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1 DALLE ORECCHIE AL CUORE Riflessioni sull’Ascolto a cura di Angela Mazzetti Fanti

Dalle Orecchie Al Cuore

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analisi dell'ascolto in chiave laica e religiosa

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DALLE ORECCHIE AL CUORE Riflessioni sull’Ascolto

a cura di Angela Mazzetti Fanti 

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“Se ti è caro ascoltare, imparerai se porgerai l’orecchio sarai saggio.” Siracide 6, 34

Riflessioni sull’ascolto laico e religioso

In copertina: la facciata della Chiesa di San Bartolomeo della Beverara (2011)

Le riflessioni e le interviste si riferiscono alle date indicate. Laddove possibile si sono apportati aggiornamenti.

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DEDICA Queste riflessioni sono uscite nel periodico ‘Sotto il campanile’ della Parrocchia di San Bartolomeo della Beverara dal 2002 al 2009. Oggi, 25 settembre 2011, le riunisco in questa pubblicazione, che dedico, quale contributo di gratitudine, alla Comunità beverarese intera e al suo Pastore – don Nildo Pirani – che il 2 ottobre 2011 festeggia il suo 50° anno di sacerdozio. Tutti mi hanno accolto e sorretto nella fede e continuano a trasmettermi l’importanza della preghiera, della liturgia, del canto, e delle relazioni tra fratelli e sorelle.

Note personali:

Abito in Beverara da 41 anni. Vi ho formato la mia famiglia e vi sto invecchiando con gioia.

Nella comunità beverarese faccio parte del Consiglio Pastorale e di Gruppi Biblici.

Attualmente mi occupo della mia famiglia e sono pensionata universitaria. Svolgo alcune attività correlate al benessere esistenziale: Coordino

”L’Arte dell’Ascolto - Incontri formativi per sviluppare la capacità di ascolto di sé e degli altri”, che si svolge al Navile da dodici anni (attualmente in Biblioteca Lame).

Sono esperta e consulente nella scrittura auto-biografica, e mi impegno nel sostegno alle persone in lutto.

Angela Mazzetti Fanti

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INDICE

Pag. 3 DEDICA

Pag. 5 ASCOLTARE

Pag. 5 Cos’è l’ascolto? (1)

Pag. 6 Cos’è l’ascolto? (2)

Pag. 7 Una proposta di formazione all’ascolto

Pag. 9 L’ascolto del silenzio

Pag. 10 ASCOLTARE E PACIFICARE

Pag. 10 Sul difficile cammino della pace sulla terra

Pag. 11 La guerra nel cuore

Pag. 13 ASCOLTARE PER CONOSCERE

Pag. 13 La Comunità Ecumenica di Bose

Pag. 15 Noi siamo un colloquio (I gruppi di Auto-mutuo aiuto)

Pag. 16 LEGGERE

Pag. 16 Sogni e futuro

Pag. 17 Il cammino dell’uomo di Martin Buber

Pag. 19 L’arte di ascoltare di Plutarco

Pag. 21 La forma della vita di Cesare Viviani

Pag. 23 ASCOLTARE LA ‘PAROLA’

Pag. 23 La domenica è festa!

Pag. 24 Il lavoro: aspetti biblici

Pag. 27 BEVERARA - ASCOLTARE E PRATICARE LA FEDE NELLA LITURGIA

Pag. 27 Parliamo di Liturgia … e troviamo una comunità in cammino

(intervista ad Antonio Baroncini)

Pag. 31 Il canto liturgico

(intervista a Luciano Catalano)

Pag. 33 BEVERARA – ASCOLTARE E PRATICARE LA FEDE OGNI GIORNO

Pag. 33 I Rom, quanto ne sappiamo?

(intervista ad Alberto Zucchero)

Pag. 35 Volontariato nella carità – Centro di Ascolto Caritas

(intervista a Maria Pia Baroncini)

Pag. 37 Volontariato nella carità – Centro Indumenti Caritas

(intervista ad Anna Di Paola)

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ASCOLTARE

COS’E’ L’ASCOLTO? (1) L’ascolto è ‘cammino’ e in quanto tale risente della forza dell’esperienza che ognuno raccoglie negli anni. Esso è attivo minuto dopo minuto, quasi inconsapevolmente perché fa parte di noi; è una necessità che sviluppiamo dalla nascita per entrare in contatto e per comunicare con l’ambiente e le persone che ci circondano. Va costantemente potenziato e migliorato, ma non è sempre facile accogliere ciò che sentiamo di essere e armonizzarlo con ciò che sono gli altri, oppure saper comprendere gli altri, senza dimenticare noi stessi. Quando questa capacità è bloccata peggiorano i comportamenti e la comunicazione; può avvenire tra familiari e amici, tra i quali l’affetto tende di solito a sopperire alle scorrettezze, fino agli eventi più terribili che sono sotto gli occhi di tutti a livello mondiale: massacri, guerre, oppure anche distrazioni sociali verso intere popolazioni che stentano a vivere e verso la natura.

Eppure attraverso gli incontri di ogni giorno ci formiamo e fondiamo la nostra vita, non per chiuderci in un angolo caldo, ma per aprirci, come già fanno tanti, verso un mondo molto complesso, a volte totalmente disorientante, che vale però la pena di conoscere con attenzione e in profondità. Dove individuare errori e carenze nell’ascolto quotidiano che possono creare disagio, se non addirittura una distorta visibilità di noi stessi e degli altri? Mi vengono in mente alcune frasi tipiche e alcuni atteggiamenti: - “Non ho tempo” è una frase frequente: può indicare che si è soliti fare le cose in fretta e con ansietà: gli incontri, l’ascolto di noi stessi, le attività pratiche. Anche un piatto di spaghetti può dirci dell’amore o della poca cura con la quale è stato cucinato. - “Io sono fatto così …” “Tizio è così …” Qui non sono in discussione i valori forti e fermi delle singole persone, ma gli scogli che qualcuno presenta, quando nei rapporti lascia la responsabilità di cambiare o di trovare nuovi accordi a totale carico degli altri; - A volte si parla per “vincere” chi ci interpella, non per accostare alla sua la nostra esperienza; allora il dialogo può diventare “competizione” e le parole sembrare “spade” sguainate pronte a ferire; - Lamentarsi spesso od esprimere teatralmente la fatica che facciamo non è un atteggiamento che possa portare ad un buon ascolto reciproco; vi sono molti modi per fare presente che si stanno affrontando dei problemi e per chiedere aiuto; - Usare linguaggi appresi dai mass media, esprimersi attraverso luoghi comuni o pregiudizi: la nostra mente si “riposa” ripetendo qualcosa già confezionato da altri, ma la carenza di pensiero non allarga il nostro cuore e non ci forma. - Non concedersi tempo, non concedersi silenzi per accogliere i suggerimenti del cuore e le parole altrui.

Chi vorrà cimentarsi in una sua ricerca personale troverà ogni giorno esempi delle fragilità che come esseri umani incontriamo, ma anche esempi di buon ascolto da seguire.

E se l’ascolto è cammino, la strada da percorrere è senz’altro quella lastricata di tanta determinazione e speranza.

Febbraio 2002

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COS’E’ L’ASCOLTO? (2) Dopo la distribuzione di "Sotto il campanile" dello scorso febbraio, nel quale ho proposto questa rubrica sull'Ascolto, mi è stato chiesto di approfondire i punti trattati: dove individuare, indagando attraverso il linguaggio e i comportamenti, errori e carenze nell'ascolto quotidiano che possono creare disagio, se non addirittura una distorta visibilità di noi stessi e degli altri? Una frase ricorrente tra quelle riportate era: "non ho tempo". Essa può indicare che si è soliti fare le cose in fretta e con ansietà: gli incontri, l'ascolto di noi stessi, le attività pratiche .... La ricaduta negativa nelle relazioni è evidente. Ansia e fretta non permettono di assaporare il tempo che viviamo da soli o assieme ai nostri cari; al contrario tali condizioni producono stress e aggressività.

