiori relazioni con l’alterità rispetto a minime relazioni con l’esteriorità: il territorio è visto come un semplice supporto di soggetti, di progetti, di azioni le quali sono impostate secondo logiche inclusive. Questa situazione può essere riassunta nella formula attori senza territorio, che sottolinea in maniera pressoché esclusiva l’importanza delle interazioni fra i soggetti. Esse si realizzano più facilmente in uno spazio ristretto in quanto sono favorite dalla prossimità fra i soggetti interagenti (rapporti face to face, condivisione di esperienze e conoscenze contestuali, rapporti di fiducia, reciprocità, ecc.). E’ questo un tipo di rapporto tra soggetti e territorio ampiamente riconosciuto, che dà luogo a politiche areali che si risolvono spesso nella condivisione fra attori forti di interessi corporativi e/o lobbystici o in pratiche di consensus building. Questo modo di agire è piuttosto consueto nelle pratiche: gli accordi fra i soggetti fanno parte, da sempre, in maniera più o meno esplicita, dei processi di trasformazione urbana e territoriale (Davoudi, 1995). Le innovazioni recenti nelle politiche per la 16 Turco (1988), citando V. Reynolds, riferisce la distinzione fra comportamenti (intesi come reazioni a uno stimolo) e azioni (che derivano dalla “consapevolezza concettuale”, cioè fondamentalmente dal pensiero astratto, dal mondo di idee e simboli che permettono all’uomo di interpretare e rappresentare la realtà) alle differenze fra animale e uomo. La distinzione qui proposta individua invece dei comportamenti passivi anche nell’azione umana, in relazione al ruolo più o meno impositivo delle strutture di controllo (cfr., Governa 2005).

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promozione dello sviluppo sarebbero, in questo caso, soprattutto da mettere in relazione alla esplicitazione (anche formale e normata) degli accordi, al riconoscimento del loro contenuto positivo e, infine, alla maggiore o minore quantità e qualità dei soggetti che partecipano all’accordo17.

Infine, nel quadrante in alto a destra abbiamo la situazione più virtuosa che è difficile riscontrare nelle pratiche, ma alla quale tendere. In questo caso, sono infatti massimi sia i rapporto con l’esteriorità, il territorio è cioè visto come patrimonio/capitale territoriale, sia i rapporti con l’alterità, le relazioni fra soggetti sono e si basano su azioni di tipo inclusivo. E’ questo il caso di una territorialità à la Raffestin: i territori sono considerati come “territori attivi”, in cui la territorialità indica l’insieme delle pratiche e delle conoscenze degli uomini in rapporto alla realtà materiale per valorizzare risorse territoriali specifiche attraverso strategie inclusive di una molteplicità di attori e interessi al fine di promuovere o incrementare l’autonomia locale. Dal punto di vista delle politiche, la territorialità attiva si esprime attraverso strategie che, attraverso il confronto, anche conflittuale, con le pratiche sociali e le attese dei soggetti, si basano sul coinvolgimento di una molteplicità di attori i quali condividono una specifica visione del territorio, delle sue risorse e dei suoi valori. Ogni soggetto è in grado di agire, di rivestire ruoli e di svolgere azioni innovative, configurando, in questo modo, strategie di risposta/resistenza rispetto a quelle impositive del controllo e costruendo, così, cambiamenti e innovazioni. Questo tipo di territorialità trova esemplificazione nei modelli regolativi che si basano su un approccio bottom-up i quali, almeno teoricamente, si definiscono attraverso l’azione condivisa di una molteplicità di soggetti, ognuno dotato di razionalità e responsabilità propria, così come di specifiche conoscenze. In esse, si definisce un tipo “nuovo” di regolazione, la regolazione territoriale, che si affianca alle forme classiche fondate sul ruolo dello Stato, del mercato o della cooperazione/reciprocità fra i membri della comunità, e in cui il territorio svolge il ruolo di operatore attivo della regolazione (Le Galès, 1998). La modalità di azione che corrisponde alla situazione della territorialità attiva può essere riassunta nella formula azione collettiva territorializzata.

5. Sui limiti e le possibilità dell’azione collettiva territorializzata

L’espressione azione collettiva territorializzata o territorializzazione dell’azione collettiva è un’espressione ambigua, cui è difficile far corrispondere un significato condiviso e unico. E’ forse quindi un buon esempio di quei fuzzy concepts che caratterizzano il dibattito sullo sviluppo regionale (Markusen, 1999). Possiamo però provare a ragionare sui significati di 17 Facendo riferimento al caso italiano, L. Bobbio (2000) mette in evidenza che ciò che accomuna le politiche di sviluppo locale (dagli strumenti della programmazione negoziata ai programmi urbani complessi), diverse per oggetto, finalità, soggetti coinvolti, ambito territoriale o scala dell’intervento, è il loro esplicito contenuto “contrattuale”. Più complessa la posizione di Donolo (2005), il quale riconosce le differenze fra due tipi di politiche: le politiche basate sull’intreccio fra istituzioni pubbliche e attori civili e quelle basate sull’intreccio fra istituzioni pubbliche e interessi d’impresa privata. Nei due tipi, gli elementi di innovazione sono diversi: nel primo caso, l’innovazione risiede nella possibilità di produrre beni pubblici tramite pratiche sociali; nel secondo, «l’innovazione maggiore (…) non sta nell’elemento negoziale, ma nei contesti regolativi in cui deve avvenire la contrattazione» (fondamentalmente: la presenza di un quadro di riferimento regolativo che impone vincoli, modalità, valutazioni). Come mettono in evidenza Imrie e Raco (1999) l’affermarsi di teorie e pratiche di governance nell’ambito delle politiche urbane e territoriali in UK non è tanto un cambiamento radicale, quanto piuttosto una transizione, almeno in parte in continuità con le strutture, gli stili politici e le traiettorie di azione del government.

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questa espressione e capire quale può esserci utile per cogliere la dimensione territoriale dello sviluppo locale.

In termini generali, la territorializzazione è esito dell’agire collettivo, ma anche la condizione riproduttiva dell’azione e della collettività (Turco, 1988). Secondo Beck, Giddens e Lash (1994), la tendenza verso la territorializzazione dell’azione collettiva è da connettersi a quella che gli autori chiamano “seconda modernità” o “modernità riflessiva”. Dato saliente della “seconda modernità” sarebbe il superamento di quei “sistemi esperti” di gestione delle azioni sociali che avevano funzionato nella prima modernità come sistemi esterni rispetto alla società e ad essa sovraordinati. Nell’ambito dei processi urbani e territoriali, e in particolare nell’ambito delle politiche rivolte alla loro “regolazione”, tale espressione è utilizzata per indicare un cambiamento di scala (dal nazionale al locale), come “espressione ombrello” per additare, in maniera un po’ generica, l’importanza assunta dalle politiche locali, attraverso le quali attuare processi di decentramento e dare contenuto pratico al principio di sussidiarietà (Faure, 1997a). Benché esistano diverse accezioni di questo principio, che vanno dalla ricerca di nuovi strumenti di analisi alla definizione di nuovi principi di azione e di legittimazione dell’intervento pubblico, una concezione riassuntiva definisce la sussidiarietà come principio che, oltre a tutelare l’autonoma capacità decisionale e gestionale dell’ente di livello inferiore, organizza i rapporti fra i poteri pubblici e tra potere pubblico e società civile e riassume la crescente tendenza verso la territorializzazione delle azioni (Faure, 1997b). Come sostiene Faure, le principali differenze degli attuali modelli dell’azione pubblica rispetto a quelli degli anni ‘70 sono costituite dal «passage du “local” au “territorial”» (ibidem, p. 235) e, più in particolare, dal passaggio dal principio dell’efficienza pubblica, secondo cui la legittimazione delle politiche si basa sulla nozione di interesse pubblico definito astrattamente, al principio dell’efficacia territoriale, secondo cui una politica è efficace, e pertanto si legittima, nel momento in cui risponde ad un interesse territoriale che si costruisce localmente in maniera condivisa.

Questo modo di intendere la territorializzazione è però ancora troppo ampio e apre due problemi, teorici e politici, strettamente legati fra loro (Amato e Governa, 2006). Il primo problema è costituito dalla equazione territoriale=locale (per le differenze: cfr. Giusti, 1990 e Dematteis, 1994), che porta a utilizzare i termini territorio e territoriale come sinonimi di livelli di competenze, di ambiti spaziali su cui si esercita un potere o una funzione amministrativa, o ancora come “aree” delimitate a puri fini statistici e/o classificatori. Non è un caso, ad esempio, che molta della letteratura sulla “rinascita regionale” adotti un’idea “prescientifica” di regione (Paasi, 2002), nella quale la regione è considerata esclusivamente come un’unità data, che delimita una “griglia spaziale” neutra e a-territoriale. Il secondo problema è invece rappresentato dall’adesione, entusiastica e un po’ acritica, verso qualsiasi politica locale. In questo modo, il consenso verso le politiche locali, spesso interpretate come azioni di governance, fornisce la legittimazione teorica alle politiche del minimal state in quanto esse si configurano come «faccia accettabile dei tagli alle spese pubbliche» (Stoker, 1998, cit. in Rhodes 2000, p. 55). In effetti, come sostiene Storper (2001), le politiche locali, in alcune sfere assolutamente necessarie e desiderabili, implicano spesso la “ritirata” dello Stato da alcuni compiti necessari di regolazione dell'economia capitalista al fine di assicurare un minimo di inclusione sociale e di ridurre le ineguaglianze.

Cosa possiamo intendere per territorializzazione dell’azione collettiva e, più in particolare, cosa significa interpretare le politiche di sviluppo locale come azioni collettive territorializzate? Per rispondere a queste domande, può essere utile provare a mettere in ordine tre aspetti: (i) cosa significa interpretare le politiche di sviluppo locale come azioni collettive; (ii) quali sono i contenuti delle azioni collettive e (iii) cosa possiamo intendere per

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territorializzazione dell’azione collettiva senza cadere nei “tranelli”, teorici e politici, che si nascondono al suo interno e per non banalizzare la complessità del territorio.

Partiamo dalla definizione di B. Dente (1990), secondo il quale le politiche pubbliche possono essere viste come azioni collettive, cioè come «insieme delle azioni compiute da un insieme di soggetti (gli attori), che siano in qualche modo correlate alla soluzione di un problema collettivo» (p.15). Questa definizione permette di superare una visione giuridico-formale dell’esercizio del governo, a favore di una rilevazione empirica degli attori, delle azioni che essi mettono in opera e dei meccanismi concreti di interazione che descrivono le forme conflittuali e cooperative dei processi di costruzione delle politiche. Essa consente inoltre di considerare le politiche pubbliche come pratiche messe in atto da attori (di diverso tipo e natura) rivolte alla soluzione di un problema collettivo. Tali pratiche hanno per oggetto un bene comune, un bene cioè non suscettibile di appropriazione privata e esclusiva, il quale è contemporaneamente presupposto di ogni forma di agire e esito - voluto o no – dell’interazione tra gli attori (Donolo, 2005). Le politiche territoriali per la promozione dello sviluppo locale, dunque, come pratiche, messe in atto da una molteplicità di attori (pubblici e privati, individuali e collettivi, di diverso livello e natura, con una pluralità di interessi anche non omogenei) per “risolvere” il problema collettivo dello sviluppo. Queste pratiche hanno per oggetto il bene comune territorio, il quale si configura come presupposto e esito dell’azione stessa18.

Quali sono però i contenuti di un’azione collettiva o, meglio, fino a che punto l’azione di una molteplicità di attori può essere collettiva? Azione collettiva non è sinonimo di azione priva di conflitti. Essa indica, al contrario, un’azione in cui i conflitti, che possono riguardare interessi (locali/generali; ambientali/economici; ecc.), attori (istituzioni pubbliche di diverso livello; pubblico/privato; ecc.), visioni del territorio o di singole specificità dei luoghi (attribuzione di valore differente; riconoscimento/negazione; ecc.), non sono negati, ma sono riconosciuti. In altri termini, il riferimento ad un territorio specifico come base per la costruzione dell’azione non determina di per sé la soluzione dei conflitti e delle controversie, ma li considera e non cerca di nasconderli, permettendone in questo modo il trattamento.

Il fatto di essere un’azione territoriale, che riguarda cioè il bene comune territorio, qualifica in qualche modo l’azione collettiva territoriale oppure no? Va in primo luogo messo in evidenza che azione territorializzata non è, semplicemente, sinonimo di azione localizzata. Quasi tutte le azioni sono localizzate, cioè insistono in una certa area, mentre non tutte, o poche, sono territorializzate. Per interpretare la localizzazione delle azioni, dei progetti, degli interventi non c’è bisogno di scomodare il recente dibattito geografico-territoriale come, ad esempio, quello che si esercita sulla interpretazione del concetto di luogo, del sense of place, dell’identità territoriale, ecc., ma è sufficiente riferirsi ai modelli e alle teorie classiche – o neo-classiche - della localizzazione. Come ci ricorda M. Storper (1997b), «territorialized economic development may be defined as something quite different from mere location or localization of economic activity. It consists, for our purposes, in economic activity which is dependet on resources that are territorially specific» (p. 20). Territorializzazione vuol quindi dire qualcosa di più (o di altro o diverso) di localizzazione o, in altri termini, esiste una differenza fra azione localizzata, azione cioè che si svolge in un certo luogo, e azione locale, che si basa sulla valorizzazione condivisa delle specificità di un certo territorio (Klein, 1997). In questo quadro, la territorializzazione può essere

18 Così come ogni bene comune, anche il territorio è esposto alla “tragedia dei beni comuni”, insita nella natura di tali beni: esso subisce cioè comportamenti egoistici e usi predatori, che minacciano continuamente la stessa esistenza del bene (Donolo, 2003).

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considerata, seguendo Turco (1988), come azione sociale che produce territorio, usa territorio e attiva, sviluppa e conclude relazioni fra attori tramite il territorio (in cui cioè il territorio svolge il ruolo di mediatore). L’azione collettiva territorializzata, inoltre, non deriva solo dalla declinazione locale di regole o norme sovralocali, ma implica la definizione, specifica e locale, di sistemi autonomi di azione. Azione collettiva territorializzata infine, non è solo un’azione condivisa, ma è un’azione in cui questa condivisione riguarda il riconoscimento e la valorizzazione delle potenzialità territoriali (intese nella maniera più varia e ampia possibile) le quali, a loro volta, sono beni comuni accessibili, come abbiamo visto, solo attraverso esperienza e condivisione. In altri termini, è necessario tenere presente che, benché l’azione comune fra diversi soggetti locali sia di per sé un valore, tuttavia anche gli obiettivi che l’azione si pone concorrono a definire questo valore. Una possibile linea di demarcazione è quella che intercorre tra una concezione della azione comune come fine in sé e una concezione dell’azione comune come mezzo per raggiungere altri fini (lo sviluppo locale).

Se proviamo, almeno in prima approssimazione, a riassumere quanto detto, abbiamo che un’azione può dirsi territorializzata in una triplice accezione: perché si costruisce attraverso l’azione condivisa dei soggetti territoriali; perché questa condivisione rende accessibile il bene comune territorio, permettendo la valorizzazione delle specificità territoriali e la legittimazione dell’azione; perché queste specificità territoriali costituiscono matrice ed esito dell’azione dei soggetti. Un’azione collettiva territorializzata è quindi un’azione in cui (i) si attiva una rete di soggetti che condividono una identità territoriale, delle forme di organizzazione, delle istituzioni; (ii) l’esperienza comune dei soggetti definisce le risorse del capitale territoriale locale e permette la condivisione dei valori di cui il territorio è portatore; (iii) i territori su cui tali soggetti agiscono si costruiscono nel corso dell’azione (cioè, l’azione collettiva territorializzata non si esercita su territori delimitati secondo le tradizionali partizioni amministrative, ma su costruzioni sociali che si esercitano su, e danno luogo a, una specifica territorialità definita nella interazione fra territorio/azioni/soggetti); (iv) la valorizzazione del potenziale endogeno dei singoli territori è la base per la costruzione della identità dei soggetti e per la definizione dell’efficacia delle politiche; (v) le forme e le modalità di coordinamento fra soggetti sono di tipo transcalare e possono riguardare parti anche dimensionalmente diverse di territorio.

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1. Sviluppo locale e turismo

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1.1. Turismo e diritti umani: il ruolo della cooperazione internazionale per lo sviluppo locale nell’altrove turistico a democrazia debole in Africa

Giovanni Sistu∗

Il comparto turistico rappresenta uno dei settori economici a maggiore capacità di crescita e dunque il possibile volano per un nuovo modello di sviluppo economico e sociale. Sono numerosi gli esempi a livello internazionale in cui è stato possibile sfruttare il vantaggio competitivo nella produzione di servizi turistici per intraprendere sentieri di crescita e di sviluppo duraturi, in grado di rafforzare nel tempo la capacità di generare nuovo reddito e di qualificare il turismo come settore trainante per l’intero sistema economico.

Lo scenario turistico internazionale si presenta sempre più articolato e segmentato. Le potenzialità della domanda di turismo sostenibile sono in questo senso elevate; soprattutto in riferimento al bacino del Mediterraneo emerge il crescente interesse per le risorse turisticamente rilevanti di tipo ambientale e socio-culturale da parte di un’utenza caratterizzata da una capacità di spesa media e medio-alta.

La concezione tradizionale di viaggio risulta sempre meno rilevante sotto l’aspetto motivazionale, segnando il passo rispetto a fattispecie molto più vicine alla dimensione del turismo sostenibile, quali la vacanza di scoperta (natura, storia, arte, enogastronomia) e la vacanza ambientale in senso stretto, contraddistinte dall’esigenza di entrare in contatto diretto con le popolazioni, la storia, la cultura, l’attualità dei luoghi visitati.

Eppure, il rapporto complesso fra turismo e sviluppo locale non è strutturalmente codificato in ragione dell’assenza di modelli di sviluppo locale che siano immediatamente adattabili ai sistemi turistici.

Anche in questo ambito ricompare il dualismo sistemi turistici storici e nuove mete. Nel primo caso, al di là dei consolidati quadri di lettura legati al ciclo di vita delle località

turistiche, in alcuni recenti interventi si è cercato di porre le basi per la costruzione di un modello di sviluppo turistico locale, nel quale l’approccio metodologico nasce dall’analisi dell’agire degli attori territoriali (pianificatori, amministratori, operatori del settore), letto attraverso le esperienze recenti di “pianificazione partecipata”, quali gli STL, le A21L, i piani per la gestione integrata dei litorali, le conservatorie delle coste, etc. In effetti alla standardizzazione dei modelli di fruizione turistica non è finora corrisposto un approccio sistematico di ricerca sul rapporto complesso fra condizionalità sociali, condizionalità ambientali, opportunità economiche e persistenze nei sistemi territoriali turistici.

Nel secondo caso, la dinamica del processo turistico costituisce un indicatore di forte sensibilità rispetto ai temi dello sviluppo possibile. L'esplosione del tema della sostenibilità funge indubbiamente da strategia prevalente nella costruzione di nuove “politiche dell'ambiente” sia per la generalità dei paesi in via di sviluppo sia per lo specifico contesto

∗ Università di Cagliari.

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regionale mediterraneo. Nelle diverse sub-aree regionali, all'interno di un quadro di rappresentazione esterna tendente all’omogeneizzazione, è possibile di fatto riscontrare dinamiche istituzionali e politiche segnate da marcate differenze, che tuttavia trovano elementi di forte ricomposizione oltreché negli interventi in campo ambientale, nel ruolo di traino allo sviluppo affidato al turismo nelle sue molteplici valenze.

Su queste priorità di azione vengono indirizzate importanti quote dei finanziamenti esteri e di conseguenza gli interventi dei referenti istituzionali locali.

Le analisi più recenti sulle dinamiche dei flussi turistici a livello mondiale mostrano la crescita di nuove forme di fruizione, il cosiddetto "turismo alternativo", strettamente legate alle risorse naturali e storico-culturali delle mete di destinazione. Sull'origine delle spinte su cui si fonda questo processo, deve farsi più di una riflessione. Peraltro l’analisi della complessità effettiva dei fenomeni di confronto socio-culturale, così come dei cambiamenti socio-strutturali delle società locali o indigene, scaturiti dall'incontro con la società globalizzante occidentale e veicolati anche dal turismo, non può ridursi alla sola considerazione dell'effetto distruttivo prodotto sulle preesistenze territoriali, ma richiede una lettura su più piani della nuova identità territoriale.

Da questo quadro possono discendere alcune considerazioni specifiche utili alla discussione sulla relazione fra turismo e sviluppo locale.

a) il peso economico del turismo (radicato o effimero) e i suoi effetti territoriali Se innegabili sono le ricadute economiche indotte dal turismo sui bilanci di molti paesi,

in particolare nello specifico del Mediterraneo, da qualche tempo si sono tuttavia cominciati a valutare gli impatti negativi sull’ambiente locale di questo settore trainante. Certo, degrado ambientale e inquinamento sono il risultato di processi di trasformazione socio-spaziale le cui cause principali sono da addebitarsi ai profondi squilibri fra città e campagna, all'urbanizzazione accelerata e al sovrappopolamento, come al diffondersi, in molti paesi in via di sviluppo, di insediamenti abusivi privi delle infrastrutture primarie.

Ma anche le dinamiche di occupazione dello spazio indotte dalle strategie nazionali di localizzazione turistica, che del resto hanno seguito o accompagnato le inevitabili lacerazioni ecologiche segnate dalle tappe dell'industrializzazione, hanno contributo al degrado e agli squilibri territoriali.

Due aspetti di diversa natura vanno segnalati al riguardo: il primo, di ordine spaziale, concerne l'importanza dell'impatto costiero (come somma di pressioni localizzative date da un’insieme di fattori); il secondo, di ordine sociale, riguarda invece la coscienza collettiva, individuale e pubblica, del problema del degrado ambientale.

In questo caso, la standardizzazione delle logiche turistiche nazionali, evidenti ad esempio nelle strategie di consolidamento delle grandi e medie strutture di accoglienza in chiave di attrazione esterna, hanno comportato soprattutto nel passato un effetto di semplificazione della complessità territoriale, le cui conseguenze si misurano appunto nelle varie forme di degrado territoriale. Non solo, l’opzione turistica non ha sopito le conflittualità locali rispetto sia all’uso del suolo (amplificando le tensioni fra agricoltura, urbanizzazione, industria, ecc.); sia ai valori culturali, sociali (ma anche religiosi) intimamente legati a questo uso, presi ora in una morsa fra le spinte alla modernizzazione, indotte dalla globalizzazione, e le resistenze latenti dei valori tradizionali, intrinsecamente legati alla “territorialità storica”. E non è banale ricordare che sono proprio questi ultimi a rappresentare un aspetto saliente dell’attrazione turistica.

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b) la retorica e le potenzialità del turismo eco-culturale All'interno delle nuove nicchie del mercato turistico, un posto di rilievo è occupato dal

turismo culturale, ossia dai movimenti turistici finalizzati alla visita e fruizione di beni culturali,

intesi come monumenti, chiese, musei, castelli, siti storici e compendi archeologici. Ma questa dinamica del fenomeno non sembra, finora, fare proprio nella maniera più corretta il concetto di patrimonio culturale, che viceversa deve ricomprendere in senso più ampio “la maniera di una popolazione di vivere in società”. Si deve cioè evitare il rischio di ridurne proprio la complessità (connessa ai valori culturali e alle pratiche sociali del loro uso) ai soli elementi fisico materiali.

Da più parti si sottolineano gli effetti di crescita e sviluppo che questa forma di turismo può ingenerare a livello regionale e locale. Una fruizione che viene definita "sostenibile e durevole", sia perché orientata alla valorizzazione e protezione del patrimonio storico-artistico e culturale, sia perché volta a sperimentare modalità e strumenti nuovi per raggiungere e soddisfare i visitatori alla ricerca di un'esperienza diversa da quella offerta dalle vacanze di massa. Ma anche questa forma di fruizione presenta forme di impatto sui sistemi territoriali organizzati la cui considerazione è essenziale per una valutazione degli effetti a medio-lungo termine.

Non a caso, il turismo culturale viene sostenuto anch’esso sia da una retorica patrimoniale di tipo planetario (di cui un eminente vettore è evidentemente l’UNESCO), sia dai processi di sedimentazione o di vera e propria “invenzione” patrimoniale operanti alla scala nazionale e governativa, come anche, in chiave di profitto economico, dalla necessità di diversificazione dell’offerta da parte delle multinazionali del turismo e dei diversi organismi governativi preposti.

c) la rilevanza della capacità di carico Nel recente periodo, paradossalmente, il peggioramento relativo delle condizioni

ambientali è stato accompagnato proprio dalla crescita del settore turistico, che esprime anch'esso una sostanziale dualità di percorso. Da un lato, lo sviluppo dell'offerta ricettiva, in strutture a rotazione d'uso, fortemente polarizzato sulla costa e nelle città storiche, nonché favorito dalle peculiari caratteristiche climatiche. Questa evoluzione è andata via via caratterizzandosi per la decontestualizzazione territoriale secondo modelli di fruizione di massa asettici e clonabili. In essa, l'esteticità e la rappresentazione della cultura locale sono affidati alla riproduzione industriale e standardizzata di elementi dell'architettura e dell'artigianato locale. Dall'altro, è cresciuto, in maniera solo apparentemente paradossale, il peso relativo del turismo “alternativo”, culturale e naturalistico, basato sull'incontro con gli ecosistemi meno antropizzati, ma anche con i luoghi della cultura locale e le radici storiche della presenza antropica. Si tratta di un sistema a doppio binario d'accesso, che spesso si interseca seguendo modalità che si differenziano a seconda della stagionalità e del target turistico di riferimento.

In tali casi la natura del problema, cioè la necessità di garantire contemporaneamente crescita e tutela delle risorse su cui la crescita si basa, obbliga, più che altrove, a pensare in termini di politiche integrate, richiedendo, per sua stessa natura, un ripensamento generale nell’approccio metodologico. Nell'economia ambientale, l’assunzione di fondo è che una maggiore quantità di beni sia ottenibile solo riducendo la qualità dell’ambiente. L’evidenza empirica sembra confermare quanto la teoria economica suggerisce, e cioè che lo sviluppo economico, almeno nella sua fase iniziale, tende a ridurre la qualità ambientale, generando, così, un effetto netto sul benessere di difficile determinazione. I risultati prodotti da politiche di crescita pianificata del turismo in molte regioni svantaggiate, se analizzati in

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un’ottica di miglioramento duraturo della capacità competitiva locale e di sviluppo autosostenuto, sono stati modesti. Devastanti, in alcuni casi, invece, i risultati in termini di impatto ambientale e sociale. Tali politiche sembrano aver fallito proprio in quello che doveva essere il loro obiettivo principale, cioè mobilitare il potenziale endogeno dei luoghi oggetto d’analisi.

La competitività stessa di un’impresa dipende sempre più dalla competitività del complesso territoriale (milieu) in cui essa è collocata. Da queste premesse deriva che l’obiettivo delle moderne politiche di intervento deve essere quello di costruire la ricchezza dei luoghi, più che delle singole imprese, in quanto presupposto del successo imprenditoriale.

d) il rapporto fra turismo e sviluppo economico locale Le cose dette in precedenza si applicano anche, se non più, a quei sistemi locali che

hanno affidato al turismo il ruolo di volano della propria crescita economica. Il turismo è uno dei settori che più stimola la creazione di piccole e medie imprese. Nei paesi caratterizzati da un’economia locale relativamente sviluppata l’impatto può essere più consistente, grazie al più sviluppato sistema di interrelazioni esistente tra i vari settori (agricoltura, edilizia).

Al contrario, economie poco diversificate, strutturalmente deboli e con una forte dipendenza esterna (importazioni) rischiano di sperimentare processi inversi, caratterizzati da parti consistenti di reddito aggiuntivo che si realizzano altrove e da un ulteriore aumento della dipendenza esterna. Questo fenomeno è tanto più probabile quanto più è piccola l’area di riferimento ed è ancora più accentuato dalla provenienza esterna dei capitali investiti, da problemi oggettivi dovuti all’isolamento e dal modello di sviluppo turistico su cui si decide di puntare.

Sebbene l’attività economica collegata all’offerta dei servizi turistici non si presenti, in generale, potenzialmente così pericolosa come quella industriale, è comunque necessario sottolineare che il turismo, sia dal lato della domanda (rifiuti, congestione) che da quello dell’offerta (edificazione), introduce modificazioni nell’ambiente naturale che possono abbassarne la qualità. Ma ciò che conta è che il turismo fa uso di risorse particolari (clima, natura, saperi immateriali, risorse storiche ed artistiche), caratterizzate dalla marcata irriproducibilità.

La dichiarazione di Manila del 1980 si basava proprio sul riconoscimento dei danni ambientali che le presenze turistiche possono provocare. Da tali considerazioni è scaturita la seguente definizione di turismo sostenibile: uno sviluppo turistico in una certa località è sostenibile se la domanda espressa da un numero crescente di turisti può essere soddisfatta in maniera tale da poter continuare ad attrarre i flussi turistici nel tempo e da rispettare le esigenze della popolazione locale, salvaguardando la sua natura e la sua cultura.

La definizione parte dall’accettazione del concetto che il turismo rappresenta un settore economico che, al pari degli altri settori, per produrre reddito richiede risorse limitate e deperibili, quali paesaggio e cultura e che la sua crescita comporta un impatto non trascurabile sull’ambiente. Se questo è vero, e se le previsioni dell’Organizzazione Mondiale del Turismo saranno confermate, è facile prevedere che tale crescita non potrà avvenire senza causare rilevanti conseguenze di ordine sociale, economico ed ambientale.

Ne deriva la necessità di investire in infrastrutture ed in sistemi di protezione dell’ambiente, inteso nella sua accezione più ampia. La gestione è l’unico strumento che abbiamo per evitare, da un lato, che le risorse da cui i flussi turistici sono attivati (arte, cultura, natura) diventino la principale vittima dei flussi turistici stessi e, dall’altro, che il turismo diventi vittima di se stesso.

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Il potenziale autodistruttivo de fenomeno, se non gestito in maniera adeguata, oltre a causare degrado ambientale, può portare ad un livellamento delle diversità culturali che, esse stesse, stimolano il turismo. In un mondo di “eguali” non esisterebbe turismo. Solo un’oculata gestione qualitativa e quantitativa dei flussi turistici può garantire che questa fonte di reddito perduri nel tempo. I tre elementi costituenti il sistema “turismo”, cioè popolazione locale, ambiente locale e turisti, si alimentano a vicenda e non è possibile immaginarne uno senza l’altro.

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1.2. Sviluppo locale e turismo in ambiente alpino

Francesco Bocchetti∗

Il gruppo di ricerca trentino ha individuato, già da qualche anno, come suo primario oggetto di interesse il radicale cambiamento che sta interessando il modello di sviluppo della montagna. Le indicazioni finora raccolte mostrano che, nelle zone montane mature, in particolare per quanto riguarda il modello economico basato sul turismo, è in corso un processo di trasformazione i cui caratteri sono stati individuati, e sono in corso di verifica sul campo.

Si tratta innanzitutto della definitiva consacrazione della modalità attiva del turismo, che fa del culto del corpo e dell’”esperienza”, il primo fattore di attrazione, obbligando le destinazioni a competere non tanto a partire dalle dotazioni infrastrutturali classiche, o sulla qualità delle attrazioni naturali e monumentali, quanto piuttosto sull’offerta di attività, sulla sua diversificazione e sulla sua personalizzazione in base alle esigenze ed alle aspirazioni del turista.

Una seconda tendenza, figlia della prima, è la rincorsa all’occupazione degli spazi liberi, che per la maggior parte si trovano nella fascia altimetrica più elevata, in concorrenza con l’utilizzo, ma ancor più con la conservazione, del tradizionale paesaggio del pascolo alpino.

L’intendo attuale è quello di allargare queste considerazioni ricomprendendo, non solo l’attività turistica, ma anche altre forme di attività legate al modello economico del territorio ed agli effetti che i progetti di sviluppo locale producono su di esse.

Le province autonome di Trento e di Bolzano/Bozen, possono a giusta ragione essere

indicate come aree montane con elevati livelli di sviluppo, sia per quanto riguarda le variabili economiche che per quanto riguarda i livelli demografici, di infrastrutturazione di servizi. Ciononostante sussistono alcuni dubbi sull’opportunità del modello di sviluppo e sulla sua esportabilità. Si tratta, infatti, di una regione caratterizzata da una forte presenza del settore pubblico, che effettua massicci investimenti, che, probabilmente, i privati non sarebbero disposti ad effettuare. Inoltre, accanto a porzioni di territorio caratterizzate da urbanizzazione turistica molto invasiva, e con il bene ed il male che ne consegue, permangono ampie regioni sotto utilizzate, soggette a molti dei mali caratteristici della montagna: invecchiamento della popolazione, carenza di servizi, scarse opportunità economiche.

Rispetto, quindi, a quanto svolto finora, i quesiti principali cui intendiamo rispondere riguardano le ricadute che i programmi di sviluppo di queste aree marginali, producono sulle popolazioni residenti. Gli investimenti, infatti, spesso interessano in modo massiccio la montagna orografica vera e propria, in particolare la fascia altimetrica di maggiore interesse turistico, quella degli alpeggi, con la costruzione di infrastrutture per il trasporto (strade, funivie), l’accoglienza (rifugi, bivacchi), la pratica sportiva (itinerari, reti sentieristiche), e una svariata mole di attività che trovano sulla montagna gli spazi che a

∗ Università di Trento.

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fondovalle sono ormai stati occupati per altre funzioni residenziali, agricole, produttive, commerciali eccetera…l’efficacia degli investimenti va però valutata non soltanto nella capacità di mantenere o recuperare alle attività turistico-ricreative strutture e spazi, spesso lasciati in disuso a causa dell’abbandono dell’allevamento come attività principale, ma anche per quanto riesce a migliorare le condizioni del fondovalle, perlomeno in termini di opportunità.

La seconda questione è quella dell’esportabilità del modello, viste le peculiarità che caratterizzano la regione Trentino-Alto Adige/Sűdtirol. Per questo il confronto avverrà tra una realtà trentina, e quelle di altre regioni vicine, poste sull’altro versante delle Alpi.

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1.3. Costruzioni immaginarie e usi disneyani delle risorse nelle politiche del turismo per lo sviluppo locale

Federica Corrado∗

In relazione al testo proposto da Giovanni Sistu e in riferimento a studi svolti intorno ad alcune esperienze di sviluppo locale messe in atto in Italia, attraverso programmi quali PISL, patti territoriali, Prusst, etc., intendo proporre due riflessioni.

a) Il turismo viene sempre più spesso inserito nelle politiche di sviluppo locale in quanto settore promettente per l’economia e quindi per lo sviluppo stesso del territorio locale. In altre parole, all’interno di processi di sviluppo locale, implementati attraverso una strumentazione differentemente utilizzata rispetto all’area di intervento e agli obiettivi dichiarati (dal PISL al Leader al Prusst…), vengono costruite strategie di sviluppo che tendono a privilegiare la messa in valore di risorse territoriali che possono essere immediatamente spendibili in termini turistici.

Ci si trova sostanzialmente di fronte ad una situazione che vede, da un lato, territori con risorse paesaggistiche, culturali, architettoniche etc. di pregio e variamente note nel panorama internazionale che sono in grado di innescare/continuare politiche turistiche sempre più articolate e innovative: dall’eco-turismo alle nuove forme di turismo verde, turismo termale, etc. E’ questo è il caso, per esempio, delle Cinque Terre, dove esiste una combinazione di risorse territoriali, dal paesaggio ai prodotti tipici etc., che hanno permesso lo sviluppo di un turismo insieme “verde” (legato ad un paesaggio fatto di mare blu, minuscole insenature e terrazzamenti a picco sul mare coltivati a vite) ed eno-gastronomico (interessato essenzialmente alla produzione e consumo del vino DOC delle Cinque Terre, in particolare lo Sciacchetrà, che “incorpora” in sé antichi metodi di coltivazione e lavorazione) che ha raggiunto nel tempo altissimi livelli sia in termini di qualità sia di quantità.

Un turismo pensato proprio a partire da potenzialità locali che presentano la caratteristica di avere un alto livello di unicità e originalità. Aspetti, questi, legati alla forte specificità territoriale delle risorse locali e alla loro non-sostituibilità, se non in termini assoluti almeno relativamente ad una certa area fisico-geografica considerata. Gli aspetti problematici per questi territori sono eventualmente quelli relativi alla questione della sostenibilità del turismo, per fare in modo di non distruggere proprio quelle preziose risorse che rendono unici questi territori.

Dall’altro lato invece, troviamo territori che, in relazione alle loro risorse locali (produzioni agro-alimentari tradizionali, antichi mulini, frantoi, etc.), al loro recente passato (una fase di deindustrializzazione, di declino economico, etc.) e ad una inesistente o limitata vocazione al turismo (seconde case, etc.), cominciano ad attivare politiche di sviluppo che

∗ Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino.

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utilizzano le potenzialità locali in chiave essenzialmente turistica. Potenzialità locali che, però, da sole non bastano a impostare strategie di questo tipo.

Pensando ai recenti tentativi del Luinese di implementare lo sviluppo turistico, anche attraverso produzioni tipiche, la formaggella del Luinese in attesa di DOP, emerge ben chiaro come ci si trovi di fronte a territori che devono “costruire” la loro vocazione turistica. Operazione, questa, tutt’altro che immediata e semplice: si tratta di mettere in atto azioni che non solo cambiano l’immagine del territorio verso l’esterno per eventuali fruitori (da luogo dell’industria a luogo del turismo lacuale, per esempio), ma anche l’immagine interna a livello locale, cioè è necessario intervenire anche sull’immagine che la comunità locale stessa ha del territorio, e questa immagine passa anche attraverso il riconoscimento di certe risorse piuttosto che altre.

Per ovviare quindi a troppo facili inclinazioni turistiche, suggerirei di pensare ad una possibile misurazione delle risorse su cui s’intende fare presa in relazione agli obiettivi di sviluppo di locale, non tanto per eliminare quelle che “pesano meno” ma per costruire azioni di sviluppo (per esempio, turistico) che combinano risorse fortemente radicate con altre anche di carattere più innovativo.

Ora, come possa avvenire questa misurazione territoriale è ancora oggetto di studio. Proporrei comunque di tenere conto di due aspetti: la specificità e l’unicità-non sostituibilità che posseggono le risorse. Aspetti che si concretizzano proprio all’interno della dimensione geografica, storica, simbolica e sociale che caratterizza le risorse.

b) Lo sviluppo turistico comporta talvolta un uso disneyano delle risorse. Ciò

riguarda sia i territori che si affacciano ex-novo sul mercato turistico sia i territori del turismo consolidato. Per i primi come per i secondi, il discorso fa riferimento a quei processi di trasformazione del territorio in cui il turismo diventa l’elemento trainante nelle politiche di sviluppo locale a tal punto che sia il settore primario sia quello secondario vengono visti come semplice supporto, cioè “corredo” di una politica economica basata sul turismo.

In questi casi si preferisce puntare su quelle risorse che generano direttamente turismo come il paesaggio, dimenticando però che il paesaggio “venduto” ai turisti, insieme ad una serie di attività connesse, dal rafting alla canoa, al trekking, allo sci, al nuoto, etc., “non è un fatto ma un farsi di genti vive”. Genti che per millenni si sono dedicati a determinate coltivazioni, abitato in aziende con certe caratteristiche, avuto usi e costumi del luogo…

A tal proposito, un esempio interessante riguarda quanto sta avvenendo in alcune vallate dell’Alto Adige. Vallate che a causa di politiche locali e regionali di incentivazione alla apertura/ampliamento di attività ricettive, sono attraversate da grandi flussi di turismo che stanno trasformando i valichi alpini in strade di collegamento intensamente trafficate, i centri vallivi in ipermercati del folklore - in cui la produzione locale lascia sempre più il posto a quella di diversa provenienza, meno cara ma apparentemente simile -, i masi in finti castelli dall’aspetto un po’ kitsch - dove lo spazio per il wellness ha preso il posto dello spazio della storia –.

In processi di questo tipo, le risorse territoriali locali (dalle montagne ai fiumi, pascoli, boschi, masi, baite, sentieri, etc.) vengono utilizzate per rispondere ad una richiesta del turista, sempre più effimero e meno radicato, che intende immergersi in una vita rurale che appartiene più al suo immaginario che alla realtà. Realtà che subisce invece un processo di “turisticizzazione” che la porta ad assumere valori socio-culturali estremamente legati alle mode del momento (Cortina, Saint Moritz, etc.). Seguire tali richieste significa appunto fare delle risorse un uso disneyano, cioè un uso spettacolarizzante e artificiale che può portare effetti deterritorializzanti e catastrofici.

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1.4. L’insostenibile leggerezza dell’invenzione patrimoniale

Giuseppe Dematteis∗

Nei progetti di sviluppo locale il turismo sta diventando uno degli ingredienti principali. Sovente è l’idea guida dell’intero sviluppo del territorio in esame. Questa tendenza alla specializzazione esiste nei progetti, nei fatti e, con la codificazione dei Sistemi Turistici Locali (STL), assume ora anche una rilevanza istituzionale.

Per questo motivo e tenendo presenti alcune riflessioni del testo introduttivo di G. Sistu, credo che quello del turismo, nelle sue molteplici forme e declinazioni, sia un punto di vista particolarmente fecondo per indagare le diverse facce dello sviluppo territoriale. Infatti troviamo le varie forme di turismo presenti in tutto il ventaglio delle modalità di sviluppo, che va dal territorializzato al deterritorializzato – o, se vogliamo, dal radicato allo sradicato, dallo stabile al transitorio. Dove per radicato intendo uno sviluppo basato su interazioni co-adattive di lungo periodo dei soggetti locali con il loro ambiente territoriale, mentre per sradicato intendo uno sviluppo basato esclusivamente su interazioni dei soggetti locali con reti sovralocali, in cui il territorio svolge un ruolo di supporto passivo e l’orizzonte temporale è quello dell’ammortamento del capitale fisso investito negli impianti. Ovviamente tra questi due estremi idealtipici – che possiamo identificare da un lato con il vecchio modello dei “generi di vita” o dei “pays” vidaliani e dall’altro con i “non luoghi” di M. Augé – ci sono molte situazioni intermedie.

Se consideriamo i processi che generano questa molteplicità di modelli territoriali, possiamo anche distinguere tra due modi di produrre valore molto diversi tra loro. Il primo, che chiamerò “materialmente mediato” (oltre che simbolicamente, come ogni azione umana), è quello in cui qualche componente – tangibile o non - del “capitale territoriale” viene incorporata nel “prodotto” (anch’esso tangibile o non) che acquista così un valore di uso o di scambio. Nel secondo, il “prodotto” è invece il risultato di una mediazione in cui il territorio (inteso come mondo esterno ai soggetti) viene manipolato solo simbolicamente e fruito o venduto sotto forma di spettacolo.

I valori “materialmente mediati” sono producibili in misura limitata, poiché sono storicamente limitate le risorse di “capitale territoriale” disponibili per produrli. Essi sono inoltre geograficamente diversificati, in ragione della diversità naturale e storica dei “capitali territoriali” a cui attingono. I valori culturali che derivano da questi processi “materialmente mediati” sono anch’essi diversificati, oltre che limitati e relativamente stabili nel tempo, in quanto derivano dalla riproduzione sul posto di un patrimonio identitario trasmesso di generazione in generazione.

Al contrario i valori del secondo tipo, che per semplicità chiamerò “simbolicamente mediati”, sono producibili in misura potenzialmente illimitata, in quanto tale è il numero delle possibili rappresentazioni di un territorio o di sue componenti che possono essere proposte e socialmente condivise. Essi rimangono valori prodotti e fruiti a livello ∗ Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino.

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puramente mentale, non soggetti a verifiche o vincoli di rispondenza strumentale col mondo esterno, come sono invece i valori “materialmente mediati”. Lo dimostra l’odierno irrefrenabile moltiplicarsi delle “invenzioni patrimoniali” a cui accenna Sistu nella sua introduzione, un equivalente odierno di quello che potevano essere le reliquie dei santi nel medioevo.