Poiché poesia e racconto parlano attraverso immagini che vanno direttamente al cuore, propongo due testi su questo tema. Nel primo (una poesia di Camilla Zammarchi, 10 anni, di Sant'Arcangelo di Romagna) vediamo con gli occhi di una bambina i nostri affanni; la fatica nel vedere tanta corsa, e nell'esservi coinvolta, è tale che la seconda parte della poesia si trasforma in invocazione e proponimento. I bambini studiavano ... studiavano, compitavano, leggevano, correvano. I bambini correvano, le maestre correvano, le bidelle correvano, tutta la scuola correva, la Direttrice correva, tutti correvano. Correvano perché non c'era tempo, correvano per arrivare in tempo, per ritrovare il tempo, per conquistare il tempo. Lo scolaro deve studiare e non ha tempo ... forse, dopo ... Le maestre devono correggere i compiti e non hanno tempo ... forse, dopo ... La Direttrice deve organizzare la scuola e non ha tempo ... forse, dopo ... Bambini, svelti, non ho tempo, sbrigatevi, ho fretta, non ho tempo. Vorrei spiegare, ma non ho tempo.

Signore, ho tempo, ho tutto il tempo che vuoi, le mie giornate a scuola, i rientri pomeridiani, le ore dei miei compiti, son tutti miei, a me farli con calma e senza ansia. Non Ti chiedo, questa mattina, Signore, il tempo d'imparare bene questo o quest'altro, Ti chiedo d'imparare bene nel Tempo che Tu mi dai ciò che Tu vuoi che io impari.

Il secondo brano è tratto dal "Piccolo principe" di Antoine de Saint-Exupery: "Buon giorno", disse il piccolo principe. "Buon giorno", disse il mercante. Era un mercante di pillole che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere. "Perché vendi questa roba?" disse il Piccolo principe. "E' una grossa economia di tempo - disse il mercante - gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatré minuti alla settimana". "E che cosa se ne fa, uno, di cinquantatré minuti?" "Se ne fa quello che vuole." "Io" disse il piccolo principe, "se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana."

Giugno 2002

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UNA PROPOSTA DI FORMAZIONE ALL’ASCOLTO Questa volta vorrei presentare e invitarvi a partecipare all’attività di formazione all’ascolto psichico, denominata “L’ARTE DELL’ASCOLTO – ESPERIENZA DI SE’ E DEGLI ALTRI”, che è gentilmente ospitata presso la sala bianca della Parrocchia di San Bartolomeo della Beverara – Via della Beverara, 86 che ha iniziato il nuovo ciclo di lavoro il 30 settembre 2002, e proseguirà lunedì 28 ottobre dalle ore 18,30 (puntuali) alle ore 22,30 e così via ad ogni lunedì di fine mese. L’idea e la costituzione di questo programma formativo trae origine dall’esperienza professionale di Cesare Viviani, psicanalista e poeta, che a Milano coordina dal 1998 la Scuola dell’Ascolto, che ho frequentato dalla sua fondazione. La persona è considerata e rispettata per la sua unica e preziosa testimonianza di vita. E’ importante quindi che siano espresse il più possibile le diversità: per esperienza umana e culturale, per età, per idealità, per religiosità o per scelta politica; esse non sono comunque indagate, ma accolte e fuse in un unico obiettivo comune: la profonda necessità, convinzione e desiderio di verificare e migliorare la propria capacità di ascolto a livello personale o professionale. Lo scambio delle esperienze, attuato liberamente e a qualsiasi livello di profondità, costituisce un importante arricchimento reciproco ed è teso a liberare da pregiudizi, schematizzazioni, luoghi comuni e a produrre aperture creative. Molto spesso il linguaggio quotidiano è finalizzato al “fare”, alla pratica materiale. Può pertanto venire a mancare quella vicinanza a sé stessi e agli altri necessaria per essere buoni compagni di viaggio nella vita. La relazione diventa molto autentica, la parola meditata, soppesata è la parola necessaria del cuore, indica disposizione ed accoglienza. La parola del cuore non ingorga la mente, come spesso notiamo nell’eccessiva verbosità, ma trova strade maestre per una sintesi del proprio pensiero. La convivenza serena che si crea stimola ad esprimersi anche le persone più intimidite. Ogni nostro incontro è suddiviso in sezioni di lavoro durante le quali è possibile sperimentare alcune forme di ascolto: di sé, dell’altro, del silenzio e alcune modalità di relazione: ascoltare senza commentare, riflettere e confrontarsi su temi di vita, interagire per aiutare e comprendere le proprie difficoltà di ascolto, essere vicini ad una sofferenza, narrare storie come insegnamento di vita. La formazione è intrinsecamente legata alla partecipazione Ritengo utile ora completare questa presentazione riportando le voci di alcuni partecipanti:

“Sono da sempre a ricercare sensazioni, emozioni, pensieri, conoscenze, esperienze che mi insegnino, mi arricchiscano, mi guidino nel cammino della vita. … Con tanta umiltà, credo, ho cercato e sto cercando di unire le due mani: una che ascolta ed una che racconta della vita. Ma che fatica !!!!!!!! Ognuno di noi ha la sua voce, la sua sensibilità, i suoi dolori, le sue ansie; ritengo che la condivisione di questi aspetti così personali permetta all’essere umano di abbattere qualche muro che si è eretto attorno e dentro di sé, piano piano nel tempo, con coraggio e buona volontà … Ascolti, ascolti e ti predisponi ad ascoltare sempre di più gli altri e te stesso e dopo un poco scopri che ascoltando i disagi e i conflitti dei tuoi compagni di gruppo sei puntellato meglio ad affrontare la quotidianità, a volte così cruda e violenta, che continuerà a farti male, ma non così in profondità, se lo vuoi.” “Mi si sono presentate diverse opportunità di conoscenza di me. Si è come aperta una finestra dalla quale vedo una persona in tutto il suo valore, che, se vuole (e vuole), può camminare e “crescere”. Vedo pregi e difetti con distacco, ma reali. Questa consapevolezza mi ha portato ad apprezzarmi di più.” “Ho iniziato a partecipare agli incontri nonostante mi preoccupasse la durata di quattro ore. Devo dire di essere stata molto contenta, il tempo passa sempre senza accorgermene. Ascoltare le altre persone è estremamente interessante, mi aiuta a capire meglio gli altri e a conoscere meglio me stessa. Essere ascoltati ed ascoltare con apertura di cuore è estremamente gratificante.”

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“Sulle prime ero intimidito all’idea dell’ingresso in un gruppo precostituito di sconosciuti. Lo stimolo finale è arrivato riflettendo che è tanto più usuale oggi imbatterci nel ”sentire” che nell’”ascoltare”. Io stesso, per primo, mi sono reso conto che, nel caso dell’ascolto, d’arte bisogna parlare, come di qualcosa che vada coltivato e affinato, vivendo in una società che corre e a malapena “sente” l’altrui e il proprio disagio e, a maggior ragione, è sorda rispetto ad un ascolto approfondito. … E’ innegabile, uno sforzo deve essere compiuto ogni volta all’inizio dell’incontro. La vita oggi ti risucchia in un tale vortice di decisioni (non necessariamente fondamentali!), di fretta, di impegni che si susseguono, che ritrovare la scansione necessaria all’ascolto e del sé e dell’altro non è risultato semplice.” “Gli incontri tendono a rasserenare e a fare partecipare le persone alla vita in comune: si impara ad abbandonare l’egocentrismo, ad accettarsi e a valorizzarsi, a saper chiedere aiuto, ad essere umili, ad ascoltare e ad accettare gli altri, rivolgendosi ad essi con serenità, ma anche con garbata fermezza. Si impara a liberarci dagli involucri che ci inducono a false credenze; si impara ad essere noi stessi nel contesto dell’umanità. Al termine di ogni incontro si esce liberati da quei fardelli che prima ci opprimevano, facendoci temere che non ci fosse modo di combatterli e di vincerli. La sensazione di liberazione forse, a volte, non dura fino al prossimo incontro, ma si mostra sempre un aiuto più che valido.”