Ne consegue che i processi di sviluppo basati su mediazioni materiali sono territorializzati e territorializzanti, mentre quelli basati su mediazioni puramente simboliche possono essere all’origine anch’essi territorializzati, ma se diventano i motori esclusivi dello sviluppo hanno effetti deterritorializzanti e, col tempo eventualmente riterritorializzanti. Sono cioè processi che producono una interruzione catastrofica nella traiettoria evolutiva dei territori, che può dare origine a una biforcazione e a un’ eventuale canalizzazione successiva lungo una nuova traiettoria.

Il turismo come motore dello sviluppo territoriale si distribuisce lungo tutto il ventaglio di situazioni e di dinamiche che sta tra gli estremi testé delineati. Ci sono infatti forme di sviluppo turistico, come quelle dell’eco-turismo sostenibile, che s’inseriscono in traiettorie evolutive territorializzanti, modificandole gradualmente, senza rotture catastrofiche, permettendo anzi la continuazione selettiva di produzioni tradizionali “materialmente mediate”, come infrastrutture, edifici, prodotti tipici agro-pastorali e artigianali. Al polo opposto stanno le forme di turismo-spettacolo, in cui i valori culturali ed estetici del territorio vengono trattati come “fossili” da conservare ed esibire, siano essi paesaggi, folklore locale o “patrimonio” vario museificato. Quando poi queste risorse “fossili” – come ogni risorsa non rinnovabile – tendono a esaurirsi, a degradarsi o comunque a non essere più sufficienti per incrementare la domanda turistica, subentra la risorsa illimitata dell’invenzione simbolica e ciò porta a una deriva inarrestabile verso il prototipo disneyano del non luogo turistico (parchi a tema e simili).

Le situazioni intermedie tra questi due estremi sono le più numerose. Si tratta di sistemi territoriali in cui il turismo non elimina del tutto i precedenti percorsi coevolutivi delle società locali con il loro ambiente esterno e anzi può arricchirli di nuove interazioni, come capita nel caso di alcuni sport basati su interazioni ambientali forti (alpinismo, escursionismo, vela, ecc) o come avviene nelle nuove forme di insediamento in ambienti estremi (p. es. stazioni invernali di alta montagna), nelle cure termali e così via.

All’estremo opposto, i casi di rottura catastrofica non riguardano solo il turismo-spettacolo più o meno disneyano, ma anche due situazioni tra loro apparentemente contrarie come quella dei parchi naturali nella loro forma più protezionista e quella delle città turistiche. Nei primi il rapporto coevolutivo società locali- ambiente viene interrotto (sovente è già concluso quando si istituisce il parco), creando una biforcazione, oltre la quale le interazioni co-evolutive continuano all’interno di ecosistemi più o meno artificiali, in cui l’intervento umano è limitato alla salvaguardia e l’insieme è soggetto a un controllo tecnico-istituzionale esterno. Sebbene ci sia anche una fruizione spettacolare dei parchi, la loro visita comprende anche una componente cognitiva, cioè un valore intangibile che in qualche misura è “materialmente mediato” (cioè non solo immaginario). Questa componente cognitiva diventa poi particolarmente importante nel caso dell’ecomuseo, fruibile anch’esso come spettacolo, ma – almeno nelle intenzioni dei suoi inventori Rivière e de Varine – anche veicolo di trasmissione di cultura identitaria locale e di saperi contestuali. Inoltre, a differenza dei paesaggi imbalsamati, il parco (ed eventualmente l’ecomuseo) non è un “fossile”, ma un sistema vivente, che si autoriproduce, sia pure sotto un controllo esterno.

Diverso è il caso delle località rurali o semi-rurali che si specializzano come stazioni turistiche balneari o montane e vengono poi ad assumere una notorietà almeno nazionale,

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ma più sovente internazionale. Mi riferisco a casi come Rimini, Saint Tropez, Saint Moritz, Cortina e simili. Anche in questo caso si produce una rottura catastrofica nel cammino di sviluppo precedente, a cui segue l’inizio di un percorso comune a qualunque località urbana, anche se segnato da specializzazioni che possono implicare nuove interazioni con l’ambiente (p. es. impianti balneari ed erosione costiera, insediamenti urbani e clima alpino ecc). Inoltre la specializzazione turistica sedimenta un nuovo capitale territoriale, sia materiale (infrastrutture,impianti e servizi specializzati), sia intangibile (capacità organizzative e saperi dell’accoglienza) che non solo producono nuove forme di identità e di radicamento, ma che accelerano la crescita di questi sistemi territoriali e ne accentuano il carattere urbano. A questo punto a me pare che queste località andrebbero riconosciute come veri e propri sistemi urbani e trattati come tali, ovvero come costruzioni largamente artificiali, pur essendo situate in ambienti costieri o montani che nel loro complesso devono rimanere rurali. Anche il concetto di capacità di carico andrebbe applicato in modo differenziato, tenendo presenti le diverse modalità di uso e di sviluppo turistico dei territori. Ad esempio trovo ipocrita la querelle del nuovo viadotto stradale di Cortina, dal momento che trattandosi ormai di una città – sia pure nelle Alpi – il suo spazio deve essere organizzato e attrezzato di conseguenza. Piuttosto si dovrebbe porre particolare attenzione alle forme di questo nuovo spazio costruito e alla sua specificità urbana. Oggi non si possono più pensare le località turistiche alpine come tanti Hameaux del Trianon, dove gli epigoni di Maria Antonietta giochino a fare i pastorelli.

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1.5. Il territorio è un prodotto turistico? E tutti i territori lo sono?

Angela Mazzoccoli∗

Partiamo da un assunto. Il prodotto turistico può essere definito dalla combinazione di:

- attrazioni turistiche, ovvero il patrimonio naturale (morfologia, clima, flora, fauna, posizione e, quindi, accessibilità,…) e culturale (storico, architettonico, etnico, economico, ricreativo, commerciale, gastronomico,…)

- “industria” turistica (trasporti, ricettività/accoglienza, tour operator,…).

L’incastro delle due componenti è necessario per favorire l’interazione tra turisti e comunità ospitanti nel processo di attrarre, trasportare, ospitare e gestire turisti o visitatori.

Ciò presuppone: - la definizione di un preciso progetto di sviluppo e/o valorizzazione delle risorse; - il coinvolgimento, o quanto meno, l’attenzione alla comunità locale dei residenti, naturali

stakeholders del patrimonio di risorse, anche in considerazione del fatto che la pratica turistica implica un incontro tra popolazioni e culture diverse;

- una buona dose di imprenditorialità per l’attivazione e, soprattutto, per la gestione del processo. È indubbio che il settore turistico rappresenta un comparto economico in forte crescita,

in ciò facilitato da una migliorata accessibilità (lo spostamento è il presupposto dell’attività turistica) e dalla diffusione di innovazioni tecnologiche nel campo della comunicazione che consente di accedere ad un mercato globale di domanda (cerco un prodotto, un luogo) e offerta (vendo un prodotto, un territorio).

La pratica del turismo, per sua stessa natura, è sempre legata a un luogo e/o un territorio; le modalità e le forme di relazione tra l’attività turistica e il territorio hanno assunto caratteri diversi e ormai la casistica è piuttosto ampia. Operiamo una semplificazione partendo da considerazioni sulla natura esogena o endogena del governo del fenomeno.

Spesso i processi di sviluppo turistico sono governati dall’esterno. Si tratta di strategie imposte dall’alto, prevalentemente da investitori privati.

In tal caso siamo certi della presenza di elementi attrattivi importanti, altrimenti non si giustificherebbe l’interesse all’investimento. In genere esiste un progetto di sviluppo caratterizzato da una prevalente componente economica in quanto l’obiettivo è la realizzazione di un profitto; meno certa è l’attenzione allo sviluppo locale in quanto, il più delle volte, il territorio e le comunità subiscono il processo, con un ritorno per loro ben al

∗ S&T Torino.

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di sotto del potenziale. Si presuppone una elevata imprenditorialità soprattutto nella gestione del processo, facilitata dal fatto che questa è affidata a uno o pochi attori.

Tali esperienze si caratterizzano per un elevato processo di concentrazione e un basso livello di partecipazione, soprattutto in termini di equità distributiva e controllo delle risorse. È il caso dei Paesi in via di sviluppo o di alcune regioni strutturalmente deboli nella capacità di controllare il proprio sviluppo, come possono essere alcune aree del mediterraneo; ma tali pratiche, seppure con caratteri più sfumati, possono interessare anche territori comunque solidi, per tradizioni economiche diverse da quelle turistiche, e perciò non preparate o non interessate a gestire direttamente il fenomeno; in questo caso spesso il processo è innescato da interventi decisi da Enti sovraordinati (es. Regioni), che possono portare o meno ad un coinvolgimento della comunità locale.

Vi sono, invece, processi di sviluppo turistico che nascono da azioni inclusive degli attori locali, anzi, spesso, da questi stessi promossi e riguardano un territorio nel suo complesso.

Anche qui le casistiche e i risultati sono molto diversi e ciò è determinato dalla presenza o assenza di due elementi fondamentali: un progetto e un prodotto.

La qualità del progetto è importante proprio per la natura eterogena del patrimonio da promuovere. La difficoltà nasce soprattutto dalla numerosità e diversità delle componenti in gioco: il territorio è innanzitutto un sistema complesso di rappresentanza con un altrettanto complesso sistema decisionale, fatto di centri di potere e di attori di questo potere; questi devono concordare un obiettivo comune che, a sua volta, deve entrare in sinergia con una infinità di obiettivi individuali e collettivi diversi.

Un progetto di qualità è, inoltre, il presupposto per superare la banalità e la standardizzazione in un mercato di offerta turistica molto competitiva.

Spesso, inoltre, ci si avvicina ad un processo di sviluppo turistico dimenticando che questo presuppone la presenza di imprenditorialità. È l’imprenditorialità, infatti, a trasformare le risorse in economia turistica. La sottovalutazione di una tale componente porta a scelte che appaiono in molti casi azzardate, perché non tutti i territori possono diventare turistici.

Fondamentale è, poi, poter contare su un robusto patrimonio che possa configurarsi come prodotto turistico.

A livello di territorio si possono mettere in atto politiche di marchio, investimenti in comunicazione e azione di marketing, creare apposite agenzie, senza avere risultati tangibili o apprezzabili solo perché manca l’elemento essenziale: il prodotto o, perlomeno, le caratteristiche del prodotto non sono tali da attivare processi di sviluppo turistico trainanti.

Emblematico è quel processo di sviluppo avviato da numerose comunità locali in risposta a quella domanda di turismo, sviluppatasi in anni recenti, legata alla scoperta delle risorse naturali, della tipicità, dei localismi; molto spesso si tratta di un “turismo di prossimità” cioè con un bacino di utenza con un raggio di attrazione piuttosto limitato.

Si tratta di un fenomeno che sta investendo molte comunità, spesso piccole o soggette a crisi dei settori produttivi tradizionali, che hanno individuato nell’attività turistica un possibile volano del loro sviluppo locale.

Una tale scelta è sostenuta da alcuni presupposti. Innanzitutto dalla consapevolezza di possedere già delle risorse – chi non ha un paesaggio, un prodotto tipico, una cappella votiva, un “saper fare” che costituiscono per la comunità un alto valore simbolico e identitario e, perciò, degno di essere esibito e fatto conoscere?-. Inoltre la promozione turistica è ritenuta un’attività alla portata di tutti, consente il coinvolgimento prevalente di piccole e medie imprese, anche a conduzione familiare. Infine è sottesa l’opinione che le logiche e i processi economici di riferimento per il turismo siano più facilmente e

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direttamente gestibili di quanto lo siano quelle di altri settori economici, in particolare quello industriale.

La scelta di intraprendere azioni di promozione di sviluppo turistico è, spesso, innescata da processi di attivazione e sostegno, anche finanziario, di programmi di sviluppo locale caratterizzati dalla sollecitazione alla valorizzazione della propria identità e specificità e dall’attivazione di un processo di competizione tra territori, di cui l’Unione Europea e gli Stati sono sempre più “giudici arbitri” e sempre meno “pater familiae”.

In Piemonte, ad esempio, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, il processo avviato dai Tavoli di concertazione dei Patti Territoriali, nati su territori a declino industriale con conseguenti problemi oltre che economici ed occupazionali anche sociali e di riferimenti identitari, ha fatto emergere una consapevolezza di appartenenza ad un territorio, innescando meccanismi che hanno assunto, in alcuni casi, connotati di vere e proprie politiche di marketing territoriale finalizzate all’attrazione di investimenti pubblici e privati, nel tempo sempre più spesso indirizzati alla promozione turistica.

La “corsa” allo sviluppo turistico locale ha portato a declinare in tal senso programmi e finanziamenti che, non necessariamente, erano indirizzati al comparto. I dati più emblematici sono senza dubbio rappresentati dai Progetti Integrati di Area (Fesr Ob.2-Docup 2000/2006 della Regione Piemonte Misura 3.1a) in cui più dei due terzi degli interventi che hanno superato la selezione richiamano direttamente, o indirettamente, lo sviluppo di infrastrutture che possano favorire una maggiore attrattività turistica. Stesso riscontro è possibile ricavarlo nei Programmi Integrati di Sviluppo Locale attivati con un’Accordo di Programma Quadro tra la Regione Piemonte il Ministero dell’Economia e il Ministero dell’Infrastruttura e dei Trasporti e avviati con bando regionale a marzo 2005.

Il rischio, soprattutto in assenza di un progetto complessivo di sviluppo e con un prodotto privo di originalità, è la standardizzazione dell’offerta con ripercussioni negative anche sulla identità della comunità locale.

Che il settore turistico possa diventare la forza economica trainante dipende dalla relativa robustezza delle comunità coinvolte capace di promuovere un modello di crescita di tipo endogeno. Solo così sarà possibile attivare un efficiente utilizzo dell’insieme delle risorse locali specifiche al territorio e una efficiente gestione sociale del fenomeno.

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1.6. Turismo sostenibile e sviluppi per il territorio nell’area Bassa Valsugana e Tesino

Floriana Marin∗

L’analisi svolta ha evidenziato uno sforzo, da parte delle locali amministrazioni e aziende di servizi del Comprensorio Bassa Valsugana Tesino, di promuovere forme di turismo a forte valenza ambientale e culturale. Le azioni messe hanno riguardato la realizzazione di percorsi tematici ed enogastronomici, ad uso del turista singolo o in famiglia, giovane o anziano, con disponibilità economiche più o meno limitate. L’area interessata dagli interventi comprende 19 comuni del Comprensorio C3 Bassa Valsugana e Tesino. Questo percorso di sviluppo turistico trova la sua manifestazione più significativa nella nascita, nel 1998, di “Lagorai, natura in libertà”, un programma di iniziative incentrato sulla riscoperta delle potenzialità attrattive della catena montuosa del Lagorai. L’idea è quella di una valorizzazione delle attrattive naturalistiche e culturali della zona, attraverso il coinvolgimento di fasce diverse di utenza con esigenze, a loro volta, differenti. L’offerta spazia da programmi di escursioni in alta quota, a più livelli di difficoltà, in compagnia di grandi nomi della montagna, a incontri in luoghi particolarmente evocativi, organizzazione di laboratori didattici, manifestazioni con personalità importanti del mondo accademico, della ricerca e ambientalista, workshop, mostre fotografiche, lettura di poesie, itinerari artistici e gastronomici. L’intero progetto prevede agevolazioni per famiglie o gruppi anziani, con la possibilità di usufruire di modalità di trasporto sostenibili per raggiungere determinate destinazioni.

Dopo la prima esperienza, il progetto Lagorai, Natura in libertà si è inserito in uno scenario di sempre maggiore visibilità, grazie anche ai molteplici partenariati con la Provincia Autonoma di Trento, Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, Rete Trentina di Educazione Ambientale, Museo Tridentino di Scienze Naturali. Nel luglio 2004 è stato inaugurato il centro di Natura e Trekking Lagorai, voluto come prima tappa di un sistema trekkistico fortemente basato sulla presenza delle malghe di montagna come elemento catalizzatore. In tal senso, molte malghe sono state ristrutturate secondo criteri di architettura sostenibile, divenendo basi logistiche od ospitando centri didattici per attività sportive e di studio incentrate sull’ambiente del Lagorai. L’intenzione è quella di valorizzare i territori d’altura senza antropizzarli o edificarli, trasformando invece i comuni pedemontani, dove sono eventualmente tollerabili interventi di restauro o di nuove edificazioni, in campi base dai quali partire per le escursioni. Sempre in quest’ottica, APT Lagorai sta lavorando per promuovere le strutture ed insediamenti d’alta quota, con iniziative di vario tipo volte a comunicare e tutelare la presenza sul territorio, l’attività e le produzioni delle malghe locali.

Si citano, infine, le attività trasversali che durante l’anno interessano il fondovalle per la promozione delle tradizioni e dell’artigianato locale, come la fiera campionaria annuale che

∗ Università di Trento.

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si tiene a Borgo Valsugana , le rassegne AlpenMarkt (Mercato delle Alpi) o I Gusti della Valsugana.

APT Lagorai nel 2004 è stata premiata con la bandiera verde di Legambiente per il progetto “Lagorai, natura in libertà” nell’ambito della campagna nazionale “La Carovana delle Alpi”, promossa in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio per la valutazione complessiva dello stato delle Alpi sul territorio italiano. La scelta è stata motivata dalla rispondenza dell’iniziativa ad un modello di turismo sostenibile per un'area di grande pregio naturalistico e ancora per larga parte intatta.

A fronte del modello di sviluppo intrapreso dalle istituzioni e dagli operatori turistici pubblici e privati, tuttavia, sorge il dubbio che lo stesso, pur interessando fortemente il rilancio delle aree in quota, non si traduca poi adeguatamente in occasioni di crescita sociale, culturale, economica per gli abitati di fondovalle.

La presente ricerca ha analizzato il percorso di sviluppo turistico locale della zona Valsugana orientale e Tesino interessata dalla catena del Lagorai, valutando le risorse naturali, storiche, culturali, antropiche. E’ seguito lo studio degli interventi concretamente attuati dai progetti Leader e dei Patti Territoriali, valutati alla luce degli orientamenti europei e del quadro programmatico generale dello sviluppo territoriale della Provincia Autonoma di Trento.

Nel proseguo ci si propone di analizzare l’impatto a fondovalle di tali investimenti e delle iniziative promosse per lo sviluppo turistico in quota, valutandone in special modo il grado di coerenza e rispondenza alle criticità individuabili sul territorio. Sarà interessante, a tal proposito, verificare i fattori di forza ed i punti di debolezza delle suddette iniziative, investimenti, infrastrutture in un’ottica di sviluppo integrato, partecipato e durevole. Ci si propone quindi di testare in concreto se le iniziative intraprese nell’area Valsugana Orientale e Tesino hanno, di fatto, contribuito all’attivazione di reti e sinergie virtuose per lo sviluppo anche di altre attività sociali ed economiche. Tale verifica sarà condotta sia valutando da un punto di vista statistico le conseguenze del cambiamento in atto, sia confrontando il presente caso di studio con altre situazioni analoghe individuate nei territori limitrofi: Alto Adige/Sűdtirol, Austria e Svizzera. Il confronto con realtà che possono essere culturalmente diverse, ma territorialmente molto simili, data la comune collocazione su territorio alpino, permette infatti di cogliere differenze o analogie rilevanti e di evidenziare nuovi approcci allo sviluppo. Un confronto tra più esperienze di sviluppo locale, inoltre, potrebbe essere d’ausilio nel tentativo di individuare e trasferire buone pratiche generalmente valevoli in contesti differenziati, per concepire ed implementare vere e proprie strategie di sviluppo scambiando conoscenze e competenze significative.

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1.7. Turismo, sviluppo locale e mobilità umana. Il caso dell’Abruzzo

Armando Montanari e Barbara Staniscia∗

Il turismo è considerato come una leva per lo sviluppo locale delle aree marginali, urbane e rurali, costiere e montane. Sviluppo locale è inteso nella sua accezione di sviluppo dei luoghi. Per sviluppo si intende un processo dinamico che comporti non solo efficienza economica, ma anche equità sociale e tutela ambientale. Per luogo si intende l’unità elementare sulla quale è articolato il territorio. Il luogo è spazio dell’abitare, del consumare, del produrre; è spazio delle relazioni sociali e della mobilità (Staniscia, 2005). Le recenti trasformazioni nella domanda turistica, che segnano il passaggio dal turismo di massa al turismo post moderno, offrono interessanti possibilità per la creazione di un’offerta turistica in località marginali non necessariamente dotate di beni turistici in senso oggettivo, ma dotate di beni turistici in senso soggettivo. Le politiche di sviluppo locale da attuare in tali aree faranno leva sull’utilizzo a fini turistici di prodotti di nicchia del territorio – che saranno, per esempio, prodotti enogastronomici di qualità in aree rurali o prodotti dell’archeologia industriale in aree urbane in declino industriale - e sull’attrazione di piccoli gruppi di persone caratterizzate da un’alta capacità di spesa e da una profonda consapevolezza del loro essere turisti. Il tema della relazione tra sviluppo locale e turismo nasce dal tentativo di soddisfare una duplice esigenza: da un lato trasferire i principi che costituiscono il paradigma dello sviluppo locale (nato con riferimento al settore industriale) al settore turistico; dall’altro fornire gli elementi teorici che consentano lo sviluppo dei luoghi attraverso la guida del settore turistico.

Lo sviluppo locale è campo di indagine per gli studiosi di scienze sociali ed è metodologia di intervento nel campo delle politiche di sviluppo. Ma non è solo questo. Lo sviluppo locale è approccio culturale, una prospettiva di osservazione e di interpretazione del mondo. Esso pone al centro della scena due elementi: lo sviluppo e il luogo (Staniscia, 2002).

Il tema dello sviluppo pone un problema in termini di percorsi, di traiettorie. Di dinamica, quindi, non di statica. Percorsi che portino al miglioramento del benessere delle società che sono costitutive dei luoghi. Delle comunità locali, dunque. E, qui, per benessere si intende non la pura e semplice crescita economica, ma qualcosa di più intenso e di più profondo, che ha a che fare con la sfera sociale, con quella culturale, con quella ambientale. Il percorso di sviluppo comporta un processo di trasformazione positiva, di progresso rispetto ad una situazione precedente che porta al benessere collettivo e al miglioramento della qualità della vita.

Per identificare aree omogenee per i sistemi turistici locali è stato utilizzato essenzialmente un unico indicatore: la mobilità umana, sia quella generata dal consumo che quella generata dalla produzione. L’assioma di riferimento è che lo sviluppo locale crea mobilità e, viceversa, la mobilità contribuisce allo sviluppo locale. Più che allo sviluppo ∗ Università degli Studi Gabriele d’Annunzio, Chieti – Pescara.

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locale è, qui, necessario fare riferimento ai cambiamenti nell’economia locale (Montanari, 2005). L’Abruzzo è una regione in cui a partire dall’unità d’Italia lo squilibrio è costituito dalla crescita economica delle aree costiere e delle pianure a queste collegate e dal parallelo impoverimento demografico, economico e sociale delle aree collinari e montane. Si dovrebbero prendere in considerazione la mobilità permanente, quella temporanea e i fenomeni di pendolarismo (Montanari, 2004) per avere un quadro sufficientemente ampio dei fenomeni di mobilità umana. In relazione alla disponibilità dei dati sono stati considerati i cambiamenti demografici in rapporto alla localizzazione dei singoli comuni e, quindi, all’analisi della dipendenza spaziale. Per la mobilità temporanea si è fatto riferimento ai flussi turistici a livello comunale, individuati tramite l’interpretazione dell’offerta di posti letto turistici. Il periodo di maggiore incremento è stato il ventennio 1961-1981 quando si è completato l’inurbamento della costa e anche alcune zone interne hanno risentito positivamente dell’aumento della domanda a seguito dell’apertura della autostrade A24 e A25 e quindi di un collegamento rapido e sicuro, in ogni condizione atmosferica, con Roma. Il ventennio 1981-2001 ha, invece, visto il ripiegamento quantitativo di alcuni comuni costieri e il consolidamento turistico di alcuni comuni dell’interno. Le variabili territoriali dello squilibrio sono rappresentate dalle zone montane, e di alta collina, e dalle zone costiere e di fondo valle. In un territorio come quello italiano storicamente antropizzato e colonizzato questi segni sul territorio sono riferibili alle strade consolari romane che generalmente seguono aree di fondovalle facilmente percorribili, e non prevedono, come gli assi ferroviari ed autostradali di età più recente, cavalcavia, sopraelevate o attraversamenti in galleria. Mentre per le attività produttive, che necessitano prevalentemente di spazi pianeggianti, l’unità territoriale di riferimento è la pianura, nel caso degli STL abruzzesi, questa deve essere per definizione la montagna. In una regione che viene definita “verde”, poiché un terzo del suo territorio è protetto, il riferimento principale è costituito dai tre parchi nazionali che la qualificano a livello sia nazionale che internazionale.

Riferimenti bibliografici

Montanari A. (2005) Qualche riflessione sulla disciplina dei sitemi turistici locali tra approccio top-down e bottom-up. Il dibattito in corso nella Regione Abruzzo, Turistica. 1(14), pp. 21-32.

Staniscia B. (2002) I patti territoriali per l’occupazione dell’Unione Europea, Sviluppo Locale, 9 (19), pp.8-42.

Staniscia B. (2005), Turismo e sviluppo locale. Presupposti teorici per una politica per le aree marginali, Turistica, n.3, pp. 25-35.

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1.8. Le vallate olimpiche e le loro prospettive di sviluppo post olimpiche

Domenico De Leonardis∗

Il territorio torinese negli ultimi anni è stato interessato dall’allestimento delle XX edizioni dei giochi olimpici invernali. Le Olimpiadi, grandi eventi per antonomasia, sono oggetto di studio per la loro capacità di accelerare le trasformazioni in atto su un territorio. I loro effetti sono stati indagati sotto diversi aspetti (Essex Chalkley, 1998) ma soprattutto in contesti urbani. L’edizione di Torino 2006 in questo quadro si è differenziata per voler unire ad un contesto alpino un contesto metropolitano complessificando ulteriormente il sistema spaziale olimpico. Gli obiettivi che erano alla base della candidatura torinese risiedevano anche su una duplice esigenza: quella di rilanciare l’attrattività turistica non solo della città ma anche delle valli e quella di connotare l’esperienza olimpica per una significativa attenzione ai temi dello sviluppo compatibile.

Prima di riportare alcune riflessioni emerse da ricerche svolte su alcune Valli olimpiche negli ultimi anni è opportuno sinteticamente riportare degli elementi di contesto che in sede di discussione del gruppo non sono del tutto emersi. Le Olimpiadi, soprattutto quelle invernali, non possono essere definite di per se ecologiche o “verdi”. Ciò nonostante negli ultimi anni, sulla scia del Summit di Rio del 92 e su alcune esperienze significative – Lillehammer e Sydney su tutte– anche il CIO ha avviato un dibattito interno e promosso una sua Agenda 21 (Furrer, 2002). Sul piano locale, il momento della candidatura ai XX Giochi Olimpici è coinciso con un periodo piuttosto fertile sul piano delle politiche (nascevano in loco le Agende 21 Locali di Provincia e Comune e varie altre attività come il parco tecnologico sull’ambiente) che ha consentito di realizzare alcuni passi importanti verso una maggiore compatibilità (Segre, 2002) di questi grandi eventi. Si ricordano qui in breve sintesi l’esperienza della VAS Olimpica (Brunetta, 2002, Gambino, 2002) ed una serie di misure come la certificazione di territori o strutture turistiche nonché alcune forme di consultazione con le associazioni ambientaliste (De Leonardis, 2006, Del Corpo, 2004).

E’ ancora presto per giudicare il tentativo di utilizzare (sulla scia dei casi citati sopra) la gran cassa dell’evento mediatico come “showcase” delle migliori pratiche di sostenibilità ambientale tuttavia la scelta di adottare alcune pratiche innesca un meccanismo di riflessione su cosa significa soprattutto nei contesti montani parlare di turismo sostenibile. Alcune attività di ricerca hanno permesso di conoscere più in dettaglio le dinamiche territoriali delle Valli. Si fa qui riferimento al coinvolgimento del DITER in due ricerche collegate tra di loro e maturate per “spin off”: il “Progetto di Promozione della Sostenibilità nel Pinerolese” e il progetto “Alpcity – Eredità olimpica condivisa nella Valle Chisone e Germanasca”

Le scale indagate in questa occasione sono state quelle di un’area subregionale della provincia torinese (il Pinerolese, appunto, che qui si è considerato nell’articolazione territoriale stabilita dall’omonimo Patto Territoriale e comprendente una zona di pianura, ∗ Dipartimento Interateneo Territorio – Politecnico e Università di Torino.

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un comune ai margini dell’area pedemontana, Pinerolo, e tre valli – Val Pellice, Chisone e Germanasca) e due aree di alta valle direttamente coinvolte nel progetto olimpico (Prali – sede di allenamento e Pragelato –sede di gara del salto, delle gare di fondo e di combinata nordica).

Le presenti riflessioni quindi sul rapporto tra turismo e sviluppo locale partono da queste ricerche condotte con un metodo di ricerca-azione e l’uso di focus groups e piccoli forum che richiamano in qualche modo l’approccio dell’Agenda 21 locale.

Le aree oggetto della ricerca (ma si potrebbe estendere questa riflessione tranquillamente alla Val di Susa) si caratterizzano in estrema sintesi per avere un turismo essenzialmente basato su seconde case, bi stagionale (estivo-estate) e di carattere familiare. Sono questi connotati tipici dell’arco alpino occidentale (Bartaletti, 1994, 2004, IRES, 2002). Tuttavia il territorio presenta anche una ricchezza di risorse culturali ed ambientali (IRES, 2002) non sufficientemente valorizzate a fini turistici (si pensi al Forte di Finestrelle in Val Chisone, al recupero delle miniere di talco in Val Germanasca con l’istituzione dell’ecomuseo e al sistema dei parchi regionali).

I fattori del mancato sviluppo di un vero e proprio sistema turistico possono essere legati al fatto che fino a qualche anno fa le comunità delle due valli trovavano fonte di sostentamento e di sviluppo nelle attività industriali ed estrattive presenti nella bassa val Chisone e nella media val Germanasca. La crisi di questo modello produttivo ha avuto un effetto domino sulle attività delle alte valli che vedevano nel turismo un’attività prevalentemente secondaria. La vicinanza ad un’area metropolitana ha fatto prevalere infatti una forma di turismo di prossimità poco evoluto nei servizi al turista che, di converso, garantiva una rendita sicura tramite la gestione del patrimonio edilizio sviluppatosi soprattutto negli anni settanta.

Cambiato lo scenario, e, soprattutto cambiata la domanda turistica, i diversi contesti si son trovati a dover reagire ad una situazione di crisi, rileggendo il proprio sviluppo alla luce di un contesto che offriva anche occasioni nuove (le Olimpiadi). In entrambi i contesti esaminati è evidente una sensazione (seppur mascherata in qualche caso da una iperattivismo pre olimpico) di isolamento o quanto meno di mancata capacità di ragionare su scale più ampie, più coese ed interrelate. Questo è vero per Pragelato, contesto investito da forti investimenti infrastrutturali (impianti di gara, maggior accessibilità dall’esterno, investimenti stranieri sul comparto turistico) che non riesce ad integrare la sua offerta con quella della alta Val Chisone (con i Comuni di Usseaux e Finestrelle e con i parchi presenti nell’area) e Sestriere. Lo stesso limite è rintracciabile per Prali (che, investita marginalmente dal grande evento, è riuscita ad ottenere il rifacimento di infrastrutture sciistiche che ne consentono il rilancio turistico) la quale sconta una difficoltà a farsi carico della gestione diretta degli impianti, la quasi inesistenza di un’offerta ricettiva alberghiera e l’incapacità a spostare l’offerta turistica vero un turismo più culturale sfruttando le risorse dell’Ecomuseo delle miniere, il turismo religioso legato al credo valdese ed il centro ecumenico di Agape.

L’esperienza di ricerca azione portata avanti dal DITER nell’ultimo periodo ha cercato di stabilire un metodo di intepretazione del territorio che permetta di leggere il valore delle relazioni tra soggetti cercando di costruire quello che Dematteis nel suo contributo definisce modelli “basati su interazioni collettive”, recuperando l’essenza dei valori e dei principi contenuti nella Agenda 21.

L’esigenza di superare un periodo di crisi in una comunità che rischia di perdere un rapporto “co-evolutivo” con il proprio contesto territoriale richiede l’attivazione di reti di saperi, conoscenze e buone pratiche che mettano assieme diversi punti di vista. Di qui la necessità di aprire le reti decisionali ad attori poco coinvolti fino a questo momento: in primo luogo, i giovani, nell’ottica di una sostenibilità intergenerazionale della comunità che

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spesso sconta una disponibilità scarsa di capitale umano, ed, in secondo luogo, dei turisti proprietari di seconde case e fidelizzate. Anche questa tipologia di turista, con i suoi saperi, le sue relazioni “cittadine”, i suoi punti di vista (a metà tra l’insider e l’outsider potremmo dire) può fornire un utile contributo alla definizione degli scenari di sviluppo di una piccola collettività che spesso non è in grado di risollevarsi da un isolamento certamente di tipo fisico ma anche di tipo culturale. E’ questo un percorso tentato all’interno della comunità pralina e della Val Germanasca che ha un’esigenza ben diversa da altre comunità alpine interessate dall’evento olimpico in cui le opere olimpiche realizzano piccoli sistemi urbani ad alta quota.

Concludendo potremmo dire che organizzare il territorio alpino per forme di turismo più sostenibili non richiede solo l’utilizzo di strumenti proattivi, forse validi più in contesti urbani e fortemente antropizzati, come le certificazioni ambientali. Sono iniziative meritevoli (in quanto volontarie) che però debbono essere contestualizzate con capacità e culture locali coinvolgendo il territorio in un percorso di apprendimento collettivo che non sempre segue i cicli schematici, standardizzati e performanti propri di questi strumenti.

Le Olimpiadi da questo punto di vista hanno innescato riflessioni che forse avrebbero impiegato più tempo. La retorica di “Torino città delle Alpi” ha posto qualche riflettore anche su questo territorio e alcuni interventi disegnano uno spazio alpino certamente diverso che ha pero’ anche permesso di superare alcuni gap infrastrutturali (si pensi alle strutture viarie, ai collettori di valle, all’attenta pianificazione delle risorse idriche). Rimane il dubbio se si siano attivati veri processi di sviluppo con attori locali realmente coinvolti nel progetto olimpico. Ma forse questa parte di “eredità” arrichita dall’entusiasmo e dall’orgoglio di aver ospitato ed organizzato un grande evento può trovare nuova linfa una volta concluso lo spettacolo mediatico.

Riferimenti bibliografici

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Essex, S. Chalkley, B. (1998), Olympic Games: catalyst of urban change, in Leisure studies, 187-206

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Gambino, R. (2002), La Valutazione Ambientale Strategica come strumento di progetto, in Bobbio, L., Guala, C. (a cura di), Olimpiadi e grandi eventi. Verso Torino 2006, Carocci, Roma, 175-182

IRES (2002), Quadro della montagna del Piemonte, Regione Piemonte,

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Segre, A. (2002), L'ambiente delle Olimpiadi di Torino 2006, in Dansero, E., Segre, A. (a cura di), Il territorio dei grandi eventi. Riflessioni e ricerche guardando a Torino 2006, Bollettino della Società Geografica, Roma, 895-912

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2. Sviluppo locale e trasformazioni produttive

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2.1. Sviluppo locale e trasformazioni produttive

Paolo Doccioli e Francesco Dini∗

Le trasformazioni produttive di questa tornata di secolo, nel linguaggio delle teorie cicliche, corrispondono all’avvento di un nuovo paradigma tecno-economico, alias regime di accumulazione, esemplificato dall’aggettivo post-fordista. A questa transizione, che si inaugura con la ristrutturazione successiva allo shock petrolifero (crisi del fordismo e aggiustamento strutturale) viene comunemente associata la cosiddetta globalizzazione, ovvero un processo nel quale il consueto e plurisecolare sistema mondiale degli scambi viene originalmente integrato da un sistema mondiale della produzione, ricco di forti (e nuove) selettività geografiche, ma in grado di rendere tendenzialmente globale (trans-territoriale) la dimensione geografica ottima dell’organizzazione di imprese e mercati. Ciò equivale a dire che, mentre nel passato la maggior quantità di ricchezza veniva creata attraverso transazioni che si realizzavano all’interno dei confini nazionali (ovvero sul mercato interno, che pertanto era l’areale in grado di meglio sviluppare le capacità espansive di un’economia di mercato), oggi i profitti si realizzano in modo più rapido e cospicuo attraverso transazioni trans-territoriali e trans-nazionali. Chiaro indicatore di una tale trasformazione è l’evoluzione delle strategie di sviluppo economico: queste si imperniavano in passato sulla costruzione, sul consolidamento e sulla difesa del mercato interno (massimamente attraverso la strategia di sostituzione delle importazioni, sostenuta e praticata sia dagli Stati Uniti e dalle economie ritardatarie europee nella seconda metà dell’Ottocento, sia dai dipendentisti sudamericani del Cepal cento anni dopo, sia dallo stesso Mercato Comune Europeo): mentre oggi esse si basano sull’apertura e sull’integrazione, risolvendo il problema degli investimenti produttivi non attraverso la loro auto-costruzione interna, ma attraverso l’attrazione dall’esterno. Il periodo, ancora aperto, nel quale si compiono queste trasformazioni corrisponde agli ultimi tre decenni del Novecento, periodo nel quale si afferma un secondo fattore straordinariamente influente sulla riorganizzazione della produzione: la questione ambientale (problema) e la sostenibilità (risposta), a partire dalla Conferenza di Stoccolma (1972) e dal rapporto Unep “Our Common Future” (1987), fino alla Conferenza (1992) e al cosiddetto Processo di Rio (1992-aperto), con il difficile tentativo praticato dall’Onu di integrare all’interno di un medesimo disegno gli obiettivi degli Heart Summit, l’attività del Fmi, le conferenze interministeriali del Wto.

Globalizzazione e sostenibilità, dal punto di vista scientifico, sono due termini imprecisi e vaghi, ma dal punto di vista pratico stanno sortendo effetti potentissimi. Essi possono essere considerati le coordinate di uno spazio convenzionalmente bidimensionale (ma in realtà un iperspazio) nel quale si collocano le reti delle “trasformazioni produttive”, e in generale i quattro termini del nostro Prin: Attori, Progetti, Territorio e Territorialità. E’ vero che la sostenibilità appartiene direttamente ad un gruppo tematico parallelo a questo, ma è altrettanto evidente che rappresenta un fattore non eludibile.

∗ Università di Firenze.

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Le varie Unità di ricerca del nostro Gruppo tematico interpreteranno la traiettoria di mutamento dei quattro termini secondo la propria sensibilità e la rispettiva radice scientifica (quello dei coordinatori, ad esempio, sulla base dei processi di despecializzazione, rispecializzazione, autoriconoscimento dei sistemi locali). Ma non v’è dubbio che globalizzazione e sostenibilità forniscono sollecitazioni originali e non chiare nei loro esiti. Se ne fornisce un sommario repertorio che sia di stimolo alla discussione e al lavoro teorico e pratico. Ad esempio: - gli attori sono messi in discussione: v. la figura dell’imprenditore industriale, a rischio di

diventare altro da sé perché fallisce, si finanziarizza, si rispecializza, si trasferisce; v. i sindacati o altri gruppi portatori di interessi, ridefiniti giusto dalla ridefinizione economica, sociologica, culturale e geografica degli interessi stessi; v. gli attori pubblici, coinvolti in un processo di riorganizzazione competitiva delle proprie competenze; sempre un attore è messo in discussione, ma nelle fasi di transizione, come quella odierna, questo avviene violentemente.

- i progetti sono la forma organizzata con la quale gestiamo il nostro rapporto con il divenire; ma mentre nelle fasi non transitive (quando, cioè, tecnologie e organizzazione di imprese e mercati si muovono su un sentiero evolutivo di sostanziale continuità) essi, sempre fallibili, obbediscono però a scienza, casi esemplari e tendenze consolidate e prevedibili, nelle fasi transitive essi divengono aleatori: non definiscono più la velocità con la quale ci si muove sul sentiero, ma quale biforcazione di sentiero scegliere, con le enormi conseguenze che tale scelta comporta.

- il territorio si pone con forza come elemento frizionale rispetto alle attuali accelerazioni e alla volatilità di relazioni e processi, e si giova dell’essere per definizione, alla Turco, normativamente chiuso e cognitivamente aperto. Ma paiono apparire con forza delle soglie oltre le quali essere normativamente chiusi cessa di essere un fruttuoso principio di organizzazione interna, e diventa un ostacolo, che l’apertura cognitiva (di numerosi attori economici e politici di un sistema locale comunque determinato) può rilevare con sempre maggior fastidio (ciò, in termini di trasformazioni produttive, accade quando le esternalità di rete sono, o sono percepite, più economiche delle esternalità localizzate; o semplicemente quando la capacità declinante di creare ricchezza attraverso le transazioni interne genera ansia e crisi che si ritiene di poter sciogliere solo attraverso la relazione con l'esterno).

- la territorialità è precisamente la concettualizzazione (milieu) attraverso la quale la nostra comunità scientifica difende la propria peculiarità, in onda con i tempi e ben affiancata extradisciplinarmente (il dim becattiniano e poi internazionale attraverso Piore e Sabel, la path depencency di David e Krugman, il vantaggio competitivo delle nazioni – e delle regioni – di Porter, in generale tutte le eterodossie economiche legate alla logica globale-locale come la teoria regolazionista, e così via). Essa si fonda, nel nostro caso, sul palese emergere del locale come variabile dirimente dei processi di localizzazione delle attività produttive. Ma questa emergenza vale per sempre o è sottoposta a minaccia? E in questo caso, come la biodiversità, dovremmo tutelarla per ragioni pratiche o per un a priori etico-politico, se non ideologico? Mentre i quattro termini del nostro Prin sono sollecitati da questi (e da molto altri)

stimoli, la fisionomia geografica della produzione sta mutando drasticamente per effetto di numerose spinte: - il salto tecnologico, che tuttavia non sembra più assicurare come in passato, una volta

compiuto, un tranquillizzante vantaggio competitivo regionale (vedi il gap tecnologico forse già esistente fra l’Asia orientale – Giappone, India, Cina, Corea… – e l’Europa);

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- la possibilità di coordinare il ciclo produttivo in condizioni di dispersione geografica, con l’affermazione ormai modale delle morfologie reticolari nell’organizzazione delle imprese;

- la transizione delle specializzazioni regionali, spostate progressivamente a valle del ciclo quanto maggiore è il reddito individuale regionale; è vero che essa sostituisce al lavoro produttivo materiale il servizio, ma anche questo adesso si sta delocalizzando;

- l’apertura geografica delle fonti di creazione di ricchezza, che non si realizza più elettivamente nel Nord del mondo. E’ vero che questo processo si muove in buona misura secondo tendenze cumulative, ma è altrettanto vero che esso adombra impreviste originalità (basta ad esempio un solo bacino demografico periferico, i 500 milioni di abitanti della Cina costiera, per superare il numero dei consumatori del mercato interno dell’Europa a 25, ed è difficile pensare che le strategie molecolari dei singoli attori dell’economia di mercato non ne tengano gran conto);

- le differenziazioni geo-economiche governate dai requisiti di sostenibilità, attualmente internalizzati dai cittadini-consumatori-azionisti-elettori, dalle imprese e dai livelli scalari di governo, che danno luogo a precise strategie e politiche di localizzazione produttiva;

- il delicato rapporto fra produzione e servizio (delicato in tutti i sensi: poiché sono compresenti nella medesima impresa e fusi in molte offerte di mercato; perché è in discussione il loro rispettivo contributo allo sviluppo locale; perché è proiettivamente improbabile, come voleva la NDIL, una loro rigida separazione geografica. Infine perché, originalmente da 200 anni a questa parte, il servizio può essere più remunerativo della produzione materiale: è una sfida che l’industria, dopo aver vinto quella con l’agricoltura con la sua Rivoluzione, non si era mai trovata ad affrontare nella cosiddetta Era industriale). Ne segue una domanda, che potrebbe essere considerata il perimetro della nostra

riflessione geo-economica: in che modo queste evidenze, che ridefiniscono i modelli locali di sviluppo economico, si connettono ai significati dei quattro termini del Prin?

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2.2. La transizione produttiva in Europa centro-orientale. Il difficile ruolo degli attori locali

Giancarlo Cotella∗

La chiave di lettura adottata dai coordinatori del gruppo tematico, la transizione verso il nuovo paradigma tecnico-economico post-fordista, è qui di seguito utilizzata per far luce sulle caratteristiche dei fenomeni di sviluppo locale nelle nazioni mitteleuropee.

La transizione dal modello fordista a quello post-fordista, arginata dal sistema di pianificazione centralizzato di matrice sovietica, ha avuto, in tali nazioni, un impatto notevole solamente a partire dagli anni ’90, contribuendo all’aumento esponenziale delle disuguaglianze a livello sociale e soprattutto a livello spaziale.

La realizzazione della macroriforma economica nel più breve tempo possibile (shock therapy, Brada, 1993) tramite rapidi processi di privatizzazione, decentralizzazione amministrativa, riduzione dei sussidi statali e espansione del libero mercato, per garantire il rapido raggiungimento di standard di vita occidentali, ha significato la crisi del settore industriale, economicamente debole e inadatto al nuovo modello economico (Parysek, 1993).

La struttura produttiva socialista, fondata sulla distribuzione spaziale di grandi unità produttive, senza i rapporti economici garantiti dal Comecon e i sussidi economici statali, ha subito una drastica riduzione dei volumi di produzione che ha causato la conseguente crisi delle aree monoproduttive (Bilazyka, Rapacki, 1991).

Il processo di transizione si è verificato in maniera fortemente selettiva dal punto di vista spaziale, favorendo soprattutto i centri dimostratisi in grado di stimolare l’interesse degli investitori stranieri. Fenomeni di arretramento economico e funzionale hanno afflitto invece quelle regioni rafforzatesi, in termini di funzioni amministrative e industriali, nel periodo socialista.

Un sistema di centri urbani fortemente organizzato ha lasciato il posto ad una struttura caratterizzata dal primato dei sistemi metropolitani di alto livello gerarchico, che hanno rappresentato l’inevitabile gateway fra l’economia nazionale e l’economia internazionale, accrescendo i propri vantaggi relativi rispetto al resto del paese e instaurando con le aree limitrofe rapporti dipendenza-dominanza (Korcelli, 2005).

Uno dei principali effetti della rapida transizione è stato quindi il rapido aumento delle disegualianze territoriali fra le diverse regioni, che ha favorito l’emergere di una nuova struttura spaziale caratterizzata da aree “forti” e regioni “deboli”. E’ possibile riscontrare caratteristiche comuni fra le regioni “deboli”, che uniscono difficoltà nello sviluppo economico un alto tasso di disoccupazione (Nemes Nagy, 1994): - Aree di antica industrializzazione. (Borsod in Ungheria, Walbrzych e Lodz in Polonia,

la Slovacchia centrale e la Moravia del Nord in Repubblica Ceca). - Aree industriali monoproduttive che hanno sofferto la crisi di un grande impianto

industriale. ∗ Politecnico e Università di Torino.

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- Aree monoproduttive agricole, caratterizzate dall’alta presenza di grandi fattorie socialiste.

- Aree collocate in zone marginali, principalmente a ridosso dei confini orientali. Soffermandosi sull’analisi di uno dei termini chiave caratterizzanti la ricerca PRIN, si

può affermare che la messa in discussione degli ATTORI nelle nazioni dell’Europa Centro Orientale presenta problematiche in qualche modo più profonde rispetto alle caratteristiche che lo stesso fenomeno assume in Europa Occidentale: - La classe imprenditrice, di giovane tradizione e dotata di capitali esigui, spesso non ha la

possibilità di rispecializzarsi o rilocalizzarsi, ed è destinata a soccombere nel confronto con i prodotti stranieri sui mercati internazionali e con gli investitori stranieri sul proprio territorio.

- I principali gruppi portatori di interessi, una volta indissolubilmente legati alle strutture d’impresa statali, si trovano ora in una situazione di empasse. Con la progressiva perdita di importanza delle gerarchie d’impresa, un tempo fondamentale “collante” del tessuto sociale, sono venuti a mancare su tutto il territorio importanti punti di riferimento per le comunità locali (Paul, 1995).

- Gli attori pubblici a livello locale, il cui ruolo è stato mantenuto marginale durante tutto il periodo socialista, si trovano a dover metabolizzare in breve tempo i risultati di una riforma che delega loro una grande quantità di doveri senza però spesso garantire la necessaria autonomia (operativa e soprattutto finanziaria) per assolverli.

Le riforme amministrative non hanno inoltre segnato una vera e propria rottura

nell’influenza del livello nazionale sul livello locale. La maggior parte degli strumenti di matrice territoriale è ancora concepita nell’ottica di una ripresa economica del paese incentrata sulle aree ritenute cruciali per lo sviluppo economico nazionale, tralasciando, nel breve periodo, le aree affette da declino produttivo illustrate in precedenza (cfr. la descrizione del “Concetto di Sviluppo del Territorio Nazionale” in Polonia, Korcelli, 2005).

La situazione si presenta dunque quanto mai irrisolta e, in assenza di sostanziali evoluzioni, il motore principale di sviluppo in tali aree dovrà essere verosimilmente basato su iniziative locali (cfr. il caso di Lodz, Markowski, Marszal, 1999) che, a differenza della ripresa economica favorita dagli investimenti stranieri spazialmente selettivi, tendono a svilupparsi anche in regioni periferiche svantaggiate (per un panorama più articolato circa i fenomeni di sviluppo locale nei paesi dell’Europa Centro Orientale, cfr. Gorzelak, 1998; Gorzelak, 1999).

Un ruolo chiave nella riduzione degli squilibri regionali ampliati dal periodo di transizione deve essere dunque giocato dagli attori locali. Durante tutti gli anni ’90 si è assistito, ad una riscoperta del locale come alternativa al centralismo caratterizzante il precedente periodo. Seppur ancora inesperti, e dotati di mezzi finanziari relativamente ridotti, gli attori locali stanno sperimentando una ritrovata autonomia, dopo quaranta anni di sudditanza nei confronti del governo centrale e dei quadri dirigenziali delle imprese statali. Una delle scommesse fondamentali da vincere, per riuscire ad innescare l’auspicato sviluppo delle regioni affette da declino, si basa sulla neonata consapevolezza di tali attori circa il ruolo che possono giocare nella conduzione di processi di valorizzazione e sviluppo del proprio territorio.

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Riferimenti bibliografici

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Bilazyka G., Rapacki R. (1991), Poland into the 1990es: economy and society in transition, London: Printer.

Gorzelak G. (1999), Dynamics and factors of local success in Poland, Euroreg, Warsaw. Gorzelak G. (1998), Regional and local potential for transformation in Poland, Euroreg, Warsaw. Korcelli P. (2005), “The Urban System of Poland”, Built Environment 31 (2): 133-142. Markowski T., Marzal T. (1999), “Recovering economy of a region in transition – the case

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centrally planned to a market economy: the case of Poland”, European Planning Studies, 2: 231-241.

Paul, L. (1995), “Regional development in Central and Eastern Europe: the role of inherited structures, external forces and local initiatives”, European Spatial Research and Policy, 2, 2: 19-41.

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2.3. Sviluppo locale e trasformazioni produttive: governance, logica distrettuale e agricoltura tra Piemonte e Lombardia

Paolo Molinari∗

Coniugare le diverse scale (transcalarità) con i diversi ambiti (complessità): questo aspetto è uno dei temi centrali della riflessione sullo sviluppo locale e rappresenta uno dei nodi focali dell’articolazione dei processi di riorientamento dei modelli locali di sviluppo. Le sollecitazioni endogene o esogene che giungono a perturbare il sistema, coinvolgendo un’intera area o un settore specifico di specializzazione, inducono delle trasformazioni produttive. Le sinergie presenti sul territorio sono coinvolte in un processo di riorganizzazione, che rappresenta una forte spinta al riorientamento del sistema locale e ne determina nuove traiettorie (modello di produttività, modello di qualità, crisi, delocalizzazione, ecc.). Questi momenti, se adeguatamente sfruttati, possono anche essere occasioni feconde di ridefinizione degli interessi e delle relazioni esistenti tra gli attori.

Nel caso specifico del distretto risicolo, il futuro sembra strettamente legato a una problematica più generale che coinvolge tutti gli Stati europei, vale a dire il destino del paesaggio agrario, tema sottovalutato da tempo a scapito della crescita economica e del progresso industriale e tecnologico. Ora le sorti del paesaggio agrario sono rimesse in gioco dai quesiti posti dalla sostenibilità. In Italia, non è esagerato parlare di ricostruzione e riterritorializzazione della campagna, e degli assetti geomorfologici, snaturati e trascurati da una pianificazione che privilegia l’ottica socioenomica imposta dalle aree urbane.

Per certi aspetti, si possono già notare alcuni elementi che sembrano ridare slancio all’agricoltura, in una prospettiva di multifunzionalità. Ad esempio, dopo alcuni decenni di impoverimento e di banalizzazione delle sue funzioni tradizionali, l’azienda agricola ritorna a proporsi come struttura complessa e a inserirsi in reti territoriali sociali, culturali, formative e di ospitalità. L’azienda agricola si configura come struttura agroterziaria19. Questa riattivazione è strettamente legata allo sviluppo di economie a base locale, come la trasformazione di prodotti tipici (non solo quindi il riso, nel caso specifico, ma una più vasta gamma di sapori che esalta la complessità biologica e le filiere alimentari locali di qualità), l’artigianato e l’agriturismo. Questo accumulo di processi silenziosi e minuziosi fornisce una re-interpretazione del valore della terra, dei suoi prodotti e dei suoi equilibri, contribuendo di conseguenza a ridefinire alcune componenti della complessa identità del luogo.

Nella vasta zona monocolturale risicola che si estende tra Piemonte e Lombardia si riscontra un radicamento di gran parte della filiera e una peculiare simbiosi creatasi tra attività produttiva e vita comunitaria, una concentrazione territoriale di imprese ed aziende agricole che condividono quindi comuni interessi economici. Questo modello di sviluppo é

∗ Università Cattolica di Milano - Unità locale del Piemonte Orientale (Vercelli). 19 Magnaghi A., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

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ora in crisi produttiva e sociale poiché fattori esterni, di diversa origine e genere, hanno perturbato profondamente e irrimediabilmente il rapporto tra società locale e risorse. Dinnanzi a queste profonde mutazioni, vi sono però alcune eredità storiche (che prevalgono sulle rotture prodotte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione) che concorrono a sostenere la vitalità di questo distretto.

L’elemento costitutivo e agglomerante dell’area oggetto di studio è quindi la presenza della risicoltura; l’obiettivo di fondo è la valorizzazione di tutte le attività ad essa collegate per un complessivo consolidamento del sistema produttivo locale, in un’ottica di qualità, secondo il modello di qualità territoriale proposto da B. Pecqueur. Queste caratteristiche ne fanno un vero e proprio “Distretto del riso”, riconosciuto anche dalla Regione Piemonte20. Certo la dimensione normativa non è sufficiente ad attivare la cooperazione auspicabile tra i differenti attori, ma è una tappa importante del riconoscimento politico e di impegno istituzionale. Con i limiti di un risultato legato ai confini amministrativi. La questione della transcalarità è uno degli elementi più critici dello sviluppo locale, soprattutto nel momento in cui le sinergie tra i vari attori coinvolti non sono più facoltative, come in genere avviene nei momenti di slancio economico, ma diventano un elemento determinante nelle strategie di sostegno e di rilancio. Pur essendo sempre discutibili, bisogna pur riconoscere che anche i confini amministrativi sono frutto di identità e la producono.

L’intervento istituzionale sembra essere uno strumento efficace al fine di costruire e coordinare una rete di rapporti tra soggetti pubblici e privati, per valorizzare reti di relazioni già esistenti nel contesto locale, per sostenerne l’attività e favorire la creazione di una rete diffusa di informazioni relative agli investimenti e alla ricerca nel settore. Accanto a ciò, è necessario valorizzare anche gli aspetti immateriali, quali le tecnologie ed il sapere locale, derivanti dall’esperienza e dalle interazioni dirette, vero e proprio valore aggiunto locale.

È però necessario che gli attori presenti sul territorio si attivino in modo sinergico al fine di massimizzare l’impatto dei rispettivi sforzi, creando un effetto moltiplicatore attraverso il coordinamento delle singole iniziative. Questo impegno in direzione della governance del territorio servirebbe anche a favorire una rinnovata coesione del sistema produttivo nel suo complesso e a promuovere rapporti di “territorialità attiva”.

Le dissimmetrie che attualmente condizionano una maggiore efficacia del distretto – tra le quali il deficit di risorse decisionali ed il mancato coinvolgimento ed allargamento del sistema di attori – potrebbero essere affrontate attraverso strumenti di programmazione negoziata. Questo presuppone un differente e più cospicuo impegno degli enti locali, come si diceva, e uno spostamento di obiettivi dal governo alla governance del territorio. Lo sviluppo territoriale del distretto presuppone infatti un’attiva collaborazione, sia verticale che orizzontale, tra tutti gli attori coinvolti. Con riferimento all’area risicola presa in considerazione, questa zona si estende in modo trasversale rispetto alle partizioni amministrative subnazionali, coinvolgendo due regioni, diverse province e numerosi comuni. Molteplici sono poi gli attori che contribuiscono, direttamente o indirettamente, all’attività agro-industriale e alla valorizzazione del patrimonio culturale locale (Enterisi, Consorzi di bonifica, Enti Parco, Ecomusei, politiche agricole regionali, ecc.). Il coordinamento delle molteplici iniziative a una scala macroregionale è assolutamente indispensabile per aumentare l’efficacia e garantire la coerenza delle energie investite. E il discorso diventa ancora più complesso se si pensa che, alla regione produttiva, si connettono reticolarmente altri luoghi di lavorazione (trasformazione e processo immateriale di elaborazione e sviluppo delle strategie di vendita) posti al di fuori dei confini

20 L.R. 26 del 13 ottobre 2003 “Istituzione dei distretti rurali e dei distretti agroalimentari di qualità”.

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dell’area di produzione e che non necessariamente partecipano ai fenomeni di consolidamento identitario ed economico dell’area.

Una delle possibilità offerte a questo territorio deriva proprio dall’impostazione di un diverso rapporto etico e culturale tra abitanti e territorio, tra città e campagna, nell’articolazione delle nuove interdipendenze tra urbano e rurale. Ragioni economiche ed esigenze socio-culturali e istituzionali potrebbero trovare un progetto comune. Un progetto che indaghi sulle regole che hanno permesso relazioni positive tra ambiente, insediamento umano e produzione, in modo da contribuire a contrastare la tendenza alla frammentazione territoriale e sociale indotta da meccanismi competitivi, sia urbani che globali.

Oggi, l’organizzazione politica dei territori avviene infatti maggiormente attraverso negoziazioni multiscalari (contratti territoriali, intercomunalità, networking regionale) che non attraverso conflitti geopolitici in senso stretto, di tipo giuridico e amministrativo. Tutto ciò determina una vera e propria rivoluzione culturale in atto nelle pratiche di governance, nonché un ritorno della dimensione politica nella riflessione geografica. A questo processo contribuiscono anche le attuali dinamiche geopolitiche, nazionali21 e sovranazionali, di ridisegno dei poteri territoriali e di individuazione di dimensioni regolative intermedie tra gli attuali enti locali.

Un deciso processo di decentralizzazione consentirebbe il rafforzamento di pratiche di cooperazione e di partecipazione, e di ricreare un collante tra comunità e contesto socio-economico che, sfaldandosi, determinerebbe il collasso del sistema territoriale. È perciò necessario superare l’approccio esclusivamente amministrativo con il quale siamo abituati a ragionare, ma anche – e soprattutto - ad agire e piuttosto cercare di svincolarsi da un quadro politico-istituzionale inadeguato a recepire il concetto di rete. Lo spazio amministrativo deve cedere il posto ad una regione complessa identificata con criteri geografici. Un approccio geografico transcalare che utilizzi una retorica in grado di combinare identità regionali, solidarietà economica e interessi strategici.

21 La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 è infatti favorevole all’innovazione nelle politiche territoriali regionali.

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2.4. Lo sviluppo locale nella fase “post-distrettuale”

Filippo Randelli ∗

Il lavoro svolto nell’ambito del Prin 2004-2006 mi ha portato a studiare il sistema industriale delle Marche, una regione che nell’ultimo censimento dell’industria (2001), si è differenziata dalle altre regioni italiane più industrializzate, crescendo in termini di valore della produzione e addetti22 nel secondario.

Ciò che invece accomuna le Marche al resto dell’Italia è la propria struttura industriale che, come nelle altre regioni italiane ed in particolare in quelle del NEC (Nord-Est-Centro), si fonda su un numero elevato di imprese di dimensioni medio-piccole, tanto da dubitare seriamente sulla loro capacità di sopravvivere in un contesto internazionale sempre più concorrenziale.

Nell’era della globalizzazione, in cui la concorrenza internazionale si fa sempre più accesa, con insistenza ci si chiede come sia possibile che un sistema così frammentato possa risultare competitivo nel contesto internazionale. Alcuni hanno spiegato i vantaggi competitivi delle piccole e medie imprese italiane in termini di economie esterne. La concentrazione territoriale di piccole e medie imprese specializzate, organizzate secondo il modello del distretto industriale, permette di godere di vantaggi competitivi localizzati.

La portata interpretativa del modello del distretto industriale ha avuto enormi meriti nel quadro delle ricerche economiche e sociali ed è riuscita a fare chiarezza sulla particolare organizzazione del sistema industriale italiano. Oltre a ciò il modello del distretto industriale è risultato fondamentale nel catalizzare l’attenzione degli addetti ai lavori, sull’importanza degli elementi sociali e territoriali dello sviluppo economico.

Bisogna però ammettere che, almeno nel caso delle Marche, il modello del distretto industriale è efficace a spiegare la fase del decollo industriale ma risulta inadatto ad indagare l’attuale struttura industriale. Ciò non significa che oggi le imprese marchigiane non sono più organizzate in reti di imprese ma semplicemente che i meccanismi interni alla rete, i soggetti imprenditoriali e le reti stesse sono diverse. Del modello del distretto industriale ci sembra quindi utile conservare il piano dell’indagine, che risulta essere l’insieme di imprese collegate tra loro operanti su un territorio. Ciò che cambia è il tipo di rete o per dirla più correttamente il modello interpretativo che, nel caso delle Marche, non può più essere quello distrettuale23.

∗ Università di Firenze. 22 Per una presentazione dettagliata di dati statistici sul sistema industriale marchigiano si rimanda al contributo finale che sarà pubblicato al termine del periodo di lavoro ancora in corso. Tuttavia è utile riportare qui un dato: in termini di valore aggiunto pro-capite prodotto nel settore secondario, la Marche nell’ultimo censimento hanno superato la Toscana ed il Friuli Venezia-Giulia, risultando al quinto posto dietro nell’ordine a Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. 23 Nelle Marche Fuà, ed oggi i suoi allievi, pensano che le peculiarità della Terza Italia siano state condizionate dalle caratteristiche del fattore organizzativo-imprenditoriale, abbondante e diffuso

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L’idea di fondo è che, nel sistema industriale marchigiano, il riferimento alla singola impresa ha scarso fondamento esplicativo. Bisogna spostare la base della ricerca dalla singola impresa ad un aggregato di imprese. E’ necessario fissare una base di analisi al di sopra della singola impresa quando questa non è sufficiente a definire in modo soddisfacente i confini di un’attività, a spiegarne appieno lo svolgimento, a ricollegarla alle performance realizzate (Lorenzoni, 1990).

Diversamente risulta abbastanza facile riconoscere nelle Marche, come in gran parte dell’Italia, l’anomalia della struttura produttiva, fortemente caratterizzata dalla presenza di piccole e medie imprese (PMI), che proprio per la loro struttura ridotta, dovrebbero penalizzare la capacità competitiva e di sviluppo del sistema economico.

In realtà, all’interno dei sistemi di PMI, si è assisitito negli ultimi decenni alla progressiva crescita di importanza di un esteso numero di medie imprese, le quali hanno intrapreso percorsi di crescita superiori a quelli del sistema locale nel suo complesso. Il fenomeno appare in modo più evidente oggi, alla luce delle crescenti difficoltà in cui versa l’industria del Made in Italy, compresa quella distrettuale. Ormai flessibilità, dinamismo e intraprendenza non bastano più, occorrono sempre più capacità di innovare, di internazionalizzarsi, di reperire risorse per finanziare la crescita, capacità manageriali e organizzative. Occorre una struttura aziendale che le piccole imprese non hanno e un dinamismo che le grandi, spesso rifugiatesi in settori protetti, hanno sempre meno. Tutto ciò ha portato alla ribalta il ruolo delle medie imprese nell’industria italiana (Spaventa et Al., 2005).

Le trasformazioni in atto nei sistemi di PMI sono però in parte sottovalutate nella loro portata perché la crescita delle medie imprese è attuata attraverso la costituzione e lo sviluppo di gruppi, cioè attraverso la creazione e/o acquisizione di altre imprese, giuridicamente distinte ma in realtà facenti capo ad un unico “vertice strategico”, costituito da una famiglia o da un imprenditore (Iacobucci, 2001). In altre parole i processi di crescita “per gruppo” sono completamente ignorati dalle statistiche ufficiali24 (ISTAT, Camere di Commercio, ecc.) che si limitano a quantificare il numero di imprese e di addetti, così le imprese medie in Italia risultano marginali in quanto sono un numero esiguo: solo il 2% del totale se si considerano quelle tra 50 e 249 dipendenti, cui si aggiunge uno 0,2% di quelle tra 250 e 499 dipendenti (fonte: ISTAT, 2001). nella quantità ma limitato nella qualità. Per tale ragione la scuola di Fuà si sforza di capire le leggi che governano il fattore organizzativo-imprenditoriale, per prospettarne la crescita e fornire così i presupposti alla sostenibilità del modello di sviluppo, fondato sulle piccole imprese. Ne consegue che, nell’approccio della scuola di Fuà, l’unità elementare dell’indagine non è tanto il distretto (o sistema locale) quanto l'impresa, intesa come espressione dell'agire imprenditoriale (Balloni, 2001). 24 Le statistiche ufficiali risultano incapaci di adeguarsi in tempo alle rinnovate caratteristiche del sistema produttivo nazionale. Il nostro Prin potrebbe essere un’occasione per denunciare le lacune emerse nel corso del nostro lavoro che, nel mio caso, sono molteplici: primo, manca la ricostruzione dei gruppi d’imprese e loro localizzazione; secondo, nel caso che una controllata sia localizzata fuori dai confini nazionali questa viene completamente ignorata dalle statistiche oltre che dalla contabilità nazionale e gli scambi con la controllante sono equiparati agli scambi commerciali con l’estero quando in realtà sono normali flussi di merci all’interno di un gruppo di imprese. Queste lacune potrebbero essere risolte facilmente in sede censuaria, richiedendo alle imprese l’indicazione delle eventuali controllanti e/o controllate. Altrimenti noi ricercatori siamo costretti a ricostruire i vari gruppi uno alla volta attraverso i bilanci consolidati ma ciò richiede molte risorse ed un gruppo di lavoro stabile e numeroso. Nel caso, per esempio, delle Marche, la Fondazione Merloni è riuscita a ricostruire l’architettura di quasi tutti i gruppi d’imprese industriali della regione, sicuramente di quelli più importanti, intercettando sia la rete “corta” locale che quella “lunga” internazionale, naturalmente solo se incardinata in rapporti di controllo del capitale societario.

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Lo studio dei gruppi d’impresa25 può essere una modalità di indagine utile a decifrare meglio l’organizzazione industriale italiana che, altrimenti, ci appare polverizzata in un numero elevato di imprese sempre più inadatte ad affrontare la concorrenza sui mercati internazionali. Lo studio dei gruppi d’impresa differisce in modo sostanziale dagli studi incentrati sul distretto, per i quali l’unità di indagine è costituita dal sistema locale e rispetto ai quali il comportamento della singola impresa è di fatto irrilevante.

In realtà alcuni lavori hanno tentato di spostare l’analisi dalla singola impresa ai gruppi, mettendo in evidenza l’importanza che essi vanno assumendo, non solo nelle Marche, ma in Italia. E’ il caso dell’Osservatorio sui gruppi d’impresa costituito da Unioncamere26 che offre un prezioso contributo per il monitoraggio dell’evolversi di tale modello in Italia. Secondo i dati diffusi da Unioncamere27, all’inizio del 2003 i gruppi d’impresa presenti sul territorio italiano erano 74.459, con un incremento rispetto al 2000 del 12%. Le imprese italiane che operavano in gruppo in quella data erano poco più di 193.000, distinte in circa 25.000 imprese capogruppo (+9,1% rispetto al 2000) e quasi 168.000 controllate (+6,7%). I numeri sono esigui se confrontati con il numero di aziende in Italia ma ciò che interessa è l’andamento positivo. Se si prende in esame il numero di addetti occupati nei gruppi (32,4%) ed il valore aggiunto prodotto (33,1%) rispetto al totale nazionale ci si rende conto come in realtà il fenomeno sia rilevante, ancor di più se si considera l’andamento nel biennio 2000-2002 delle due grandezze, cresciute rispettivamente del 6,7% e del 10,0%.

Negli ultimi anni si parla sempre più di esternalizzazione delle fasi produttive e dell’ampio ricorso all’outsourcing. Ciò che invece si tralascia è la forma con cui si sviluppano le relazioni fra impresa committente e fornitori di lavorazioni e parti. Malgrado l’ampliamento del volume degli acquisti esterni, si osserva, per esempio, la tendenza alla riduzione del numero dei fornitori e all’estensione del rapporto di collaborazione con gli stessi. Oggetto di tale rapporto non è più solo la programmazione dell’attività produttiva a breve termine ma le stesse politiche di investimento e la co-progettazione dei componenti che caratterizzano lo sviluppo dei nuovi prodotti.

La logica delle reti, sempre più basata sulla fiducia e sulla reputazione, va dunque decisamente estendendosi e con essa la formalizzazione delle relazioni tra imprese che trova nel “gruppo di imprese”, il modello organizzativo più evoluto.

Questa non è la sede adatta ad approfondire nel dettaglio l’evoluzione in atto dei gruppi d’imprese, tuttavia possiamo fissare una motivazione di fondo che sta alla base della loro diffusione nel nostro paese: la scarsa propensione allo sviluppo dimensionale, soprattutto a 25 Prima di procedere è tuttavia necessario definire in modo chiaro cosa si intende per gruppo d’impresa. Un gruppo di impresa è formato in genere da un “vertice strategico”, che può essere un’impresa o nel caso dei gruppi di più grandi dimensioni, una finanziaria, e da un numero variabile di controllate, nel caso che il “vertice” controlli il 100% del capitale o comunque una quota sufficiente al controllo, e di partecipate, nel caso in cui la partecipazione non sia di entità sufficiente a garantirne il controllo. I legami tra le società del gruppo sono quindi formalizzati e, per esempio, il presidente o l’amministratore delegato delle società controllate è scelto da chi controlla il “vertice”. Il gruppo di imprese si differenzia in modo netto dalle reti di imprese in cui i rapporti tra le imprese, pur essendo in molti casi consolidati da anni di collaborazione, non sono formalizzati ed ogni impresa della rete ha una propria ben distinta ed indipendente proprietà. E' il caso della rete di sub-fornitura, in cui ogni azienda fornisce semilavorati all’azienda principale, senza però essere da questa controllata. 26 In realtà l’idea di creare un data base sui gruppi d’imprese non è nuova e possiamo ricordare le indagini della Banca d’Italia (1993) e del Mediocredito Centrale (1997), oltre all’indagine SCI dell’ISTAT (1996). 27 L’Osservatorio sui gruppi d’impresa è realizzato attraverso l’analisi della banca dati soci contenente la struttura proprietaria di oltre cinquecentomila società italiane.

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livello di addetti e, in misura minore, a livello di fatturato, riferita alle singole imprese o unità. Ciò ci induce a ritenere che il gruppo di imprese sia la forma di organizzazione tipica delle imprese che intraprendono processi di crescita.

Un secondo elemento ormai consolidato è: mentre inizialmente (anni ’80) la formazione dei gruppi avveniva per creazione di nuove imprese, successivamente c’è stata una tendenza marcata verso le acquisizioni di imprese (IRER, 1988), che oggi sono la modalità più diffusa di formazione e consolidamento dei gruppi. L’acquisizione segnala un mutamento preciso di obiettivi, da difensivi come quelli che stanno alla base della creazione di unità giuridiche di scarso spessore economico-organizzativo, a offensivi, con lo scopo di sfruttare interdipendenze e sinergie fra unità esistenti e unità acquisite, o ad accelerare la realizzazione di una nuova quota di mercato (Lorenzoni, 1990).

Infine un terzo ordine di motivazioni che, a mio avviso, hanno accelerato negli ultimi la crescita dei gruppi di imprese derivano dalla struttura familiare o comunque imprenditoriale28 delle imprese italiane. Ciò ha evidenziato due tipi di problemi: il primo si presenta nel momento in cui l’impresa familiare raggiunge una certa soglia dimensionale, oltre la quale diviene difficile perpetuare una gestione di tipo imprenditoriale; il secondo emerge invece alla morte o pensionamento del padre fondatore dell’azienda ed è il classico problema del passaggio generazionale che raramente comporta una continuità senza traumi. In entrambi i casi l’impresa familiare vive una fase di criticità che comporta una riorganizzazione del vertice direttivo.

Nel primo caso (raggiungimento di una soglia dimensionale critica) la riorganizzazione può essere messa in atto dalla famiglia stessa oppure, nell’oggettiva impossibilità di realizzarla nell’ambito familiare – perché non c’è la volontà o in famiglia mancano le “menti” manageriali – la famiglia cede il controllo ad un gruppo. Entrambe le soluzioni sono molto diffuse ed anche dal lavoro sul campo nelle Marche (interviste individuali ad imprese), sono emerse esperienze riconducibili alle due soluzioni tipo.

In conclusione, l’ampio ricorso ai gruppi di imprese, nelle Marche si spiega in buona parte con: - la diffusione dell’impresa familiare e l’emergere dei suoi limiti congeniti; - la maggiore propensione alla crescita per acquisizioni rispetto allo sviluppo

dimensionale dell’impresa madre. Sarebbe utile allargare l’analisi anche ad altre regioni in cui lo sviluppo industriale è stato

guidato dalle piccole e medie imprese a conduzione imprenditoriale. Non a caso, dall’Osservatorio dei gruppi d’impresa del Centro Studi di Unioncamere (2003), emerge che l’86% dei gruppi è presente nelle aree caratterizzate dalla presenza nel recente passato di distretti industriali. L’organizzazione in gruppi d’imprese sembrerebbe essere l’evoluzione moderna dei distretti industriali29, come se si fosse tentato di internalizzare e formalizzare quelle esternalità30 che nella fase distrettuale erano diffuse sul territorio e che nella fase più recente sono state messe in discussione da vari fattori quali l’acquisizione di imprese 28 Per struttura o gestione imprenditoriale si intende un’impresa condotta in modo autonomo ed individuale da un unico soggetto, l’imprenditore. E’ la tipica struttura aziendale italiana in cui il fondatore o nella migliore delle ipotesi i suoi eredi, gestiscono interamente il ciclo aziendale, dall’approvvigionamento, alla produzione fino alla parte commerciale. 29 Queste naturalmente sono ipotesi che devono essere verificate in futuro quando gli studi sui gruppi di imprese saranno più diffusi e articolati. 30 Tra queste la fiducia reciproca tra imprenditori, che per vari motivi era congenita nei distretti industriali, appare oggi un elemento non più garantito dall’appartenenza ad uno stesso sistema economico territoriale.

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distrettuali da parte di soggetti esterni, la maggiore concorrenzialità e frammentazione della domanda.

La diffusione dei gruppi d’imprese non sembra tuttavia aver stravolto l’organizzazione territoriale della produzione che appare oggi ancora riconducibile alla tipologia delle reti di sistemi produttivi locali, caratterizzati dalla presenza di piccole e medie imprese che producono lo stesso manufatto (Emanuel, 1990) fortemente diffusi non solo nelle Marche ma in tutta l’Italia centro-orientale e meridionale come riportato a suo tempo dagli studi di Garofoli (1988), Rizzo (1989) e Garofoli et Al. (1994). Ciò è dovuto al fatto che le acquisizioni sono quasi sempre di imprese localizzate nello stesso territorio dell’impresa guida ed i gruppi, anche quelli internazionalizzati e di grandi dimensioni, continuano ad essere fortemente radicati al territorio di origine, un po’ perché il vertice direttivo, se pur “annacquato” ha sempre una forte connotazione familiare, con il conseguente legame personale all’area di origine, ed un po’ perché localmente si ritrovano ancora dei fattori competitivi come la presenza di manodopera specializzata (che difficilmente si sposta) e di numerose imprese dello stesso settore oppure di settori collegati .

Ciò che invece è cambiato rispetto alla fase distrettuale sono le relazioni tra imprese che, almeno per quelle entrate a far parte di un gruppo, non sono più informali e limitate allo scambio di semilavorati ma regolate da schemi di controllo ben precisi e allargate anche ad altre funzioni, prime fra tutte quella finanziaria e di ricerca.

Per concludere, l’organizzazione per gruppi delle piccole e medie imprese italiane, spiega in buona parte la competitività delle medie imprese italiane che possono così godere dei vantaggi della grande impresa (gestione finanziaria unitaria, propensione ad investire nella ricerca, maggiore peso contrattuale) senza perdere quelli della medio-piccola. I vantaggi sono quindi molteplici e permettono di: - consolidare le relazioni tra imprese in precedenza informali senza impedire alla

controllata di intrattenere rapporti, e quindi fare affari, anche con altre imprese; - mantenere i vantaggi derivanti dalle dimensioni medio-piccole di ogni impresa del

gruppo (fiscalità, tipologia di contratti di lavoro, regole sui licenziamenti); - gestione unitaria della finanza con maggiori e più convenienti condizioni di accesso al

credito; - maggiore convenienza ad investire nella ricerca e nel design con possibili collaborazioni

su progetti da parte di più imprese e “cervelli”. Infine alcune considerazioni di tipo metodologico. La diffusione dei gruppi d'impresa,

per molti aspetti, porta a cambiare l'unità statistica di riferimento nelle analisi delle performance e delle strategie aziendali. La lettura basata sulle imprese intese come singole entità giuridiche non è più sufficiente: occorre passare ad un nuovo aggregato economico, quello dei gruppi d’impresa. Continua invece ad avere senso l’analisi al livello territoriale in quanto i gruppi, anche quelli più grandi ed internazionalizzati, hanno mantenuto forti radici nel territorio di origine.

Per provocazione, ma in senso positivo e costruttivo, si potrebbe affermare che in tal senso i gruppi di imprese funzionano realmente come un sistema economico locale o SloT, in quanto le imprese che li formano sono collegate tra loro, si scambiano idee, informazioni, non solo semilavorati, ed agiscono come un’entità unica, per sua natura autoreferenziale, con forti vantaggi contrattuali, in termini di rete commerciale31 e di servizi finanziari.

31 L’impresa guida, fortemente internazionalizzata, agisce da apripista per l’introduzione in nuovi mercati.

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3. Sviluppo locale e mobilità umana

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3.1. Ripensare alcuni momenti dell’immigrazione riguardo agli arrivi, agli spostamenti successivi e ai rientri

Maria Luisa Gentileschi∗

Pochi argomenti come l’immigrazione – in Europa e ovviamente in Italia – sono oggetto di discussioni altrettanto intense e coinvolgenti. Non c’è ambito del funzionamento della società e quindi dello sviluppo locale, infatti, che non sia profondamente condizionato dalle varie forme di mobilità. Non solo gli arrivi dall’estero, ma anche gli spostamenti successivi interni al Paese di arrivo e i progetti di rientro mettono in moto meccanismi di trasformazione degli assetti locali.

E’ stato detto che il nostro Paese ha visto come un fatto inatteso il rapido montare dell’immigrazione e questo è senz’altro vero. L’Italia ha accolto gli immigrati senza averli richiamati, anzi senza essere minimamente preparata. Si sono cercati dei punti di ancoraggio nel vissuto italiano delle migrazioni internazionali, cioè l’emigrazione verso l’Europa e oltremare degli italiani stessi, per cercare di non ripetere errori che i Paesi ospitanti avevano allora prodotto nei confronti dei nostri emigrati. La retorica del tipo “ieri gli emigrati eravamo noi”, oppure “quando gli albanesi eravamo noi”, assimila i nuovi arrivati ai vecchi emigranti italiani, accomunando esperienze solo vagamente simili. Dal punto di vista dei luoghi di destinazione, i Paesi di arrivo di fine ‘800 e anche del secondo dopoguerra avevano bisogno di forza di lavoro e facevano una politica in questa direzione. Venivano pagati i passaggi in nave, distribuite terre, creati centri di accoglienza. Anche nel secondo dopoguerra, erano i governi che predisponevano le condizioni dell’emigrazione con accordi bilaterali.

Gli emigrati italiani erano ricercati, possedevano capacità di lavoro e si dirigevano verso parti del mondo dove la popolazione era scarsa e le opportunità reali. I Paesi dove si recavano erano quasi sempre in forte espansione. Gli immigrati che entrano in Europa e in Italia oggi vengono ad aumentare una massa di richiedenti lavoro già di per sé alta. Gli emigranti italiani erano soprattutto maschi, poco istruiti, non sapevano le lingue; oggi, dopo i ricongiungimenti e con l’immigrazione femminile attiva, ci sono quasi altrettante donne che uomini, i nuovi emigranti sono più istruiti e sanno le lingue. Pare che presso gli immigrati ci siano più laureati che presso la popolazione nativa di Italia, Grecia e Spagna. Il lavoratore migrante degli anni ‘50-‘60 aveva un regolare contratto di lavoro e un permesso di soggiorno. L’emigrazione avveniva sulla base di accordi tra Paesi che selezionavano i migranti per nazionalità, ma anche per competenze, salute, ecc. Non c’era il traffico di clandestini o era molto ridotto, né c’erano i turisti overstayers. Gli italiani specialmente formavano collettività estese e compatte, mentre oggi si hanno uno spezzettamento e una mescolanza mai visti prima.

∗ Università di Cagliari.

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E’ parso che il parallelismo tra le due esperienze, questa degli ultimi anni e quei movimenti di massa che si addensarono soprattutto verso la fine dell’800 e i primi anni del ‘900, o anche le migrazioni dell’epoca del miracolo economico, potessero fornirci modelli di comportamento e quindi anche di normazione. In forza di ciò si chiede solidarietà per i nuovi venuti. Ispirata da un apprezzabile senso di fratellanza e dal desiderio di capire e aiutare, questa posizione non ha una base consistente di analisi dei fenomeni né conduce ad una politica migratoria meditata. Se questo atteggiamento ha positivamente influito in qualche modo sui rapporti umani tra la popolazione locale e i nuovi arrivati, non è però stato molto utile allo scopo di trovare modelli di riferimento per organizzare la vita e il lavoro degli immigrati in Italia.

Oggi gli immigrati sono molto più dediti al lavoro nero perché sono in situazione irregolare; inoltre non si recano in patria così di frequente, per timore di non poter tornare. Vorrebbero vivere un po’ qui e un po’ là, ma non possono. Potrebbero essere molto di più temporanei e stagionali, poiché i voli sono low cost, ma temono di farlo (Recchi, 2005). Nel gioco push-pull, nel caso dell’Italia hanno prevalso i motivi push (cioè la povertà dei paesi di partenza). Gli immigrati si sono inventato il lavoro, si sono inseriti negli interstizi. Gli italiani hanno offerto loro un lavoro sottopagato, a tutti i livelli: dalle colf, ai muratori e carpentieri euro-orientali, ai braccianti agricoli marocchini. Oppure molti immigrati hanno sfruttato spazi di illegalità (Bolaffi, 2001).

L’immigrazione (alle varie scale, dal tipo intraurbano fino al tipo internazionale e intercontinentale) è vista come una risorsa. E’ sempre proprio così? Un demografismo esasperato enfatizza i danni derivanti dal declino demografico. Da una parte il timore dell’invecchiamento, del calo demografico, dello spopolamento, dall’altra il mito della crescita demografica, dell’ampliarsi dei mercati e dei consumi, della produzione, cui gli immigrati, specialmente quelli “scelti”, contribuirebbero. Una risposta positiva è troppo semplificante. Dovremmo intanto cambiare l’immaginario collettivo (un Paese vecchio, che non consuma, che non si rinnova, che conserva…), per pensare anche ai lati positivi di un certo alleggerimento demografico. Si può sostituire il mito della crescita – o la paura del declino - con quello del mantenimento? Certo, per gran parte dell’Europa le previsioni sono non di mantenimento della popolazione, bensì di calo. Un calo che comporterà la diminuzione dei consumi, quindi l’aumento della produzione di eccedenze e la crescente difficoltà nel loro collocamento, che significherà anche la diminuzione della forza di lavoro. Ma l’invecchiamento demografico è paragonabile al passaggio di un’onda, dopo la quale gli equilibri si riassesteranno su nuovi livelli. Bisogna che l’onda passi.

Si può ragionevolmente ipotizzare che – anche diminuendo l’immigrazione – la popolazione delle principali aree metropolitane si mantenga invariata. La possibilità di meglio regolare fenomeni di degrado e di inquinamento dovuti al traffico, potrebbe portare a condizioni locali più vivibili e quindi comporterebbe il calo della tendenza ad abbandonare le zone troppo congestionate. Quanto alle zone montane e collinari, l’alleggerimento demografico è già avvenuto e la loro popolazione può dirsi oggi stabile, nelle colline anche in crescita. Del resto, rari sono gli immigrati che vanno a lavorare e a vivere nelle aree marginali del Paese.

Nella situazione di persistente alta differenziazione del territorio italiano sotto il profilo del mercato del lavoro, sarebbe necessaria una distribuzione della forza di lavoro importata, che l’attuale sistema delle quote non garantisce, perché l’immigrato in pratica è libero, una volta entrato nel Paese legalmente, di spostarsi di luogo e di posto di lavoro. Per questo motivo gli immigrati rumeni ingaggiati dai pastori in Barbagia rapidamente si spostano verso l’edilizia, dove si pongono in diretta concorrenza con la forza di lavoro locale. A nulla

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serve dire che il pastore barbaricino dovrebbe pagare meglio il servo - pastore rumeno. E’ molto importante studiare non solo l’arrivo degli immigrati, ma gli spostamenti successivi.

Sono convinta che l’ingresso di un numero così alto di immigrati (per il 2006 si prevede la concessione di permessi di soggiorno per motivi di lavoro a 340.000 persone, più i ricongiungimenti familiari, i minori non accompagnati, i richiedenti asilo e altre categorie) non sia necessario. Il fabbisogno di forza di lavoro potrebbe venir coperto dall’innalzamento dell’età del pensionamento, da una maggior partecipazione delle donne, che nel Sud sono sempre poco presenti sul mercato del lavoro, nonché dalla chiusura o contrazione di molte attività non strettamente necessarie, oppure facilmente meccanizzabili. Una maggiore professionalizzazione e una più elevata remunerazione potrebbero rendere più appetibili tipi di lavoro oggi affidati agli immigrati. In Danimarca, ad esempio, l’assistenza degli anziani è affidata ai servizi, per un costo – a conti fatti, compresa la maggiore possibilità per le donne di lavorare fuori della famiglia – non molto più alto che in Italia, dove sono le badanti ucraine e rumene ad occuparsene (Carlini, 2005).

La popolazione dei paesi mediterranei sta prendendo atto che gli stranieri sono qui per restare. Non è facile accettare questo fatto. Infatti, con un ingresso di queste dimensioni, anche se gli immigrati dell’Europa dell’Est finiranno col rientrare presumibilmente nei paesi di origine, tuttavia un certo numero rimarrà, anche per effetto dei matrimoni misti. Il ritorno dell’emigrante, visto per lo più in passato come effetto della discriminazione e manifestazione di fallimento, più che come la conclusione di un normale progetto migratorio, può diventare l’obiettivo di politiche delle migrazioni: stages per studenti, formazione degli adulti, ulteriore professionalizzazione, possono agevolare il reinserimento del migrante nel contesto d’origine, e così contribuire allo sviluppo locale dei luoghi di origine. Una “triangolazione positiva“ può essere quella del trasferimento di risparmi, dell’apertura di piccole imprese, dell’integrazione nell’economia locale, come sta accadendo in alcuni paesi africani che hanno un gran numero di emigrati in Francia (Zupi, 2002). E’ sbagliato “ridurre in miseria i vicini” (cfr. M. Burda, in Boeri e McCormick, 2002, p. 188), svuotando ampie regioni della Polonia, Slovacchia, Ucraina e Romania. Condizioni positive per il ritorno potrebbero essere ottenute attraverso un’adeguata combinazione di politiche dei governi dei paesi di arrivo, politiche dei governi dei paesi di partenza, facilitazioni al trasferimento del denaro e delle conoscenze.