“Avevo bisogno di confrontarmi, di riflettere, di approfondire, di “aiutarmi” … e questa mi si è presentata come un’opportunità. Vivere l’ascolto di me e dell’altro nelle varie sfaccettature che ogni incontro propone mi aiuta a dare spazio nella mia vita ad attenzioni e valori che mi fanno sentire bene. “ Ascoltare per comunicare bene quindi, ma anche per dare il giusto peso agli affanni quotidiani. Più si ascolta attivamente e più si impara o si approfondisce il proprio senso critico.

Ottobre 2002 (L’attività è al 13° anno – 2011/2012 – e si svolge nella Biblioteca Lame con il titolo “L’Arte dell’Ascolto – Incontri formativi per sviluppare la capacità di ascolto di sé e degli altri)

“Ovunque il guardo io giro/ immenso Dio ti vedo/ nell’opre tue t’ammiro...” versi di Metastasio

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L’ASCOLTO DEL SILENZIO Parlare bene Un dotto che un sabato era ospite della tavola di Rabbi Baruch gli disse: “Diteci parole di insegnamento, Rabbi, voi che parlate così bene!” “Prima che io parli bene”, rispose il Rav, “che io ammutolisca.” Da “I racconti dei Chassidim” di Martin Buber – Ed. Guanda I Chassidim, i saggi mistici ebrei che vivevano nell’Europa orientale fino agli inizi del secolo scorso, evidenziano in questo breve racconto l’importanza del ‘FARE SILENZIO’, situazione veramente favorevole per ascoltare ed esprimere parole importanti. E allora, perché non farne …

UN’IDEA PER TANTI REGALI!!!???

Potremmo preparare molti pacchetti (per davvero o nel nostro cuore) dorati, argentati, infiocchettati; vi poniamo con cura un poco di SILENZIO e li mettiamo accanto al presepe o sotto l’albero di Natale. Sarà un omaggio da dedicare a noi stessi, a coloro che amiamo e da utilizzare in parecchi momenti della giornata. Non costa nulla, IL SILENZIO, non si consuma, non passa mai di moda, è alla portata di tutti: Un po’ di SILENZIO dunque … Per prendere fiato fra tanto rumore … Per trovare il giusto ritmo nelle nostre parole … Per portare nel cuore persone e natura … Per sentire il nostro mondo interiore … Per dire ‘grazie’ a nostro Signore … Per lenire il dolore, provare consolazione … Per non dimenticare speranza e condivisione … Per ascoltare, ri-ascoltare, comprendere e ricominciare … Per ritrovare e coltivare la nostra umanità, liberata da competizione e da aggressività … Per non giudicare un discorso prima che sia finito … Per distinguere i momenti di discrezione e di intervento … Per apprezzare le voci piccole e quelle un po’ stentate … Per stemperare pregiudizi e presunzioni … Per scoraggiare chi ama turpiloqui e prevaricazioni … Per reagire a chi parla senza dire … Per non aggrapparci ai nostri pensieri … Per affrontare inquietudini e paure … Per viaggiare con la mente, sognare e risuonare … Per accogliere tutti i nostri colori … Potremmo preparare poi altri pacchetti, ugualmente decorati, importanti, ma questa volta conterranno tutto il SILENZIO da buttare a Capodanno per vivere più leggeri.

Per esempio, ci sarà tutto quel SILENZIO … Imbronciato, indifferente, punitivo o disattento … Tutto quel SILENZIO che impedisce di incontrare, ascoltare, rispettare … … perché sia l’AMORE a fare tanto, tanto, ma molto più …. “RUMORE”.

Dicembre 2002

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ASCOLTARE E PACIFICARE

SUL DIFFICILE CAMMINO DELLA PACE SULLA TERRA (Per un sostegno all'impegno permanente, dall'utopia alla pratica quotidiana)

Da "Aforismi e pensieri di Gandhi" - Tascabili Economici Newton La disobbedienza, per essere civile, deve essere sincera, rispettosa, mai provocatoria, deve basarsi su qualche principio assimilato con chiarezza, non deve essere capricciosa e, soprattutto, non deve precedere da alcuna malevolenza od odio. (Young India, 24 marzo 1920) La scienza della guerra conduce alla dittatura pura e semplice. La scienza della nonviolenza può condurre soltanto alla pura democrazia. (Harijan, 15 ottobre 1938) E' una bestemmia dire che la nonviolenza possa essere praticata solo dagli individui e mai dalle nazioni, che sono composte di individui. (Harijan, 12 novembre 1938) Il sentiero della nonviolenza richiede molto più coraggio di quello della violenza. (Harijan, 4 agosto 1946) Da "Pacem in terris" Enciclica di Papa Giovanni XXIII - 11 aprile 1963 ... 61. Occorre però riconoscere che l'arresto degli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse a un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull'equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. .... Da "Addio alle armi?" L'ultima conferenza di P.Ernesto Balducci - 22 aprile 1992 a S.Giovanni in P. (Bo) ...La convinzione da cui mi muovo per sostenere che è venuto il tempo per dire "Addio alle armi" si basa sulla constatazione .. che la specie umana è giunta ad un crinale nella sua ascesa, nella sua evoluzione, al punto dirimente. Lo aveva già intuito dopo l'esplosione di Hiroshima quel grande genio del secolo, anche un genio morale per la verità, oltre che scientifico, che è Albert Einstein. Dopo Hiroshima, egli disse che "tutto è cambiato nella storia, eccetto il modo di pensare" che, ahimè, lo vediamo oggi, nel '92 continua a essere come quello precedente a Hiroshima. Ormai non c'è che una prospettiva per delineare un'etica del futuro dell'umanità. Vorrei che assumeste in tutta la sua oggettiva intensità la formulazione einsteniana che, secondo me, è la fondazione del nuovo umanesimo: "uomini ricordatevi della vostra comune appartenenza alla specie umana e dimenticate tutto il resto". .... Quindi l'etica del futuro è un'etica planetaria in quanto assume come principio risolutivo di tutti i problemi il bene comune, non dell'Italia, dell'Europa, ma del genere umano come tale. Questo è un fatto nuovo, un'etica nuova, da cui ci difendiamo in mille modi ed è un'etica che mette in imbarazzo, anzi, direi che mette sotto giudizio radicalmente quello che si può chiamare il mondo moderno. Dal discorso di Papa Giovanni Paolo II all'Angelus di domenica 16 marzo 2003 Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest'esperienza: "Mai più la guerra!" Monito dei lavoratori della Ditta ACMA GD - Via Colombo - Bologna, posto all'esterno dell'Azienda allo scoppio della guerra contro l'Iraq - 20 marzo 2003 IL LAVORO NON VA IN GUERRA Da "Il domani" - 12 Aprile 2003 - Intervista a Don Nildo Pirani "Quella bandiera arcobaleno ha un solo significato: la pace, e quei colori li può avere usati chiunque, ma il primo è stato sempre Dio". "Vogliamo quella pace per cui si batte il Papa." Frase di Alice (4 anni) quando vede i pallini rossi sul teleschermo all’inizio di un film “Quetto film non lo guaddo pecchè c’è dento la guella!”