Un’evoluzione necessaria e importante, tipica di una fase più matura dell’immigrazione di massa, consiste nei processi di ridistribuzione delle presenze straniere sul territorio, al livello regionale ma anche locale, per evitare pericolosi inneschi, come si è visto in Francia, nelle periferie parigine e di altre città. Ravvivare il mercato della casa nei piccoli centri non molto lontani dalle aree di lavoro, attraverso l’incentivazione dei trasporti, ma anche i contratti di quartiere o di villaggio, gli sgravi fiscali ai proprietari e il controllo dei contratti di affitto, può essere un mezzo importante per produrre situazioni equilibrate territorialmente. Questi fenomeni stanno già avvenendo spontaneamente, poiché le grandi agglomerazioni di stranieri nelle maggiori aree metropolitane tendono a non crescere più, mentre l’Istat segnala una loro maggiore dispersione nei centri medi e piccoli. Le nazionalità che sono qui da più tempo, come i marocchini e gli albanesi, sono già molto disseminate sul territorio, essendo andate ad utilizzare gli spazi abitativi delle aree meno dense, e avendo trovato lavoro nell’agricoltura e nel commercio ambulante. Un importante campo di studi si apre nel seguire le modalità con cui questa ridistribuzione si attua, apportando rivitalizzazione e anche nuovi potenziali di mantenimento degli effettivi di popolazione. Un assetto contrassegnato da un’opportuna diffusione degli stranieri, anche grazie al conseguente effetto di ripresa delle piccole produzioni destinate al mercato locale,

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porrebbe così le premesse per una riscoperta della vivibilità delle aree meno congestionate del Paese.

Riferimenti bibliografici

Boeri T., McCormick B. (2002), Immigrazione e stato sociale in Europa, Univ. Bocconi Ed., Milano.

Bolaffi G. (2001), I confini del patto: il governo dell’immigrazione in Italia, Einaudi, Torino. Bonifazi C. (1998), L’immigrazione straniera in Italia, il Mulino, Bologna. Carlini R. (2005), “La badante sommersa”, in La Repubblica delle donne, 26 nov., pp. 123-126. Recchi E. (2005), “Spazi low cost tra Europa e Africa, in Demografia. Italia e Mediterraneo

in movimento. Movimenti migratori e movimenti culturali”, n. spec. di Equilibri, 3, pp. 515-522.

Zupi M. (2002), “Emigrants’ remittances and economic development. An agenda for aid”, in Studi emigrazione, n. 148, pp. 833-858.

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3.2. Brevi considerazioni sulle migrazioni nelle vallate alpine della Provincia di Torino

Elisa Bignante e Domenico Deleonardis∗

Obiettivo di questo contributo è di riflettere circa alcuni processi migratori osservabili in diverse valli piemontesi, in particolare nelle valli Pellice, Chisone e Germanasca (fig. 1). Recenti esperienze di ricerca condotte dal Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico e dell’Università degli Studi di Torino sul territorio del Pinerolese32 hanno infatti messo in evidenza, a partire dagli anni Novanta, un incremento significativo nell’area di diversi gruppi di immigrati.

Le dinamiche in atto nel Pinerolese hanno catturato la nostra attenzione per via di alcuni caratteri che le contraddistinguono. Nelle valli esaminate paiono infatti consolidarsi due forme differenti e parallele di immigrazione: una prima forma è rappresentata da gruppi di lavoratori temporanei attratti dalla domanda di manodopera stimolata dai Giochi olimpici di Torino 2006; una seconda forma è composta da migranti stabilitisi in maniera regolare nelle valli, inseriti in settori economici tradizionali dell’economia locale, quali l’estrazione mineraria e la lavorazione della pietra, e che provengono da distretti industriali della Cina e della Polonia specializzati nelle medesime attività.

L’immigrazione nelle valli alpine torinesi non rappresenta certamente un fenomeno nuovo: già negli anni Settanta nella vicina Valle di Susa - che con le valli citate compone l’arco alpino interessato dalle Olimpiadi invernali - in occasione della costruzione del traforo del Frejus si verificò un prima immigrazione di forza lavoro dal Sud Italia. In maniera non dissimile il progetto di costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione fungerà con tutta probabilità da attrattore di nuovi flussi migratori, così come è accaduto per altre tratte in costruzione, in cui è emerso in particolare il tratto di temporaneità e relativo isolamento dei gruppi di lavoratori immigrati dal resto del contesto locale (si veda ad esempio Perulli, 2005 con riferimento al caso del Mugello).

L’immigrazione degli anni Settanta in Val Susa, peraltro oggi assorbita al punto tale da far sì che alcuni leader della protesta No-Tav siano figli degli stessi migranti di allora, risiede su un fattore di spinta, la ricerca di occupazione, che tutt’oggi rappresenta probabilmente la principale ragione di spostamento verso le vallate alpine del Pinerolese. La costruzione delle opere olimpiche e l’espansione edilizia, così come alcune attività economiche consolidate in particolar modo in Val Germanasca, in Val Pellice e nella pianura pinerolese (attività estrattiva e lavorazione della pietra in primo luogo) rappresentano infatti elementi di attrazione di forza lavoro proveniente da diverse parti del mondo.

∗ Politecnico e Università di Torino. 32 Si tratta del progetto di Promozione e Integrazione dei progetti di sostenibilità nel Pinerolese e del progetto Interreg III Alpcity Eredità olimpica condivisa in Val Chisone e Germanasca,, promossi e coordinati dal Consorzio ambientale Pracatinat di Fenestrelle (Val Chisone). I risultati della ricerca sono presentati in Dansero, Dematteis e Governa (2005).

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Naturalmente, la geografia del fenomeno migratorio, in quanto sfuggente a molti dei tradizionali strumenti statistici, rimane in qualche misura incerta. Tuttavia alcuni comuni del Pinerolese e della Val Susa si rivelano luoghi con una forte presenza di immigrati, tra questi:

- Prali (332 abitanti) e Perrero (779 abitanti), due comuni della Val Germanasca dove è

insediata una comunità di 32 polacchi (BDDE, 2004), provenienti dalla regione estrattiva della Slesia, per la maggior parte assunti come minatori della Luzenac, un’impresa mineraria di estrazione, lavorazione e distribuzione di talco lamellare;

- Barge e Bagnolo, due comuni della provincia di Cuneo situati al confine con la Val Pellice, rispettivamente di 7.000 e 5.500 abitanti dove è presente una comunità di cinesi composta, secondo i dati ufficiali, rispettivamente da 293 cinesi a Barge e 166 a Bagnolo (Allasino, 2000), mentre secondo dati non ufficiali la cifra si aggirerebbe intorno alle 1.000 unità (Dematteis, 2003), provenienti per la maggior parte dal distretto rurale di Wencheng nella provincia dello Zhejiang, dove erano occupati nelle cave e nella lavorazione della pietra;

- Pragelato (460 abitanti), in Val Chisone, dove risiedono 85 rumeni (BDDE, 2004), occupati in diverse attività legate principalmente alle opere olimpiche e al turismo;

- Sestriere (840 abitanti), in Val Susa, dove risiedono 44 albanesi (BDDE, 2004), anche qui impegnati nel turismo e nel settore delle costruzioni;

- Oulx (980 abitanti), in Val Susa, dove è rilevante la presenze di inglesi (54 residenti), giunti in un primo momento come turisti (d’inverno si contano 2.000 presenze a settimana), che hanno deciso di trasferirsi in Val Susa aprendo perlopiù attività imprenditoriali nel settore turistico.

Ciascun gruppo di immigrati, naturalmente, presenta propri caratteri distintivi e

differenti modalità di interazione con il contesto locale di riferimento. Un carattere significativo che accomuna diversi ambiti montani è tuttavia rappresentato dalla spinta propulsiva che la forza lavoro immigrata ha portato in diversi settori dell’economia locale, in particolare nell’agricoltura montana, nella pastorizia, nell’edilizia, nella lavorazione della pietra, nell’estrazione di talco e graffite dalle cave, etc. In diversi casi l’apporto è andato ben oltre la fornitura di semplice manodopera: il lavoro e le conoscenze tecniche specifiche degli immigrati hanno concorso, in alcuni casi, a innalzare gli standard di produzione e a incrementare la competitività locale. Si tratta della situazione verificatasi a Barge e Bagnolo: nel 1996 i primi migranti provenienti dalla Cina arrivavano in risposta alle difficoltà degli imprenditori nel reperire mano d'opera locale ed erano accolti in virtù della disponibilità a lavorare per stipendi modesti, ma nel giro di una decina d’anni la situazione si è fortemente modificata. Le competenze tecniche degli operai dello Zhejiang, un’area a sua volta specializzata nella lavorazione della pietra, hanno infatti portato all’introduzione di nuovi macchinari e tecniche di lavorazione della pietra che, a detta di alcuni imprenditori locali, hanno fortemente contribuito all’innalzamento della qualità del prodotto33. Altre comunità, come quella polacca di Perrero, presentano invece caratteri insediativi meno definiti e maggiormente orientati alla temporaneità: la maggior parte dei lavoratori polacchi vive in 33 È indicativo a questo proposito quanto sottolinea Maurizio Dematteis (2003) in un’inchiesta sugli immigrati cinesi di Barge e Bagnolo in cui vengono riportate le testimonianze di diversi imprenditori locali. Ad esempio, Danilo Mattalia, proprietario di una ditta di nove operai, quattro piemontesi, addetti ai lavori più qualificati e ben pagati, e cinque cinesi, scalpellini afferma: “I cinesi sono bravissimi soprattutto a usare i telai. La sera si fermano a programmarli anche per due ore, così il mattino partono da soli. Io non ci capisco nulla, ho acquistato questi telai ma se non ci fossero loro non saprei farli funzionare”.

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strutture messe a disposizione dalla miniera (Casa Gianna) con pochi casi di integrazione e ricongiungimento familiare.

Nelle alte valli le comunità più numerose (i rumeni di Pragelato in particolare) hanno svolto negli ultimi anni un ruolo importante in termini di popolamento del territorio montano, consentendo in particolare di invertire tendenze demografiche altrimenti in declino, favorendo al contempo il mantenimento in vita di alcuni servizi primari, come ad esempio asili e scuole elementari che rischiavano la chiusura: si pensi a questo proposito che a Pragelato, nel 2005, 15 studenti della scuola primaria locale su 31 erano rumeni. Allo stesso modo, i cinesi della pianura pinerolese in pochi anni hanno riempito le aule delle scuole di Barge e Bagnolo, che hanno provveduto a confrontarsi con realtà italiane analoghe (ad esempio nel pratese) per comprendere come inserire al meglio i nuovi studenti.

La limitatezza dei servizi pubblici e privati di base, non paragonabili alle strutture di integrazione presenti in contesti urbani di più grande dimensione (ad esempio servizi sociali, supporti forniti dalle differenti congregazioni religiose o associazioni culturali, etc.) se in alcuni casi ha creato non poche difficoltà sul piano dell’integrazione, in altri ha favorito l’inserimento degli immigrati nel contesto locale. Ciò si è verificato ad esempio per i rumeni di rito ortodosso, che hanno trovato ospitalità nella chiesa locale grazie allo storico ecumenismo di queste valli.

La presenza di europei occidentali (inglesi) o dell’Europa del Nord (finlandesi, in Val Pellice) presenta caratteri ancora differenti. Qui le motivazioni del trasferimento si rinvengono soprattutto nella volontà da parte dei migranti di modificare i propri standard di vita: molte delle narrazioni presentate da Maurizio Dematteis (2003) evidenziano un ruolo di apripista di gruppi di “nuovi coloni” che spinti dalla suggestioni alpine e dall’effetto richiamo dell’evento olimpico hanno colto l’occasione per trasferirsi e aprire attività turistiche in proprio. È interessante a questo proposito notare come questi atteggiamenti culturali, che presentano una forte propensione al rischio imprenditoriale, abbiano favorito il generarsi di dinamismi economici e culturali in contesti - come quelli di molte delle vallate alpine analizzate - di scarso attivismo rispetto alle possibilità e potenzialità di rilancio economico (e in particolar modo turistico) del luogo.

Di fatto, l’immigrazione nelle valli alpine del Pinerolese pare rappresentare un processo non privo di opportunità in termini di sviluppo dei contesti locali: in diverse aree, come si è visto, la presenza di immigrati ha favorito il mantenimento di standard di servizi che altrimenti sarebbero andati persi. Al contempo gli stranieri rappresentano una forza propulsiva per lo sviluppo economico sia come forza lavoro, sia come spinta e incentivo per l’imprenditoria locale, generando a loro volta nuove occasioni di lavoro.

I “nuovi abitanti” parrebbero in questa direzione contribuire a processi di valorizzazione di risorse appartenenti al milieu locale, come nel caso del recupero di insediamenti abbandonati, del mantenimento in vita di attività economiche tradizionali radicate nel contesto (estrazione di talco e graffite e della lavorazione della pietra) o a iniziative imprenditoriali autonome (Bed & Breakfast, ristorazione, attività sportive). Ciò, è evidente, richiede un’integrazione culturale oggi solo agli inizi, ma che rappresenta un obiettivo imprescindibile in contesti dove il capitale umano rappresenta una risorsa scarsa e dove le modalità di interpretazione del territorio e delle sue risorse risentono spesso di una certa staticità.

Un tale ragionamento, è evidente, presuppone un lento (e difficile) distacco da una visione dell’immigrato come forza lavoro temporanea e problematica, funzionale all’espletamento di determinate attività ma, per il resto, marginale rispetto al sistema socio-culturale locale. In questa direzione i processi migratori delle vallate alpine, più che fornire

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delle risposte, si prestano ad aprire una pluralità di spunti di riflessione. Per esempio, così come il passaggio dalla condizione di outsider a quella di insider si rivela lento e discontinuo, allo stesso modo è difficoltoso stabilire quando il migrante raggiunge la condizione di rappresentare una risorsa endogena del milieu, ossia una presa per lo sviluppo locale. In questo senso, il tema della migrazione si sovrappone a questioni di natura squisitamente territoriale, come per esempio i temi della governance, della dialettica locale-globale, della costruzione di identità collettive e del senso del luogo. La prospettiva geografica, a questo proposito, pur fornendo chiavi di lettura certamente meno specifiche rispetto ad altre discipline, come la sociologia e l’antropologia, può forse permettere di collocare questi fenomeni in seno alle più ampie sfide e trasformazioni che i luoghi del Pinerolese si trovano oggi ad affrontare.

Riferimenti bibliografici

Allasino E., Immigrati in Piemonte. Una panoramica sulla presenza degli stranieri nel territorio regionale, Ires Piemonte, Working paper n. 143, 2000.

Banca Dati Demografica Evolutiva (BDDE), Regione Piemonte, 2004, http:// www.regione.piemonte.it

Dansero E., Dematteis G. e Governa F. (a cura di), Per una geografia dell’agire collettivo del/nel Pinerolese, Rapporto di ricerca, 2005, http://www.e-laborazioni.it

Dematteis M., “Immigrazioni alpine”, Alp, n. 228, 2005. Dematteis M., “Giallo in Val Pellice”, Volontari per lo sviluppo, marzo 2003. Perulli A., Dentro la montagna. Società locali alla prova, Torino, Rosenberg & Sellier, 2005.

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3.3. Deconcentration e mobilità umana nell’area metropolitana di Chieti-Pescara

Armando Montanari e Barbara Staniscia∗

La deconcentration – residenziale ed economica – e la mobilità umana – in particolare i cambiamenti intervenuti nei luoghi di residenza e nei luoghi di lavoro degli immigrati – sono i principali cambiamenti territoriali che hanno coinvolto l’area metropolitana di Chieti-Pescara negli ultimi due decenni.

Il primo fenomeno è stato oggetto di indagine sin dagli anni Settanta, ma l’attenzione si è concentrata, soprattutto, sulla deconcentration residenziale: il problema dello spostamento delle attività economiche è stato considerato in rapporto allo spostamento della popolazione, ci si è domandati se il movimento delle prime procedesse o seguisse quello delle seconde, se esistesse un andamento ciclico nelle loro mutue relazioni. La deconcentration delle attività economiche può essere riportata ad un ciclo di vita che prevede tre fasi di sviluppo: deconcentration (i) che coinvolge le attività industriali, (ii) che interessa gli esercizi commerciali, (iii) che riguarda il terziario non commerciale: i servizi della pubblica amministrazione, i servizi alle famiglie e i servizi alle imprese (Staniscia, 2005b).

La deconcentration, residenziale ed economica, individua, quindi, un determinato stadio nella traiettoria di sviluppo dell’area. I risultati riguardanti l’area metropolitana Chieti-Pescara mettono in evidenza il fatto che ci si trova in uno stato di non maturità. I comuni interessati da deconcentration residenziale, infatti, sono quelli della prima corona che crescono a tassi piuttosto elevati negli ultimi anni, mentre il core perde residenti tra il 1991 e il 2001. Con riferimento al modello di ciclo di vita delle aree urbane funzionali (FUR), l’area metropolitana Chieti-Pescara si trova in una fase di suburbanization. A partire dal 2001 si notano i primi segni di recupero di importanza da parte del core, come conseguenza delle politiche urbane messe in atto dagli enti locali negli ultimi anni. I comuni interessati da deconcentration economica sono i comuni che costituiscono il core, in particolare le aree periferiche di questi, e i comuni della prima corona. La deconcentration economica è fortemente influenzata da fattori fisici quali l’accessibilità e la disponibilità di spazi (sia greenfields che brownfields) a bassi costi. Il settore maggiormente coinvolto è il settore commerciale, cui segue quello dei servizi alle imprese (Montanari, Staniscia and Di Zio, 2006). L’area metropolitana di Chieti-Pescara è una delle prime in Italia per la densità di centri commerciali. Se ne conclude che, se si prende a riferimento il modello sopra citato, essa si trova nella seconda fase del processo.

Così come la deconcentration, la presenza straniera è, al tempo stesso, indicatore dello stadio di sviluppo di un’area e variabile dipendente dagli stadi di sviluppo della stessa (Montanari, 2005). Tale tesi è stata già verificata con riferimento ad un’area fortemente caratterizzata da uno sviluppo industriale nell’Abruzzo meridionale (Staniscia, 2005a). Tale tipo di ricerca richiede l’utilizzo di dati quantitativi (provenienti da fonti quali Istat, Questure, Registri anagrafici dei comuni, Uffici del lavoro, Associazioni di categoria) e di ∗ Università degli Studi “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara.

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informazioni qualitative reperite attraverso interviste a testimoni privilegiati e questionari somministrati alla popolazione straniera.

L’indagine diretta sulla popolazione straniera ha l’obiettivo di studiare le caratteristiche personali e famigliari, le traiettorie migratorie, i bisogni espressi, gli effetti territoriali in termini di mercato del lavoro, mercato degli immobili, sistemi di trasporto. Il tutto è finalizzato alla predisposizione di politiche urbane che tengano conto di tale nuova presenza. I dati quantitativi e le informazioni qualitative sono congiuntamente analizzati attraverso analisi multicriteria e l’applicazione di modelli matematici di stima; attraverso l’uso dei Sistemi di Informazione Geografica (GIS) è possibile la sovrapposizione delle informazioni territoriali ottenute.

I risultati riguardanti l’area di Chieti-Pescara mettono in evidenza un incremento della presenza straniera nel periodo 1991-2001 e un’accentuazione negli ultimi quattro anni. Tale accelerazione ha riguardato cittadini provenienti dai Paesi dell’Europa orientale, in particolare la componente femminile ucraina e rumena. I cittadini stranieri esprimono una preferenza residenziale per le aree costiere, che costituiscono il core; si registra, ciononstante, negli ultimi anni, una tendenza allo spostamento nei comuni della prima corona, una deconcentration residenziale straniera, dunque. Si evidenzia altresì una concentrazione in determinati quartieri, che ha determinato un decremento nei prezzi delle abitazioni e la formazione di clusters urbani.

Riferimenti bibliografici

Montanari, A. (2005), “Human mobility, global change and local development”, Belgeo, n. 1-2, pp. 7-18

Montanari, A., Staniscia B. and Di Zio S. (2006, forthcoming), “The Italian way to deconcentration. Rome, the appeal of the historic centre, the inevitability of the periphery”, in Dijst, M., Razin, E. and Vazquez, C. (eds), Employment deconcentration in European metropolitan areas. Market forces vs planning regulations, Kluwer, Dordrecht

Staniscia, B. (2005a), “Economic development and international migration in the Sangro Valley, Abruzzo, Italy”, Belgeo, n. 1-2, pp. 199-213

Staniscia, B. (2005b), “Deconcentration e Governance urbana: una proposta di interpretazione dei fenomeni emergenti nelle città europee”, in Di Blasi, A. (a cura di) Atti del XXIX Congresso Geografico Italiano. Geografia. Dialogo tra generazioni. Vol. II Contributi, Patron, Bologna, pp. 631-636

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4. Sviluppo locale, risorse e sostenibilità territoriale

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4.1. Ambiente versus territorio?

Maria Tinacci Mossello∗

Il paradigma della sostenibilità rimette in discussione, a mio parere, il contenuto della territorialità intesa come componente della cultura e dell’identità sociale e, a maggior ragione, rimette in discussione i contenuti materiali della territorializzazione.

Questo impone, fra l’altro, un ripensamento della cultura geografica “di scuola”, al di là di quanto si è portati a pensare in forza della vulgata che vuole costantemente centrale nel pensiero geografico l’analisi del rapporto uomo-ambiente ed il suo progressivo adeguamento sociale ed affinamento scientifico attraverso la nota sequenza “determinismo” “possibilismo”… Ma poi?: “volontarismo”, come afferma Nice (1953 e 1967), mettendo in evidenza l’attività di pianificazione territoriale che ha cominciato a caratterizzare le politiche dei paesi avanzati nella prima metà del secolo scorso, a correggere e razionalizzare la costruzione materiale del territorio? (E peraltro l’attività di pianificazione territoriale ha presto imboccato derive economicistiche o estetizzanti, a scarso contenuto “ambientale”) Oppure estremizzazione del modello neoidealista attraverso l’approccio cultural, post-moderno?

In realtà questa evoluzione standard del pensiero geografico segue da vicino il solco della storia del pensiero economico e della storia economica contemporanea: dal periodo dell’economia classica e della prima industrializzazione, che costruisce opere per superare i vincoli posti dall’ambiente fisico all’attività economica, al periodo dell’economia neoclassica e del dominio del mercato e della crescita, cui si affianca in geografia il neoidealismo provinciale di Vidal-Febvre con i suoi paesaggi e i suoi generi di vita rurali, ben distanti dai fuochi cruciali della crescita economica (dove si esercitano i primi esempi di pianificazione territoriale, per lo più senza la partecipazione dei geografi), fino alla biforcazione contemporanea tra tecnicismo esasperato e fuga post-modernista. Altro sarebbe stato se si fosse seguito il pensiero di Reclus….e non è forse un caso se gli urbanisti, che “per li rami” (Geddes Mumford) ne furono allievi, hanno poi avuto ben più credibilità scientifico-sociale dei geografi, anche se la pianificazione territoriale ha sempre mantenuto un ruolo subalterno e adattivo nei confronti di majors come la crescita e lo sviluppo (economico), l’innovazione tecnologica ed organizzativa ecc..

Oggi, al netto della geografia culturale e delle sue fughe radicalmente idealistiche rispetto alle problematiche dello sviluppo, l’ambiente strumentalizzato e stressato ci “presenta il conto” e lo fa non tanto e non solo attraverso fenomeni fisici la cui ampiezza e la cui frequenza sono controversi (c’è chi non crede ancora all’effetto-serra, chi afferma che i tifoni ci sono sempre stati ecc.), quanto attraverso il paradigma dello sviluppo sostenibile, uno dei più logicamente ineludibili e politicamente condivisi fra quelli della storia sociale.

Occorre mettere a fuoco una nuova riflessione in molti campi, a questo punto. Dal punto di vista della geografia umana, la questione ambientale ripropone brutalmente alla ricerca economico- politica la fisicità dello spazio geografico, ma se i termini sono

∗ Università di Firenze.

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apparentemente rovesciati rispetto a quelli del “vecchio” determinismo – poiché occorre non difendersi dall’ambiente naturale e svilupparsi superandolo, bensì difendere l’ambiente e svilupparsi conservandolo – sono in realtà del tutto asimmetrici, perché l’ambiente va messo a confronto non con uno spazio naturale bensì con un territorio prodotto dall’economia, dalla politica e dalla tecnologia e carico di manufatti e valori anti-ambientali. L’esigenza è quella, non semplice, di rivedere un sistema di valori consolidati: non dimentichiamo che anche la geografia economica, guardando “al di sotto” e “a valle” della teoria economica le “proiezioni territoriali” delle espansive attività di mercato, ha condiviso la logica “à la cow boy” e che è stato l’economista Boulding (1966) a lanciare per primo il messaggio, raccolto dalla grande cultura, della necessità di attivare, a contrario, modalità di sviluppo olistiche adatte ad una spaceship economy, all’economia della Terra-navicella spaziale.

Si tratta dunque di stabilire nuove priorità, nuove armonie da parte della geografia, rimettendo in profonda discussione un’ottica che le ha consentito di accettare la fittezza della rete stradale, le quantità della produzione e dell’occupazione industriale, i livelli del reddito ecc. come indicatori di sviluppo territoriale. Nel frattempo, a conferma dell’adesione dei geografi al paradigma dello sviluppo e a rassicurazione sul senso del loro mestiere, sempre più spesso lo sviluppo è stato indagato e qualificato come “locale”, anche da parte di economisti e sociologi.

Proprio il modello dello sviluppo locale “territoriale” fornisce a Bagliani e Dansero (2005) la base per la proposta di inserire il discorso sulla sostenibilità ambientale a partire dall’analisi positiva e normativa della territorialità insita nel modello del Sistema Locale Territoriale (SLoT), che così viene assunto come invariante di valore. Tuttavia non mi sembra questa una soluzione soddisfacente, per una serie di motivi. Il primo è che l’assunzione a priori di un’organizzazione socio-territoriale, (anche) in assenza di consapevolezza ambientale potrebbe di fatto rappresentare ostacolo ad una genuina analisi integrata società-ambiente. Essendomi occupata in passato di analisi sistemica delle formazioni regionali, ho già avuto occasione di osservare, come ogni “dato” strutturale attorno al quale si costruisce l’analisi rappresenti potenzialmente un ostacolo rispetto ad una genuina analisi dinamica e/o più complessa. Concretamente, le vicende del Comprensorio toscano del cuoio hanno mostrato come – pur in presenza di un elevato grado di autoorganizzazione (e forse proprio per questo) – il Comprensorio abbia scelto la persistenza delle condizioni di redditività “contro” le esigenze dell’ambiente, almeno nel breve periodo (Dini, 2001). Il secondo, che i confini degli ecosistemi sono diversi da quelli dei sistemi socio-territoriali e, se è vero che i primi possono essere “labili e variabili nel tempo” (Bagliani e Dansero, 2005), probabilmente in maggior misura lo sono i secondi. Il terzo, che i sistemi territoriali sono formazioni rare, mentre il progetto dello sviluppo sostenibile coinvolge per intero gli spazi terrestri.

Questo non significa che il territorio e i luoghi, in quanto testimonianza degli effetti concreti della storia nel lungo periodo, non debbano essere (ri-)pensati alla luce dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile, tanto più che la transcalarità globale/locale, relativamente consolidata nell’ottica dello sviluppo economico-sociale, non lo è altrettanto in quella dello sviluppo sostenibile, al di là di slogan come “to act locally thinking globally”. La territorialità, banalizzata e fraintesa, continua a sperimentare una persistente difficoltà alla penetrazione politico-culturale: lo dimostra la scarsa attenzione al territorio in sede di Rapporto Brundtland e di Conferenza di Rio (Dansero, 1996); lo dimostra, ancor più concretamente, il suo adombramento in sede di attuazione operativa del Protocollo di Kyoto: dei mercati dei diritti di emissione (stabiliti a livello nazionale con riferimenti settoriali e puntuali, senza alcun riferimento regionale), così come dei meccanismi flessibili di cooperazione internazionale (Clean Development Mechanism e Joint Implementation).

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Quello che sembra prioritario, è il riordino del sistema dei valori derivanti dalla territorializzazione (come attività di costruzione) e su cui si fonda la territorialità (come rapporto di lunga durata fra la società e il suo territorio). Vediamo qualche esempio, sulla base di alcune componenti territoriali di cui sia (supposto) noto l’effetto ambientale, cominciando con le infrastrutture, che pochi decenni or sono erano invocate dagli studiosi (non meno che dai rappresentanti dei territori) come fattori irrinunciabili di sviluppo – in molti territori lo sono ancora – e che oggi i rappresentanti di vario livello della Maremma e della Val di Susa discutono, chiedendo l’elisione o il ridimensionamento dei progetti relativi. E’ una questione di misura? Ma “quale” misura? Ed è solo un problema “locale” nel senso limitativo del termine? Ma dove finisce il localismo isolazionista e comincia la “territorialità positiva o inclusiva” (Dansero, 2005; Dematteis, 2001)?

Nel campo dell’energia sembrano a prima vista esserci meno mine. E’ tutto chiaro e straripetuto: i. il petrolio finirà e comunque inquina; ii. il nucleare è troppo rischioso (anche se già molte voci si levano ad esprimere ripensamenti); iii. bisogna far ricerca sulle energie rinnovabili, ma di fatto il solare non è (ancora) efficiente - e qui se la vedano gli ingegneri – e dell’eolica (la più efficiente fra le energie rinnovabili) si sta denunciando l’effetto di deturpazione del paesaggio! Sono già in molti ad affermarlo: non solo Sgarbi, anche l’Assessore all’ambiente della Regione Puglia! Cosa dicono i geografi? Per quanto ne so, finora non si sono pronunciati.

Anche la concezione della “globalizzazione” va ripensata, ora che si è fatto chiaro come il mercato non fruisca di spazi aperti alla cow boy e il “globo” non sia né possa essere un mercato. I principi formulati per le azioni dalla diplomazia ambientale internazionale sono già numerosi, e credibili – precauzione, sussidiarietà, informazione, ed altri ancora –: si tratta di metterli tutti in atto alle diverse scale – dal luogo al globo, coinvolgendo ovunque gli stakeholders - mentre la lettura del territorio, in chiave positiva e normativa, deve essere in linea di principio innovativa, alla scoperta di vincoli ed opportunità per elaborare nuove regole di territorializzazione, che non riducano la complessità naturale né trascurino il punto di vista locale, al fine di costruire progetti di sostenibilità efficienti e condivisi.

In questo quadro, appare specialmente ricco di senso il modello dell’impronta ecologica ma, più in generale, occorre inventare nuovi “indicatori” dello sviluppo, quasi-antitetici a quelli che a lungo sono stati usati, per analizzare il capitale naturale e l’efficienza del suo uso, i livelli di produttività, i modi della mobilità e così via, ripercorrendo a contrario, a partire dall’ambiente e dalla sua “riscoperta” politica e culturale, il senso del patrimonio territoriale che abbiamo fin qui costruito sullo spazio che la natura ci ha consegnato.

La sfida per la geografia umana è grande e, forse, finale: finalmente le viene fornita l’occasione (e la necessità) di recuperare davvero – e dimostrare che non era un bluff l’istanza di averla – la posizione di frontiera fra le scienze fisiche e le scienze sociali che ha sempre dichiarato esserle connaturata, visto che la concezione consolidata e condivisa dello sviluppo sostenibile include almeno tre dimensioni: ambientale, economica e sociale.

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Dini F., “I paradossi ambientali del Comprensorio toscano del cuoio”, in M. Tinacci Mossello (a cura di), La sostenibilità dello sviluppo locale. Politiche e strategie, Bologna, Pàtron, 2001, pp. 244-258.

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4.2. Territorio senza ecosistemi o ecosistemi senza territorio?

Marco Bagliani∗

Il presente scritto propone alcuni spunti a partire da una più ampia riflessione su territorio ed ambiente esposta da Bagliani (2006), Bagliani e Dansero (2005) e Bagliani e Ferlaino (2003).

Da quando nel 1987 la commissione Brundtland ha proposto il concetto di sviluppo sostenibile vi è stata una amplissima diffusione di studi e ricerche su queste tematiche, che hanno coinvolto materie e ambiti diversi e portato ad approfondimenti interdisciplinare delle dimensioni economica, ambientale e sociale della sostenibilità.

Accanto a questi apporti più prettamente “tecnici”, uno dei contributi che la riflessione geografica può dare agli studi sulla sostenibilità consiste, a nostro avviso, nel sottolineare l’importanza, quando non addirittura la necessità, di (ri)scoprire la categoria di territorio, evidenziando l’urgenza di considerare la scala locale in tutta la sua complessità ed irriducibilità. Grazie ad una lettura autenticamente geografica è possibile fare emergere come le categorie dello sviluppo sostenibile e della sostenibilità ambientale non vadano applicate ad un semplice spazio, visto come omogeneo ed uguale a se stesso, mero supporto di politiche ed azioni orientate alla sostenibilità, bensì debbano riferirsi al territorio, inteso come sistema complesso, risultante dell’intreccio di dinamiche umane e naturali così come si è venuto a stratificare nel corso tempo.

In Italia, alcuni autori (tra cui citiamo Vallega, 1995; Dansero, 1996; Dematteis, 2001) muovendosi in questa direzione, hanno sottolineato il carattere di sistema bimodulare del territorio, composto da due sottosistemi (socioeconomico ed ambientale) caratterizzati da dinamiche complesse in stretta relazione tra loro. Malgrado questa consapevolezza sia generalmente condivisa tra gli studiosi del territorio, occorre qui succintamente sottolineare che lo studio delle dinamiche e delle proprietà della componente ambientale in relazione al territorio è stata esplorata ed approfondita dalla riflessione geografica a un livello sicuramente inferiore rispetto alla componente socioeconomica e in modo ancora parziale. Così in alcuni lavori, il richiamo all’ambiente rischia di rimanere confinato al piano delle enunciazioni di principio, senza approdare al livello della discussione teorica o giungere alla traduzione in modalità operative. In diversi casi, si ritrovano concezioni ancora legate ad approcci decisamente meccanicistici, che fanno riferimento a letture lineari delle dinamiche degli ecosistemi, a logiche di causa-effetto sovrasemplificate, a visioni riduttive e parziali della componente ambientale. In questo senso, bisogna riconoscere che, talvolta, la trattazione della tematica ambientale rischia di risolversi in un puro esercizio di retorica.

Comunque anche nei casi in cui la riflessione geografica sulla componente ambientale risulta più approfondita ed aggiornata, essa rimane, a nostro avviso, ancora parzialmente ancorata ad un livello di analisi “aspaziale”, la cui origine è forse riconducibile ad una concezione che tende ad identificare gli ecosistemi come entità che mancano di una ∗ Ires Piemonte.

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dimensione spaziale concreta (Zerbi, 1993). A tale proposito Cencini (1999, p. 95) osserva che “il concetto di ecosistema è essenzialmente aspaziale e non è, quindi, un concetto geografico” e, citando Bertran (1968, p. 235), che esso “n’a ni échelle, ni support spatial bien défini”. In questi casi l’analisi geografica non può che ripiegare sull’assunzione di una dimensione spaziale che non è intrinseca, direttamente riferita alla proprietà spaziali degli ecosistemi, ma che, al contrario, è esogena e deriva dalla “declinazione”, a livello spaziale, delle differenti problematiche trattate. All’interno di questa “geografia per problemi ambientali” possono essere ricondotti numerosi e, occorre dirlo, peraltro validissimi studi riguardanti le tematiche dell’ambiente. Si considerino, a titolo di esempio l’analisi sul rischio e sul degrado ambientale in Italia, oppure quella sulle aree dimesse e verde urbano, entrambe ottimamente curate da Leone (1998, 2003), nelle quali la “spazializzazione”, ossia la declinazione dell’analisi a livello spaziale è essenzialmente fatta rispetto al tema considerato, passando cioè in rassegna, regione per regione, la situazione del rischio ambientale, o analizzando, area dopo area, i vari casi di dismissione industriale.

In realtà, nell’ultimo mezzo secolo le scienze naturali ed ecologiche hanno messo in luce nuove proprietà e dinamiche della componente ambientale di un territorio. Si tratta di un panorama di conoscenze radicalmente diverso da quello precedente che ha portato a ribaltare modi di pensare e schemi interpretativi. Coniugando questi nuovi saperi ecologici alla riflessione geografica è possibile “riportare alla luce” e rendere visibili i complessi intrecci di flussi di risorse naturali, le fitte reti di scambi di materia, energia ed informazione, in poche parole l’insieme di relazioni spaziali tra gli ecosistemi alle differenti scale, mettendo così in evidenza le proprietà tipicamente spaziali che caratterizzano la componente ambientale di un territorio. Queste nuove conoscenze chiamano al superamento di una concezione dell’ecosistema inteso come ente aspaziale e inducono un ripensamento ed un approfondimento delle rappresentazioni del territorio locale, verso chiavi descrittive più attente alla complessità della componente ambientale, capaci di prendere in considerazione anche le scale e le proprietà spaziali che caratterizzano gli ecosistemi. Come afferma Dematteis (1996, p. 162), “inserire la problematica ecologico-ambientale […] significa riconoscere le ragioni degli ecosistemi naturali come principi d’ordine locali e globali con cui occorre fare i conti”

In questo senso può essere utile fare riferimento allo schema proposto da Bagliani e Dansero (2005, p. 121) in cui la complessità dello spazio/ambiente locale viene letta lungo due assi. Il primo si riferisce alla complessità dell’ambiente socio-economico locale che va dagli estremi di uno spazio concepito come semplice supporto passivo, all’idea di un territorio come supporto attivo nelle politiche di sviluppo locale (Dematteis, 2001a; Dematteis, 2003; Dematteis e Governa, 2005). Il secondo asse riguarda la complessità dell’ambiente naturale, che va dal riconoscimento minimo dell’ambiente come miniera e discarica, tipico di una visione riduzionista della natura, vista come supporto totalmente passivo delle attività umane, alle descrizioni più moderne e coerenti con le nuove conoscenze in questi campi, che vedono la componente ambientale di un territorio come “un complesso insieme di ecosistemi legati tra loro da una rete di relazioni e retroazioni che si estende a scala globale. In questa visione l’ambiente naturale locale non può essere considerato come isolato, ma appare un nodo di questa rete globale di ecosistemi, ad essa legato da relazioni di complessità variabile” (Bagliani e Dansero, 2005).

Questa “complessificazione” della modellizzazione del territorio locale può essere proficuamente introdotta anche all’interno dello schema di lettura suggerito da Dansero e Governa nella fig. 1 del loro intervento si vedano i loro contributi in questo wp), in cui, partendo dalla definizione di territorialità di Raffestin, ne evidenziano diverse modalità attraverso “uno schema che incrocia le relazioni con l’esteriorità (considerando da un

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minimo, in cui il territorio è visto come un semplice supporto, ad un massimo, in cui il territorio è visto come patrimonio/capitale territoriale) e le relazioni con l’alterità (considerando anche in questo caso, da un minimo, azioni di tipo esclusivo, che mirano cioè ad escludere soggetti e risorse, ad un massimo, azioni di tipo inclusivo, che mirano ad includere soggetti e risorse)”. In questo modo lo schema stesso si arricchisce perché quando il territorio viene visto e pensato come sistema complesso, non solo nella sua dimensione socio-economica ma anche in quella ambientale-ecosistemica, la categoria dell’inclusività-esclusività può essere applicata non più al solo campo degli attori e della loro organizzazione (modulo socioeconomico) ma anche a quello degli ecosistemi (componente ambientale). In questo caso si possono distinguere, in parallelo alle forme di territorializzazione sottolineate dagli autori (territorio senza attori; attori senza territorio, territorialità attiva e passiva), altre categorie, che riguardano più nel dettaglio la capacità o meno di instaurare una relazione con l’esteriorità capace di assumere la complessità della componente ambientale del territorio, che portano, tra le altre, alle situazioni del: - territorio senza ecosistemi (caratterizzato dall’incapacità di assumere la complessità

della componente ambientale del territorio, ma inclusive verso l’alterità); - ecosistemi senza territorio (caratterizzato dalla capacità di assumere la complessità della

componente ambientale del territorio, ma esclusive verso l’alterità). Accanto a queste modalità vi può infine essere un nuovo tipo di territorialità, che

consideri territorio, attori ed ecosistemi, perché, come affermato da Bagliani e Dansero (2005), “solamente una territorialità che sia inclusiva, a scala planetaria, rispetto all’alterità e alla esteriorità, ossia che prenda in considerazione la complessità della componente socioeconomica e di quella ecologica a livello globale dell’intero pianeta, può indurre (o almeno favorire), da un lato, comportamenti autenticamente cooperativi verso tutti gli abitanti, e dall’altro lato, azioni che mettano realmente in valore le risorse ambientali senza corrompere quelle di regioni lontane, nella consapevolezza della presenza di una rete globale di interazioni tra ecosistemi che permettono delicati equilibri ecologici”.

Riferimenti bibliografici

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Bagliani M., Ferlaino F., 2003, SLoT e sostenibilità ambientale: l’Impronta Ecologica della Val Chisone, in Rossignolo C., Imarisio C. (a cura di), “SLoT quaderno 3. Una geografia dei luoghi per lo sviluppo locale”, pp. 147-160, Baskerville, Bologna.

Bertran G., “Paysages et géographie globale”, Revue Géographiques des Pyrénées, 39, 1968, pp. 161-64..

Cencini C., “Economia, ambiente e sviluppo sostenibile”, Bologna, Patron Editore, 1999. Dansero E., Eco-sistemi locali, Milano, FrancoAngeli, 1996. Dematteis G., 2003, Il modello SloT come strumento di analisi dello sviluppo locale, in Rossignolo

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Dematteis G., “Per una geografia della territorialità attiva e dei valori territoriali”, in Bonora P. (a cura di), SloT Quaderno 1, Bologna, Baskerville, 2001, pp.11-30.

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Leone U., (a cura di), “Rischio e degrado ambientale in Italia”, Bologna Patron Editore, 1998.

Leone U., (a cura di), “Aree dimesse e verde urbano”, Bologna Patron Editore, 2003. Vallega A., 1995, La regione, sistema territoriale sostenibile, Mursia, Milano. Zerbi M.C., “Paesaggi della geografia”, Torino, Giappichelli, 1993.

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4.3. Alcune considerazioni sullo sviluppo locale sostenibile e il caso del Piemonte Orientale

Dino Gavinelli∗

Molte manifestazioni della cultura geografica si basano su un’iniziale e profonda conoscenza della realtà terrestre (o di una sua determinata porzione) intesa come prodotto dell'interazione fra gli ambienti fisici e le società umane: i primi apparentemente immutabili, scanditi da tempi e ritmi di lungo periodo e da cambiamenti abiotici e biotici; le seconde in continua evoluzione, a generare nuove forme di spazialità. Gli equilibri ‘dinamici’ che si realizzano nelle varie regioni (e che si traducono in nuovi paesaggi e in rinnovati assetti territoriali), spingono però i geografi ad allargare l’iniziale indagine dei rapporti uomo – ambiente, che risulta da un’incontro paradigmatico tra la cultura umanistica e quella scientifica, e a superare l’impostazione tradizionale degli studi regionali (Vallega, 2004). La moderna ricerca geografica tiene conto perciò di altri fattori che concorrono al cambiamento dei territori, interrogandosi sull’orientamento dei cambiamenti stessi, misurandone la loro sostenibilità nei confronti dei diversi sistemi naturali, culturali, sociali ed economici. Ed essa si interroga pure sulla possibilità o meno di parlare di sviluppo locale. L’attenzione si concentra sull’individuazione, sulla valutazione, sulla valorizzazione e sulle trasformazioni delle risorse produttive locali, dei sistemi di beni ambientali e culturali, dei contesti urbani e rurali e dei loro rapporti con i fenomeni della mondializzazione e della competitività economica. L’organizzazione del sistema locale, la valorizzazione delle risorse e la qualità ambientale sono gli elementi fondamentali dello sviluppo sostenibile a scala regionale (Menegatti et alii, 2001).