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Aforismi di Cesare Viviani (Psicanalista e poeta) pubblicati sul quotidiano Avvenire: Si stropiccia / gli occhi / il Bambino / Gesù / per vedere / meglio, / incredulo. / “Ma è / possibile! / Si / ammazzano / come / duemila / anni fa. / E parlano / tutti i giorni / di civiltà.” 22 dicembre 2001 Orrore / i terroristi / hanno ammazzato / degli innocenti. / Diamogli una / lezione / ai terroristi. / Ammazziamone / più di loro, / di innocenti. - 12 aprile 2003

Maggio 2003

LA GUERRA NEL CUORE (Volevo riportare alcune riflessioni sulla nuova terribile guerra che ha scosso ancora il

mondo e sugli atti di terrorismo sventati; volevo trovare parole, citazioni, per dire ancora dell’apprensione che, ormai a livello ‘planetario’, attanaglia tutti noi, quando ho trovato questo accorato articolo intitolato : Liberazione. E’ di Aldo Moro, ventinovenne, che scrive sulla rivista “Studium”, di cui era direttore, nel numero di gennaio-febbraio 1945. L’ho trovato toccante, e purtroppo, attualissimo.) “Siamo tutti in attesa di una liberazione. Questa richiesta, questa speranza, che corrono per tutta la vicenda della storia e danno ad essa un'ansia dolorosa, una perenne inquietudine, un bisogno di rivelazioni buone, sono soprattutto di questa tragica ora. Noi sentiamo il peso grave di mille oppressioni e la ferocia di questa storia umana senza umanità ci prende in una morsa alla quale non è possibile sfuggire. Chi può ricordare senza raccapriccio il terrore seminato nella nostra vita in mille forme, da tutte le parti, con una continuità implacabile, con uno zelo feroce? Chi può enumerare tutte le miserie di questa umanità dolorante; la morte che bussa alle porte di tutte le case del mondo, il bisogno che stringe senza rimedio, la lotta disperata per sopravvivere, le blandizie di una disonestà accettata per non finire, vinti dalla fame e dalla disperazione, in un mondo di bruti? Se la vita non è condannata ad un dolore senza intervallo e senza scampo, noi dobbiamo essere liberati. Ne abbiamo il diritto, perché siamo uomini che la morte non ha preso ancora; uomini ai quali la vita sorride, malgrado tutto, come una cosa bella e buona. Bellezza e bontà, certo, nascoste in un fondo impenetrabile quasi, ma che affiorano irresistibili, vincendo il dolore, con una promessa che non vuol cedere, essa, al dolore. In questo mondo cattivo noi aspettiamo una liberazione dal mondo. Questo, cui rinunciammo nella saggezza innocente del Battesimo, ci ha preso ancora e pesa su di noi. Vogliamo esserne liberati. Ma questo mondo è fatto da noi, uomini che andiamo intrecciando assurdi rapporti di odio, che andiamo disperdendo la vita che dovremmo salvare e svolgere in tutto il suo valore. Non possiamo essere liberati dal mondo, se non ci liberiamo da noi stessi. Ma chi ci libererà da noi? Noi sentiamo enunciare, mentre il mondo più soffre, un programma di libertà. Si domanda libertà dalla paura, libertà dal bisogno. Per questo ideale uomini hanno preso le armi (armi raffinate e micidiali di una tecnica sapiente), hanno preso le armi in tutti i paesi del mondo, per liberarsi dalla paura e dal bisogno, per liberarsi dalla ferocia e dal dolore. Per liberarsi dal bisogno, gli uomini lo accrescono smisuratamente e il terrore domina dove passano gli eserciti che son fatti di uomini; l'uno contro l'altro, fremendo alla vista del volto umano dell'avversario da uccidere. Per liberarsi dal dolore, gli uomini ne moltiplicano all'infinito la tragica esperienza.

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Dove giungono gli eserciti nel gioco alterno della vicenda di guerra, è come se fosse giunta la libertà. La vita vorrebbe sorridere ancora invitante. Tuttavia noi aspettiamo una liberazione. L'aspettiamo ancora, perché dove gli uomini si uccidono, la vita è sospesa ed attende, per tanto insopportabile dolore, una liberazione. L'aspettiamo ancora, perché la libertà dalla paura e dal bisogno è una piccola cosa di fronte a quello che, noi sappiamo, può donare la vita. Attendiamo di essere svincolati dal mondo e di ritrovare la nostra anima. Aspettiamo, in questo possesso di noi, che tutto quello che è buono, che è bello, che è vero si rivelino. Anche il dolore, che, accettato e tradotto in amore, promuove la libertà dello spirito. La più grande delle libertà, quella che è al vertice della piramide e anima e rende buone tutte le altre, è la libertà interiore che pone l'uomo,in purezza, di fronte a Dio, a se stesso, ai fratelli. Quella che esclude egoismi e ferocie e terrori e miserie, quella che conserva sempre una risorsa per superare i dislivelli paurosi della vita. Questa è la libertà dei figli di Dio. Mentre tutto è così oscuro, e le forze così poche, mentre diffidiamo di noi e degli altri, mentre la mèta appare sempre al di là del nostro sforzo per raggiungerla, conviene forse ricordare la preghiera dimenticata. "Liberaci, Padre nostro, dal male". Perché ci indirizzi in tanto disorientamento, ci conforti in tanta disperazione l'idea che la suprema liberazione dell'uomo è la vittoria sul male e che gli uomini non sono soli nel conquistarla".

La nuova cappella del Santissimo Sacramento (2010)

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ASCOLTARE PER CONOSCERE

LA COMUNITA' ECUMENICA DI BOSE (Osservazioni, dialoghi e letture)

Bologna, Milano, Santhià con il treno, poi con la corriera per Magnano: dopo sei ore e mezza di viaggio si arriva in una ridente zona collinare ai piedi delle Alpi, ricca di boschi e borghi antichi. A pochi passi dalla fermata della corriera si giunge ad una piana verdissima e assolata. Il Monastero di Bose vi sta nel mezzo. Lo annuncia un cartello e la meraviglia per l'impatto che procura la vista panoramica allarga subito il cuore. Alcune vecchie case sono state ben ristrutturate e costituiscono un piccolo villaggio senza chiavistelli ai portoni di accesso. La chiesa è di recente costruzione e ne domina la parte esterna La seconda costruzione moderna e bassa che si incontra è quella riservata all'accoglienza degli ospiti. Un primo disorientamento lo si prova nella ricerca di monache e monaci con abiti che li distinguano dagli ospiti. Invece vestono sobrie camicette e gonne ampie le donne, camicie e pantaloni gli uomini; sono i modi semplici e attenti con cui svolgono ogni servizio che li contraddistinguono. "Comunità ecumenica è una parola difficile" dice fratello Lino. "Per noi significa passione e sollecitazione per tutte le Chiese, per quanto danno di testimonianza di Cristo. La verità è Gesù Cristo e nessuno può dire che c'è una Chiesa che ha un primato. Quello della Chiesa cattolica romana è di carità, lavare i piedi, servire. La maniera di porsi di Dio è dal basso verso l'alto." La sua voce è pacata, ma i toni sono determinati. Continua fratello Lino, a Bose da venti anni: "E' quando si raffredda la carità che facciamo distinzioni, accampiamo pretese. Ma se le cose si fanno difficili, se vi sono debolezze, ciò dovrebbe essere occasione di comunione, anziché di difesa. Non riusciamo a metterci in discussione. Trovare persone più cristiane e farci portare sarebbe una grande esperienza. Invece di accampare diritti, occorre provare a sottomettersi reciprocamente." Il Monastero non riceve, per scelta, alcun contributo dalle chiese o dai privati; i monaci vivono del loro lavoro: dall'orto ricavano ortaggi e frutta per il cibo proprio e l'ospitalità, ma anche per le marmellate; le erbe per le tisane. Il miele è favorito da parecchie arnie collocate vicino a zone di ampia fioritura. Si occupano di falegnameria, di lavori in ceramica e di pittura di icone; dispongono di una tipografia. La ricerca biblica e catechetica sulla grande tradizione ebraica e cristiana e la traduzione dei padri della chiesa e dei padri monastici produce numerosi scritti, stampati a cura della casa editrice interna Qiqajon. Nel corso dell'anno a Bose si tengono corsi biblici, ritiri spirituali o giornate di riflessione; molti di questi sono registrati e offerti su nastro. Oltre al lavoro, non mancano preghiera, meditazione, studio, silenzio. Si può passare a Bose per ricercare un momento di intensa spiritualità che emana profondamente dalle persone e dall'ambiente, si può offrire la propria opera, riposarsi e partecipare ad incontri formativi. Traggo dalle loro pubblicazioni alcune delle cose che dicono di se stessi. La Comunità Monastica di Bose si definisce così: "una comunità di uomini e donne provenienti da chiese cristiane diverse, in ricerca di Dio nella preghiera, nella povertà, nel celibato, nell'obbedienza all'Evangelo, una comunità monastica nella compagnia degli uomini come spazio di incontro e di libertà." Il suo Priore è fratello Enzo Bianchi che individuò in una povera casa disabitata a Bose, frazione del comune di Magnano, il luogo per continuare le preghiere che condivideva da tempo con un gruppo di giovani torinesi. Mancava tutto: elettricità, fognature, acquedotto. Restò presto solo e visse approfondendo gli studi, la preghiera e accogliendo chi passava per momenti di silenzio e soggiorno. E' nell'ottobre del 1968 che si uniscono a fratello Enzo due giovani cattolici, un pastore riformato svizzero e una sorella della comunità riformata di Grandchamp. Oggi sono una sessantina. La comunità fin dall'inizio si è composta da fratelli e sorelle appartenenti a diverse confessioni cristiane, non per averlo voluto espressamente, ma, dicono, "per un grande dono del Signore". "Vivere radicalmente l'Evangelo" è la vocazione primaria, seguire l'esempio di

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Gesù come mezzo di comunione fraterna. Monaco significa "semplice" per l'ideale di semplicità e di unificazione interiore che lo contraddistingue. Padre Ernesto Balducci nel 1970 scriveva della costituzione del piccolo gruppo di cristiani di diversa confessione che aveva occupato poche povere casupole a Bose e annotava: "C'è la fede paradossale di questi amici che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il cristianesimo di domani." L'ospitalità è praticata fin dalle origini della vita monastica. I motivi che spingono credenti e non credenti, gente a volte ai margini della società o della chiesa a soggiornare a Bose sono molteplici, ma unico è l'atteggiamento con cui i monaci cercano di accoglierli. Il monaco si esercita nell'arte del discernimento del volto di Cristo nell'ospite e a far emergere, nel mistero grande dell'incontro con l'altro, il Cristo nascosto ma presente in ogni uomo. Ciò rappresenta un ministero di accoglienza e di ascolto, di consolazione per chi è nella prova, di solidarietà per chi è emarginato. A tale atteggiamento sono chiamati pure a tutti gli ospiti (ne arrivano anche ottanta e più contemporaneamente): "Amico, ospite o pellegrino, .... Qui troverai cristiani di confessione, di tendenza e di sensibilità diverse, uomini non credenti a volte preoccupati della situazione sociale e politica e anche uomini e donne con un tipo di vita che forse non approvi: cerca di vedere in essi il volto di Cristo, non ferire nessuno e cerca di ascoltare tutti fino a capire ciò che più brucia nel loro intimo. Sono tuoi fratelli, uomini come te: se li ascolti, non li troverai tanto diversi da sentirli avversari. Per il tuo soggiorno la comunità non esige nulla: nessuno deve essere escluso da questo luogo per motivi economici ... Però, se puoi, lascia un contributo per le spese nella cassetta all'ingresso, senza nome, perché il tuo contributo sia sottratto a ogni controllo e curiosità. Terminato il soggiorno qui, non disdegnare di raggiungere la vita di ogni giorno: Dio vuole fare di te uno strumento, un testimone che porti il messaggio dell'evangelo là dove vivi, nella tua famiglia, nel tuo ambiente, nel tuo lavoro, nel tuo riposo, nella tua chiesa locale. Tu non sei venuto qui per evadere, ma per riconfermarti nella fede e nell'impegno a favore dei fratelli con cui vivi." (dal foglio lasciato nelle camere)

Luglio 2003

EPICLESI (Invocazione) – Opera scolpita in marmo, Comunità Ecumenica di Bose (2011) (Provincia di Biella – Piemonte)

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NOI SIAMO UN COLLOQUIO Molto ha esperito l’uomo/ molti celesti ha nominato/ da quando siamo un colloquio/ e possiamo ascoltarci l’un l’altro. ( brano tratto da una poesia di Friedrich Holderlin)

Sono stata recentemente testimone presso il Centro Diurno Psichiatrico del Dipartimento di Salute Mentale (Azienda USL di Bologna Sud), situato a Casalecchio di Reno, di un movimento importante: si è formato il coordinamento dei gruppi di auto-mutuo-aiuto e di varie esperienze riabilitative presenti soprattutto nei distretti di San Lazzaro e Casalecchio (che comprendono anche i Comuni di Bazzano, Anzola, Zola, Sasso M., Monteveglio, Vergato …), ma anche a Bologna. Questa realtà, che si sta provando a censire e che per ora è unica nel bolognese, è collaterale alla gestione dei Servizi dell’Azienda sanitaria, ma rappresenta una possibilità di riabilitazione e di sostegno coadiuvante. Spesso è il vissuto personale che offre la spinta per trattare problematiche come le malattie mentali e le dipendenze.

Periodicamente medici, operatori, pazienti e familiari si incontrano per confrontare le

loro esperienze. Si respira un clima di grande fiducia e autonomia e si sprigiona da questi momenti un fermento vitale che evidenzia come la sofferenza non sia solo uno scacco esistenziale; essa può essere trasformata in aiuto e ricchezza, perché tutti siamo una risorsa, anche nella difficoltà: con l’auto-mutuo-aiuto si parte da bisogni e interessi comuni e si cerca di migliorare la qualità della propria vita in un clima amicale e paritario. Sono promossi anche momenti formativi: per esempio quello che riguarda la figura del facilitatore per la gestione della comunicazione all’interno dei gruppi.

E’ anche in questo modo che ci si accompagna e non ci si rassegna, anzi si reagisce pure alla mentalità ghettizzante e stigmatizzante della paura e all’indifferenza dalle quali sono circondati i malati e le loro famiglie in molte occasioni e che non fanno che aggravare una situazione già critica.

“Un malato di mente è una persona come tutte le altre, che esprime e prova sentimenti, che chiede di essere amata e rispettata come ogni essere umano. L’emarginazione, l’abbandono, il rifiuto, lo fanno sentire diverso ed inutile, provocando in lui una chiusura e una ribellione che ostacolano le possibilità di cura e di reinserimento. L’accoglienza e l’amicizia gli ridanno dignità e speranza.” E’ il monito dell’associazione A.I.T.Sa.M. (Associazione Italiana Tutela Salute Mentale) che ora, con il “Gruppo Speranza”, opera nel bolognese.