La società umana modifica l’ambiente in cui è collocata, perseguendo determinate politiche, facendo delle scelte culturali, volontaristiche e costruttiviste, delineando progettualità sul territorio più o meno condivise dalla popolazione locale. Se questo progetto vede svolgersi l'azione umana sull'ambiente secondo modalità ecocompatibili e prevede, predispone, pianifica, ordina, organizza gli elementi geografici in un ottica di sostenibilità, esso può attirare risorse e produzioni materiali ed immateriali, portare alla localizzazione di servizi tecnologici e innovativi, diventare area attrattiva per nuovi residenti e per la fruizione turistica. Un tale percorso immagina uno sviluppo locale possibile (e differente da quello che implica dei costi per i soggetti e per i contesti ambientali presenti in una determinata area geografica) e porta a individuare e scegliere i mezzi per realizzarlo (Rossignolo e Imarisio, 2003). Lo sviluppo locale è così un concetto presente nelle diverse società del pianeta che possiedono e praticano diverse necessità e che dimostrano capacità di organizzazione dei propri ambiti di vita, secondo le loro dimensioni demografiche, i loro peculiari fondamenti giuridici, la loro potenza economica e le specifiche capacità tecniche. Tale concetto si arricchisce però di nuovi strumenti, vede apparire inedite relazioni esogene ed endogene dal valore temporale ed evidenzia la ricerca di un assetto sostenibile per le società locali. Queste ultime proprio perché possiedono numerosi strumenti operativi, ∗ Università degli Studi di Milano.

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perseguono modalità di appropriazione, organizzazione, gestione, trasformazione del territorio in cui vivono molto diverse tra loro, ognuna secondo una specifica "progettualità territoriale". Lo sviluppo locale non può mai essere disgiunto così da un’etica, che guida e regge l'azione del gruppo umano. E questo tenendo presente che la progettualità sociale deve fare i conti con un ambiente esterno peculiare e mai immutabile, ma sempre condizionante (Magnaghi, 2000).

Le trasformazioni territoriali, culturali, funzionali e demografiche sopra delineate trovano una loro proiezione spaziale esemplificativa nella porzione di Pianura Padana compresa tra il corso dei fiumi Dora Baltea, Po e Ticino. Si tratta di una regione ripartita tra le province piemontesi di Alessandria, Vercelli e Novara e che trova una sua prosecuzione, senza soluzione di continuità nella Lomellina lombarda. In questa pianura delle "terre d'acqua" piemontesi e lombarde emergono chiaramente alcune forme storiche di paesaggio sociale e di regione omogenea, tanto pervasive da fondare quasi una "civiltà" peculiare, che affonda le sue radici nel settore primario e nelle attività ad esso collegate. Le pratiche colturali risicole e le tecniche lavorative adottate in questi luoghi sono parte di quella techne che modifica la natura, che si oppone a suo modo all'ordine ‘normale’ del mondo fisico, al corso ‘lineare’ della natura, alla physis. Molte trasformazioni della pianura risicola non sono state indotte da pratiche sostenibili, ma piuttosto sono dipese dall’espansione urbana o dall’adozione di pratiche intensive che hanno danneggiato ‘l'esteticità’ dei paesaggi, turbato determinati equilibri e ridotto la biodiversità. Ciò ha provocato di riflesso la scomparsa di progettualità e l’attenuazione delle identità locali, ha introdotto un'usura del gusto, del luogo e dell’essenza stessa dell’area, ha avviato percorsi di de-territorializzazione. Altre trasformazioni mirano invece a ridurre i rischi della casualità, che può sconvolgere gli equilibri ambientali, puntano alla prevenzione di eventi naturali negativi (siccità, inondazioni,..) o cercano di gestire gli effetti della mondializzazione economica che si fanno sentire alla scala locale. Si avviano così pratiche multifunzionali negli spazi rurali; si delineano riusi in ambito urbano e progetti paesaggistici; si creano parchi ed ecomusei; si realizzano infrastrutture quali terrazzamenti e argini per le camere di risaia; si modificano quadri normativi (come quelli a sostegno di un'oculata gestione delle acque da parte dei Consorzi Ovest ed Est Sesia); si cerca di rivitalizzare la cultura locale, le tradizioni popolari e alcune manifestazioni; infine si incomincia a parlare di turismo responsabile anche per le "terre d'acqua" piemontesi (Brusa, 2004). Tuttavia è utile ricordare che non esiste una vera progettualità territoriale "sostenibile" senza etica, uno sviluppo costruttivo tra società locale e natura che non tenga conto dell'identità morfologica, paesistica, culturale e ambientale di questi luoghi.

I territori della pianura risicola del Piemonte orientale sono organismi dotati di storia, carattere, identità, strutture di lunga durata. È la valorizzazione di questi patrimoni territoriali, attraverso una loro trasformazione e una crescita non distruttiva che riconduce l'uomo alla responsabilità dello sviluppo locale e della trasformazione del paesaggio. Questi due elementi diventano una realtà etica con la sensibilità e lo spirito del proprio tempo: interessano il tessuto urbano, così come quello extraurbano, sono il risultato tangibile e spirituale di relazioni umane prodottesi nel tempo. Queste proposte e norme morali, nell'insieme speculative e comportamentali, richiedono una consapevolezza sulla relatività delle risorse disponibili nel territorio e una assunzione di responsabilità collettiva per contrastare alcuni cambiamenti contemporanei negativi. Ciò implica pure una valutazione della complessità crescente nella gestione della trasformazione del paesaggio, da naturale a sociale, una consapevolezza di come le organizzazioni territoriali siano sempre più articolate e di come le probabilità di andare incontro a cambiamenti discontinui nello sviluppo locale siano in aumento.

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Una vasta gamma di processi naturali, sociali, culturali e persino spirituali sta alla base della percezione del territorio o del paesaggio delle terre d’acqua. Tale gamma fornisce una chiave di lettura per alcuni comportamenti o per certe immagini mentali; supporta nuovi modi di rappresentare la realtà della regione o avverte dei cambiamenti epocali che, inseriti nel più ampio contesto della cosiddetta "globalizzazione", investono oggi le diverse regioni della Terra e introducono nuove forme di consumo. La pianura irrigua del Piemonte orientale non risulta indifferente a questi stimoli interni ed esterni.

Riferimenti bibliografici

Brusa C. (a cura di), 2004 Anno Internazionale del Riso, Geotema n. 19, Patron, Bologna, 2004.

Magnaghi R., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Menegatti B, Tinacci M., Zerbi M.C. (a cura di), Sviluppo sostenibile a scala regionale, Patron

Editore, Bologna, 2001. Rossignolo C., Imarisio C. (a cura di), SLoT quaderno 3. Una geografia dei luoghi per lo sviluppo

locale. Approcci metodologici e studi di caso, Baskerville, Bologna, 2003. Vallega A., Geografia umana. Teoria e prassi, Le Monnier, Firenze, 2004.

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4.4. Sviluppo sostenibile e sviluppo locale: una rinnovata dicotomia?

Chiara Pirovano∗

Le riflessioni che scaturiscono dai temi affrontati da Maria Tinacci Mossello nel testo Ambiente versus territorio? sono molteplici. Partirei dalle conclusioni, dal senso del ‘nostro’ fare, per rileggere a ritroso alcuni dei contenuti a mio parere più interessanti. In queste è esplicitato un invito, rispetto al quale, credo, sia, in particolare in questo momento storico, inopportuno esprimere un diniego. Una “sfida” - così indicata nel testo - che non è tanto un’auto-dimostrazione di valore quanto piuttosto un ‘esserci’, di necessità, come componente della società civile.

Le scienze “di frontiera”, che nello stesso tempo sono anche ‘di cerniera’, richiamano alla mente per la particolare posizione congenita una metafora ecologica: simili agli ecotoni, quegli ecosistemi (come ad esempio le lagune) che si trovano, di certo, ai margini, con tutto ciò che comporta la perificità, ma che rappresentano anche i luoghi ove la biodiversità è più ricca. Essi sono anche fragili perché molto suscettibili ai cambiamenti degli ambienti che raccordano. Non sono in grado di dire se per la geografia tale “punto di rottura” si sia già verificato tra le “scienze fisiche e sociali”. In altri termini, se il divario disciplinare, epistemologico e valoriale sia oggi a tal punto ampio da non poter più essere utilmente ricucito. Mi sembra, invece, di poter individuare alcuni elementi di raccordo, di lavoro comune, di idee che indicano una possibile strada per intraprendere tale impresa.

In quest’ottica appare denso di portato problematico il bipolo “ambiente versus territorio” posto a titolo del testo di riferimento. Sembra, infatti, che esso traduca il nodo principale del dibattito, apparentemente semplice ma probabilmente all’origine di teorie e pratiche a volte inconciliabili. Appare, infatti, naturale chiedersi se si tratti di un semplice fraintendimento o di una distanza creata dal linguaggio oppure se le valenze concettuali insite nei due termini disciplinari siano tali da creare visioni diametralmente opposte del mondo. Se sembra ormai dato per provato che una delle prime azioni di conoscenza dell’uomo sia quella di mettere ordine nella natura attraverso una classificazione binaria (riferita ad esempio al criterio di similitudine), che conduce a una sorta di suddivisione del mondo sempre più affinata, d’altra parte è noto che un tale atteggiamento nelle discipline (a partire dalla medicina) ha spesso portato alla non comprensione del senso del ‘tutto’.

Il paradigma dello sviluppo sostenibile, forse inconsapevolmente, nella sua esplicitazione iniziale non ha preso in conto tali considerazioni, spingendosi oltre le ‘divisioni’, come risulta evidente semplicemente dalla lettura dei titoli dei quaranta capitoli dell’Agenda per il XXI secolo. Forse al pari di quanto accade per altri principi affermati a livello internazionale e per questo resi forti del loro portato, non si è abbastanza riflettuto sugli aspetti culturali e sui territori34. Il valore di tale operazione non è qui messo in discussione, ∗ Istituto di Geografia Umana – Università degli Studi di Milano. 34 Sebbene, d’altra parte, si preveda quale azione prioritaria la traduzione nel locale della sostenibilità (Capitolo 28°, Agenda XXI Locale)

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in quanto essa è nata in risposta a sollecitazioni che hanno assunto una dimensione globale e pertanto, di necessità, pensata a tale scala. Il problema risulta, piuttosto, dalle per così dire declinazioni nei territori, a partire dalle lingue, prime espressioni delle diverse culture. Forse che sia implicito nel paradigma risolutivo dello sviluppo sostenibile la dicotomia uomo-natura tipica della cultura occidentale? Come far comprendere che a tale articolazione di futuro si sia giunti attraverso secoli di evoluzione e crisi di un rapporto società-ambiente (basato sull’interpretazione di matrice giudaico-cristiana della natura) a chi, invece, legge il mondo tramite categorie diverse? Non si pretende qui di dare soluzione a tali quesiti ma di porre il problema, soprattutto quando si pensa di trasporre lo sviluppo sostenibile nell’ambito dei paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa, oggetto di indagine del Gruppo di ricerca di Milano.

In tale contesto, sembra che il paradigma della sostenibilità sia stato e sia attualmente fortemente messo in discussione, arrivando a interpretare questo quale una nuova maschera del neocolonialismo (cfr. ad esempio Moseley e Logan, 200435; Razon, 199936), a vantaggio, invece, di una retorica dello sviluppo locale, per quanto anch’essa oggi mostri aspetti di debolezza, soprattutto nella traduzione operativa guidata dalle ONG.

In questa forzata dialettica, lo sviluppo sostenibile ha comunque potuto godere di un riconoscimento teorico e istituzionale globale quando lo sviluppo locale si è evoluto insieme alle realtà che via via l’hanno sperimentato, connotandosi peraltro a seconda dei contesti (si pensi all’Italia e alla Francia; cfr. Deffontaines e Prod’homme, 200137).

Appare, comunque, che entrambi siano interpretati in generale quali paradigmi che soffrono di limiti rappresentati da quegli stessi aspetti che ne hanno costituito, nelle formulazioni iniziali, la forza e la specificità. L’ambiente (inteso come natura e salubrità delle condizioni di vita) per lo sviluppo sostenibile; la priorità dell’economia e del sociale per lo sviluppo locale. Si evidenzia così la dicotomia sottolineata inizialmente, una conflittualità natura-società, territorio-ambiente, alla ricerca di una soluzione che sembra non considerare la complessità della realtà ma offrire una ricetta che riposa su visioni che si vogliono opposte e inconciliabili (antropocentrismo ed ecocentrismo).

Da un lato, infatti, la panacea dello sviluppo sostenibile è ormai entrata trasversalmente nel discorso delle istituzioni, dei partiti politici, connessa quasi esclusivamente alla valenza ambientale. Ciò anche se la produzione teorica sempre più numerosa insista nel sottolineare le tre dimensioni costitutive di tale sviluppo (economica, sociale e ambientale). Si sottolinea che tale interpretazione “monca” ha ridotto notevolmente il portato di tale messaggio, con la compiacenza (forse non proprio inconsapevole) delle istituzioni che hanno così “confinato” il campo di azione delle pratiche della sostenibilità in un recinto a prima vista neutro e gestibile, raccogliendo ampi consensi da parte della popolazione. D’altra parte, tale debolezza ha fornito il fianco alle critiche, portando alla formulazione di riferimenti più estremi ma anche più coraggiosi, come ad esempio quello della cosiddetta decrescita (cfr. Latouche).

Il problema centrale per lo sviluppo sostenibile sembra, inoltre, risiedere nel non aver affrontato adeguatamente il tema del peso dei poteri politici ed economici, lasciando così insoddisfatte le risposte che può fornire nel dibattito relativo alla conservazione dell’ambiente e, in particolare, alla lotta alla povertà (Moseley e Logan, 2004, p.3). D’altro 35 Moseley G.W., Logan B.I. (edited by), African Environment and Development, King’s SOAS Studies in Development Geography, Ashgate, Athenaeum Press Ltd., Gateshead, 2004 36 Razon J.P. (a cura di), Nature sauvage, nature sauvée? Ecologie et peuples autochtones, Vol. 13, Ethnies - Documents, n.24-25, Paris, 1999 37 Deffontaines J.-P., Prod’homme J.-P., Territoires et acteurs du développement local - de nouveaux lieux de démocratie, Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues, 2001

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canto, lo sviluppo locale e l’attenzione al territorio non possono prescindere da tale questione e, nello stesso tempo, devono assumere la sostenibilità come obiettivo, in quanto è in gioco la durevolezza dei sistemi che solo così sono in grado di mantenere le condizioni di autoproduzione. Si ritiene, quindi, che occorra andare oltre rispetto alla dicotomia società-ambiente, non per equiparare i valori di cui sono portatori ma per analizzare più correttamente le relazioni e per immaginare soluzioni non standardizzate. Ovviamente, come ben declinato nel testo di riferimento, occorre mettere in discussione gli apparati teorici, gli strumenti, le pratiche, impresa che appare complessa ma che sta già producendo dei risultati, almeno a livello teorico. D’altra parte, la realtà precede le articolazioni teoriche, fornendo in alcuni casi risposte non settoriali alle dinamiche globali, partendo da un approccio inclusivo dell’ambiente.

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4.5. Ambiente, Terra e territorio: alcune riflessioni tratte da Reclus, Geddes e Mumford

Patrizia Romei∗

1. Introduzione

Fra le molteplici letture sulle tematiche ambientali che sono state proposte e discusse all’interno del gruppo ci sembra interessante approfondire alcune idee sulle interazioni tra ecosistema e sistema socio-economico, in termini più generali tra ambiente, sviluppo e territorio, a partire dalle riflessioni di tre autori, Reclus, Geddes e Mumford, che per formazione vasta e multidisciplinare hanno saputo cogliere e anticipare la responsabilità e l’esigenza di adottare un modello di sviluppo sostenibile equilibrato e armonico.

2. Le interazioni tra uomo e ambiente in Elisée Reclus (1830-1905)

Elisée Reclus fu uno dei più prolifici geografi di tutti i tempi, la riscoperta dell’opera “colossale e solitaria” (Roques, 2003) di Reclus è avvenuta in Francia nei primi anni ’70 quando Yves Lacoste direttore della rivista Hérodote dedicò un intero numero all’opera di Reclus. La relazione tra l’uomo e l’ambiente era per Reclus molto più complessa e ardua da comprendere rispetto alle letture semplificatrici o alle visioni dicotomiche (natura benigna e natura matrigna) in auge nella sua epoca. E proprio questa consapevolezza contribuì alla costruzione del pensiero reclusiano attorno a un corpus centrale che riguardava lo studio approfondito delle relazioni tra gli elementi naturali definiti costanti (clima, suolo, vegetazione) e le trasformazioni dell’agire38 umano. Gli scritti di Reclus vanno oltre il possibilismo vidaliano proprio perché l’A. pone l’accento sulle relazioni-interazioni tra l’ambiente naturale e l’ambiente storico, cioè lo spazio modificato dalle azioni umane (il territorio). Inoltre, Reclus distingue l’ecosistema naturale (o geosistema), caratterizzato dalle interazioni biologiche con l’ambiente naturale, dal sistema socio-economico caratterizzato dalle interazioni orizzontali che operano dinamicamente sul territorio. Nella prefazione alla vastissima ed eterogenea opera pubblicata postuma (L’Homme et la Terre, 1905-1908), Reclus scrive: “L’osservazione della Terra ci spiega gli eventi della storia, sta a noi tornare verso uno studio più approfondito del pianeta, verso una solidarietà più cosciente del nostro essere tanto piccoli e tanto grandi a volte, nell’immenso universo”. E ancora: “Dall’uomo nasce la volontà creatrice che costruisce e ricostruisce il mondo” (tomo I, p. 72). In questa frase si può già intravvedere in nuce quello che Raffestin ha definito come il processo di ∗ Università di Firenze. 38 L’etimo del verbo agire è ager, parola latina che significa lavorare il campo; in questo senso, la rivoluzione agricola è stata la prima grande opera di trasformazione sistematica dell’ambiente naturale da parte dell’uomo.

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territorializzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione. Infine, Reclus prosegue suggerendo un ruolo più attivo per il lavoro dei geografi: “I geografi dovrebbero procedere ad un inventario delle risorse mondiali suggerendo dei piani per la loro distribuzione più uguale” (tomo VI, p. 368).

3. L’equilibrio armonico nella visione di Patrick Geddes (1854-1932)

Sir Patrick Geddes fu molto amico e vicino alle idee di Reclus, e si deve proprio alla sua opera di divulgazione verso il mondo anglofono se le opere del geografo francese ricevettero una vasta eco presso i più famosi pensatori dell’epoca39. L’attenzione di Geddes per la riqualificazione dell’ambiente urbano degradato, per i processi di crescita incontrollata delle città e per i criteri di pianificazione urbana (fu il primo a introdurre e definire il concetto di conurbazione) è sempre stata centrale nella sua vasta e poliedrica opera. Il fine ultimo che ha guidato suoi scritti è sempre stato quello di stabilire/ristabilire relazioni più armoniche e bilanciate con l’ambiente naturale a partire proprio dalle città e dall’ambiente locale. Questa necessità essenziale e strategica si è manifestata nel contributo teorico dato dall’A. ad una teoria di sviluppo a scala regionale-locale che accentua ed enfatizza le interazioni tra l’ambiente naturale e le attività socio-economiche. Nel pensiero dell’A. la regione era vista come il prodotto delle continue interazioni tra l’uomo e il suo ambiente naturale e pertanto il luogo più adatto per ricostruire l’equilibrio armonico. Il filo che unisce Reclus e Geddes può essere rintracciato nell’occhio attento e al tempo stesso sorprendentemente anticipatore a cogliere le trasformazioni e le alterazioni all’ambiente naturale prodotte dall’agire umano (cioè i processi di territorializzazione): dalle attività produttive e dall’espansione urbana.

Geddes in una conferenza tenuta al Le College des Ecossais si descriveva così: “Every thing I have done has been biocentric for and terms of life, both individual and collective; whereas all the machinery of the state, public instruction, finance and industry ignore life, when indeed it does not destroy it”. Infine, Geddes fece da tramite ideale e materiale nel far conoscere direttamente al suo allievo e discepolo Lewis Mumford gli scritti di Reclus.

4. Lo sviluppo sostenibile proposto da Lewis Mumford (1895-1990)

La trilogia mumfordiana si apre con l’opera Technics and Civilisation pubblicata nel 1934 (e tradotta per la prima volta in italiano nel 1961 con il titolo di Tecnica e cultura), proseguita poi con The Culture of Cities (edita nel 1938) e terminata con l’ultimo volume The condition of Man (edita nel 1944). Ovviamente, qui l’attenzione si concentra soltanto su alcuni paragrafi della prima opera nei quali l’A. espone le sue riflessioni sulla dimensione ambientale dello sviluppo territoriale. Nel paragrafo “La distruzione dell’ambiente”, l’A. denuncia la generale alterazione del paesaggio così come l’inquinamento dell’aria e dell’acqua da parte delle industrie: “Il primo segno distintivo dell’industria paleotecnica fu l’inquinamento dell’aria […]. L’aria e la luce del sole, dato il deplorevole fatto che non erano quotate in borsa, non erano prese in considerazione” (pp. 190-191). Mumford interpreta l’eccessiva specializzazione produttiva (tanto quella industriale quanto quella agricola) come una degradazione dell’ambiente, una perdita di equilibrio e un generale impoverimento per

39 Come per esempio Charles Darwin che firmò, assieme ad altri eminenti studiosi dell’epoca, una petizione contro la condanna inflitta a Reclus, nella quale si sottolineava l’importanza per il mondo intero del lavoro di Reclus.

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l’ambiente naturale ma soprattutto per gli insediamenti umani. L’A. denuncia con forza e lungimiranza i danni al territorio e all’ambiente provocati dalla superspecializzazione che “impoverisce” la vita sociale ed economica di una regione aumentandone la fragilità di fronte alle crisi economiche. Invece, egli immaginava la possibilità di raggiungere un equilibrio eco-eco (come diremmo oggi) attraverso lo sviluppo locale, l’unico ambito territoriale nel quale l’ambiente (e il paesaggio) può e deve essere considerato una risorsa, alla pari con tutte le altre risorse umane, come un elemento fondante dell’ecologia umana. In queste riflessioni si ritrovano chiari segni delle idee proposte prima da Reclus e poi da Geddes.

Secondo l’A. il periodo paleotecnico fu contrassegnato da un incessante spreco di risorse: “Nella intensa ricerca di profitti immediati i nuovi sfruttatori non si curarono affatto dell’ambiente che li circondava, né delle future conseguenze delle nuove azioni” (p. 382). Perciò Mumford riponeva grandi speranze nella fase neotecnica apertasi con il XX secolo anche perché supponeva che le nuove conoscenze della chimica e della biologia, sarebbero state impiegate per “sostituire i vecchi sistemi di tipo minerario con una accorta valorizzazione economica dell’ambiente naturale” (p. 278). Arrivando fino a immaginare un futuro nel quale “bisognerà valorizzare non la velocità o le immediate conquiste pratiche, ma la completezza, le correlazioni, le integrazioni” (p. 382); ed è proprio nell’ottica di assicurare e promuovere lo sviluppo armonico che Mumford ribadisce il ruolo strategico dello sviluppo locale e del regionalismo economico. Nel paragrafo conclusivo del suo lavoro, intitolato “Verso un equilibrio dinamico”, l’A. sintetizza molto efficacemente il paradigma della crescita continua, illimitata che ha dominato nel XIX secolo: “Motori sempre più potenti, velocità sempre più elevate, produzione di massa e crescita demografica sotto il segno del mito tecnologico” (p. 431). Il XX secolo impone un cambio paradigmatico: non più una interminabile crescita squilibrata bensì sviluppo armonico tra l’uomo e la natura, tra l’industria e l’agricoltura, tra la città e la campagna, sotto il segno della tutela e del risparmio delle risorse naturali, verso una pianificazione degli insediamenti umani (e qui si ritrovano alcune tra le tematiche più care a Geddes). L’obiettivo da raggiungere richiama implicitamente tanto la visione utopica di Reclus quanto quella più pragmatica di Geddes quando entrambi si proponevano di stabilire delle relazioni più equilibrate (eticamente e biologicamente) tra la specie umana e le risorse della Terra.

5. La geografia e la ricomposizione Terra-territorio

I legami ideali ed i passaggi generazionali tra questi autori (qui esaminati in ordine cronologico) sono intrecciati in una robusta intelaiatura formata dallo studio delle relazioni - interazioni che si instaurano tra l’ecosistema e il sistema socio-economico. Legami sostenuti da un preciso disegno d’insieme sorretto a sua volta da una visione tutta orientata a promuovere lo sviluppo armonico (sostenibile): sviluppo basato su una concezione etica e consapevole delle risorse naturali. Negli scritti di questi autori emerge chiaramente come l’unica strada percorribile dall’umanità sia quello che cinquanta anni dopo sarà definito “sviluppo sostenibile”.

Nei suoi scritti Reclus ha sottolineato molto spesso le complesse interrelazioni e dell’integrazione tra le attività umane e la Terra, tra l‘uomo e la natura, tra il territorio e l’ecosistema. La sua lezione e forse anche il concetto più lungimirante e fondante è che “la Terra è quello che tutti gli uomini hanno in comune, ciò che unisce prima ancora di ciò che divide”. Un concetto simile è ri-proposto oggi con parole quasi uguali a quelle di Reclus dal sociologo francese Edgar Morin (che nei suoi lavori riprende anche molte idee di Mumford); per Morin il nostro pianeta Terra è visto come l’unica patria comune e la

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speranza è quella di diventare cittadini della Terra “legati gli uni con gli altri nella stessa comunità di destino planetario”.

Da queste prime e necessariamente brevi riflessioni su Reclus, Geddes e Mumford emerge anzitutto l’importanza di dedicare maggiore attenzione alle complesse interazioni tra la specie umana e l’ecosistema così come la necessità ineludibile di adottare un approccio transcalare e multidisciplinare proprio per affrontare e impostare in maniera metodologicamente corretta le problematiche ambientali.

Riferimenti bibliografici

Dunbar G. (1978), Elisée Reclus, Historian of Nature, United States of America, Archon Books.

Geddes P. (1998), Cities in evolution, Routledge/Thoemmes, London. Morin E. (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Ed., Milano. Mumford L. (2005), Tecnica e cultura, Il Saggiatore, Milano. Vicente Mosquete M. T. (1983), Eliseo Reclus, Los libros de la frontera, Barcelona. Roques G. (2003), Èlisée Reclus géographe: un héritage virtuel, www. web.archive.org.

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4.6. Politiche di sviluppo locale come politiche territoriali. Riflessioni a partire dalla ricerca

Marco Santangelo∗

Nei due anni trascorsi ho avuto modo di lavorare sull’esperienza di programmazione avviata in Lombardia attraverso i PISL –Programmi Integrati di Sviluppo Locale40.

Questi programmi hanno avuto, come spesso accade, un esito non sempre entusiasmante, ma si sono contraddistinti per un approccio innovativo nel quadro italiano. Si è infatti trattato di programmi destinati ad aggregare territori con il duplice intento di: a) ipotizzare un percorso progettuale e svilupparlo; b) sedimentare competenze utili, soprattutto nella pubblica amministrazione, per il lancio di una attività programmatoria di lungo termine (e largo respiro), destinata a definire gli indirizzi di sviluppo per il territorio in generale, anche a meno di un collegamento ad uno strumento specifico (L.R. n. 2 – 14 marzo 2003).

I PISL lombardi sono stati pensati, quindi, come occasioni utili per mostrare ai territori le opportunità derivanti dall’azione collettiva e per dotare i territori di una capacità di pensare al proprio futuro in relazione alle mutate condizioni di disponibilità di risorse e di contesto normativo nel quale ottenere queste risorse (in riferimento, ad esempio, alla nuova programmazione dei Fondi Strutturali 2007-2013, che corrisponde ad una nuova definizione delle aree obiettivo) (IRER, 2006; Corrado, Governa, Santangelo, 2006).

La programmazione attuata attraverso i PISL mi ha permesso di riflettere su alcuni temi che ricorrono, in maniera più o meno esplicita, nel dibattito sullo sviluppo locale, dal punto di vista concettuale e metodologico e dal punto di vista dell’analisi/valutazione delle prassi. In particolare, vorrei soffermarmi sul tema delle politiche territoriali, tenendo conto del loro ruolo nello stimolare i processi di sviluppo locale e la loro formazione in risposta a/seguendo delle dinamiche in corso. Non propongo una trattazione esaustiva del tema, ma di sottolineare alcuni aspetti, anche in relazione ad altre esperienze di ricerca, che possono a loro volta offrire spunti per una ulteriore riflessione.

Per politiche territoriali si intendono, generalmente, tutte quelle politiche le cui azioni

hanno come riferimento, in maniera diretta o indiretta, il territorio. Si tratta di politiche territoriali in senso stretto (ad esempio le politiche infrastrutturali o di disegno del territorio) o di politiche che hanno origine o effetti diretti nel rapporto con il territorio (ad esempio politiche di sostegno all’agricoltura nelle aree montane, politiche di tutela di

∗ Dipartimento Interateneo Territorio – Politecnico e Università di Torino. 40 La ricerca IRER “Lo sviluppo progettuale dei PISL nelle aree obiettivo 2 della Lombardia: ricerca azione” (2005-’06) ha visto coinvolti, per l’unità di Torino, F. Governa (coordinatrice), F. Corrado e M. Santangelo. L’unità ha, in particolare, affrontato il tema “Modelli di analisi e di rappresentazione del territorio e delle strategie locali”.

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produzioni tipiche, politiche di sostegno alle fasce deboli della popolazione, con l’intento di evitare squilibri socio-economici dannosi per l’intera comunità). In questa accezione, le politiche territoriali sembrano coincidere con le politiche tout-court e, forse, non si tratta di una idea sbagliata. Le sovrapposizioni tra le politiche e il riferimento a ciò che esse implicano per il territorio sono molteplici, tanto che forse una distinzione andrebbe fatta piuttosto tra diverse dimensioni, o livelli, delle politiche: dalla scala del corpo (le body politics, e quindi le policies ad essa relative, nel dibattito anglosassone) a quella globale (come ad esempio le politiche ambientali che hanno dato origine al Protocollo di Kyoto del 1997 sui cambiamenti climatici). Le politiche per lo sviluppo locale, in questo contesto, si caratterizzano come politiche volte essenzialmente a promuovere/rafforzare dei processi di sviluppo, tenendo conto della dimensione territoriale locale e, per far ciò, rispondono ad una serie di prerequisiti in larga parte codificati nella vasta letteratura sull’argomento, sia essa di stampo tecnico-scientifico – come nel caso delle pubblicazioni di enti quali il Formez (si veda www.sviluppolocale.formez.it) – sia di carattere prevalentemente metodologico – per esempio Rossignolo e Simonetta Imarisio, 2003 – sia di tipo teorico – come nel caso di Magnaghi, 2000 o Dematteis, 1994.

I pre-requisiti di una ‘buona’ politica per lo sviluppo locale comprendono, fra gli altri, alcuni elementi distintivi:

- l’intersettorialità delle azioni proposte (o l’approccio integrato); - l’allargamento dell’arena di soggetti coinvolti (in momenti diversi del processo); - il riferimento diretto ad un ambito territoriale (al di là del riferimento al territorio vero e

proprio); - l’attenzione alle specificità dell’ambito considerato (in termini di risorse, soggetti,

relazioni); - la replicabilità di quanto viene messo in opera, sia nell’ambito stesso che in altri ambiti

(la cosiddetta trasferibilità delle best, o good, practices); - la considerazione di un macro-contesto, a geometria variabile, nel quale le politiche

devono essere pensate e al quale occorre fare riferimento (per le risorse economiche, soprattutto). Nelle pratiche, però, si possono osservare altri elementi che arricchiscono una politica

di sviluppo locale, o che la impoveriscono se non presi in considerazione. Il riferimento ad un ambito territoriale, ad esempio, è sempre problematico se non è affrontato come uno dei nodi principali della politica di sviluppo, poiché essa si traduce in una strategia che si riferisce ad un territorio nel quale attivare risorse, progetti, progettualità. Nella ricerca PISL citata, ad esempio, la definizione di un programma in un’area del bergamasco che comprende una piccola comunità montana (4 comuni nella Valle di Scalve) più 4 piccoli comuni che fanno parte di un’altra comunità montana più ampia (la Comunità Montana Valle Seriana Superiore) ha creato qualche problema: in primo luogo si tratta di due valli con caratteristiche socio-economiche abbastanza diverse, una fortemente urbanizzata (Seriana Superiore), l’altra con una elevata naturalità dell’ambiente (Scalve); in secondo luogo i 4 comuni ‘distaccati’ dalla CM Valle Seriana Superiore hanno avuto una capacità di programmazione limitata perché non rappresentativa degli interessi della CM nel suo insieme.

In questo caso, le partizioni amministrative si sono dimostrate precondizioni utili a ipotizzare future difficoltà nell’attuazione delle politiche: pensare, ad esempio, di attivare una serie di interventi in una porzione di territorio, senza tener conto di quanto avviene al di là del confine provinciale o comunale non ha senso a priori (non occorre attendere una valutazione dei risultati), tenendo comunque presente il fatto che è anche praticamente

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impossibile immaginare situazioni diverse, nelle quali si imposta una politica di sviluppo locale che faccia a meno di confini. Il problema del territorio pertinente per le politiche non è nuovo, è stato ed è giustamente molto dibattuto (si veda Debarbieux e Vanier, 2002; in particolare Vanier, 2002), in questo contributo si intende mettere in evidenza un aspetto sul quale riflettere: della dimensione ‘pertinente’ si dovrebbe occupare la politica di sviluppo locale, in quanto politica territoriale, lasciando poi alle azioni, ai progetti, agli interventi il compito di selezionare il luogo, l’ambito, la porzione di territorio. Ad occuparsi delle aree transfrontaliere non possono, ad esempio, essere solo i programmi Interreg, perché non ha senso, in generale, pensare a politiche di sviluppo locale che non tengano conto di quanto avviene al di là di una linea immaginaria (dagli effetti molto concreti, certo). Nei programmi Interreg citati le politiche sono definite a livello comunitario (focalizzate sull’attenzione alle relazioni transfrontaliere) e trovano poi una applicazione puntuale a livello locale, ma a livello di progetto, di azione. Manca, quindi, il livello più propriamente politico, la struttura della strategia, il disegno. Questi elementi non possono venire dai progetti e dagli interventi, ma devono essere già presenti nelle ipotesi di scenario. Ad un approccio generale di livello comunitario non può seguire solo la prassi a livello micro, ma serve un disegno di ampio (dal punto di vista territoriale) respiro: ciò vale per le aree transfrontaliere, transprovinciali, transregionali, transcomunali.

L’attenzione posta al territorio della politica integrato in una struttura più vasta di territori e politiche, ‘incidentalmente’ organizzati poi in partizioni amministrative, dovrebbe poi essere accompagnata dall’attenzione alla complessità interna del territorio stesso. L’individuazione di una dimensione pertinente non esclude, insomma, la verifica di ulteriori articolazioni, sub-ambiti, al suo interno. Un territorio che presenta infatti caratteristiche tali da poter essere definito come territorio pertinente per la definizione di politiche di sviluppo locale può presentare differenziazioni, al suo interno, che sarebbe opportuno mettere in evidenza: aree che presentano specificità e problematicità differenti, così come richiedono attenzioni e interventi differenti.

Un esempio in questo senso è dato dalla ricerca effettuata dal DITer nel Pinerolese (2004-’05) (Aa. Vv., 2005). In questo caso l’analisi del territorio aveva dimostrato la presenza di dinamiche sufficientemente diverse di sviluppo nelle aree montane e di pianura del territorio che, di per sé, poteva essere considerato nel suo insieme come ‘pertinente’ per l’impostazione di politiche di sviluppo.

Un altro aspetto da tenere presente riguarda le risorse extra-territoriali (o extra-locali): spesso le risorse di questi tipo sono esclusivamente finanziarie, talvolta metodologico-organizzative. Più raro è il caso di individuazione e appropriazione di risorse cognitive (come ad esempio nel caso di competenze sviluppate altrove), di utilizzo di particolari risorse umane (ad esempio la figura dell’esperto di sviluppo locale è controversa, ma non per questo non si tratta di una risorsa). Nel capitolo risorse, inoltre, andrebbero conteggiati i buoni esempi, perché una good practice correttamente individuata è una risorsa per il territorio.

Queste brevi note permettono di riflettere, quindi, su un rapporto poco esplicitato: il rapporto tra politiche di sviluppo locale e politiche territoriali. Le politiche di sviluppo locale sono, per forza di cose, politiche territoriali, non potrebbe essere altrimenti a meno di privare lo sviluppo locale di una dimensione territoriale. Occorrerebbe, però, sottolineare come le politiche di sviluppo locale siano politiche territoriali (con un riferimento non semplificato al territorio) di sviluppo (orientate quindi a promuovere/rafforzare aspetti di dinamicità) locale (di un territorio specifico e ad una scala specifica). Una impostazione fortemente orientata al territorio delle politiche di sviluppo locale permetterebbe di passare dal territorio all’ambito di azione/intervento in

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maniera esplicita. Tale esplicitazione è, però, strettamente collegata all’analisi territoriale che ogni programma (come il PISL) prevede ma che spesso è considerata come un passaggio burocratico necessario (IRER, 2006, pp. 121-170). L’analisi delle caratteristiche, specificità, dinamiche di sviluppo del territorio è il primo passo per poter poi individuare ambiti d’azione, allargare aree di progetto o suddividerle, riconoscere peculiarità e risorse, ipotizzare interventi e delineare, infine, politiche di sviluppo locale come politiche territoriali.

Riferimenti bibliografici

Aa. Vv. (2005), Per una geografia dell’agire collettivo nel/del Pinerolese, rapporto di ricerca nell’ambito della ricerca “Progetto di Promozione, Sostegno ed Integrazione dei Progetti di Sostenibilità nel Territorio del Pinerolese”, DITer, Torino (on line sul sito: www.e-laborazioni.it).

Corrado F., Governa F. e Santangelo M. (2006), “Territory and Territoriality in Local Develpment Policies. Reflections on some experiences in objective 2 areas (Lombardy, Italy)”, paper presentato alla Sesta Conferenza EURS Boundaries and Connections in a Changing Europe and Health and Well-being in Europe’s Cities and Regions, Roskilde 21-23 settembre.

Debarbieux B. e Vanier M. (a cura di) (2002), Ces territorialités qui se dessinent, Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues.

Dematteis G. (1994), “Possibilità e limiti dello sviluppo locale”, in Sviluppo locale, n. 1. IRER (2006), Lo sviluppo progettuale dei PISL nelle aree obiettivo 2 della Lombardia: ricerca azione (I

fase), IRER, Milano. Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino. Rossignolo C. e Simonetta Imarisio C. (2003), SLoT quaderno 3. Una geografia dei luoghi dello

sviluppo locale. Approcci metodologici e studi di caso, Baskerville, Bologna. Vanier M. (2002), “Les espaces du politique: trois réflexions pour sortir des limites du

territoire”, in Bernard Debarbieux et Martin Vanier , op. cit, p. 75-89.

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5. Sviluppo locale e valori culturali

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5.1. Sviluppo locale e valori culturali

Giorgio Botta∗

I valori culturali, qui intesi come tradizioni, possono essere considerati una sorta di armatura che sostanzia, conforma e sorregge i gruppi umani che sono così riuniti anche da questo valore. Talvolta gli elementi della tradizione sono ancora un punto forte della vitalità di un popolo. Talaltra, risultano una sorta di tessuto connettivo appena percettibile.

Nel mondo occidentale, queste funzioni culturali della tradizione oggi sembrerebbero talmente indebolite da risultare quasi assenti. Invece tracce importanti si possono ancora cogliere, ad esempio, in gruppi umani caratterizzati da un'organizzazione prevalentemente agro-silvo-pastorale.

In Africa, area di interesse del nostro studio, questa ruralità e la sua cultura sono presenti in grandi aree, che continuano a rappresentare la parte più caratteristica del continente.

L'Africa è famosa per il gran numero di etnie che praticano le tradizioni. Tuttavia queste tradizioni, ai nostri tempi, sono attive solo in parte, e troppo spesso rivestono motivo di spettacolarità.

Alcuni atti della tradizione sono funzionali a momenti importanti della vita collettiva, mentre altri atti riguardano il rapporto tra l'uomo e la natura e, più in specifico, l'organizzazione che l'uomo ha intessuto con l'ambiente. Certamente, si bonificano terreni rendendoli fertili grazie alle leggi dell'idraulica e dell'agronomia, ma queste norme di intervento provengono da criteri radicati nel tempo, tramandati e difesi proprio da forme della tradizione.

Possiamo consentirci qui un solo esempio: il caso del villaggio di Tanlili in Burkina. "Un intervento piuttosto recente, realizzato con lo scopo di migliorare la produzione, è

ad esempio la costruzione di "dighette" in pietra che, trattenendo le acque che ruscellano con violenza attraverso i campi durante la stagione delle piogge, migliorano le rese del terreno e ne riducono il flusso, limitandone l'erosione idraulica. Si tratta di un procedimento di origine tradizionale, recentemente ripreso, rielaborato e reimportato in area Mossi da alcune organizzazioni non governative". La citazione è tratta dal libro di Valerio Bini, Urbanizzazione e trasformazioni territoriali nel Sahel (Cuem, Milano, 2004, p.79. Il corsivo è nostro).

L'intervento è condotto dagli abitanti del luogo con il sostegno dei tecnici della cooperazione, con i quali si è studiato antecedentemente il problema e individuate le forme di difesa.

È molto significativa questa forma di organizzazione del territorio, di costruzione del paesaggio, realizzata dunque con l'esperienza dei locali, che si poggia anche a elementi della tradizione, e che comunque prenderà corpo pure con il contributo di figure esterne alla comunità, dotate di competenza specifica, con le quali è possibile confrontare il proprio sapere. Quando l'incontro riesce, avviene lo scambio tra i detentori di attitudini fondate su principi di un'agricoltura povera, nel senso della resa e della sua gestione, ma forti degli elementi della tradizione, che si incontrano con delle figure per definizione "emancipate",

∗ Università di Milano.

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cioè dotate delle più recenti tecniche agronomiche. Quando l'incontro riesce, quando lo scambio di saperi è rispettoso, non speculativo, si

realizza uno stato di sinergie, tra la forza di un sapere tradizionale e una sorta di aggiornamento, e quindi, di "riproposizione" di quel sapere.

È poi, in verità, questo il vero senso del valore di "tradizione": saperi costituiti nel passato e che nel presente traggono nuove energie per aumentare l'utilità delle applicazioni e la conoscenza degli uomini.

A noi interessa qui ribadire come attorno ai problemi della gestione e dell'organizzazione del territorio, gli attori, i locali si muovano seguendo una logica anche dettata dalle tradizioni che tramandano forme di intervento tecnico, ma pure forme di organizzazione umana che permangono efficaci ancora oggi. Infatti, i ruoli degli uomini e delle donne oggi riecheggiano un'organizzazione sociale che è perseguita da secoli.

Dobbiamo dunque considerare il valore delle tradizioni ancora operante in molte parti del mondo e quindi in Africa. Le tradizioni come elemento regolatore profondamente radicato nella cultura degli uomini, potranno mutare di forme e di espressione, con il passar dei tempi, ma sempre in relazione alla loro inevitabile permanenza.

Ma, come è noto, è in atto un antagonismo verso queste permanenze: una tendenza che a tutti i costi vorrebbe che il mondo rincominciasse da oggi, svuotando di valore le esperienze trascorse, rendendo così più semplicistico imporre il valore della "modernità" a fronte dei "vecchi arnesi" della storia; che invece continuano a rappresentare - proprio con la loro immanenza di valori e la evoluzione delle forme - il vero progresso culturale degli uomini.