Trattare con un paziente psichiatrico è una delle cose più ardue perfino per chi lo ama.

Vivere i suoi silenzi, l’abbandono della realtà, le fantasie e gli improvvisi sbandamenti, comporta anche il confronto con la sua profonda sensibilità disorientante, soprattutto perché sconosciuta.

Da questi movimenti, dal linguaggio dis-armato e intenso utilizzato per parlare di sé e dei problemi affrontati da parte di tutte le persone intervenute agli incontri ai quali ho partecipato, arriva un ripetuto (indilazionabile) invito a provare ad ascoltare in modo più attento quella quotidianità misteriosa, quelle infinite luci ed ombre che l’essere umano condivide con altre esistenze, a coltivare una semplicità di relazione paziente (Quanti rapporti frettolosi coltiviamo? Quante situazioni tendenti al “successo” ricerchiamo?) che è la sola a porci in armonia con l’esistente e a permetterci di accogliere il dono della vita.

Aprile 2004

Dati aggiornati al 2011: per avere notizie più dettagliate di questa utile realtà anche su

altre tematiche: alcolismo, dipendenze affettive, conflitti familiari, genitorialità, giovani in difficoltà, donne operate al seno,… gli interessati possono rivolgersi alla Segreteria Facilitante della rete di coordinamento, messa a disposizione dall’Ausl, (Tel. 0516574267 - Cell. 3492346598), oppure visitare il sito: [email protected]. Dal 2009 il Gruppo di Ascolto e di Auto-Mutuo aiuto ‘Crescere Insieme’ sull’adolescenza è attivo nella nostra zona. Dal settembre 2011 gli incontri si tengono presso la Biblioteca Lame.

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LEGGERE

SOGNI E FUTURO

Lo spunto è tratto dalla cronaca della disavventura capitata ad un ragazzo inglese di Spondon, colpevole forse di coltivare un sogno diverso da quello dei suoi coetanei undicenni; Kristopher vuole diventare un ballerino di professione.

Da tempo attorno a lui l’atmosfera non era molto serena. Alcuni compagni di classe, molti con la passione per il calcio, gli tiravano spesso dei brutti scherzi e lo trattavano a male parole per questa sua scelta, finché agli inizi di gennaio uno di loro, cogliendolo di sorpresa mentre giocava in cortile, gli è passato sui piedi con la bicicletta spezzandogli quelle ossa delicate ed assieme, probabilmente, la speranza di coronare il suo sogno. Si potrà intervenire chirurgicamente, ma forse non prima che Kristopher abbia compiuto sedici anni. (dalla cronaca di Popotus – Avvenire, 11 gennaio 2003)

Un sogno così “fisicamente” spezzato pone parecchi interrogativi: l’accanimento a riportare il movimento fisico di Kristopher a consuetudini comuni è diventato addirittura fanatica persecuzione e aggressione; pare che i suoi compagni abbiano attivato un “controllo” della diversità, un lavoro psicologico rovesciato rispetto all’abituale spinta all’autonomia degli adolescenti. Il cosiddetto “controllo sociale delle devianze” inizia dalla famiglia, ma sarebbe importante che coincidesse con la comune educazione all’indipendenza e al buon comportamento nelle relazioni.

I ragazzi cercano solitamente di andare oltre gli insegnamenti acquisiti, entrano in conflittualità con i genitori e le figure adulte di riferimento per farsi scopritori, tentare di portare cambiamenti nel mondo circostante e proporre novità personali; le loro proposte possono apparire a volte “strane” o tentativi di mettere alla prova l’interlocutore.

Ma come può avvenire che già altri adolescenti non condividano a tal punto le scelte

“diverse” di un coetaneo? Un caso isolato? Conviene però chiedersi: quale valore diamo ai sogni nella nostra vita?

Già in un suo libro, scritto circa venti anni fa, dal titolo “Cosa farò da grande”, Furio Colombo riportava l’osservazione di un quattordicenne francese che rispondeva ad una inchiesta sui ragazzi ed il futuro: “Io non so – diceva il ragazzo - se tutti vogliono la stessa cosa e se tutti hanno le qualità per farcela. Io vedo tra i miei compagni gente molto diversa, con tanti caratteri, sogni e speranze, come si legge nei libri. Poi ad uno ad uno scompaiono e stanno zitti. Si vestono tutti uguali, camminano tutti uguali, ballano tutti uguali e lasciano perdere. Io credo che nel nostro gruppo ci siano molti Mozart assassinati.”

Invece di essere testimoni con la propria vita unica e far sentire la propria voce si ammutolisce? C’è forse un meccanismo sociale, non scritto, di omologazione attraverso il quale si riconoscono solo certi comportamenti, certe attività? Quale tipo di paura ingenera una diversità, anche minima, per arrivare a tanta violenza? In quali altri modi più sottili sono soffocati lo stupore, il fuoco e il desiderio di percorrere strade trasversali?

Il sogno, se nella tendenza generale è trattato come illusione, se una mentalità razionale vede solo i fini materiali e la realizzazione economica dell’individuo, non è più desiderio, né forte propensione vocazionale, da osservare con serietà e fiducia, e da aiutare a coltivare. La realizzazione personale, il buon inserimento sociale di ognuno sarebbe auspicabile per tutti; ne ricaveremmo un senso di appartenenza e soddisfazione più diffuso. E sarebbe un grande aiuto per la pratica spirituale, perché i doni distribuiti a ciascuno non restino gelosamente chiusi nella persona, ma siano posti al servizio della comunità, a ciò destinati dallo spirito che li elargisce, come ricorda Paolo nella sua prima Lettera ai Corinzi.

Febbraio 2003

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IL CAMMINO DELL’UOMO Da una conferenza del 1947, di Martin Buber, ed. Quiqajon - Comunità di Bose L’autore parla dell’uomo e del suo rapporto con se stesso, con gli altri uomini, con il mondo e con Dio, con preoccupazione pedagogica.

Buber si rifà ai noti racconti chassidici, di profonda spiritualità ebraica, di cui lui stesso è un notissimo divulgatore (vedi “I racconti dei Hassidim” ed. Guanda o Garzanti); essi narrano in modo leggendario di uomini appassionati, gli zaddikim (tradotto in “coloro che hanno provato ad essere giusti” – il movimento chassidico è il movimento degli entusiasti, dei fedeli all’alleanza) che vissero nell’Europa orientale nel periodo dal 1700/1750 in poi.

Il proposito spirituale dei racconti è quello di trasmettere entusiasmo e fervore in ogni pratica quotidiana.

Il libro è diviso in sei brevi capitoli. Incomincia con: “Ritorno a se stessi” che presenta il racconto di un uomo che desidera conversare con un rabbino provando a smascherare una contraddizione nelle credenze ebraiche. Come interpretare che Dio dica ad Adamo: “Dove sei?” chiede l’uomo. “Credete che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?” chiede a sua volta il rabbi. “Sì, lo credo” risponde l’uomo. “Ebbene” continua il rabbino “in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’”

Non si creda che tale dialogo tratti un tema rivolto solo a persone credenti. Ciascuno può trovare in se stesso queste domande in molti momenti della sua vita. Sono le domande decisive per il cammino interiore.