Questo antagonismo ai valori culturali della tradizione è la parte di ignoranza che contraddistingue i nostri tempi, a discapito della materia antica che attiene alla memoria, agli atti, ai saperi, alle competenze che tutti gli uomini conoscono in modo ancestrale e che non devono essere indotti a dimenticare

Il tentativo di questa destabilizzazione culturale è da tempo in atto anche in Africa. Veniva definita "colonialismo". Oggi, pur con i cambiamenti delle mode e le ipocrisie del potere, la cattiva pratica continua.

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5.2. Tradizioni e modernità tra nord e sud del mondo

Valerio Bini∗

Il testo di riferimento, affrontando direttamente un problema vasto e complesso come quello del valore delle culture tradizionali, offre molteplici spunti di approfondimento. Dovendo fare una scelta mi è sembrato utile soffermarmi su due elementi in particolare: il rapporto tra tradizione e modernità e il legame della questione delle culture tradizionali con una riflessione più generale relativa al modello di sviluppo di riferimento.

“È poi, in verità, questo il vero senso del valore di "tradizione": saperi costituiti nel passato e che nel presente traggono nuove energie per aumentare l'utilità delle applicazioni e la conoscenza degli uomini”

Un primo elemento che mi pare interessante porre in evidenza attiene alla polarità, reale

o presunta, tradizione-innovazione. La discussione relativa al ruolo delle culture tradizionali in Africa appare infatti costantemente segnata da una sorta di dicotomia tra una tradizione onnipresente – da alcuni considerata un ingombrante “vecchio arnese”, da altri un esotico oggetto di contemplazione – e una modernità necessaria che pare non poter non assumere il volto già noto dell’occidentalizzazione.

Ciò che mi pare interessante in questo testo – e in diverse realtà locali africane – è che la tradizione non è semplicemente un ricordo più o meno sbiadito di qualcosa che è stato, dunque l’opposto della modernità, quanto piuttosto un elemento che viene dal passato, ma che serve a costruire il presente, la modernità appunto: “Garantire un futuro alla tradizione – scrive Pietro Laureano – non significa eliminare la capacità creativa e innovativa. Infatti l’innovazione appropriata di oggi è la tradizione di domani” (Laureano, 2001, p. 274).

Solo restituendo questo carattere attuale, proiettato nel tempo e non più immobile, penso si possa arrivare a considerare le culture tradizionali come parte del progetto territoriale, come risorsa e non più come vincolo. In caso contrario potranno essere realizzati interessanti e utili progetti di conservazione museale di un trascorso che non è più, ma difficilmente la tradizione riuscirà a svolgere un ruolo di primo piano nella costruzione del territorio.

Gli esempi di pratiche tradizionali reinterpretate secondo le esigenze attuali e utilizzate nella costruzione del territorio non mancano, in Africa come altrove. Il testo cita il caso eclatante delle diguettes del Burkina Faso, ma potrebbe essere esteso, sempre in area sahelo-sudanese, ad altre pratiche agricole (lo zaï, ad esempio) o a forme di associazionismo di straordinaria importanza (i gruppi naam, in particolare). In area italiana può essere citato il caso di molte comunità periferiche che dopo decenni di emarginazione hanno ritrovato una progettualità territoriale locale grazie al recupero e alla riappropriazione del patrimonio culturale tradizionale (nello specifico la ricerca dell’Istituto di Geografia Umana di Milano si ∗ Istituto di Geografia Umana - Università degli Studi di Milano.

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è concentrata su alcune aree lombarde: Appennino pavese, Franciacorta, Lomellina). La rilevanza delle aree genericamente definite periferiche all’interno della più ampia

ricerca sulle culture tradizionali apre alla seconda serie di riflessioni, riguardante il rapporto tra culture tradizionali e modello di sviluppo.

Ma, come è noto, è in atto un antagonismo verso queste permanenze: una tendenza che a tutti i costi vorrebbe che il mondo rincominciasse da oggi, svuotando di valore le esperienze trascorse, rendendo così più semplicistico imporre il valore della "modernità" a fronte di "vecchi arnesi" della storia; che invece continuano a rappresentare - proprio con la loro immanenza di valori e la evoluzione delle forme - il vero progresso culturale degli uomini.

La riflessione sulle culture tradizionali infatti – e con essa l’intero dibattito sullo sviluppo

locale –, a mio parere, non può essere svincolata da una più generale considerazione relativa al modello di sviluppo al quale riferirsi.

In primo luogo, e più semplicemente, perché il “patrimonio tradizionale” locale ha frequentemente subito le conseguenze di meccanismi socio-economici agenti a scala più vasta. Sarebbe dunque quantomeno miope un’analisi delle culture tradizionali che ignorasse le cause della crisi delle stesse.

Secondariamente, e più a fondo, perché il dibattito sulle culture tradizionali, svincolato da una problematizzazione del modello di sviluppo di riferimento, si ridurrebbe a una sorta di esercizio retorico, privo di significati territoriali. Mi pare difficilmente sostenibile infatti – se non all’interno di una concezione fortemente atomizzata della cultura, nella quale le tradizioni diventano elemento costruttivo solo per le regioni “arretrate” – un discorso sul valore progettuale delle culture tradizionali che non metta in discussione l’autosufficienza culturale delle regioni “avanzate”.

Sottolineare il ruolo attivo della tradizione nella costruzione del territorio significa infatti anche accettare i contributi progettuali di culture le quali, non va dimenticato, si innestavano su sistemi sociali che oggi definiremmo “poveri” ed erano sostanzialmente fondate sulla sapiente gestione di risorse scarse: “Cognizioni del passato più antico possono guidare la fondazione di nuovi paradigmi tecnologici: la capacità di valorizzare le risorse interne e di gestirle localmente; la polivalenza e la compenetrazione tra valori tecnici, etici ed estetici; la produzione non finalizzata a se stessa, ma orientata al benessere della collettività e fondata sul principio che ogni attività debba alimentarne un’altra senza scarti e rifiuti; l’uso delle energie basato su cicli che si rinnovano continuamente” (Laureano, 2001, p. 273)

Riferimenti bibliografici

Botta G., Tradizioni e modernità, Giappichelli, Torino, in corso di stampa. Laureano P., Atlante d’acqua, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. Magnaghi A., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Rahnema M., Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino, 2005. Réseau Réciprocité des Relations Nord-Sud (a cura di), Savoirs du sud, Charles Léopold

Mayer, Parigi, 1999. Robert A.-C., L’Afrique au secours de l’Occident, Les Éditions de l’Atelier/Les Éditions Ouvrières, Parigi, 2004.

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5.3. Fotografia africana e sviluppo locale

Thomas Gilardi∗

Oggi le questioni relative alle problematiche dello “sviluppo locale” hanno conquistato le prime pagine dei giornali, e sono oggetto di sempre maggior interesse da parte dei geografi. L’accostamento tra il mondo della comunicazione visiva e quello della conoscenza geografica non è casuale.

La fotografia nasce come “registrazione il più possibile precisa della realtà” e, in quanto tale, ha potuto avvicinarsi immediatamente a quel tentativo di “conoscenza il più possibile veritiera del mondo” proprio della Geografia.

Poco importa se l’una e l’altra possono variare in forme assai distanti tra loro, entrambe indagano “l’accadere quotidiano”, e la relazione è così intima che sono accomunate anche da comuni problemi di distorsione. Questioni legate alla tridimensionalità della realtà osservata, restituita in sole due dimensioni; ma anche al continuum sia temporale che spaziale della realtà, per cui l’accadere deve essere “ritagliato” da ciò che è accaduto e da ciò che accadrà, ma anche da ciò che accade vicino. Tecnologie e convenzioni permettono di accettare culturalmente il risultato nonostante gli errori dovuti alle distorsioni e il conseguente scarto dalla realtà.

L’apparente oggettività delle tecnologie ha per molto tempo messo in secondo piano l’importanza degli aspetti culturali di queste convenzioni; in particolare di quelle relazionate alla tradizione.

In Africa le camere fotografiche giunsero a seguito degli imperi coloniali. Il loro compito fu di registrare la scoperta e la conquista del continente. Gli scatti si rivolsero alla molteplicità delle forme della Natura e dell’Uomo, ordinandola, catalogandola e classificandola, in un processo conoscitivo proprio della cultura moderna europea. In salde mani occidentali le macchine fotografiche riprendevano i soggetti che avrebbero poi trovato la loro diffusione sui giornali del mondo urbano e industrializzato. Le meraviglie della natura e le vestigia di civiltà antiche, avrebbero dato lustro e prestigio all’impero, mentre la messa a coltura di terre vergini e la civilizzazione delle tribù primitive, avrebbero giustificato la moralità della conquista.

Con la seconda metà del Novecento si ebbe un importante passaggio di mano: le camere fotografiche passarono da mani occidentali a mani africane. Una nuova tecnologia per la cui comprensione fu necessario adottare dei parametri culturali alieni. Una tecnologia che richiedeva anche un cambiamento dello sguardo locale sul proprio intorno, ma che in qualche modo fu anche interpretata nella dimensione locale, passata al setaccio della tradizione.

In particolare l’Africa francofona intorno a Bamako (Mali), che dal 1994 ospita un’importante Biennale di fotografia, ha visto negli ultimi anni il riconoscimento di alcuni pionieri della fotografia africana, come Seydou Keïta e Malick Sidibé. Nei loro scatti sembra che non si occupino di territorio, quasi esclusivamente ritratti vi si trovano prevalentemente

∗ Istituto di Geografia Umana - Università degli Studi di Milano.

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frammenti di società urbana. I grandi tramonti che richiamano il cosiddetto “Mal d’Africa”; la natura incontaminata delle grandi savane e delle foreste impenetrabili; le popolazioni arcaiche che “vivono isolati dalla modernità”: tutti questi stereotipi sembra che non appartengano allo sguardo di questi fotografi africani.

Un Mali inedito ritratto tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Settanta, in cui, come in altri paesi africani, la fotografia fa parte dell'immaginario sociale. Immagini di privati cittadini che, attraverso i loro abiti e le loro pose, tradiscono i sogni e le aspirazioni di una società in cambiamento. Non si può fare a meno dei servizi del fotografo per fissare il ricordo di feste, cerimonie, ma anche riti sullo sfondo di quelle tensioni sociali che porteranno all’indipendenza dal colonialismo francese nel 1960. La fotografia soddisfa però anche il desiderio di accrescere la propria posizione sociale e apparire al meglio, appagando, anche solo momentaneamente, il bisogno di benessere arrivato con gli occidentali. La fotografia diventa quasi un oggetto di venerazione, sostituendo quello che, nel culto degli antenati, erano le statuette di terracotta.

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5.4. Tradizioni tecniche e territorio

Alberto Pagani∗

Affrontare la tematica del rapporto fra sviluppo locale e valori culturali richiede, in ragione del riferimento a una realtà assai diversificata, nonché a un concetto così “complesso” come quello di “cultura”, sia una precisa condivisione di linguaggio sia una delimitazione di campo, possibilmente funzionale anche alla focalizzazione degli ambiti di interesse di più precipua pertinenza geografica rispetto ad altre discipline che pure indagano le formazioni sociali e il loro cambiamento o, ancor più specificamente, culture ‘altre’ da quella occidentale.

Tra i molteplici spunti forniti dal documento messo a disposizione, superata l’iniziale identificazione (che mi sembrerebbe comunque da approfondire) tra valori culturali e tradizioni, ritengo di particolare interesse quelle che più attengono alla “cultura materiale” e quasi alle “tradizioni tecniche”, in rapporto alla loro rivalorizzazione e ai progetti di sviluppo delle comunità locali, o riguardanti le forme di organizzazione sul piano sociale e secondariamente spaziale, ai modi e alle dinamiche delle loro trasformazioni; a quest’ultimo riguardo e con riferimento alle manifestazioni più esplicite di “colonialismo”, potrebbe essere utile far cadere l’attenzione anche sulla questione della privatizzazione dei beni e degli usi comuni, con le loro ripercussioni socio-spaziali.

∗ Istituto di Geografia Umana - Università degli Studi di Milano.

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5.5. I saperi locali come valori culturali

Chiara Pirovano∗

L’incipit del testo di riferimento enuncia la scelta di approccio al vasto tema dei valori culturali, ossia quello di un’identificazione tra questi ultimi e le tradizioni, “una sorta di armatura che sostanzia, conforma e sorregge i gruppi umani che sono così riuniti anche da questo valore”. Il termine armatura fuor di metafora intende comunicare il ruolo di costruzione e di autoproduzione delle strutture delle comunità che le tradizioni hanno svolto e svolgono ancora oggi.

Alla stregua di un disegno architettonico collettivo che si realizza nella storia, la valenza strutturale delle tradizioni sembra essere sottolineata anche da Carlo Cattaneo che così conclude la comunicazione al Viceconsole della Gran Bretagna, in visita a Milano alla ricerca di strategie per fronteggiare la grave carestia che aveva colpito l’Irlanda (1847):

“...la cultura e la felicità dei popoli non dipendono tanto dalli mutamenti spettacolosi della politica, quanto dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore d’instituzioni”41

Secondo Cattaneo, “era nelle regole non scritte, nelle relazioni collettive che reggevano

le comunità, nelle abitudini introiettate dalle popolazioni, nelle pratiche di vita e di lavoro diventate norma lungo secoli di attività - quelli che lo scrittore definiva principi morali - che occorreva trovare il segreto più profondo della prosperità economica della regione” (Bevilacqua, 1996, pp. 14-15).

In merito al testo di riferimento, tale citazione appare interessante per due ordini di ragioni.

La prima si sostanzia nel riferimento al duplice carattere di tali principi, a prima vista inconciliabile, della ‘perennità’, da un lato, e dell’evoluzione, dall’altro, alla quale essi contribuiscono nella costruzione del presente. Il rapporto delle tradizioni con il trascorrere del tempo appare, quindi, complesso, da leggersi in una continuità, una sommatoria di infiniti momenti di equilibrio dinamico e sistemico. Non solo, quindi, patrimonio del passato proprio perché “un passato rievocato può ben contenere la carica per un mutamento giovevole” (Lanternari, 2003, p.225).

Peraltro, il ruolo chiave della continuità delle tradizioni emerge in particolare dalla recente attenzione portata sul “locale” che “scompare perché scompaiono i «luoghi» e le identità locali come valori utilizzabili nel modello di sviluppo economico e nella «modernizzazione»” (Magnaghi, 2000, p. 28) in quanto “l’interruzione del processo storico di costruzione dei luoghi avviene quando uno dei cicli di civilizzazione (quello contemporaneo) si autonomizza da tutti quelli precedenti” (Ib., p. 29). Il rischio, quindi, ∗ Istituto di Geografia Umana - Università degli Studi di Milano. 41 Cattaneo C., D’alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, in Saggi di economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino, 1975, p. 120 (in Bevilacqua, 1996)

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consta in questa separazione, in questo oblio collettivo, soprattutto quando si impongono cambiamenti strutturali che, come spesso è avvenuto, ad esempio nel caso dell’agricoltura in Occidente, una volta realizzati hanno cancellato il passato. I valori e i saperi del ‘prima’ possono non riuscire più a trovare il contesto nel quale ‘ri-attualizzarsi’, come invece è stato possibile nel caso delle dighette del Burkina Faso. Nonostante ciò, il valore della tradizione sembra comunque avere la forza per superare tali ostacoli: si pensi ad esempio al contenuto di saper fare tradizionale promosso tramite la diffusione dell’agricoltura biologica.

La seconda osservazione conduce a considerare in particolare quegli atti della tradizione che “riguardano il rapporto tra l’uomo e la natura e, più in specifico, l’organizzazione che l’uomo ha intessuto con l’ambiente” come Giorgio Botta scrive nel testo di riferimento. Tale rapporto, congiuntamente a quello sviluppato all’interno della vita collettiva, si è evoluto in modo tale da costruire un corpus di informazioni, di saperi e di pratiche che percorrono le società come una sorta di filo rosso. Il ruolo del patrimonio di questi ‘saperi del quotidiano’ è stato a lungo trascurato dalle scienze umane che hanno privilegiato gli aspetti per così dire sofisticati o quelli specialistici della cultura. La riscoperta delle potenzialità e dell’attualità (nel senso di capacità di ‘costruire l’attuale’) insite nel saper fare del vivere comune (o altrimenti detti saperi ordinari, locali, indigeni, autoctoni) è da ascriversi agli studi svolti da ricercatori (etnologi, etnografi, antropologi, geografi tropicalisti) in luoghi altri rispetto a quelli di provenienza (Dortier, 2003, pp. 18-19). Proprio in quegli ambienti (in Africa, in Sudamerica, alle latitudini estreme) ove, come ricorda Giorgio Botta, si possono più facilmente trovare le tracce della tradizione “in gruppi umani ancora caratterizzati da un’organizzazione prevalentemente agro-silvo-pastorale”.

Se è vero che la pratica di tali attività manifesta in modo più evidente gli innumerevoli aspetti teorici e fattivi del rapporto tra società e ambiente, l’osservazione specifica relativa all’importanza del patrimonio esperienziale prodotto ha riguardato in prima istanza il diverso da “noi”, per poi “riabilitare” quei saperi che si sono evoluti anche in Occidente in ambito rurale ma anche in ambito urbano (ad esempio la mobilità, la cucina, la cura di sé e della casa) (Dortier, 2003, pp.20-21). A questo complesso “bagaglio informativo” è stata riconosciuta dignità di oggetto scientifico solo recentemente e tale campo appare comunque “un continente ancora da esplorare” (Barbier, 1999 in Dortier, 2003). La “scoperta” dei saperi ordinari presenta un portato rivoluzionario in quanto mette in discussione alcune impostazioni fondanti la cultura occidentale42, in particolare la gerarchia delle culture (esperta/popolare, tecnica/indigena, etc) viene ad essere scardinata, facendo emergere problematiche non solo di natura teorica ma che si esplicano nella pratica. Se i saperi locali, infatti, sono portatori di contenuti importanti al pari di quelli esperti, allo stesso modo occorre considerare i primi nei processi decisionali che coinvolgono il territorio.

La riabilitazione di questi saperi, inoltre, in particolare nell’approccio alle culture indigene, induce a prestare attenzione a quei molteplici aspetti pratici attraverso i quali si esplicano i diversi rapporti uomo-ambiente (i principi attivi della medicina tradizionale, i tabù relativi all’assunzione di determinati cibi, i boschi sacri). Essi sono da interpretarsi in un contesto più ampio ossia in quell’universo costituito dall’attribuzione sociale e culturale dei valori (cfr. Cormier-Salem, 2002) che mette in crisi la tradizionale dicotomia cultura- 42 In tal senso, la nota opera di Lévy-Strauss, La pensée sauvage (1962) costituisce un importante punto di svolta in quanto riporta su un piano di equilibrio il confronto tra culture occidentali e culture indigene, parimenti costruite secondo criteri logici e razionali ma con finalità diverse: alle seconde sembrano mancare obiettivi utilitaristici nell’apprendimento delle conoscenze (Dortier, 2003, p.19).

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natura. Tali valori non risultano però immodificati nel lungo periodo, essi hanno la capacità di cambiare, apprendendo dalle nuove situazioni che si vengono a creare: affermazioni che si ricollegano a quanto sopra descritto a proposito delle tradizioni con lo svolgersi del tempo. Si pensi, ad esempio, a come è variato nella storia il rapporto delle comunità umane con il bosco: in Italia, ad esempio, nel Medioevo esso è stato aspramente osteggiato per motivi, primi tra tutti, di ordine religioso e politico. Successivamente, constatata la funzione economica e la rarità e la vulnerabilità della risorsa oggetto di forte sfruttamento, la componente forestale ha assunto valore e quindi è stata tutelata tramite istituti e leggi ad hoc (Bevilacqua, 2003; Delort e Walter, 2002).

Un ultimo aspetto preme qui sottolineare e riguarda uno dei nuclei di indagine più importanti per l’unità di ricerca milanese dichiarata nel testo di riferimento, ossia quello relativo al proficuo scambio Nord-Sud, di apprendimento vicendevole, di pratiche sociali e di gestione del territorio. È noto, infatti, che proprio dal fallimento di approcci unidirezionali (da Nord a Sud) assunti dai progetti di cooperazione sia nata la profonda crisi che ha portato a ripensare le modalità di tale pratica. Sebbene il processo non sia ancora concluso e, anzi, abbia dimostrato criticità segnalate da più parti, sembra comunque importante sottolineare come a livello teorico i flussi informativi siano stati bidirezionali. Come poco sopra ricordato, infatti, la riscoperta dei saperi ordinari, delle tradizioni e del valore del locale sono stati originati proprio dalle riflessioni emerse da quegli studi e da quei progetti che si dirigevano con approccio paternalistico e di scoperta del “pensiero selvaggio” verso le comunità del Sud del Mondo. Mi si permetta una battuta: siamo ancora una volta in debito.

Riferimenti bibliografici

Bevilacqua P., Tra Natura e Storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli Editore, 1996. Cormier-Salem M.-C., Juhé-Beaulaton D., Boutrais J. e B. Roussel, Patrimonialiser la nature

tropicale - Dynamiques locales, enjeux internationaux, Collection colloques et séminaires, IRD Editions, Parigi, 2002.

Delort R., Walter F., Storia dell’ambiente europeo, prefazione di Jacques Le Goff, edizioni Dedalo, Bari, 2002.

Dortier J.-F., “Les savoirs invisibles - De l’ethnoscience aux savoirs ordinaires”, Dossier, Revue Sciences Humaines, n. 137, avril 2003, pp.17-35.

Lanternari V., Ecoantropologia - dall’ingerenza ecologica alla svolta etico-culturale, Edizioni Dedalo, Bari, 2003.

Lizet B., De Ravignan R., Comprendre un paysage: guide pratique de recherche, INRA Editions (Coll. Ecologie et aménagement rural), Paris, 1987.

Magnaghi A., Il progetto Locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

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5.6. Valori culturali, sviluppo locale e sostenibilità nel contesto alpino: alcuni spunti di riflessione

Matteo Puttilli∗

Vorrei provare ad integrare le riflessioni del prof. Botta rispetto all’importanza dei valori culturali nell’influenzare (si potrebbe dire determinare) le politiche e le pratiche di sviluppo locale in Africa, alla luce di alcune riflessioni scaturite dal confronto con il contesto alpino. Gli spunti di questo contributo derivano da un’attività di ricerca durata tutto il 2005 nelle Valli Chisone e Germanasca (quest’ultima connotata storicamente e culturalmente dalla presenza di una maggioranza di popolazione di fede protestante-valdese)43. Se è vero, come sostiene Botta, che i valori culturali sono una “sorta di armatura che sostanzia, conforma e sorregge i gruppi umani”, credo che possa essere utile applicare questa definizione a quel “laboratorio per l’Europa” (Camanni, 2004) come possono essere considerate, oggi, le Alpi. Perché un “laboratorio”? A mio avviso, in quanto permettono di integrare tre temi che sono cari al nostro percorso di ricerca a livello nazionale: innanzitutto, la dimensione “locale”: per Camanni le Alpi sono detentrici di due qualità rare: la specificità e la complessità, e pertanto necessitano di essere studiate e comprese in profondità nelle differenti dimensioni locali, evitando riduzionismi e semplificazioni44. In secondo luogo, il tema della sostenibilità: per Batzing (2005) sostenibilità significa una “produzione orientata alla riproduzione”, cioè una attività economica capace di convivere con un paesaggio naturale e un ecosistema complesso ed instabile come quello alpino, e di riprodurlo nel lungo periodo perché possa rappresentare la “base materiale ed ecologica per la vita umana”. In terzo luogo, il tema dei valori culturali: la fragilità del rapporto con la base materiale-ecologica pone al centro della riflessione le possibili modalità attraverso le quali questa relazione possa essere espressa, attraverso le quali, insomma, si possa esprimere localmente una “sostenibilità territoriale”. La questione è se queste modalità possano essere considerate come connotate culturalmente, oppure se la componente culturale non abbia una diretta influenza nel determinare la relazione con il territorio e le direttrici dello sviluppo (anche nelle sue accezioni più materiali e produttive) a livello locale.

Credo che la constatazione di partenza debba essere che a fronte di una sempre più riconosciuta importanza dei valori culturali nel determinare gli esempi di successo o meno di sviluppo locale, e a fronte di una maggiore valorizzazione della loro centralità nelle politiche di sviluppo, corrisponda anche una grande genericità sia nella definizione e caratterizzazione degli stessi valori culturali, sia nel dibattito rispetto alla loro funzione e ruolo nelle pratiche di sviluppo locale. Questo è particolarmente vero proprio nel contesto

∗ Università di Torino. 43L’attività di ricerca si è svolta all’interno del progetto “Interreg IIIB, Alpcity – Eredità Olimpica a Prali e Pragelato”, promosso dalla Regione Piemonte e che ha visto il coinvolgimento del Dipartimento Interateneo Territorio, del Consorzio Pracatinat, della Comunità Montana Valli Chisone e Germanasca e dei Comuni di Prali e Pragelato.

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alpino: secondo Batzing (2002), infatti, emerge in modo evidente nei piani e nelle politiche di sviluppo “una incertezza e una mancanza di chiarezza su come debbano essere affrontate le tematiche di società e cultura”, differentemente da altre tematiche, come l’economia e l’ambiente, riprese più marcatamente dai documenti e convenzioni internazionali. Le conseguenze visibili di questo approccio generico ai valori culturali le riscontriamo nelle pratiche che di sviluppo locale hanno ben poco se non il nome, e che determinano quella che Batzing interpreta come una “museificazione”, o in alternativa “folklorizzazione”, della cultura locale. Ed il paradosso è che spesso proprio queste tipologie di “valorizzazione” dei patrimoni culturali locali (e dei valori) si giustificano in funzione di una minacciata “scomparsa” dei valori e delle tradizioni di fronte alla contemporaneità. Il problema, si potrebbe dire “alla Merton”, è quello di una profezia che si autorealizza: la stereotipizzazione delle culture conduce alla loro banalizzazione e riproposizione seriale, nonché ad una loro sopravvivenza fittizia. Pertanto, se è vero che l’ambiente alpino può costituire un contesto di studio privilegiato per analizzare il rapporto tra valori culturali, dimensione locale e sostenibilità, è necessario tentare di fare chiarezza, prima di tutto, nei termini.

Vorrei riprendere, in quest’ottica, la chiave di lettura offerta da Lucia Carle (2001) sul tema dell’identità socio culturale collettiva: secondo l’autrice, l’identità collettiva non può essere dissociata dalla popolazione alla quale si riferisce (in quanto si confà principalmente di quello “che ciascuno è, in quanto inserito nelle sue reti sociali più immediate rispetto ad ambiti più ampi a cui deve o vuole riferirsi”). Pertanto, l’identità culturale “consiste essenzialmente nel considerarsi coscientemente e dichiaratamente parte di un’entità sociale omogenea”. Tuttavia, l’identità culturale non si definisce sulla base di confini territoriali o amministrativi, bensì sulla base di un modello sociale tendente all’autoconservazione e autoriproduzione. E’ sulla base di un modello sociale perdurante nel tempo che si definiscono e costituiscono le componenti di un’identità culturale collettiva. Tuttavia, ed è questo il punto più interessante a mio avviso, non necessariamente il modello sociale ed il suo carattere auto-riproduttivo sono oggetto di consapevolezza da parte dei soggetti/attori locali. Più spesso vi sono indizi più generali di un senso di appartenenza (o coscienza di appartenenza) ad un dato territorio. Questi indizi sono l’occasione per intraprendere una ricerca di un modello sociale tendente all’autoriproduzione, di pratiche di territorializzazione da parte dei soggetti locali o anche di premesse allo sviluppo locale.

Emerge in modo evidente come il concetto della “riproduzione” di un determinato modello, di produzione, culturale, di sostenibilità, sia fondamentale sia nei concetti di sostenibilità nel contesto alpino alla Batzing, sia nella definizione di identità culturale offerto dalla Carle. Possiamo affermare, pertanto, che la sostenibilità, almeno per il contesto alpino, è una pratica fortemente legata alla dimensione culturale ed identitaria dei soggetti locali di un determinato contesto.

È all’interno di questo trinomio dimensione locale – sostenibilità – cultura che si inscrive il significato dei valori culturali. Vorrei suggerire tre chiavi di lettura, che possono fungere da spunti di riflessione per futuri approfondimenti e ricerche.

Partendo da una prospettiva di tipo metodologico, i valori culturali possono essere concepiti come il nesso tra il senso di appartenenza ed il livello dell’identità socio-culturale collettiva. Adottando la prospettiva della Carle, se il senso di appartenenza è un elemento della propria identità che i soggetti auto-percepiscono, e che è possibile fare emergere in sede di ricerca attraverso la relazione diretta con i soggetti locali o attraverso l’assunzione di tecniche e metodologie di tipo partecipativo (in un’ottica di ricerca-azione), è anche possibile che in molti casi il senso di appartenenza sia “rivelatore” di valori culturali frutto dell’appartenenza ad un determinato contesto, ma che offrono gli spunti per addentrarsi

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nella ricerca del modello sociale di riferimento e delle basi di una possibile identità collettiva.

Questo ci collega alla seconda chiave di lettura dei valori culturali, che una volta (auto) riconosciuti possono divenire l’elemento fondante di quella “riproduzione” del modello sociale e produttivo sulla base del quale si fonda la sostenibilità. Il contesto alpino è un esempio lampante di questo ruolo dei valori culturali come “connettori” tra passato e futuro di un luogo. Le analisi storiche di Paola Sereno dedicate al contesto delle Valli Valdesi, e quelle di Coppola sul contesto alpino più in generale, hanno mostrato come il nodo problematico comune a tutta la storia moderna delle alpi sia riassumibile nella ricerca continua di un equilibrio che consenta la “produzione di sussistenza” (Sereno, 1990)45. Un equilibrio che viene perseguito, nel tempo, attraverso una gestione “integrata” dell’economia locale (Coppola, 1989), e della struttura sociale, ma che costituisce quel modello sociale su cui si fondano l’identità collettiva ed i valori culturali nei differenti contesti. Questo patrimonio culturale e contestuale può avere dei legami con lo sviluppo locale, nel momento in cui valori culturali comuni divengono l’elemento di connessione tra il passato ed il futuro di un luogo. Magnaghi (2005) parla infatti di “sedimenti territoriali” di tipo cognitivo (la sapienza ambientale, il modello sociale e culturale, i saperi produttivi) che ponendosi, come Milieu territoriale, in relazione con i sedimenti materiali di un territorio divengono parte fondante del Patrimonio Territoriale. A sua volta il patrimonio territoriale può essere alla base della costituzione di Scenari e Progetti di sviluppo fondati su pratiche di auto-sostenibilità.

Sulla base di questo legame tra passato e futuro di un luogo, la terza chiave di lettura si pone sul piano teorico della riflessione sul concetto di sviluppo. Soprattutto nel contesto alpino, il dibattito sul concetto di sviluppo è strettamente connesso al tema della cultura e dei valori culturali. Batzing (2002), riflettendo sugli ambiti “popolazione e cultura” nel contesto alpino, enuncia due obiettivi fondamentali delle politiche di sviluppo:

o “garantire un’elevata qualità della vita in ogni suo ambito, e migliorare la qualità della vita laddove essa è compromessa”.

o “realizzare una vita ricca di senso e degna di essere vissuta e rafforzare l’identità culturale e l’aderenza a tale senso”.

Sono, questi, due obiettivi che non possono essere perseguiti al di là di una riflessione

sulle convergenza tra sviluppo e valori culturali: rispetto alla qualità della vita, infatti, conclude Batzing: “non è possibile, e neppure sensato, cercare di realizzare nelle Alpi, caratterizzate da una topografia accidentata e spesso con una densità di popolazione molto bassa, una qualità della vita di tipo metropolitano, si tratta piuttosto di cercare soluzioni specifiche alpine, con una propria identità, in grado di proporre una qualità di pari grado su altre basi”. Ancora una volta, le Alpi come “laboratorio” per il futuro dell’Europa.

3 Un equilibrio che è esposto alle più diverse tensioni esterne, ed interne (connesse alle difficoltà di vivere in un territorio come quello di alta montagna): la produzione agricola e l’allevamento, le attività sussidiarie, la prassi delle migrazioni stagionali o definitive, le tipologie insediative e gli assetti della proprietà fondiaria. La necessità di affrontare in un’ottica integrata la ricerca di equilibrio consente di accorpare le diverse espressioni della relazione uomo-ambiente secondo tre “variabili dipendenti”, seguendo lo schema proposto da Paola Sereno (1990): la congiuntura demografica, la strategia di controllo della terra e il modello di uso del suolo.

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Riferimenti bibliografici

Batzing W. (2002), I processi di trasformazione di ambiente, economia, società e popolazione attualmente in corso nelle Alpi, Su incarico del Ministero Federale per l’ambiente, la protezione della natura e la sicurezza dei reattori (Umweltbundesamt), Berlino.

Batzing W. (2005), Le Alpi, una regione unica al centro dell’Europa, Ed. Bollati Boringhieri, Torino.

Camanni E. (2002), La nuova vita delle Alpi, Ed. Bollati Boringhieri, Torino. Carle L. (2001), La rappresentazione dell’identità socioculturale collettiva, in A. Magnaghi (a cura

di), 2001, Rappresentare i luoghi, metodi e tecniche, Ed. Alinea Editrice, Firenze. Coppola G. (1989), La montagna alpina, in Storia dell’Agricoltura Italiana, Vol. I, Edizioni

Marsilio, Venezia, 1989. Magnaghi A. e Marson A. (2005), Democrazia locale e politiche ambientali, in F. Giovanelli, Di

Biella, R. Coizet (a cura di), 2005, Ambiente condiviso, politiche territoriali e bilanci ambientali, Ed. Edizioni Ambiente, Milano.

Sereno P. (1990), Popolazione, territorio, risorse: sul contesto geografico delle valli Valdesi dopo la “Glorieuse Rentree”, in Dall’Europa alle Valli Valdesi, a cura di A. De Lange, Atti del XXIX Convegno Storico Internazionale sul Glorioso Rimpatrio, Torino, 1990.

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5.7. Cultura e studi geografici. Brevi considerazioni personali∗

Guglielmo Scaramellini∗∗

La nozione di cultura ha diverse accezioni, non soltanto nell’ambito di lingue e discipline diverse, ma anche della medesima disciplina e lingua. Qualche chiarimento in merito può essere utile, pur tenendo conto che si tratta di considerazioni personali, le quali non possono pretendere di avere validità generale, ma soltanto indicare un percorso di senso coerente al suo interno e capace di dare alcune coordinate generali, benché certo discutibili, per lo svolgimento della ricerca in geografia culturale.

Si tratta, per ora, di un ripensamento sul solo termine di cultura, senza considerare i rapporti che esso può avere con altri termini analoghi o paralleli, quale quello di civiltà, che è stato oggetto di recenti meditazioni da parte di Adalberto Vallega nell’ambito dei lavori preparatori dell’International Workshop “Cultures and Civilizations for Human Development” (organizzato a Roma, 12-14 dicembre 2005, dall’Unione Geografica Internazionale), e i cui testi scritti, di grande interesse, sono reperibili nel sito web della Home of Geography di Roma.

Dunque, il concetto di cultura può, a mio avviso, essere distinto secondo diverse modalità. Una prima accezione è, per così dire, sostantiva: in tal senso la cultura è un complesso organico di elementi di varia natura, materiali e immateriali, che caratterizzano (marcano) in maniera più o meno peculiare un gruppo umano, distinguendolo da(gli) altri in misura più o meno cospicua e marcata, secondo la qualità, la quantità e la pertinenza degli elementi marcatori considerati.

Può dunque esistere una cultura, definita mediante alcuni marcatori, che ne contiene altre, “minori”, che si individuano e distinguono da quella “maggiore”, inglobante (cultura madre ?) per alcuni aspetti ed elementi, i quali la identificano e differenziano rispetto alle cultura sorelle o parallele, all’interno della cultura inglobante.

Storicamente, fino a certe soglie temporali (diverse secondo le diverse storie concrete) le culture tendono a differenziarsi progressivamente le une dalle altre, secondo meccanismi in prevalenza spontanei, perché correlati agli ambienti in cui i diversi gruppi vivono e alle loro vicende individuali; poi, a partire da queste soglie, e cioè da determinati momenti storici (diversi, ma abbastanza facilmente individuabili nella storia mondiale: ad esempio, a partire dall’espansione europea oltremare, ma anche, e spesso verso le medesime aree continentali, da quella cinese, islamica, bantu, e così via), inizia un processo inverso, di omologazione a modelli unitari, di matrice interna o esterna, capaci di condurre le diverse culture verso forme e comportamenti omogenei o tendenzialmente tali. Ciò è avvenuto più volte nel ∗Nell’ambito del Gruppo locale PRIN, quasi a voler riprendere ad analizzare il valore di “cultura” in geografia, ho chiesto al Collega Guglielmo Scaramellini, un contributo in tal senso: non unicamente sulla specificità del tema affrontato nel testo di riferimento, ma, più in generale, le riflessioni su questo valore di cultura, talmente importante da essere troppo spesso considerato “già saputo”. (nota a cura del coordinatore del gruppo “Sviluppo locale e valori culturali”, G. Botta) ∗∗ Istituto di Geografia Umana - Università degli Studi di Milano.

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corso della storia umana, in diverse aree della Terra: abbiamo già citato l’espansione della cultura cinese e di quella islamica, ma pensiamo anche alla romanizzazione e poi alla cristianizzazione del bacino mediterraneo e dell’Europa, e poi all’europeizzazione del mondo tramite il colonialismo e l’industrializzazione, e all’attuale americanizzazione di tutte le culture attraverso la globalizzazione.

Questa espansione non è riconducibile al fatto che una cultura sia “migliore” o “peggiore” delle altre in termini assoluti; dipende dai reciproci rapporti di forza, non soltanto materiali, esistenti fra di esse, che consentono all’una o all’altra cultura di espandersi o di resistere di fronte alla pressione di un’altra, o invece la costringono a cedere di fronte ad essa, per l’impossibilità reale o la mancanza di volontà di resistenza.

Potremmo anche chiederci se non si tratti di un processo spontaneo, quasi una legge “naturale” delle società umane, che ricorda i principi ratzeliani della vita sociale, per i quali ogni cultura tenderebbe ad espandersi fin dove non trovi ostacoli che le risultino insuperabili.

In qualche caso (specie di fronte a grandi culture pervasive di tutti gli aspetti della vita umana) pare che questo sia il loro carattere precipuo; ma esistono anche culture, non necessariamente “minori”, che non presentano tali caratteristiche, e tendono invece a racchiudersi entro i propri confini (materiali e mentali), e a non interferire, per propria scelta, con altre, “maggiori” o “minori” che siano (ovviamente rispetto a se stesse).

Esistono, poi, altre accezioni, più astratte, o, forse meglio, soggettive. La più comune e corrente, e in fin dei conti banale: la cultura è ciò che ognuno “sa”, ha appreso durante la sua esistenza, specialmente per trasmissione inter-generazionale, ma, soprattutto nelle società complesse e stratificate, anche mediante l’istruzione formale.

Ma esiste un’altra accezione, soggettiva anch’essa ma ancor più generale: la cultura è la facoltà dell’intelletto umano di discernere e interpretare la propria posizione nel suo contesto vitale, il contesto stesso, i rapporti inter-personali e inter-gruppo in tale contesto, i rapporti fra gruppi (anche culturalmente) diversi, ma anche i problemi che direi, riassuntivamente e sommariamente, metafisici. Dunque, la capacità di rapportarsi coscientemente col proprio ambiente, nel suo complesso e nelle sue diverse componenti.

Tale facoltà, che suppongo innata, nel senso di connaturata all’intelletto umano formatosi durante e mediante l’evoluzione della specie, diventa attitudine concreta mediante l’azione della società (intesa in senso generale, e cioè senza rinviare all’annosa questione comunità-società), del gruppo umano, sociale, di cui l’individuo fa parte, e che gli fornisce alcuni e determinati strumenti intellettivi e concettuali (oltre che i correlativi strumenti materiali e operativi), dandogli così le coordinate mentali e concrete entro cui sviluppare e applicare tale attitudine, aprendogli o impedendogli determinati ambiti di applicazione delle sue attitudini culturali (che possono risultare fra loro assai diverse: possono essere critiche od ortodosse rispetto alla cultura dominante del gruppo, pedisseque od originali, pertinenti o improprie …).

Dunque, la cultura di un individuo, all’interno di un gruppo umano, è la sua facoltà (innata nel senso predetto, perché necessaria per impostare e sviluppare ogni rapporto con l’altro da sé) di pensarsi e di pensare in genere (si potrebbe dire anche capacità di simboleggiare, e cioè di astrarsi dalla realtà contingente e di costruire dei concetti e dei valori astratti, talora assoluti, cui ricondurre idealmente tale realtà), operante secondo le condizioni (e i condizionamenti interni ed esterni) propri di ogni gruppo umano, di ogni società.

Potremmo forse dire, in questa prospettiva d’interesse e in questa accezione interpretativa, che la cultura è per l’Uomo ciò che per l’animale è l’istinto.

Qualche considerazione si può fare anche a proposito del rapporto fra cultura e ideologia: quest’ultimo termine, indipendentemente dal suo significato intrinseco, è venuto ad

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assumere, nei tempi più recenti, caratteri prevalentemente negativi, venendo svalutato sul “mercato” della parola e del discorso pubblico.

Pur riaffermandone l’indispensabilità nel linguaggio della politica, qualche cautela si può introdurre nel linguaggio della scienza, specie delle scienze umane, integrandola (e dunque differenziandone l’uso secondo i casi e le accezioni specifiche) con altre: in particolare con cultura (nel senso testé illustrato, e con un’accentuazione particolare sul suo aspetto critico) e con impegno civile (nel senso di insieme di motivazioni che spingono gli individui e le collettività a determinati comportamenti sociali, ritenuti opportuni, propri, commendevoli).

L’ideologia dà, naturalmente, le coordinate essenziali, ma l’intelletto umano, la cultura, hanno o costruiscono gli strumenti che consentono di verificare come questi elementi ideali, precostituiti, di norma preconcetti per il singolo individuo (che di solito li assume in blocco, appunto quali ideologia organica e compiuta), si rapportano alla realtà, con essa sono compatibili, coerenti, oppure non lo sono (o almeno ad esso, al suo discernimento, tali appaiono).

L’impegno civile, nella scienza, è pertanto ciò che orienta la ricerca, ad essa dà un senso, la motiva idealmente e concretamente; esso, però, deve sempre essere accompagnato e mediato dalla cultura: deriva, infatti, dall’ideologia, la quale può essere del tutto, o in parte, o per nulla “corretta”, e cioè capace di condurre alla comprensione effettiva della realtà, e dunque essere realmente utile alla vita umana. È la cultura che la misura, dà ad essa una validazione più o meno concreta, che la legittima di fronte alla realtà: ovviamente in rapporto con la reale capacità della nostra cultura di interpretarla correttamente (qui non tocco neppure il problema della valutazione e dell’eventuale misurazione di tale intrinseca correttezza, perché ciò ci porterebbe troppo lontano). L’ideologia è dunque il motore del nostro agire, ma non per ciò è necessariamente “vera”, capace di condurci a realistiche e coerenti interpretazioni della nostra realtà. Essa deve essere perciò messa alla prova della e con la cultura quale può essere messa in campo da ogni specifico gruppo umano.

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5.8. “Trasformazioni” teatrali a Nairobi: valori culturali a confronto per il recupero di nuove socialità urbane

Martina Vitale Ney∗

Mi collego ad alcune parole, ricorrenti nel testo di riferimento, che appartengono alla mia ricerca: tradizione, valori culturali, forme di organizzazione umana e sociale, modernità e colonialismo.

Le ultime due parole, qui appena citate, sono quelle che maggiormente rimandano alla mia ricerca, perché lavorerò in parte sul tema della città, Nairobi in particolare. La capitale del Kenya, ha infatti una storia abbastanza recente che risale all’inizio del secolo scorso quando gli inglesi decisero di costruire una stazione della ferrovia, quella stessa rete che sarebbe stata fondamentale per il controllo dei traffici e delle merci dell’impero inglese dall’estremo oriente, per tutta l’Africa orientale, fino al bacino del mediterraneo.

Nairobi, oggi la città più moderna di tutta l’Africa orientale, per molti dei suoi abitanti è il luogo degli affari, degli scambi commerciali e finanziari, la sede delle multinazionali che in Africa fanno soldi. Un moderno city center, sviluppato e trafficato nelle ore di punta, diventa terra di nessuno dall’ora del tramonto fino alle prime luci dell’alba. Popolato dalla gente della notte, dai bambini della strada, che disegnano la loro casa attorno a un fuoco che usano per scaldarsi, diventa la forma più realistica della disgregazione sociale e umana che caratterizza la città di oggi.

Sono figli di etnie diverse, di genitori o parenti che per tanti motivi hanno visto nella città la speranza di cambiare in meglio la propria vita, sogni invece infranti da mille difficoltà. Molte le cause che hanno prodotto la rottura con le proprie origini, la perdita di quei valori culturali che permettono di avere diritti e doveri in seno alla gente, alla comunità. È in considerazione di questi aspetti che trovo nel testo di riferimento, le linee guida per un lavoro che in questo caso non indagherà nello specifico l’organizzazione del territorio, ma si occuperà soprattutto delle forme delle organizzazioni umane, quelle stesse che nell’incontro-scontro con la città, e quindi la modernità, hanno perso i propri valori culturali che li rendeva gruppo con un comune bagaglio di conoscenze e saperi.

L’incontro con le “persone emancipate” (Botta), nella mia analisi, è avvenuto con artisti che vengono da lontano, da molto lontano e che hanno fatto dell’arte la propria espressione di vita.

Il teatro come recupero di identità negate, oltraggiate, che spesso non esistono per nessuno e che in quella città, come in molte altre dell’Africa, hanno perso il senso del proprio passato e della propria cultura.

Il teatro come forma d’arte per parlare di un mondo geograficamente lontano, di una realtà che poco conosciamo, ma che talvolta ha assunto una “forma” non molto diversa

∗ Istituto di Geografia Umana - Università degli Studi di Milano.

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dalla nostra idea di mondo occidentale, che il colonialismo ha tentato in qualche modo di “replicare” altrove.

L’analisi di un progetto di recupero teatrale che ha permesso di ricostruire forme di organizzazione umana e sociale, in un contesto urbano estremamente complicato, difficile e fragile, che ha emarginato e “ghettizzato” la propria gioventù, troppe volte figli di nessuno, a causa di povertà, guerre e malattie.

Riferimenti bibliografici

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6. Sviluppo locale e cooperazione

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6.1. Sviluppo locale e cooperazione

Pierpaolo Faggi∗ e Mirella Loda∗∗

La cooperazione allo sviluppo si sta sempre più orientando al favorire dinamiche di trasformazione che potremmo rubricare come sviluppo locale, collegandosi in questo modo alla generale tendenza verso la decentralizzazione e la responsabilizzazione delle comunità di base – politiche ed economiche – che gran parte dei PVS hanno attivato. Il processo è complesso, dagli esiti non scontati, scontrandosi spesso con decenni di centralismo, di dirigismo, di pratiche assistenziali.

La stesse pratiche della cooperazione, pur ufficialmente orientate in tal senso, non propongono percorsi chiari e a volte non sembrano considerare appieno le implicazioni che tale scelta comporta.

Ai fini della discussione, ho proposto per il seminario i seguenti punti: 1) Sviluppo locale e comunità locale: mi sembra che il concetto di “sviluppo locale”, nato

nei Paesi avanzati (nei quali, pur con limiti, i meccanismi di rappresentanza, di democrazia diffusa, di accesso all’informazione sono consolidati) debba fare i conti, soprattutto in Africa, con lo scarso peso che la cosiddetta “società civile” ha in termini di potere decisionale. I motivi sono ovviamente molti, storici (la destrutturazione coloniale, i processi di costruzione dello Stato) e di sistema (le pressioni internazionali; la democrazia, nei migliori casi, incompiuta; i limiti della regolazione politica; l’intreccio tra poteri tradizionali e logiche di razionalità tecnica, ecc.). Il concetto di sviluppo locale presume l’esistenza di una “comunità competente” che possa elaborare il cosiddetto “progetto condiviso”: molte volte, questo assunto è dato per scontato e non considera che essa è il risultato di un processo. A che punto siamo a questo riguardo? Cosa fa e cosa potrebbe fare la cooperazione?

2) Sviluppo locale e transcalarità: è appurato che lo sviluppo locale non possa e non debba

limitarsi al “localismo”, ma debba invece muoversi in prospettiva trans-scalare, per favorire da un lato l’accesso alle reti lunghe – alle dinamiche sovra-locali - e dall’altro lo “scaling-up” dei processi di partecipazione e di assunzione di responsabilità. Sembra di assistere , invece, e molto spesso anche nelle tendenze peraltro innovative della cooperazione decentrata, ad una predilezione per i micro-spazi, i micro-interventi, che solo eccezionalmente riescono a superare la dimensione localistica assumendo dimensione critica e capacità di indurre mutamenti strutturali. Teniamo anche presente che in Africa sta diversificandosi molto il ruolo degli attori sovralocali: pensiamo al crescente ruolo della cooperazione asiatica, dei fondi islamici, del Sudafrica e, tra non molto – almeno in alcune regioni – degli investitori privati ( si veda a tal proposito quanto sancito dalla NEPAD). Come potenziare i meccanismi relais? Come favorire lo “scaling-up”?

∗ Università di Padova. ∗∗ Università di Firenze.

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3) Sviluppo locale e massa territoriale: lo sviluppo locale deve fare i conti, necessariamente,

con il “territorio locale” (la questione del milieu di SloT). Bisogna tener presente che le realtà territoriali risultano fortemente modificate ed in continua evoluzione, debordando spesso dalle capacità di regolazione delle reti di soggetti locali. Giocano a questo proposito le profonde trasformazioni effettuate in fase coloniale ed ancor più, direi, le trasformazioni in corso nell’ambito delle politiche di sviluppo. Pensiamo alla creazione di contesti urbani inediti (in gran parte occupati da urbanizzati di I generazione), alla complessificazione legata ai progetti di sviluppo (i progetti irrigui, p.es., creano veri e propri nuovi territori), alle modificazioni intense in campo ambientale. Tutto sembra configurare un’espropriazione dei saperi e delle capacità regolative basici. Come favorire la riappropriazione, da parte delle comunità locali, di questa nuova massa territoriale? Come utilizzare i saperi tradizionali per la gestione di territori che basici non sono più?

Al gruppo di lavoro hanno partecipato: Benedetta. Bellini, Elisa Bignante, Giorgio Botta, Sara Bin, Valerio Bini, Egidio

Dansero, Pierpaolo Faggi, Maria Luisa Gentileschi, Mirella Loda, Antonio Loi, M. Minelli, Andrea Pase, Matteo Puttilli, Cristina. Scarpocchi, Lassane Yameogo.

Riguardo al primo punto dalla discussione è emerso innanzitutto come l'azione di

cooperazione, nel tentativo di contribuire al rafforzamento istituzionale della comunità locale, rischi sovente di consolidare strutture di potere corrotte ed esclusive. L'alternativa a questo percorso, consistente nell'individuare partner di riferimento esterni al quadro istituzionale dato, urta contro la difficoltà di individuare interlocutori effettivamente rappresentativi dei gruppi operanti sul territorio. Uno dei momenti cruciali per assicurare efficacia all'azione cooperativa risiede quindi nella precisa definizione del grado di rappresentatività delle figure cerniera tra cooperazione e gruppi della comunità locale.

L'individuazione delle figure cerniera è decisiva anche ai fini di un efficace scambio di

informazione-conoscenza tra operatori della cooperazione (portatori di conoscenza "esterna") e la comunità locale (portatrice di conoscenza "competente"). Che attraverso tale scambio le figure cerniera possano subire un progressivo distacco dalla comunità locale viene giudicato un processo inevitabile ma non necessariamente negativo, perché comunque attraverso di esse si esercita un feed back positivo sulla comunità locale.

La qualità e la natura dello scambio informativo risulta cruciale anche ai fini della costruzione dell'informazione preliminare ai progetti, ed in particolare ai fini della distinzione tra bisogni "sentiti"(avvertiti "naturalmente" dalla comunità) e bisogni "evidenti" (così come appaiono ad occhio esterno), senza la quale esiste il rischio che il progetto cooperativo crei attorno a sé un territorio "in miniatura" avulso dalle problematiche reali del contesto. L'azione cooperativa, per essere efficace, deve riuscire a proiettarsi all'esterno del progetto e culminare in una dinamica di apprendimento territoriale", che coinvolga la comunità locale nel suo complesso. Solo un coinvolgimento sufficientemente ampio può d'altra parte evitare che il progetto cooperativo, pur operando all'interno di margini inevitabili di esclusività, si risolva in una logica spartitoria delle risorse tra i gruppi dominanti.

Riguardo al secondo punto i partecipanti alla discussione hanno concordato sul fatto

che nella maggior parte dei casi la cooperazione operi di fatto entro una logica fortemente localistica, e che gli sforzi per muoversi in una logica transscalare si risolvano sovente nella

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costruzione di reti di attori privi di un contatto reale col territorio. Pur in presenza in presenza di queste difficoltà, i partecipanti al gruppo di lavoro sottolineano la necessità che l'azione cooperativa insista in questa direzione, andando ad occupare gli spazi vuoti che si vengono a creare tra uno Stato che si ritira (decentramento) ed una comunità locale che sta ancora crescendo. Lo sforzo per sfruttare le finestre di opportunità dischiuse dalla capillarizzazione del potere deve inoltre puntare ad una maturazione fisiologica della comunità locale nel suo insieme, e non ad uno scaling up "furbesco" che mira esclusivamente ad avvicinarsi ai centri del potere.

La difficoltà di muoversi in una prospettiva transscalare è comunque in gran parte causata dall'orizzonte temporalmente limitato del progetto stesso, inconciliabile con proiezioni di lungo periodo. Il vincolo temporale si traduce così in un vincolo spaziale, cioè in definitiva in una ridotta efficacia del progetto stesso. E' stato peraltro ribadito come sia assai più difficile risalire la scala delle relazioni territoriali in un contesto economicamente periferico o marginale, piuttosto che in un contesto centrale: al riguardo si avverte una carenza degli stessi modelli teorici, data la palese insufficienza di quelli che puntano sul potenziamento delle produzioni artigianali locali.

Riguardo al terzo punto dalla discussione del gruppo di lavoro è emerso come la

cooperazione operi normalmente con una semplificazione estrema del concetto di territorio, che in casi estremi viene ridotto ad una sorta di "parco giochi" per gli attori del progetto. Di fronte a tale semplificazione la comunità locale spesso non riesce a porsi se non con un rigetto complessivo del progetto e della visione esterna di cui esso è espressione, con una sorta di resisting power che esprime più un'istanza identitaria che non contropropositiva.

Un percorso che riduce il rischio di semplificazione della complessità territoriale consiste nel tematizzare e valutare la diversa capacità che i vari stati ed i soggetti locali hanno di relazionarsi al progetto, nonché la loro differente capacità di negoziazione. Tale valutazione presuppone un approccio "culturale" al territorio, un approccio che sappia cogliere la complessità del contesto, che tenga conto dei più diversi diaframmi culturali, delle dinamiche sociali che attraversano la comunità locale e specialmente delle relazioni di autorità e di potere tradizionali che la caratterizzano.

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6.2. Dati spaziali, indicatori e scale geografiche: alla ricerca di ‘codici’ di indagine per progetti di cooperazione internazionale

Benedetta Bellini∗

Nel gruppo di lavoro dedicato alla “sviluppo locale e cooperazione internazionale”, il dibattito tra i partecipanti si è articolato sui tre punti proposti dal coordinatore Faggi: rapporto tra sviluppo locale e comunità locale; sviluppo locale e transcalarità; sviluppo locale e massa territoriale.

Alla luce di alcune riflessioni sul primo punto, emerge che il rapporto tra comunità locale e soggetti cooperanti può essere potenziato attraverso un rafforzamento istituzionale di quella parte della comunità locale che funge da “cerniera” tra la comunità locale tout court e soggetti preposti alla cooperazione (creazione di una civic community, Melucci, 1991). Questo deve essere inteso come riconoscimento formale di un gruppo o una rete di soggetti accreditati presso le organizzazioni governative o non governative cooperanti.

La condizione in base alla quale il progetto di sviluppo viene accettato e condiviso, è che la comunità locale tutta sia in grado di far emergere figure competenti al dialogo, alla collaborazione con gli operatori della cooperazione. Questi due interlocutori sono portatori di informazioni diverse ma necessarie e complementari alla fase della pianificazione (plan) dei progetti.

La gestione delle informazioni scambiate e condivise può avvenire attraverso nuovi strumenti in grado di creare un’interoperabilità nel contesto territoriale di riferimento.

Un sistema innovativo per la gestione delle informazioni è la creazione di una base informativa di dati spaziali 46.

∗ Università di Siena, Dottorato in “Storia e teoria della modernizzazione e del cambiamento sociale in età contemporanea” 46 Le infrastrutture di dati territoriali sono strumenti che servono per la gestione e per il governo di un territorio. Ciò presuppone dunque una comunità competente nell’uso. La SDI (Spatial Data Infrastructure), utilizzata da chi governa e da chi investe in un territorio, può essere fondamentale nella predisposizione di un progetto di sviluppo. La definizione che ne dà il prof essor Ian Masser: è la seguente: “ a spatial data infrastructure supports ready access to geographic information. This is achieved through the coordinated actions of nations and organizations that promote awareness and implementation of complimentary policies, common standards and effective mechanisms for the development and availability of interoperable digital geographic data and technologies to support decision making at all scales for multiple purposes. These actions encompass the policies, organizational remits, data, technologies, standards, delivery mechanisms, financial and human resources necessary to ensure that those working at the (national) and regional scale are not impeded in meeting their objectives”, IAN MASSER, Gis world: creating spatial data infrastrucures, Esri press, Redlands California, USA, 2005, p. 16.

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La necessità di una infrastruttura di dati spaziali è urgente. Conoscere lo spazio, o meglio il territorio (non esiste più lo spazio, ma tutto è territorio, Tinacci), è ciò che meglio compete ad un geografo.

Pur sapendo che la cooperazione non risolverà tutti i problemi dei paesi in via di sviluppo, certamente la disponibilità di una Spatial Data Infrastructure (SDI), permetterà di agevolare il lavoro preparatorio dei progetti, in maniera tale da poter svolgere un’azione più incisiva.

In sostanza dobbiamo chiederci quale sarà il grado di accettazione del progetto da parte della rete dei soggetti che operano insieme alla comunità locale, presupponendo un’oggettiva banca dati consolidata.

Questo avrà anche dei risvolti positivi per l’intero milieu, diventando la SDI stessa una risorsa fondamentale per l’attivazione dei progetti e attraverso di essa anche la comunità o il gruppo che la utilizza.

Un intervento realizzato grazie anche alla SDI, per esempio da un’organizzazione non governativa (ONG), da un organizzazione internazionale delle Nazioni Unite, da un gruppo di volontari, da missionari, lascia sempre sul territorio una “Geographical Footprint” (impronta geografica).

Seguendo lo schema illustrato da Pase, (a, t, T, A), dovremmo essere in grado di misurare l’impronta geografica attraverso indicatori (sociali, ambientali, economici) che, per essere scelti, richiedono capacità professionale. Non solo: alla nostra banca dati non potrà mancare una lista d’indicatori qualitativi: in altre parole la nostra conoscenza del territorio,di progetto e di contesto (t, T), dovrà avere un’indicazione precisa della percezione dell’ambiente dell’intera comunità locale.

Ecco che le impronte geografiche saranno due: una risulta dall’analisi sia quantitativa che qualitativa del territorio della comunità locale, un’altra costruita secondo “nostri” indicatori caratterizzati da una “pertinenza territoriale”47.

I soggetti predisposti al governo del territorio che si avvalgono di strumenti di gestione dell’informazione, divengono essi stessi risorsa per il contesto locale: come spiega Raffestin dall’intersezione dell’insieme “sistema territoriale”con l’insieme informazione tecnica strutturante, deriva la mobilitazione delle risorse (umane, economiche), che al momento della fase di attuazione del progetto, si concretizza in una ricaduta (feedback) positiva sull’ambiente (milieu) a beneficio e arricchimento di tutta la comunità locale.

Parafrasando uno slogan usato durante questo convegno “ spatial information really matter”! Per quanto riguarda il secondo punto circa la questione della transcalarità, Raffestin

aveva chiarito che obiettivo dello sviluppo è quello di sviluppare le ricchezze per una popolazione. Ma poi aggiungeva che ciò significava creare autonomia. Il problema della scala si verifica nel momento in cui noi manipoliamo le informazioni desunte dal territorio, per la ricerca dell’autonomia. Le dimensioni sono due: da un lato una informazione circolante o fattuale, dall’altro una informazione tecnica strutturante. Dalla combinazione delle due avremmo, secondo il linguaggio geografico, un’analisi di grande scala (dove c’è molta informazione circolante e poca strutturante), e viceversa di piccola scala.

Se la scala locale, secondo la definizione che ha offerto Dematteis è quella forma organizzativa ottimale nella ricerca di autonomia, è vero anche come dice Faggi che esiste una “trappola della scalarità”. L’espressione non assume toni minacciosi, piuttosto deve

47 Ad esempio, l’indicatore “numero di servizi igienici”, potrebbe essere un indicatore pertinente di qualità della vita in un PVS, ma non sarebbe altrettanto in un paese definito “avanzato”.

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essere intesa in senso virtuoso; ovvero gli attori del territorio e di progetto (A, a), devono essere capaci di cogliere e gestire le varie scale d’azione presenti sul territorio.

Come scrive Governa di Raffestin “il punto di partenza non è la descrizione dello spazio, ma piuttosto degli strumenti e dei codici degli attori che hanno lasciato delle tracce e degli indizi sul territorio48”.

Se nei processi di cooperazione locale dobbiamo recuperare dimensioni sovra-locali, favorendo lo scaling-up dei processi di partecipazione e di assunzione della responsabilità (Faggi), assume importanza il concetto di territorializzazione dell’azione collettiva (Governa). In questo concetto sono impliciti due limiti chiariti dall’autore: il primo è di ordine teorico poiché non sempre è vera l’equivalenza locale = territoriale; il secondo è di ordine politico, ovvero ogni politica locale è buona perché locale. Allora la ricerca della miglior forma organizzativa territoriale, e quindi della scala, si dovrà ricercare in un’azione collettiva che sia territorializzante. In questo modo, la spinta che può essere bottom-up (da parte degli attori del territorio “A”), top- down (degli attori del progetto “a”),o entrambe, delimiterà l’azione più efficace a definire e ribadire l’ambito ottimale di territorio (regione o sistema locale) in grado di accogliere responsabilmente un progetto di cooperazione internazionale.

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Associazionismo, volontariato e nuova cittadinanza sociale, Cens, Milano, 1991 Raffestin C., “Territorializzazione, deterritorializzazione, riterritorializzazione e informazione”, in

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Bologna , 2001

48 Tratto dal contributo di Governa F., “ Sul ruolo attivo della territorialità” presentato al seminario PRIN sessione internazionale , Torino 15 Dicembre 2005.

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6.3. La cooperazione allo sviluppo locale in Africa. Questioni aperte per una riflessione

Sara Bin∗

Un dato di fatto: “cooperazione” e “sviluppo” rappresentano, nel discorso internazionale degli ultimi decenni, i riferimenti semantici attraverso i quali vengono designate le relazioni tra Nord e Sud del mondo, in particolare il continente africano. Al binomio storico si aggiunge, oggi, un complemento apparentemente imprescindibile che sembra costituire “finalmente” la risposta alla crisi sia delle pratiche della cooperazione sia del concetto di sviluppo. Si tratta dello sviluppo locale, termine ambiguo che nelle definizioni teoriche appare come “obiettivo” o, addirittura, come “processo”, ma che nella realtà si rivela, piuttosto, come strumento metodologico della prassi cooperativa più fine. Di fronte alla quasi presunta indiscutibilità di questo strumento figlio della partecipazione e legittimo erede della storia dell’ “altro” sviluppo, del contropotere delle alternative, dell’endogeneità e della self-reliance, non si possono escludere alcune perplessità legate al suo senso geografico.

L’attenzione clinica riservata dai tecnocrati “développementisti” allo strumento rischia di tralasciare o far scivolare in secondo piano il Territorio, cioè il campo d’azione e di tensione sul quale lo sviluppo locale mette in scena le sue pratiche. Il territorio perde in questo modo la sua funzione di attore privilegiato della pièce progettuale e si trova a recitare il ruolo di sfondo della mise en scène delle diversificate (leggi “settoriali”) politiche della cooperazione.

Lo sguardo critico muove dall’osservazione della palese assenza di una riflessione “territoriale” sugli interventi di cooperazione. Prendendo in considerazione la giungla di progetti e programmi di sviluppo locale finalizzati al cosiddetto “accompagnamento alla decentralizzazione e rinforzo delle capacità locali”, ci si rende conto della razionalità a-spaziale che li anima. Generalmente, questi progetti preferiscono un approccio di tipo sociologico centrato sugli attori e le loro interrelazioni, spesso totalmente slegate dal milieu, o prestano particolare attenzione all’ambiente naturalistico svuotandolo dei suoi attori, piuttosto che privilegiare un approccio territoriale caratterizzato dalla sinergia delle reti di attori e del territorio, in un percorso complesso di mutue trasformazioni.

La cooperazione allo sviluppo è passata rapidamente da interventi su macro-scala ad interventi sempre più mirati alla base, puntualmente localizzati, tralasciando gli spazi interstiziali, le pieghe del sistema nelle quali si intrecciano le relazioni multiscalari del complesso campo territoriale. Lo sviluppo locale potrebbe essere l’occasione per ricostruire questi spazi ad una scala intermedia, “meso” appunto, quella dimensione regionale che la cooperazione non ha ancora sufficientemente considerato. In questo senso, i progetti di sviluppo locale possono effettivamente creare i presupposti per l’elaborazione di nuove territorialità locali tran-scalari o stimolano, piuttosto, i localismi, la chiusura comunitaria, le lobbies e l’emersione dei “big man” locali? ∗ Università di Padova.

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La genesi di nuove territorialità implica la traduzione in progetto di un’intenzionalità collettiva propria agli attori territoriali. Lo sviluppo locale diventerebbe il pretesto per “costruire” un possibile progetto, cioè uno scenario strategico per intraprendere processi complessi di autorealizzazione della comunità e la cooperazione il veicolo di questa nuova architettura? Dall’esportazione di ingegneria sociale, si passerebbe ad una riformulazione dal basso dell’agire cooperativo alla ricerca delle specificità territoriali fondanti le comunità e le loro organizzazioni, elementi imprescindibili per avviare un processo di cambiamento.

E ancora, se si ripercorre a ritroso la via seguita dallo sviluppo locale per trasformarsi nel più gettonato tra gli “outils” della cooperazione, si arriva al suo luogo di nascita, l’occidente industrializzato. Si tratta, quindi, di un prodotto generato da una razionalità esogena, esportato come merce di qualità e rapidamente diffusosi in Africa. Questa sua duplice identità, un’origine occidentale e un domicilio africano, può costituire un punto di forza, una presa per innescare dinamiche cooperative di progetto. Fino a dove, però, l’influenzamento di un’origine straniera forte può fungere da spinta senza ostacolare l’autonomizzazione del locale, senza, alla fine, creare nuove dipendenze, delega, de-responsabilizzazione? Lo sviluppo locale può stimolare interessanti processi di democrazia diretta superando così tradizionali forme di delega o di rappresentanza che si stanno annidando nelle pieghe della decentralizzazione, nonostante i tentativi di rafforzare il ruolo attivo della comunità locale. Guardando ai nuovi territori “decentralizzati” dell’Africa, viene da chiedersi se la decentralizzazione non stia creando ulteriori distanze tra la scala statale e quella comunitaria, giustificando lo sviluppo locale quale strumento per accorciare o rendere meno evidenti queste distanze. Oppure un pretesto per legittimare l’emersione di una borghesia “locale”, ma non troppo, installatasi grazie al trasferimento di competenze dal centro alla periferia e alla fiducia nella rappresentanza tipica del processo di democratizzazione?

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6.4. Oltre il progetto? Cooperazione allo sviluppo e complessità del territorio

Valerio Bini∗

Vorrei fermare la mia attenzione su un tema in particolare, che in qualche modo attraversa i tre punti indicati nel testo di riferimento, e cioè sul rapporto tra cooperazione, progettualità di sviluppo e sviluppo locale. Molte delle questioni sollevate nel documento, infatti, permettono di evidenziare alcuni limiti dell’approccio classico alla progettazione dello sviluppo (tanto per intendersi, il canonico “ciclo del progetto”: programmazione orientativa, identificazione, formulazione, finanziamento, implementazione, valutazione).

Da un punto di vista teorico, il punto di partenza potrebbe essere il “paradosso della progettazione dell’improgettabile”: l’impossibile gestione pianificata e verificabile di una serie di variabili che nella sostanza sfuggono al controllo, in quanto elementi di una complessità organizzata e organizzante in grado di rispondere in modo autonomo a sollecitazioni esterne. In tale prospettiva diviene necessario un approccio meno rigido e codificato al progetto, che apra spazi all’iniziativa locale più che tentare di prevedere percorsi definiti e come tali valutabili in termini quantitativi: “Questa concezione aperta – scriveva nel 1985 Jean-Louise Le Moigne a proposito della progettazione della complessità – porta a privilegiare la progettazione delle sequenze di comportamenti possibili (potenziali) nella rappresentazione del fenomeno presunto complesso, piuttosto che l’analisi della sequenza dei comportamenti ritenuti necessari (attuali)” (Le Moigne, 1985, p. 88).

Da un punto di vista più operativo i limiti della cooperazione per singoli progetti hanno segnato in modo diverso le micro e le macro realizzazioni. I piccoli interventi – nati con l’obiettivo di stimolare le risposte locali senza compromettere le risorse materiali e immateriali endogene – hanno mostrato i loro limiti nella difficoltà di superare la dimensione localistica assumendo dimensione critica e capacità di indurre mutamenti strutturali. Raogo Antoine Sawadogo parla efficacemente di un “saupoudrage”, una “polverizzazione”, di progetti: “Des îlots sont aménagés dans un océan de besoins. Pour subsister, ces îlots appellent souvent une assistance extérieure qui irrémédiablement tombe en désuétude; l’îlot disparaît” (Sawadogo, 2005, p. 26).

Il problema tuttavia investe anche i progetti di maggiore dimensione, nei quali, spesso, i risultati sembrano essere offerti più dalla riappropriazione da parte delle comunità locali di progetti “falliti”, che dalla riuscita degli stessi (Faggi, 2005). In tale direzione vale la pena di notare come la misura di valutazione del progetto sia di norma interna allo stesso: il progetto può mancare i suoi obiettivi, ma questi raramente sono sottoposti a una valutazione di merito.

Il progetto crea così una nuova realtà con la quale, volente o nolente, la comunità locale deve confrontarsi, una massa territoriale che deborda dalle capacità di regolazione delle reti di soggetti locali, la quale per il solo fatto di essere frutto di un progetto di sviluppo, è “data”, punto di partenza (o di ripartenza) e non elemento di continuità nella progettualità territoriale. ∗ Istituto di Geografia Umana - Università degli Studi di Milano.

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Alcune delle ragioni di tale dinamica mi pare possano essere rintracciate nell’autosufficienza, nella “chiusura logica” dell’attuale progettazione dello sviluppo. Il Progetto, non a caso normalmente identificato come ciclo, è un prodotto che tende a chiudersi su se stesso, isolando un tempo e uno spazio “di progetto” (mi pare molto centrata la metafora del “parco giochi” proposta nel corso del Seminario), che possano agevolare la verifica finale dei risultati sulla base di parametri elaborati in partenza.

La chiusura spaziale e temporale della progettualità dello sviluppo dà origine a quei one-shot game che secondo alcuni Autori (Platteau, 2001; Sawadogo, 2005) sono alla base non solo della scarsa coerenza, ma anche della scarsa trasparenza di molti esempi di cooperazione internazionale. È infatti evidente che nel caso di progetti incerti e sempre diversi è minimo lo stimolo alla creazione di una comunità competente, alla realizzazione di progetti sostenibili sul lungo periodo e all’instaurazione di dinamiche di rete e massimo invece il tentativo di trarre profitto da ogni singola iniziativa, qualunque siano le condizioni che questa impone (sociali, tecnologiche, culturali, …). Innumerevoli sono pertanto i casi di creazioni effimere di reti sociali, di infrastrutture, di progetti, funzionali solo a raccogliere un finanziamento che si sa irripetibile.

L’intervento isolato inoltre, se da una parte facilita il controllo dall’alto da parte dei finanziatori (che possono verificare quasi matematicamente la rispondenza dei risultati rispetto agli obiettivi), dall’altra ostacola qualsiasi controllo sociale sul progetto e con esso la formazione di quella comunità competente e rappresentativa evocata nel documento di riferimento. I meccanismi di controllo sociale, già esistenti, hanno infatti bisogno di tempi lunghi per diventare razionali: difficilmente ci si può attendere una messa in discussione di rapporti sociali che si dipanano sul lungo periodo (tipici delle relazioni di potere tradizionale) a fronte di una relazione che si sa a tempo determinato (come è, per definizione, quella del Progetto).

Perché questo non accada è necessario, dunque, che la cooperazione si sposti da una condizione di gioco one-shot a una di gioco ripetuto, in altre parole da una razionalità di progetto ad una di processo che dia supporto a fenomeni socio-territoriali già in atto. In tale prospettiva, che mi pare vicina a quella dello sviluppo locale, “il s’agit plus d’identifier des acteurs et de négocier avec eux un accompagnement de leurs initiatives que de définir des axes d’intervention et des «projets» précis” (Totté, 2000, p. 6).

Tale procedura potrebbe agevolare anche lo scaling up, quella risalita di scala che al momento attuale costituisce uno dei principali problemi per una prospettiva di cooperazione allo sviluppo locale in regioni periferiche, segnate in modo marcato dalla ritirata dello stato nazionale e dall’ineguale accesso alle reti globali. A tale proposito mi pare interessante il riferimento di Patrick d’Aquino a una “pianificazione territoriale ascendente”: “La finalité de la planification que nous proposons serait de changer les rapports des différents acteurs locaux aux pouvoirs (et à l’information). Les autres objectifs d’une gestion locale territoriale habituellement mis en avant (développement socio-economique, réglementations collectives, planification locale, préservation de l’environnement, etc.) ne viennent qu’ensuite, lorsque le processus local de gestion a acquis une efficacité sociopolitique et institutionnelle. Les méthodes de planification sont donc ici beaucoup plus des appuis aux processus de décision que des support de solutions techniques” (d’Aquino, 2002, p. 13).

L’uscita da una ristretta e spesso deterministica razionalità di progetto a favore di una prospettiva certamente più aleatoria, ma fondata sulle risorse autonome del territorio e articolata sul lungo periodo, mi pare un interessante percorso per superare alcune contraddizioni proprie della cooperazione internazionale e avviare processi auto-sostenibili di sviluppo.

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6.5. Riflessioni sui percorsi dello sviluppo locale nei PVS

Germana Chiusano∗

Il tema della cooperazione allo sviluppo, che ha animato questa tavola rotonda ben assortita di esperienze qualificate e poliedriche, ha rappresentato occasione proficua di scambio e confronto in tema di sviluppo locale nei Pvs.

Il dibattito ha privilegiato tre macrotemi cha hanno comparato lo sviluppo locale alla comunità locale, ai rapporti transcalari e al concetto di massa territoriale, per ognuno dei quali si è tentato di sviscerare nodi cruciali, punti di forza e processi in evoluzione.

Vi sono, innanzitutto, delle dinamiche condivise e ripetute, qualsivoglia sia il contesto geografico di riferimento (dando per scontato che si tratta di Pvs) che riportano la cooperazione allo sviluppo ad una generale tendenza alla decentralizzazione del potere centrale e alla responsabilizzazione, nonché rafforzamento, delle comunità (collettività locali).

Per natura diversificata e complessa, tuttavia, la cooperazione allo sviluppo raramente porta ad individuare percorsi di sostegno definiti e coordinati, al contrario, o per sottesi interessi o per mancanza di coordinamento ci si trova, ad un primo sguardo, travolti e disorientati da un’immensità di iniziative, progetti o programmi dai mille “volti” istituzionali.

Per raccogliere lo spunto offerto dalla prima tematica affrontata (rapporto tra lo sviluppo locale e comunità locali), sorgono alcune riflessioni, a partire da ricerche in corso sui processi di sviluppo locale in Senegal.

E’ luogo comune, e per altro veritiero, che la cosiddetta “società civile” in Africa goda di scarso peso decisionale: o per mancanza di una comunità competente e preparata o per prevaricazione derivante dalla cooperazione, cosiddetta dall’alto (ad opera della Agenzie Internazionali, dalla cooperazione bilaterale, o piu’ semplicemente delle ong straniere).

Questo nodo cruciale solleva due problematiche: 1) la natura e il ruolo delle collettività locali e della società civile; 2) la dicotomia tra “sviluppo locale” e “sviluppo endogeno”.

Le due questioni sono strettamente connesse: quali sono i limiti dell’intervento della cooperazione straniera affinché lo sviluppo locale non diventi alieno alla natura sociale e culturale del proprio territorio e affinché non si verifichi trasposizione e mera adozione di saperi tecnici, implicitamente imposti?

Una prima ipotesi propone che, volendo rafforzare e stimolare le “capacità locali” (quindi endogene), sia necessario da una parte creare processi di coinvolgimento, della società civile, diversificati, da parte delle collettività locali (quindi attraverso mezzi e metodi “prossimi” ai metodi comunicativi locali) sia soprattutto che tendano al coinvolgimento di gruppi sociali diversi, per garantire una diffusione democratica ed estesa dell’informazione, allo scopo di eludere processi di esclusione e favorire la messa in gioco di risorse differenziate.

∗ Politecnico e Università di Torino.

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Ed in effetti i processi di esclusione rappresentano proprio i “buchi neri” dell’informazione, all’interno dei quali ristagna il vuoto comunicativo diffuso, perciò creativo, poiché nella diversità in quanto “risorsa condivisa e partecipata” è auspicabile rintracciare, a mio parere, un potenziale di sviluppo forte e duraturo.

Dall’altra parte è necessario stimolare e provocare, naturalmente, le “creatività locali” degli operatori “portatori di conoscenza competente”, quindi favorire una “spinta” propositiva, volontaria e cosciente, aliena da processi decisionali indotti.

Questo ci porta ad affrontare, parallelamente, la seconda e la terza tematica in oggetto: transcalarità e massa territoriale.

In riferimento al primo punto, per quanto vera la necessità di accedere a forme di cooperazione a favore dell’accesso alle reti lunghe e quindi a gruppi di attori sovralocali, è anche vero che l’azione “localistica” di micro/medio-intervento favorisce esiti tendenzialmente più duraturi e puntuali.

Il rischio è sempre quello di proporre grandi soluzioni a grandi problemi, e valutare le difficoltà secondo una macro-dimensione che perde di vista la specificità dei problemi, che spesso risiedono in dinamiche più semplici e localizzate, senza considerare che in contesti altamente complessi, estesi e diversificati come quelli africani, un’azione puntuale e più circoscritta può essere più efficace e diretta, senza che si smarrisca nell’articolato mondo della gestione delle politiche di sviluppo proveniente dall’alto.

Come dire: più la catena processuale di coordinamento alle azioni a favore dello sviluppo si fa gerarchica ed “aperta” (soprattutto alle decisioni esterne), e quindi meno “localistica”, maggiori sono gli spazi vuoti che si generano (decisionali ed autoresponsabili) con conseguente carenza di partecipazione e coinvolgimento disciplinato della società civile.

In tutto questo non gioca a favore l’assenza pressoché assoluta di un modello teorico di riferimento strutturato che non attinga dalle esperienze esterne della cooperazione straniera (torna il dilemma: “sviluppo locale” o “sviluppo endogeno”), poiché la scala delle relazioni territoriali è ancora frammentaria e fortemente influenzata da rapporti di costume tradizionale e culturale. Tuttavia, proprio il forte radicamento alla cultura locale e al territorio di appartenenza, così carico di valenza simbolica, rappresenta un punto di forza per la costruzione di politiche di sviluppo locale: il territorio diviene matrice comune, esperienza condivisa e luogo di spartizione di obiettivi comuni.

Il richiamo al concetto di “prossimità spaziale” (D’Aquino, 2002) diventa atto di riappropriazione non solo territoriale, in senso stretto, ma di definizione di un territorio rappresentativo di un “sentire” o di una “necessità” comune ad una collettività che si riconosce nell’interesse stesso del territorio e in un’identità che la autoresponsabilizza.

Il riconoscimento comune di regole è simbolo del rapporto democratico tra dimensione sociale e spaziale di un territorio, di coesione rafforzativa, che in società fortemente tradizionali e gerarchiche favorisce l’individuazione di un gruppo rappresentativo di una società o di un territorio che garantisce il rispetto della specificità dei luoghi; purché questo processo avvenga spontaneamente, senza che si frappongano scelte prefissate esterne, poiché spazio e società sono elementi imprescindibili di uno stesso territorio di riferimento.

In questi contesti (Pvs) il concetto di territorialità sottende molteplici sfaccettature ma in particolare esprime una forte territorialità umana, dove lo spazio è anche metafora di spazio mentale, ovvero territorio della ragione, sede dei saperi tradizionali che circoscrivono (fisicamente e concettualmente) una società, un’etnia, quindi una cultura.

Corpo e mente, terra e uomo, territorio e tradizione, l’uno contiene l’altro, l’uno simboleggia l’altro in spazi infinitamente connessi.

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6.6. Sviluppo locale e cooperazione allo sviluppo, tra dinamismi locali e pratiche globali

Egidio Dansero∗

Lo sviluppo locale è progressivamente diventato, da una decina di anni a questa parte, una delle nuove parole d’ordine della cooperazione allo sviluppo, sia nei programmi della grande cooperazione internazionale, multilaterale e bilaterale, sia in quelli della cooperazione decentrata e delle ONG. Ciò avviene paradossalmente in un momento in cui nei paesi del Nord del mondo sembra volgere ormai al termine la stagione dello sviluppo locale, almeno secondo alcune posizioni critiche: quelli che erano i luoghi simbolo dello sviluppo locale, almeno in Italia, appaiono in crisi irreversibile di fronte alle sfide della globalizzazione produttiva, commerciale e finanziaria; le politiche e gli strumenti esplicitamente orientati allo sviluppo locale non sembrano aver sortito gli effetti voluti, risolvendosi spesso in patti collusivi per la spartizione locale di risorse finanziarie; concetti come locale, territorio, partecipazione e tutta la retorica sullo sviluppo locale sembrano esser ormai divenuti patrimonio di amministratori locali, tecnici, ma appaiono svuotati della loro forza innovativa e di contenuti critici.

In realtà le “lezioni sullo sviluppo locale” sono tutt’altro che finite, almeno nell’opinione di chi scrive, ma è necessario un approccio fortemente critico alla tematica.

Ciò è tanto più vero riguardo all’affermazione dello sviluppo locale nelle retoriche e nelle prassi della cooperazione internazionale nei Pvs. Grande è la confusione, l’ambiguità e i riduzionismi che connotano il dibattito in materia (per una riflessione critica si vedano: Fino, 2002, D’Aquino, 2002; Roche, 2003; Dubresson, Fauré, 2005; Dansero, Demarchi, sd) e che inducono a chiedersi se lo sviluppo locale possa essere considerato una “tecnologia appropriata” o se sia l’ennesima parola d’ordine eterocentrata che i paesi ricchi impongono attraverso i flussi della cooperazione internazionale, legittimandoli con le retoriche della governance, del decentramento, della partecipazione.

Può essere utile ricorrere alla schematizzazione proposta da B. Hettne nella sua tuttora valida e stimolante riflessione sulle “teorie dello sviluppo e il Terzo Mondo” (Hettne, 1986), laddove distingue le diverse teorie dello sviluppo incrociando due chiavi di lettura: la dimensione positivo-normativa e la dimensione formale-sostanziale.

La prima attiene alla distinzione tra lo studio dello sviluppo così come realmente è oppure come dovrebbe essere. Nel campo delle teorie dello sviluppo vi è attualmente una marcata evidenza verso la dimensione normativa. È tuttavia altrettanto evidente che qualsiasi teoria sociale si basa su determinati valori, che possono o meno essere portati alla luce. «Pertanto, la teoria dello sviluppo dovrebbe essere esplicitamente normativa e valutare criticamente i fini e i mezzi, invece che cercare nella realtà un’occulta conformità alle leggi teoriche» (Hettne, 1986, p. 184).

La seconda dimensione (formale-sostanziale) si riflette invece nella distinzione tra crescita e sviluppo. A un approccio, quello formale, che concepisce lo sviluppo in termini ∗ Dipartimento Interateneo Territorio – Politecnico e Università di Torino.

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universali e con indicatori quantificabili (che possono venire combinati in un modello previsionale), si contrappone un approccio dove lo sviluppo comporta cambiamenti sociali di natura più qualitativa, meno prevedibile e come tale meno modellizzabile e misurabile formalmente.

Proviamo allora a collocare lo sviluppo locale in questa schematizzazione. Per quanto attiene l’asse formale-sostanziale, la riflessione sullo sviluppo locale si è sin dal principio collocata decisamente sull’aspetto sostanziale. Ripensando alla lezione italiana sullo sviluppo locale, nel percorso intellettuale dei principali protagonisti (si veda il volume Becattini, Sforzi, 2002) si trattava di riconoscere l’importanza di tutta una serie di variabili contestuali che potevano spiegare le dinamiche positive di alcuni luoghi che, sulla base delle ortodossie economiche avrebbero dovuto essere cancellati dalla carta della geografia industriale italiana (Dematteis, 1994; Conti, Sforzi, 1997). E queste erano tipicamente variabili qualitative, difficili da quantificare e soprattutto da ricomprendere entro modelli economici molto formalizzati. Nell’evoluzione del dibattito scientifico multisciplinare sullo sviluppo locale si è cercato di catturare queste variabili, attraverso concetti come quelli di risorse locali, radicamento locale, capitale sociale, capitale territoriale, milieu e milieu innovatori, reti di attori, sostenibilità e valore aggiunto territoriale, tentando in alcuni casi di mettere a punto modalità di misurazione quali-quantitativa di tali strumenti concettuali ( Villa Veronelli, 2002; Fanfano, 2001, De Blasio, Nuzzo, 2002). Nonostante alcuni interessanti tentativi che hanno cercato di aumentare la formalizzazione dello sviluppo locale, rimane un elemento di fondo che conferisce allo stesso un carattere eminentemente sostanziale. E cioè che lo sviluppo può essere definito, ed eventualmente misurato, solo con riferimento ad un preciso contesto storico-geografico, e che lo sviluppo non può essere pensato in termini astratti e universalistici. Questa consapevolezza, tuttavia ancora non del tutto acquisita dal dibattito sullo sviluppo, è stata rafforzata dall’emersione e affermazione di una riflessione internazionale che ha evidenziato le potenzialità ma anche i limiti di una visione prevalentemente occidentale dello sviluppo (Rist, 1997). Si tratta di riflessioni a cui il mondo della cooperazione internazionale era pervenuto da tempo, passando attraverso l’incontro-scontro con culture altre, e il fallimento delle logiche sviluppiste top-down. È opportuno rammentarle nel momento in cui l’approccio allo sviluppo locale si sta affermando nei PVS.

Questa ultima considerazione induce a muoversi lungo l’asse positivo-normativo.

Ripensando di nuovo alla storia dell’affermazione sullo sviluppo locale in Italia, mi sembra che si sia passati da una fase in cui dominava sostanzialmente una visione positiva dello sviluppo locale, in quanto scoperta di dinamismi locali relativamente endogeni e imprevisti, evidenza empirica che richiedeva nuove chiavi di lettura, ad una fase in cui prevale una dimensione normativa, coincidente con l’affermazione dello sviluppo locale nelle politiche, attraverso un variegato insieme di strumenti. Questa logica normativa appare molto forte nelle modalità con cui lo sviluppo locale si è affermato nei Pvs, in quanto lezione appresa dalle buone pratiche nel Nord del mondo (l’esempio dei distretti e dei cluster industriali) e in quanto insieme di procedure di ingegneria istituzionale volte a creare delle sorti di miniature della società locale per riprodurre la complessità delle relazioni sociali nelle loro diverse dimensioni (politica, economica, culturale …) (Dansero, 2005; Dansero, Demarchi, s.d.; ). Ecco allora che ritroviamo l’approccio francese fortemente codificato nelle pratiche di sviluppo locale in tutta l’Africa francofona, per rimanere ad un’area sulla quale come gruppo di ricerca torinese abbiamo maggiori conoscenze, ecco allora lo sviluppo locale come ricetta che deve necessariamente accompagnare i processi di decentramento politico-

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amministrativo spinti dalla grande cooperazione internazionale e dalla cooperazione decentrata degli enti locali (Totte, Dahou, Billaz, 2003).