In questo modo, quella che è iniziata come una chiacchierata chiarificatrice, più intellettuale, che impegnata profondamente e spiritualmente, porta l’uomo che domanda, e si aspetta una risposta da un ‘esperto’, a trasformarsi in un uomo che si interroga e che cerca in sé la risposta: “Dove sei nel tuo mondo? Cosa nei hai fatto dei tuoi giorni?” Ecco l’intento formativo del ‘maestro’: non nasconderti, non ti dichiarare impotente, cammina, cerca, anzi ‘cercati’. Nel mondo futuro non ti si chiederà “Perché non sei stato Mosè?” bensì: “Perché non sei stato te stesso?” Perché non sei stato Mario, Anna, Loredana, Carlo … ? E’ un invito ad essere un originale, unico testimone di vita, autentico, consapevole che la trasformazione del ‘mondo’ (inteso anche come ambiente vicino a sé) può avvenire soltanto attraverso la propria lenta trasformazione, piccola in apparenza, ma fondamentale. E’ un invito ad essere unità, un tutt’uno corpo e spirito, a realizzare la propria ‘sacralità’. Qui ‘anima’ ha lo stesso significato di ‘uomo intero’, corpo e spirito fusi assieme.

Il rabbino non ‘spiega’, ma riporta l’uomo che lo interpella ad una riflessione su di sé, lo invita all’esperienza. Non prendere tante scorciatoie, sembra voler dire; la domanda che il saggio rinvia all’interlocutore è provocatoria, ma può permettergli di raggiungere la comprensione di sé e, conseguentemente, il passo biblico. La domanda ‘ribaltata’ può turbarlo, rendere inutile il suo nascondimento, le sue difese intellettualistiche e razionali e far nascere in lui il desiderio di ‘venire fuori’ e di mostrare la sua unicità.

Può anche avvenire però che l’uomo voglia proseguire facendo finta di nulla, poiché egli è capace di dominare le emozioni del cuore. “Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque ‘il cuore tremerà’, come succede all’uomo del racconto.” … “La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo: è ‘la voce di un silenzio simile a un soffio’, ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino.” Adamo, nel passo biblico, mostra di ascoltare la voce e di affrontarla, tanto che confessa “Mi sono nascosto”. Riconoscerlo è pertanto un passo decisivo. Il capitolo “Il cammino particolare”, inizia con un altro racconto chassidico in cui un allievo interroga il proprio maestro su quale cammino debba compiere. E il maestro gli ricorda

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che: “… E’ compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze.” Non occorre imitare i maestri più grandi, bensì cercare il nuovo, ciò che resta ancora da fare:. “Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo.” …“l’uno quella dell’amore, l’altro quella della forza, il terzo quella dello splendore.”… “Siamo qui in presenza di un insegnamento che si basa sul fatto che gli uomini sono ineguali per natura e che pertanto non bisogna cercare di renderli uguali.” E’ possibile raggiungere ciò che c’è di prezioso in ognuno di noi e in nessun altro, se vi sono schemi sociali che tendono soprattutto ad omologare, a livellare, a rendere simili, o ‘normali’? “La nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore: al contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro …” Nel capitolo sulla “Risolutezza”, veniamo messi in guardia dal camminare a zigzag nella nostra interiorità; l’andirivieni, l’avanzare e indietreggiare, gli inciampi, i ripensamenti possono essere frequenti: ci si accorgerà di sentirsi impotenti, contraddittori, complicati. Ciò avviene perché non siamo unificati, ma molteplici e ‘sfilacciati’. Né l’ascesi può provocare unificazione: può purificare, concentrare, ma non può proteggere l’anima dalle sue contraddizioni. Né l’unificazione dell’anima può mantenersi definitivamente.

Però ogni cosa che si fa con animo unificato aiuta a raggiungere un’unificazione più elevata, finché “si giunge a un punto in cui ci si può affidare alla propria anima perché il suo grado di unità è ormai così elevato che essa supera le contraddizioni come per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena.” Nel capitolo “Cominciare da se stessi” la pedagogia di Buber si rifà ad un racconto chassidico nel quale un Rabbi di nome Isacco è in conflitto con la moglie che per lui rappresenta una fonte di tribolazione. Consulta allora il suo maestro Rabbi David per chiedergli se deve opporsi o meno a sua moglie. E questi gli risponde: “Perché ti rivolgi a me? Rivolgiti a te stesso!”

“Questo racconto” scrive Buber “tocca uno dei problemi più profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini.” Di solito spieghiamo le manifestazioni del conflitto con i motivi riconosciuti coscientemente dagli antagonisti, oppure descrivendo situazioni e processi oggettivi nei quali le due parti sono implicate; ancora si cercano i processi inconsci, considerando i conflitti come sintomo di una particolare ‘malattia’ interiore. “L’insegnamento chassidico … rimanda la problematica della vita esteriore a quella della vita interiore. Ma ne differisce in due punti essenziali …” “… non tende ad esaminare le difficoltà isolate dell’anima, ma ha di mira l’uomo intero.” La separazione di alcuni elementi o processi parziali impedisce la comprensione della totalità, e solo questa comprensione può portare ad una trasformazione e ad una reale ‘guarigione’ prima dell’individuo e poi del rapporto tra lui e gli altri.

Ciò non impedisce che i dettagli siano presi in considerazione, ma nella loro connessione vitale con l’unità. L’uomo è sollecitato a ‘rimettersi in sesto’ rendendosi conto che “le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove…” Per sua natura l’uomo cercherà di eludere questo passaggio, pretendendo che anche l’altro attore del conflitto faccia la sua parte. “Ma in questo modo l’uomo è soltanto un individuo di fronte al quale stanno altri individui e non una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo.” E’ proprio questo errore che l’insegnamento chassidico cerca di correggere. “Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero.” Ma bisogna desiderare profondamente la svolta, la trasformazione, soltanto così l’uomo può ritrovarsi.

Se il conflitto con gli altri ha sempre la radice in se stessi, solo nel “ritorno”, con una svolta di vita, si può raggiungere l’autentica apertura della relazione IO-TU. Solo con un

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cammino personalissimo, perseguito risolutamente; ma a quale scopo ‘ritornare’, unificarsi, identificarsi? Non per se stessi, ma per gli altri, per il mondo. E’ vero che la ricerca interiore potrebbe far temere risvolti egoistici, un’esasperata torsione il cui centro potrebbe restare l’IO. Ma non lo si potrebbe certamente chiamare ‘cammino’, laddove è evidente che ciascuno di noi, ciascun IO, se non si mette in relazione con un TU, un altro da sé, resta esiliato nel suo egocentrismo.

Si arriva pertanto al quinto capitolo: “Non preoccuparsi di sé”. “Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé.” Durante il ‘ritorno’ può succedere di pentirsi per il ‘male’ provocato che si riesce a riconoscere, ma il ‘ritorno vero’ non si ha nella fustigazione del proprio spirito pensando incessantemente di avere assai poco espiato. Riconoscere i propri limiti, mantenere il desiderio di migliorare, di correggersi, ma dedicarsi piuttosto ad “infilare perle per la gioia del cielo!” è l’invito e la meta determinante per l’uomo. Ma dove sviluppare tutto questo? “Là dove ci si trova” è la conclusione. “La maggior parte di noi giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che noi abbiamo assaporato il compimento dell’esistenza, che la nostra vita non è partecipe dell’esistenza autentica, compiuta, che è vissuta per così dire ai margini dell’esistenza autentica. Eppure non cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun’altra parte, che si trova il tesoro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’esistenza messo alla mia portata.”… “E’ qui, nel luogo preciso in cui ci troviamo, che si tratta di far risplendere la luce della vita divina nascosta.” … “Nessun incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto … da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta, sgorga, giorno dopo giorno, un’acqua di vita che irriga l’anima.”

Dicembre 2006

L’ARTE DI ASCOLTARE di Plutarco Ed. Oscar Mondadori (Ovvero l’ascolto quotidiano) Ci sono piccoli libri come questo “sempre verdi”, sempre attuali perché parlano dell’uomo e delle difficoltà che in ogni tempo deve affrontare. Plutarco di Cheronea, filosofo ed educatore greco, lo scrive attorno al 90 d.C. e lo indirizza ad un giovane che sta per accostarsi agli insegnamenti filosofici, dopo quelli che oggi chiameremmo gli studi secondari.