Per concludere, propongo alcuni elementi di criticità che ritengo debbano attirare

l’attenzione delle nostre ricerche: - occorre, soprattutto in quanto geografi, muoversi con particolare attenzione sulla

dimensione “positiva” dello sviluppo (locale), sia per cogliere quei dinamismi locali, anche nei PVS, che possono essere considerati quali processi relativamente spontanei di sviluppo locale, e come tali sostenuti da adeguate politiche di cooperazione ad hoc, sia per criticare un’applicazione di logiche di sviluppo locale a territori che forse richiedono politiche differenti, dove le capacità auto-organizzative e auto-rappresentative del locale sono assai deboli, sia per riconoscere che accanto e trasversalmente a situazioni dove possiamo riconoscere dinamiche di sviluppo territorializzato, tendono a prevalere logiche di sviluppo sempre più deterritorializzato, che risolve a scale sovralocali le regolazioni tra società e ambiente;

- allo stesso tempo, cogliendo l’invito di Hettne, occorre esplicitare la dimensione intrinsecamente normativa presente in qualunque accezione di sviluppo, anche in quella dello sviluppo locale, proprio per non rimanere prigionieri di visioni ideologiche dello stesso che rischiano, soprattutto per un approccio geografico, di appiattire la società locale, dimenticando i conflitti al suo interno e proponendo visioni idilliache e/o ingenue, comunque pericolose. Ciò è tanto più importante tanto più l’attenzione allo sviluppo locale pone in primo piano questioni come le specificità e identità locali, spesso interpretate come statiche eredità storiche anziché come progetti in costruzione attraverso pratiche che nella realtà dei fatti possono essere molto esclusive. La questione dello sviluppo locale è eminentemente politica e riguarda le modalità con cui vengono regolati localmente i conflitti tra i diversi attori, attuali e potenziali, dello sviluppo. Ciò ha notevole rilevanza per il mondo della cooperazione laddove nel perseguire approcci improntanti ad una logica di sviluppo locale, creando tavoli di concertazione tra una pluralità di attori, pubblici e privati, per gestire delle risorse di un fondo di sviluppo, deve fare i conti con le esigenze di rafforzamento istituzionale di autonomie locali deboli, a fronte di altri poteri, tradizionali e non, che possono essere localmente molto forti. Così anche la piccola-media cooperazione, quella delle Ong per intendersi, si deve misurare con scelte strategiche di appoggiare privilegiati soggetti della società civile (ad esempio associazioni di base nei pvs) in realtà senza alcuna garanzia democratica (D’Aquino, 2002), oppure di appoggiare il rafforzamento istituzionale dei neonati livelli di governo locale. In ciò, anche e forse ancor più nei pvs, si ripropone una questione di fondo sul rapporto tra gestione politica dello sviluppo, democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa che ritroviamo nei nostri contesti europei ed italiani in particolare.

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6.7. Ricomposizione territoriale e sviluppo locale

Yameogo Lassane∗

Gli scambi all’interno del gruppo di lavoro “sviluppo locale e cooperazione” hanno fornito alcuni suggerimenti sui quali abbiamo ritenuto utile approfondire la riflessione.

Lo sviluppo locale non può essere solo un’incombenza per la comunità locale o gli autoctoni, ma un problema di tutti gli attori portatori di un progetto. Considerato che i nuovi discorsi sullo sviluppo nascono dagli scambi e dalla collaborazione, accade, spesso, che alcuni attori esterni (i migranti) siano portatori di nuove logiche di territorializzazione che possono contribuire a fare uscire le comunità locali dal loro attendismo. Bisogna, però, sottolineare che nelle zone aménagées, la question foncière è così cruciale da lasciare i migranti in una situazione di insicurezza fondiaria che ostacola il dispiegamento delle loro strategie a lungo termine. La sicurezza fondiaria è necessaria per un autentico coinvolgimento degli alloctoni nella dinamica territoriale. I migranti necessitano di una “territorialità inclusiva” per fare valere la loro competenza.

Il milieu locale costituisce il quadro di dispiegamento delle dinamiche degli attori. I progetti di sviluppo contribuiscono all’addensamento del milieu, cioè a dare nuovo peso alla massa territoriale. Gli orientamenti e gli obiettivi assegnati a questi territori complessificati tendono ad escludere alcuni attori. D’altronde, rispetto ai tempi lungi dei progetti statali, gli attori devono attendere a lungo prima di vedere la materializzazione degli impianti di irrigazione.

Tutti questi effetti, ai quali si aggiungono uno Stato ormai in ritiro, hanno contribuito ad avviare un processo di riappropriazione dei progetti di sviluppo da parte degli attori locali. Questi ultimi sfruttano le specificità del territorio e creano nuovi rapporti con le Ong e le organizzazioni sovralocali, per entrare a far parte del gioco della globalizzazione.

In effetti, grazie a delle logiche proprie, il mondo rurale africano riesce ad identificare i bisogni dei mercati regionali e sfruttare le particolarità delle loro regioni per creare innovazione nell’ambito della produzione agricola. Queste produzioni che possiamo qualificare di label, costituiscono una specificità del locale. Si crea, quindi, un mercato e una rete con attori esterni. Le specificità sono sfruttate a livello locale, ma le connessioni si stabiliscono in una larga rete regionale e mondiale. Questa evoluzione transcalare tra attori locali e attori sovralocali traduce la volontà del locale di tendere verso il globale. Reciprocamente, il globale trova un’occasione di coinvolgimento a livello locale non per imporre delle logiche, ma per appoggiare delle iniziative alla base. Le dinamiche interne al locale producono, quindi, due effetti: l’innovazione, nello scopo di soddisfare le scelte dei consumatori sulle produzioni locali e l’integrazione nel circuito economico mondiale. Si potrebbe, quindi, dire che dalle dinamiche territoriali ci si orienta verso delle trasformazioni economiche profonde.

Senza dubbio, queste mutazioni a livello locale coinvolgono in qualche modo la cooperazione attraverso i canali internazionali e i finanziamenti dei grandi progetti, anche

∗ Università di Padova.

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se questi ultimi stanno progressivamente diminuendo. Gli ambiti più in voga oggi nella cooperazione sono quelli della cooperazione decentrata e delle Ong. Si tratta, ad esempio, del gemellaggio-cooperazione, attivo nell’appoggio di micro-progetti, alla moda in molti paesi africani dove il decentramento costituisce una nuova opportunità di crescita delle organizzazioni. Attraverso questa nuova modalità, le capacità di governance, nate e in maturazione alla scala locale, trovano un quadro di evoluzione nell’ambito politico e amministrativo.

L’intervento delle Ong sul territorio, abitualmente senza intermediari, le conduce ad incentivare l’organizzazione degli attori locali prima ancora di concedere dei finanziamenti o di appoggiare quelli già esistenti. Questo tipo d’intervento sembra il più idoneo perché mira soprattutto a rinforzare le competenze all’interno delle organizzazioni presenti sul territorio. Altre Ong intervengono nell’appoggio delle organizzazioni locali per la difesa dei loro interessi, nei confronti di politiche statali che non sono sempre a favore del mondo rurale.

In definitiva, possiamo affermare che le azioni della cooperazione possono “aiutare” e facilitare l’incentivazione delle iniziative locali.

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6.8. L’ impresa cooperativa: un’istituzione appropriata per lo sviluppo locale nei PVS ?

Enrico Luzzati∗

1. Nell’analisi dello sviluppo economico gli economisti hanno tradizionalmente trascurato la componente delle istituzioni. Lo sviluppo veniva spiegato in termini di quantità dei fattori produttivi, terra, lavoro e capitale; più recentemente, il tema del capitale si è allargato fino a ricomprendere il capitale umano (principalmente l’istruzione) ed è stato riconosciuto un ruolo fondamentale al progresso tecnico.

Ma è mancata una considerazione dell’aspetto istituzionale. Eppure sono le istituzioni, intese come le norme che regolano il funzionamento dell’economia, e più in generale della società, che determinano gli incentivi e le sanzioni: quindi poco si può comprendere del comportamento economico, se si prescinde dall’assetto istituzionale.

Per la verità si è trattato di una sottovalutazione apparente, in quanto implicitamente si assumeva l’esistenza di uno specifico assetto istituzionale, quello del mercato capitalistico. Si assumeva cioè che gli uomini rispondessero principalmente a stimoli economici e che perseguissero la loro utilità economica in modo razionale ed individuale. E che solo là dove il mercato non riuscisse ad operare, principalmente nel caso dei beni pubblici, fosse necessario l’intervento dello Stato. Questo schema veniva considerato come se fosse un dato naturale, operando in questo modo un’ incorretta imitazione delle scienze della natura.

E’ solo negli anni più recenti che gli economisti hanno cominciato a riconsiderare con attenzione il tema delle istituzioni (che pure era stato al centro della loro attenzione prima dell’affermazione del marginalismo e del metodo neoclassico dell’individualismo metodologico): si parla a questo proposito di “new institutional economics”.

La novità però è relativa, in quanto in realtà non si esce dai canoni dell’individualismo metodologico. Il sistema economico del capitalismo di mercato è considerato come un dato di fatto, e solo si riconosce che il funzionamento del mercato non è facile ed immediato come si suppone nei manuali, soprattutto di microeconomia, ma che gli uomini dispongono di una razionalità limitata, di un’informazione imperfetta, che spesso seguono linee di comportamento opportuniste e che non sempre hanno un comportamento massimizzante.

L’attenzione è stata quindi rivolta alle regole che consentono il funzionamento del mercato in presenza di queste assunzioni più realiste sul comportamento umano. Ma, come si è detto, non è stato messo in discussione il paradigma dell’individualismo metodologico, e si è continuato a considerare il sistema di mercato come se fosse un dato naturale49.

∗ Università di Torino. 49 Si veda su questi temi la lucida critica di Daniel W. Bromley. In particolare nel suo ultimo testo: Sufficient Reason: Volitional Pragmatism and the Meaning of Economic Institutions, Princeton University Press, 2006.

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2. Naturalmente le cose non stanno così: il sistema di mercato appartiene alla storia,

come tutto ciò che riguarda il comportamento dell’uomo in società. Esso è nato in un dato periodo e nulla fa pensare che possa essere eterno, come invece ha teorizzato tempo fa F. Fukuyama50.

Basta ricordare, a questo proposito, K. Polanyi51, che insegna che il mercato è nato in una precisa epoca storica, e che esso non è il portato di una evoluzione spontanea, ma è stato introdotto per la volontà di alcuni agenti, nel caso specifico i capitalisti, e con l’appoggio dello Stato. Anzi egli afferma che il mercato è un’eccezione nella storia dell’uomo, che è stata per lo più dominata da istituzioni diverse, con un peso degli scambi di beni estremamente inferiore a quello che hanno oggi nelle nostre economie. Per Polanyi poi una società sottomessa al mercato non è sostenibile nel lungo periodo, e tende a causare il tenebroso fenomeno del fascismo.

3. Anche nell’affrontare il problema dei paesi in via di sviluppo gli economisti non

hanno fatto eccezione: hanno continuato ad operare all’interno del loro ristretto ed astorico paradigma. E questo spiega perché le politiche economiche che sono state proposte, e molto spesso imposte, siano state rivolte all’introduzione od al potenziamento del mercato: politiche cioè, come si usa dire, conformi al mercato.

Ciò vale naturalmente per le recenti politiche dell’aggiustamento strutturale. Nonostante si assista ad un ampio riconoscimento degli esiti insoddisfacenti di queste

politiche, il paradigma non cambia: anche perché un possibile modello alternativo, come quello della pianificazione centralizzata, ha dimostrato la sua inefficacia e non viene più riproposto dopo la caduta del muro di Berlino.

Ciononostante ritengo che meriti di essere indagata l’ipotesi, secondo cui le istituzioni del mercato sono inappropriate al contesto, in primo luogo culturale, in cui le si vuole applicare, e che, se si vogliono ottenere risultati più soddisfacenti di quelli fino ad ora ottenuti, occorre modificare il paradigma di indagine, proponendo delle istituzioni più appropriate.

Questo tema dell’appropriatezza delle istituzioni non è quasi presente nella letteratura degli economisti.

Eppure il contesto culturale dei paesi poveri, e mi riferisco in particolare ai paesi più poveri, i c.d. “Least Developed Countries”, è molto diverso da quello prevalente nel Nord del mondo.

In essi sono ancora ampiamente presenti le istituzioni della c.d. società tradizionale: le persone sono inserite in contesti comunitari, dalla famiglia allargata, al villaggio, al lignaggio, all’etnia; lo Stato è debole in quanto debole è il sentimento di appartenenza nazionale; il potere è nelle mani degli anziani, che impongono il rispetto delle tradizioni e guardano con sospetto alle innovazioni; il principale fattore di produzione di queste economie prevalentemente agricole, e cioè la terra, è di proprietà collettiva; l’economia è orientata alla sussistenza; la religione ha un rilievo dominante; la mentalità è prescientifica.

E’ chiaro che molti aspetti della società tradizionale sono oggi interessati dal tumultuoso processo della globalizzazione: ma i tempi del cambiamento culturale sono lenti, e quindi l’adozione dei modelli di comportamento del capitalismo di mercato è tutt’ altro che immediata.

50 Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, 1992. 51 Karl Polanyi, La grande trasformazione, Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, 1974.

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4. E’ importante dunque domandarsi se non possano essere proposte delle istituzioni più appropriate a tale contesto culturale, una volta che si accetti che queste popolazioni desiderano comunque avviarsi nella direzione della modernizzazione.

Esiste un’unica strada per la modernizzazione, come con particolare efficacia afferma G. Hyden52? Hanno ragione i teorici del TINA (There Is No Alternative)?

Ritengo che non si possa escludere la possibilità di seguire altre strade. Anche perché la realtà stessa ci dice che, soprattutto in reazione alle politiche di

aggiustamento strutturale, nel Terzo Mondo si sono venute recentemente affermando numerosissime forme di organizzazione di tipo comunitario o cooperativo.

I nomi che vengono utilizzati sono i più svariati: si parla di associazioni produttive, di cooperative, di organizzazioni di produttori o di contadini, di istituzioni locali, di organizzazioni comunitarie di base, di “self help groups”, e così via. Si tratta di un fenomeno di rilevanti dimensioni, che si è manifestato nei più differenti comparti, dalla commercializzazione dei prodotti, all’acquisto degli inputs, alla microfinanza, alla gestione in comune di processi produttivi in campo artigianale e talora anche industriale.

Ciò che accomuna queste esperienze è che esse non si ispirano al principio della competizione, che è quello che domina le economie di mercato, ma a quello della cooperazione. E la mia tesi è che il principio di cooperazione sia più compatibile con i fondamenti culturali di queste società, che partono da una visione fondamentalmente comunitaria, pur muovendosi nella direzione della modernizzazione.

5. Prescindo in questa sede da un’analisi approfondita del fenomeno cooperativo,

richiamandomi ad un altro mio scritto53. Posso qui limitarmi a ricordare la definizione di cooperativa che prediligo: un’impresa,

che persegue finalità di profitto, a natura associativa e democratica, in proprietà dei suoi stakeholders (che non possono però essere i fornitori del capitale).

Molte delle organizzazioni che vediamo nascere nel Terzo Mondo, prevalentemente nelle zone rurali, ma talora anche in quelle urbane, ha natura cooperativa.

E molte di esse hanno anche una natura solidaristica, o comunitaria: nel senso che i membri più forti (sotto il profilo fisico, dell’intelligenza, della preparazione scolastica, del carattere) accettano di autodisciplinarsi e di limitare i loro privilegi a favore dei soggetti più deboli. Ed anche nel senso che accettano di sostenere altre organizzazioni più deboli di loro.

Non si tratta di ipotizzare acriticamente un paradigma altruistico, sostituendolo a quello egoistico oggi prevalente, nella teoria e nella realtà. Ma di assumere che in società fortemente comunitarie istituzioni modernizzanti che fanno ampio spazio a valori comunitari sono più appropriate di istituzioni che invece si ispirano ai valori dell’ homo oeconomicus.

Il passaggio da una cultura tradizionale ad una cooperativa non è facile ed immediato (come ci dice un’ampia letteratura54): è a mio avviso però più facile e più rapido rispetto al passaggio ad una cultura di tipo competitivo.

52 Goran Hyden, No shortcuts to development, Heinemann, 1983. 53 Enrico Luzzati - Cecilia Navarra, As cooperativas como instrumento de luta à pobreza nos paises en via de desenvolvimento. O caso de Moçambique, Ambasciata d’ Italia, Ufficio per la Cooperazione allo sviluppo, Maputo, 2004. 54 Cfr., per tutti, Peter Worsley, ed., Two blades of grass. Rural cooperatives in agricultural modernization, Manchester University Press, 1971.

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6. E’ proprio nella misura in cui esiste un’attenzione per la comunità, e l’organizzazione si considera come parte di un movimento in cui essa rientra come una componente, che diventa importante la dimensione dello sviluppo locale.

Non tutte queste organizzazioni di tipo cooperativo si caratterizzano per questo rilievo riconosciuto alla dimensione dello sviluppo locale.

Per la verità la cooperativa, essendo una forma di impresa controllata da stakeholders non capitalisti, tende ad avere un radicamento territoriale più forte di quello di un’impresa controllata dal capitale, notoriamente più mobile.

Tuttavia il radicamento locale di una cooperativa comunitaria è più profondo, e non può essere ricondotto ad una semplice prospettiva di localizzazione. In questo caso infatti si assiste alla creazione di un contesto culturale di natura locale, ad una condivisione di valori comuni. L’identificazione con un territorio è in primo luogo condivisione di valori con altre persone ed altre organizzazioni che vivono in quel territorio.

Non si tratta di processi facili ed immediati, lo si ripete. L’innesto delle istituzioni cooperative su quelle tradizionali non è facile ed immediato: valga per tutti l’esempio del passaggio dalle tontines alle cooperative di risparmio e credito55.

Non si può pensare che queste forme di impresa possano tout court competere con le imprese capitalistiche moderne. Esse dovranno operare necessariamente, in un primo momento, in comparti poco esposti alla concorrenza internazionale, o servirsi di canali privilegiati, come quello del commercio equo e solidale.

La via di una strategia di sviluppo dal basso merita comunque di essere considerata con attenzione, per domandarsi se non possa essere una valida opzione per popolazioni che continuano a vivere in condizione di inaccettabile sottosviluppo.

55 Beatriz Armendàriz de Aghion - Jonathan Morduch, The Economics of Microfinance, The MIT Press, 2005.

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6.9. Partecipazione e sviluppo locale nei PVS

Cristina Scarpocchi∗

La fortuna del concetto di partecipazione come requisito fondamentale dei processi di sviluppo pone immediatamente in evidenza la posta in gioco di qualsivoglia riflessione sullo sviluppo e, in particolare, assume un rilievo specifico nel caso dello sviluppo locale. Come osserva, infatti, McGee:

«When people in developing countries do things for their own survival and advancement, they are living their lives and exercising human agency. The exercise of agency only becomes participation when the impetus or framework for a development activity is located outside people's life worlds». (McGee 2002, p. 92)

Sebbene a una prima lettura questa esasperazione del concetto di partecipazione possa apparire come una speculazione astratta, in realtà questa aporia si ripresenta nel considerare aspetti quanto mai pratici del processo di partecipazione, come la questione se la partecipazione debba essere considerata un fine o un mezzo oppure il processo di radicale ripensamento della partecipazione proprio in relazione ai temi della cittadinanza e della governance.

In questa breve riflessione, l'attenzione sarà incentrata su come il concetto di partecipazione sia emerso nell’ambito delle teorie e delle prassi di cooperazione allo sviluppo, ponendo in particolare il fuoco l’analisi sulla relazione tra partecipazione e sviluppo locale.

Seguendo l’impostazione di Hickey e Mohan (2004a), il punto di partenza coincide inevitabilmente con la polisemanticità che il termine “partecipazione” ha assunto nelle diverse formulazioni del concetto di sviluppo. Sebbene si faccia risalire l’emergere della partecipazione come posta in gioco fondamentale nei processi di sviluppo alla pubblicazione delle opere fondamentali di Chambers (1983) e di Cernea (1985), in realtà un’analisi più approfondita mostra come sin dagli anni Quaranta fosse presente nella letteratura sullo sviluppo un richiamo più o meno appropriato alla partecipazione (Hickey e Mohan 2004a, pp. 6-8). Sostanzialmente si è trattato di un’ampia gamma di posizioni che vanno dalla retorica “comunitaria” del tardo colonialismo (in cui la partecipazione popolare è intesa come costruzione di un’idilliaca e aconflittuale comunità rurale, definita in antitesi all’ambiente urbano, fervido di aspirazioni “sovversive”) sino alle critiche radicali formulate a partire dagli anni Sessanta (dalla Teologia della Liberazione alle diverse declinazioni dello Sviluppo Alternativo). Nonostante il fatto che il tema della partecipazione fosse già presente in nuce nel dibattito in corso, la pubblicazione dei due saggi di Chambers e di Cernea segna una vera e propria soluzione di continuità, in quanto pone le basi per una saldatura tra teorie dello sviluppo mainstream (nel cui ambito non vi era, al di là della retorica, spazio per la partecipazione) e teorie alternative.

Questo apparente superamento degli opposti è stato reso possibile dal ruolo crescente che le ONG hanno svolto nella cooperazione allo sviluppo nei PVS e, soprattutto, alla loro capacità di esercitare una pressione effettiva sulle grandi organizzazioni internazionali, in

∗ Università della Valle d’Aosta.

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primis sulla Banca Mondiale. Il punto di contatto tra istanze apparentemente inconciliabili è stato offerto dalla natura apparentemente “neutrale”, tecnica, con cui il tema della partecipazione è stato definito a partire dai lavori di Chambers e Cernea. In particolare, a partire dalla ovvia constatazione circa il fallimento delle politiche mainstream, la partecipazione dei beneficiari alla definizione e alla gestione dei progetti è stata facilmente presentata come uno strumento per conferire ai progetti stessi maggiore efficienza, efficacia e sostenibilità. Proprio in virtù della sua apparente tecnicità, l’approccio della “partecipazione ai progetti” è stato accolto a partire dai primi anni Novanta dalle maggiori organizzazioni internazionali: per esempio, nel 1990, la Banca Mondiale istituì un Participation Learning Group e nel 1993 lo UNDP introdusse il tema della partecipazione nel proprio Human Development Report.

Il passo successivo fu nel 1994 la pubblicazione su World Development di una serie di articoli di Chambers (1994a e 1994b) con cui lo studioso inglese introdusse il concetto di Partecipatory Rural Appraisal (PRA). Il concetto di PRA è stato elaborato da Chambers in parziale antitesi rispetto a quello di Rapid Rural Appraisal (RRA): mentre il RRA (Chambers, 1983) era principalmente uno strumento tecnico, affermatosi negli anni Settanta e successivamente declinato in termini partecipativi, di cui gli esperti potevano avvalersi per valutare i bisogni e le aspettative dei beneficiari al fine di poter adattare meglio alle esigenze locali progetti che erano comunque definiti esogenamente, il PRA si poneva l’obiettivo di definire che tipo di sviluppo i beneficiari desiderassero (McGee, 2002). Mentre nel decennio 1983-1993 la partecipazione riguardava prevalentemente il miglioramento tecnico della qualità di progetti che erano coerenti con una nozione di sviluppo definita sostanzialmente dal soggetto finanziatore ed esecutore (participation in project), l’elaborazione del concetto di PRA si pone l’obiettivo di espandere la partecipazione ai principi e alle nozioni dello sviluppo stesso (participation in development).

Il decennio successivo è stato caratterizzato da un progressivo affermarsi dell’approccio partecipativo quale nuova ortodossia nelle pratiche mainstream e, parallelamente e conseguentemente, da un intensificarsi della riflessione, interna ed esterna, sui suoi presupposti teorici e sui suoi esiti pratici. Al di là degli accenti maggiormente critici, che sono giunti a definire la partecipazione come una “nuova tirannia” (Cooke and Kothari, 2001), il ripensamento in corso negli ultimi anni appare come estremamente fertile, soprattutto se si considera che molte delle critiche rivolte al concetto di partecipazione nei PVS echeggiano in larga misura quelle incontrate dallo sviluppo locale nel contesto dei paesi sviluppati, in particolare il filone più direttamente riconducibile all’esperienza distrettuale italiana (Amin, 1989; Hudson, 2003). A questo proposito possiamo identificare almeno tre punti critici che, in qualche misura, riguardano entrambi gli approcci:

(i) una rappresentazione semplificata della comunità, come unità omogenea e armoniosa, che ha portato a sottostimare le relazioni di potere al suo interno, finendo talvolta con il consolidare modelli oppressivi (con specifico riferimento alle differenze di genere);

(ii) un’enfasi eccessiva sulle dinamiche che hanno luogo alla scala locale, tralasciando fenomeni e processi che avvengono a scale superiore (soprattutto alla scala nazionale ma anche a quella globale) che influenzano pesantemente l’esito delle politiche di sviluppo;

(iii) il privilegio accordato a prassi “imminenti” di sviluppo, a forme cioè di intervento immediato, e la conseguente scarsa attenzione alle forze immanenti che muovono il processo di cambiamento sociale, elementi che si traducono in una limitata concettualizzazione di che cosa significhi, teoricamente e storicamente, lo sviluppo.

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Il paragone tra tema della partecipazione e teorie dello sviluppo locale appare piuttosto stretto anche se si considerano alcuni degli sviluppi più recenti della riflessione teorica sulla partecipazione nel contesto delle politiche di sviluppo nei PVS, in particolare la raccolta di saggi edita da Hickey e Mohan (2004b). Pensato sostanzialmente come reazione alla già citata, provocatoria, raccolta di saggi di Cooke e Kothari (2001), dal titolo significativo Participation: The New Tiranny?, il volume Participation: From Tiranny to Transformation? raccoglie una serie di contributi di alcuni tra i principali esperti di sviluppo che lavorano in istituzioni di ricerca come l’IDS del Sussex o la Open University. Partendo dalle critiche precedentemente esposte, gli autori si interrogano su come il tema della partecipazione possa essere sia teorizzato sia applicato in maniera radicalmente alternativa, in maniera tale da divenire, invece che una nuova opprimente ortodossia, uno strumento di trasformazione dei rapporti di potere soggiacenti ogni processo di sviluppo.

Ai fini della nostra analisi, l’aspetto che maggiormente ci interessa è l’enfasi che gli autori pongono sul rapporto tra partecipazione, governance e cittadinanza quale elemento cardine su cui incentrare il contributo che il tema della partecipazione può offrire al dibattito e alle pratiche sullo sviluppo. L’analogia con quanto avvenuto negli ultimi anni nel dibattito sullo sviluppo locale – e in particolare con il superamento dell’approccio industrialista proprio del filone ispirato ai distretti industriali – è particolarmente forte ed evidente. A titolo di esempio, si possono considerare le “riflessioni parallele” svolte, da un lato, da Magnaghi e dalla rete Nuovo Municipio sulla contrapposizione tra “federalismo municipalista” e “federalismo liberista” e, dall’altro, da Mohan e Hickney (2004) con la ripresa della distinzione tra “civic republican citizenship” e “liberal citizenship” (Miller, 1995). Il legame tra governance e sviluppo locale è altrettanto chiaro nelle elaborazioni più recenti di organismi internazionali come l’Ocse, il cui programma LEED (Local Economic and Employment Development) prevede tra i suoi assi una misura specificatamente dedicata alla local governance.

In questo senso, la dialettica tra partecipazione e governance può rappresentare il punto di incontro tra teorie dello sviluppo e teorie dello sviluppo locale. Soprattutto il confronto tra l’esperienza dei PVS e quella dei paesi industrializzati dovrebbe contribuire a “sfrondare” le narrazioni su partecipazione, governance e sviluppo locale da quella che Hickney e Moran (2004a), riferendosi alla PRA, chiamano “approccio populista” alla partecipazione, vale a dire una focalizzazione su aspetti localistici e “imminenti”, separando il processo di partecipazione locale dai più ampi processi, immanenti, di trasformazione economica, sociale, politica e culturale.

Riferimenti bibliografici

Amin A. (1989), “Flexible specialisation and small firms in Italy. Myths and realities”, Antipode, 21, pp. 13-34.

Cernea M. (1985), Putting People First. Sociological Variables in Rural Development, Oxford, Oxford University Press.

Chambers R. (1983), Rural Development. Putting the Last First, London, Longman. Chambers R. (1994a), “The origins and practice of Participatory Rural Appraisal”, World

Development, 22, pp. 953-969. Chambers R. (1994b), “Participatory Rural Appraisal (PRA). Challenges, potentials and

paradigm”, World Development, 22, pp. 1437-1454. Cooke B. and Kothari U. (eds.) (2001), Participation. The new Tyranny?, London, Zed Books. Hickey S. and Mohan G. (2004a), “Towards participation as transformation: critical themes

and challenges”, in: Hickey S. and Mohan G. (2004b), op. cit., pp. 3-24.

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Hickey S. and Mohan G. (eds) (2004b), Participation. From Tyranny to Transformation?, London, Zed Books.

Hudson R. (2003), “Fuzzy concepts and sloppy thinking: Reflections on recent developments in critical regional studies”, Regional Studies, 37, pp. 741-746.

Miller D. (1995), “Citizenship and pluralism”, Political Studies, 43, pp. 432-450. Mohan G. and Hickey S. (2004), “Relocating participation within a radical politics of

development: critical modernism and citizenship”, in: Hickey S. and Mohan G. (2004b), op. cit., pp. 59-74.

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6.10. La démarche partecipative nell’Africa saheliana: tra spinte esogene e “creatività” endogena. Il caso del Senegal

Germana Chiusano∗

Introduzione

Negli ultimi decenni l’attività di cooperazione allo sviluppo, all’interno della quale s’inseriscono molti dei progetti di sviluppo locale dei Paesi meno avanzati, è cresciuta in modo significativo, soprattutto sotto l’aspetto quantitativo rispetto alla rilevanza qualitativa, talvolta debole, dei progetti realizzati. Inoltre la nascita di numerosi movimenti o associazioni locali ha attratto, in queste aree, l’attenzione in modo particolare della cooperazione internazionale e di molte ong, che hanno incentrato la propria attività su questi dinamismi endogeni.

A conferma di questo riorientamento programmatico la riflessione scientifica internazionale si è spostata in primis sull’importanza del ruolo che gli attori locali (e non più solo le élite) giocano nel processo di sviluppo territoriale e sulla componente dimensionale dello sviluppo locale: non più solo nella sua accezione economica ma anche sociale, culturale, ambientale, relazionale. In questi termini l’approccio della cooperazione lentamente è mutato a favore di un’attenzione sempre più crescente al rafforzamento del ruolo dei soggetti locali e delle organizzazioni alla base.

Si è, così, consolidata la necessità del coinvolgimento della società civile come pratica inclusiva e democratica, divenuta in seguito quasi una costante nei documenti di progetto e nelle pratiche di sviluppo, una sorta di condizione “sine qua non”, che rischia oggi di diventare una retorica del potere a fronte di processi decisionali che continuano ad essere esclusivi ed elitari. In diversi casi, infatti, la partecipazione è pilotata dall’attrazione dei soggetti locali verso i finanziamenti stranieri delle Agenzie Internazionali, in particolare, in cui gli interessi locali si piegano agli obiettivi e alle strategie dei portatori di interessi esogeni.

Alla luce di quanto premesso l’ingresso dei processi partecipativi nelle politiche di sviluppo locale dei Pvs appare, dunque, come un percorso che si presenta ambiguamente: “tutti la praticano, nessuno sa come”.

Esiste, in merito, una condizione operativo-applicativa fortemente diffusa e generalizzata, ma una concettualizzazione/teorizzazione locale molto debole, dai caratteri informali e spontanei, potremmo dire quasi “sperimentali”.

Circoscrivendo l’area d’interesse al contesto senegalese dell’Africa saheliana si rileva ancora più chiaramente che se da una parte, come testimoniano numerosi progetti sostenuti

∗ Dipartimento Interateneo Territorio – Politecnico e Università di Torino.

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dalla cooperazione internazionale, l’implicazione del concetto di partecipazione è divenuto quasi uno slogan nei documenti di progetto, dall’altra ancora poco si conosce del substrato teorico su cui poggia.

A partire dagli ultimi dieci anni questo tema, in auge tra le linee programmatiche e le fasi d’implementazione progettuale, viene troppo facilmente “evocato e sponsorizzato”, pur mostrandosi ancora “instabilmente in divenire” sotto il profilo scientifico e nel consolidamento delle teorie.

La letteratura ufficiale di riferimento, inoltre, non risulta sistematizzata in un supporto teorico-metodologico riconosciuto e questo ne spiega un ampio e quanto mai indiscriminato impiego nei progetti cosiddetti “di sviluppo locale”.

In merito all’adozione delle pratiche partecipative il quadro istituzionale, ad oggi, non ha formalmente adottato nelle direttive statali una politica strutturata di tipo inclusivo, piuttosto un quadro di riferimento evidentemente esogeno, di ispirazione occidentale, accolto e rielaborato congiuntamente dalle expertise locali (Collettività locali o i cabinet ad esempio) e sovralocali, dove l’intervento delle Organizzazioni Internazionali si manifesta soprattutto nella costruzione dell’architettura istituzionale nazionale.

La premessa di questi aspetti è estremamente significativa poiché mostra all’interno di quale grado di aleatorietà e informalità si muova il mondo delle politiche inclusive in Senegal.

Un interrogativo cruciale è, dunque, comprendere: in quale misura e come il contributo endogeno governa, domina o rielabora queste pratiche rispetto alle mediazioni esterne d’ispirazione esogeno-occidentale. Quale tipo di influenza esercitano questi contributi rispetto ai saperi tradizionali del territorio locale?

Questi interrogativi pongono in luce l’importanza di comprendere quale spazio il contributo metodologico esogeno conceda alla capacità di espressione, elaborazione e sistematizzazione della “creatività” degli attori locali, vincolata ad un territorio interessato da tensioni programmatiche uguali e contrarie.

In altri termini s’intende esaminare quanto le pratiche inclusive occidentali siano esportabili ed applicabili a contesti territoriali ancora fragili e non competitivi, e in risposta quanto la “creatività” locale sia in grado di esaltare i propri saper fare tramite questi input.

In questa riflessione, senza alterare il focus sull’esplorazione delle capacità endogene locali, non si può ignorare il contributo di altri due concetti chiave che insieme alla problematica dell’approccio inclusivo, definiscono uno nuovo paradigma: sviluppo locale - decentramento amministrativo - pratiche partecipative.

Rispetto al tema dello sviluppo locale, per il quale si rimandano approfondimenti ad altra sede 56, non si può eludere quanto questo concetto, seppur estremamente inflazionato fino ad assumere caratteri quasi dogmatici, sia entrato nelle pratiche partecipative come luogo “favorevole” in cui realizzare progetti di sviluppo alla base, “attraverso e per” la base: la società civile beneficiaria.

Se lo sviluppo locale rappresenta la quinta, ovvero la scenografia concettuale dell’approccio partecipativo, poiché implica che se di sviluppo si parli questo sia uno sviluppo bottom up che fa dialogare i rapporti relazionali tra beneficiari ed expertise (“l’alto con il basso” e viceversa), il processo di decentramento amministrativo, secondo elemento del paradigma, rappresenta l’opportunità istituzionale attraverso cui gli attori possono promuovere progetti di sviluppo locale partecipato.

La decentralizzazione non è un fenomeno in atto ovunque: si tratta, infatti, di un percorso istituzionale caratteristico dei paesi dell’Africa occidentale. In Senegal essa riposa

56 Si rimanda, in merito, agli scritti di Piveteau, Pecqueur, Dansero, De Marchi.

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sul principio di condivisone e di responsabilità tra Stato e Collettività Locali, inteso come spazio di dialogo tra questi, tra le Collettività e la società civile e tra queste e i ballieurs de fonds57.

Ma cosa significa “fare partecipazione” nel contesto senegalese? La partecipazione è certamente un concetto poliedrico che si realizza differentemente in

relazione al contesto socio-territoriale a cui si legano le cui possibili declinazioni parlano di: partecipazione volontaria, provocata, imposta, etc.

Ma esiste anche una lettura territoriale verticale che consente di identificare, sul piano amministrativo, differenti livelli di coinvolgimento partecipativo secondo il grado di competenza delle Collettività locali (Regione, Comune e Comunità rurale), oppure è possibile ritrovare anche una lettura territoriale orizzontale che studia la partecipazione che si esprime, ad esempio, in ambito urbano e rurale.

L’atto del partecipare porta con sé l’azione del coinvolgere, implicare, interpellare e dare voce ai soggetti della società civile, in quanto attori preferenziali e beneficiari di progetti di sviluppo, un approccio che sottende disponibilità di strumenti e metodologie “adatte e adattabili”, ma soprattutto capacità di negoziazione.

Possiamo ipotizzare che l’adozione di pratiche partecipative nei progetti di sviluppo della cooperazione abbia trovato un terreno favorevole nel background culturale della società tradizionale senegalese, potremmo dire una pre-esistenza naturalmente endogena poiché nelle pratiche tradizionali delle comunità (soprattutto nei villaggi) risiedeva già una forma embrionale e semplificata di coinvolgimento collettivo e pubblico nella risoluzione dei conflitti.

Non c’è dubbio che il progressivo disimpegno statale³ a favore prima delle associazioni contadine e poi delle Collettività locali, abbia spinto la società civile ad associarsi, in forme diverse, e ad adottare conseguentemente la forma partecipativa nelle modalità di gestione delle associazioni stesse.

A partire dal 1984 il fattore discriminante che ha favorito un processo di autoresponsabilizzazione diretta della società civile è stato l’adozione da parte dello Stato della nuova politica agricola: se prima lo Stato appoggiava direttamente i produttori della filiera e ne gestiva personalmente i crediti, dopo il 1984 i contadini, autorganizzatisi, sono stati indotti, da questa nuova politica, a rivedere la propria capacità di autogestione (imparando anche a richiedere crediti alle banche) e ad associarsi in GIE (Group d’Interet Economique).

Questa prima riforma ha permesso alle popolazioni locali di raggrupparsi in forme associative, di rafforzarsi e di contribuire autonomamente al proprio benessere, secondo il principio dell’autoresponsabilizzazione.

Con la legge del 1997, che eleggeva le Regioni a rango di Collettività locali, è giunto l’input decisivo che ha consolidato questa politica di autoresponsabilizzazione e, attraverso la delega dei poteri agli Eletti locali, le politiche partecipative si sono imposte come condizione e percorso progettuale necessario nella stesura dei progetti di sviluppo locale, in modo particolare secondo i programmi delle Agenzie Internazionali.

In termini operativi, però, la pianificazione partecipativa è un processo lento, talvolta contraddittorio. Esiste, infatti, una forma di concorrenza tra la messa in opera di una dinamica partecipativa e l’appropriazione dei risultati da parte dei beneficiari, e l’obbligo di realizzare un programma d’azione indotto dai ballieurs de fonds.

2 Ovvero i finanziatori stranieri, Agenzie internazionali, della cooperazione multilaterale. 3 Processo di decentramento amministrativo entrato in vigore nel 1997 con la riforma che eleggeva le Regioni a rango di collettività locali.

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È, dunque, importante comprendere come il coinvolgimento esclusivo della cooperazione multilaterale (componente esogena della partecipazione) si leghi, attraverso un passaggio “decentralizzato”, alla messa in opera delle competenze delle expertise locali e alla loro capacità di espressione progettuale in fase di implementazione partecipativa.

Come dire: quanto le capacità locali hanno attinto dai contributi esterni in termini di metodologie e strategie, e quanto sono state in grado di riadattarle al proprio contesto socio-territoriale fino ad elaborarne una propria strategia applicativa locale, dunque endogena.

Ma soprattutto quali potenzialità e quali criticità questa tensione produce sul territorio, inteso come spazio relazionale tra attori?

Il percorso procedurale è piuttosto articolato, poiché l’input alla partecipazione può nascere da diversi percorsi. Lo schema che segue sintetizza il processo che si verifica più frequentemente:

DECISORI (Ballieurs de fonds, Stato)

partecipazione

EXPERTISE BENEFICIARES (cabinet, ong) (società civile)

La ricostruzione del percorso “verso la partecipazione”, di cui sopra, dimostra che come premesso nel titolo, la démarche partecipative vive uno “stato tensionale” che oscilla tra due forze: una spinta (attiva) esterna, dunque esogena, ed una creatività (spinta solo parzialmente passiva) interna endogena, entrambi moderate dall’intervento delle expertise locali e sovralocali.

Nel primo caso si tratta di un input sollecitato dagli attori della cooperazione (in particolare multilaterale), ovvero coloro che detengono il potere finanziario ed attuativo nell’elaborazione di progetti di sviluppo locale: Banca Mondiale, Onu, UE, etc.

La spinta attiva, dunque, rappresenta non soltanto la capacità, ivi compresa la stabilità economico-finanziaria di cui i progetti e i beneficiari godono, ma anche le direttive e gli orientamenti programmatici che in un modo o nell’altro vincolano e indirizzano i progetti. Domanda ricorrente: le politiche partecipative sono allora un alibi di copertura per la cooperazione multilaterale affinché possa assicurarsi una presenza economico/progettuale continuativa nel paese in cui opera, o sono davvero atto e volontà inclusiva di coinvolgimento democratico della società civile nei processi decisionali, interessati a sostenere il benessere locale?

Per rispondere a questa domanda è necessario esaminare la seconda componente (opposta e contraria) a cui si faceva riferimento: l’endogeneità.

E’ effettivamente riscontrabile che se da una parte l’intervento dei finanziatori stranieri, mediato dal ruolo delle expertise locali58, rappresenti una componente estremamente vincolante e impositiva nei processi di apprendimento locale (comunque indispensabile poiché la maggior parte delle metodologie applicate alla démarche partecipative attingono da

58 Ex: Ard (Agence regionale pour le développement) o i bureaux d’études.

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Page 170: De Leonardis D. (2006), Le vallate olimpiche e le loro prospettive di sviluppo post-olimpiche, in Dansero E., Santangelo M. “Progetti, attori, territorio, territorialità. Sviluppo

esperienze occidentali59), dall’altra la capacità locale, mediata dai saperi tradizionali, abbia palesato abilità creativa nell’appropriarsi di queste metodologie e di declinarle territorialmente alle esigenze e ai bisogni locali.

Questo processo di assorbimento dei saperi “stranieri”, moderato da un lento ma consapevole riadattamento, rilettura e trasformazione delle pratiche attraverso la mediazione culturale delle norme, dei modus vivendi, delle espressioni comunicative locali è maturato in una sorta di rielaborazione creativa, come esito di quello che D’Aquino definisce “un processo di riappropriazione territoriale ascendente” (D’Aquino,2002).

Nonostante lo sforzo di riadattamento ai saperi esogeni emerge, tuttavia, un patchwork informale e confuso di metodologie sperimentali che non si concretizzano ancora in una strategia operativa riconosciuta o adottata formalmente, ma più spesso in esiti disorientanti e talvolta improduttivi.

Infatti, qualunque attore che si trovi nelle condizioni favorevoli di poter attuare un progetto attraverso un approccio inclusivo, ha difficoltà a trovare una metodologia riconosciuta ed identificativa e mette, quindi, in pratica un processo partecipativo che segue regole e procedure soggettive, definibili “creative”, come fanno, ad esempio, le Agenzie Regionali per lo sviluppo (Ard) o alcune ong.

Questa informalità procedurale, dunque, spiega come non si riesca a realizzare e sostenere un processo inclusivo istituzionale e coeso, attraverso cui la démarche partecipative possa avviare progetti coerenti e strutturati in cui riconoscere un percorso di apprendimento organizzato.

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59 Ex: Marp, Zoop, Rra, Pipo, etc.

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