L’autore è convinto che la virtù si possa insegnare, che non sia un concetto astratto, ma l’armonia e la misura della vita. Non si tratta di una disposizione eroica in poche anime elette, ma è il frutto di un progressivo formarsi della coscienza morale. C’è una via da seguire, lunga e impegnativa, scandita da tappe obbligate, la prima delle quali è la conoscenza di sé, dei propri vizi e difetti, delle proprie passioni. E i mali dello spirito sono più insidiosi di quelli fisici, poiché è più difficile averne coscienza; la filosofia è medicina per l’anima, riporta Giuliano Pisani nel commento che accompagna il testo di Plutarco. E l’arte di ascoltare non è una meta irraggiungibile. “E la natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola, perché siamo tenuti più ad ascoltare che a parlare.” Partendo da questa semplice evidenza naturale, Plutarco enuncia principi pedagogici di grande importanza e di straordinaria modernità, con una semplicità di linguaggio coinvolgente.

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Nel nostro animo siamo capaci di trovare grande apertura e generosità, ma anche fragilità ed egoismo. Come dare risalto alle potenzialità migliori e come affrontare le debolezze attraverso l’ascolto? Plutarco suggerisce di fare attenzione agli impulsi ed alle azioni che nascono da immaturità e da falsi ragionamenti. “I più … sbagliano perché si esercitano nell’arte del dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare.” L’invito è a guardare in se stessi, partendo da situazioni di dialogo o di partecipazione a discorsi o a lezioni. Nella parola infatti sono insiti danni e vantaggi grandissimi. L’arte di ascoltare e quella di parlare vanno attuate con impegno, senza improvvisazione e con misura. “I buoni educatori rendono sensibili alle parole le orecchie dei ragazzi insegnando loro a non parlare molto, ma ad ascoltare molto.” “Il silenzio … è ornamento sicuro … in ogni circostanza” ma in particolare porta ad evitare di agitarsi o di abbaiare ad ogni affermazione (dell’interlocutore) e anche se il discorso non è troppo gradito, (l’ascoltatore) pazienta e attende che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione … Chi si mette subito a controbattere finisce per non ascoltare e non essere ascoltato.” Il giudizio va prima trasferito da chi parla a noi stessi, è il monito di Plutarco, per ascoltarci e valutare se anche noi non cadiamo inconsciamente in qualche errore dello stesso genere. La domanda da farsi è: “Sono forse anch’io così?” In questo modo la risonanza di ciò che l’altro ci rimanda, aiuta ad ascoltarci. Inoltre si può trarre profitto sia dai buoni che dai cattivi discorsi: “Non è difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da un altro, anzi è quanto mai facile; ben più faticoso invece, è contrapporne uno migliore.” Occorre quindi immergersi e coinvolgersi nel discorso, i cui “esiti felici” non dipendono dalla fortuna, ma sono frutto di applicazione, di duro lavoro e di lunga osservazione. Insomma occorre farne esperienza nel modo più pieno. Come disporsi all’ascolto con partecipazione? Come e quando porre domande all’interlocutore? Come accogliere un rimprovero e come reagirvi? Cosa attendersi dal discorso di una persona?

Sono altri dei molti argomenti de “L’arte di ascoltare”, testo semplice ed arguto che non

suggerisce mai atteggiamenti denigratori, né facilmente inclini all’ammirazione, ma nemmeno invita ad essere ingenui e succubi. Un buon ascolto non è quello che subisce le parole altrui, ma vi porta rispetto e tuttavia cerca di esercitare una critica attenta e severa dell’utilità e della veridicità di quanto è detto, ascoltando anche i propri limiti, assieme ai punti propositivi e all’umanità altrui; una testimonianza quindi di un uso “altro” delle nostre possibilità psichiche, di determinazione dei valori, un invito a vivere con dignità l’ascoltare e il dire. La somiglianza delle nostre fatiche nei rapporti con noi stessi e con gli altri rispetto a quelle presentate dall’autore, così lontane nel tempo, fanno risultare il testo molto interessante. Molte di più sono oggi le sollecitazioni al “non ascolto”, forse proprio, paradossalmente, perché le parole e le immagini che udiamo e vediamo sono così tante che possono creare una sorta di ingorgo mentale e togliere quel respiro interiore che possiamo ritrovare prendendoci spazi di comprensione e tempi più ampi e più lenti di quanto la “corsa quotidiana” permetta se l’assecondiamo. Quante volte udiamo discorsi che si rifanno a luoghi comuni poco meditati attraverso l’esperienza? Quante parole arrivano come schiaffi o come sassate alle nostre orecchie perché pronunciate frettolosamente? Che fare? Possiamo ancora leggere le ultime righe dello scritto di Plutarco che raccomanda, non di attenersi alla lettera delle sue riflessioni, ma di “… esercitarsi nella ricerca personale, per acquisire un abito mentale … profondamente radicato e filosofico, considerando che il saper ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene.”

Gennaio 2007

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LA FORMA DELLA VITA di Cesare Viviani, ed. Einaudi (Un invito alla lettura del libro di poesia di Cesare Viviani, poeta di quarantennale esperienza, ritenuto figura di grande rilievo nella poesia del secondo novecento; Mondadori gli ha dedicato un’antologia per gli ‘Oscar Poesia del ‘900’ due anni fa.) Saper dipingere con le parole era il sogno dell’autore; provarsi ad eguagliare la fortuna dei pittori “di entrare in una cappella o in una stanza di palazzi patrizii e di lavorare per anni ad affrescarle.” Ed ecco le sue ‘pennellate poetiche’. Viviani ha iniziato ad “affrescare” alcune scene comuni di vita negli ultimi cinque anni: “i tempi di permanenza in una stanza”. Il poeta li descrive come i tempi utili per vivere un’intensa esperienza “coniugata con la durata e la distanza giusta dal fuoco per sopravvivere alla prova e mantenere la forza inventiva, e con l’umiltà di un’esperienza che occupa per lungo tempo la vita costringendola a quella verità che è la concentrazione in un solo interesse, in un solo punto”. In questo ‘luogo’ Viviani presenta al lettore molte persone, chiamandole con nome e cognome, “attraverso le frasi semplici, quelle più presenti nei dialoghi quotidiani” per rappresentarne i molti modi di pensare, di vivere, di amare, di parlare delle proprie fatiche. La sua penna/pennello rappresenta immagini che si fanno scoperta, ma anche situazioni note della vita comune. La narrazione poetica è tesa a tratteggiare, non già i connotati esteriori delle persone ritratte, bensì quelli interiori, cioè le caratteristiche psicologiche di personaggi e situazioni; ogni esistenza esplorata è estratta dalla “massa” umana, portata alla luce con una capacità di sintesi, di ironia e di arguzia magistrali, qualità del resto ben note nella sua scrittura. Nello stesso tempo al suo pensiero poetico non manca mai la preoccupazione, la compartecipazione, la compassione per il ‘cuore’ della gente, caratteristica della ricerca di vita dell’autore, poeta e psicanalista; così queste persone (una settantina) si sfiorano tra di loro, si affiancano, passano oltre. Perché darsi tanta pena? “C’è il tempo dell’azione, non c’è / lo spazio della riflessione”. Allora questa scrittura permette di ritrovare capacità di osservazione, tempi più lunghi di riflessione e di consapevolezza. Viviani è stato molto vicino a un grande maestro del Novecento, Mario Luzi, e nella sua opera sembra applicare e condividere quanto Luzi scriveva ne “Le parole agoniche della poesia” edito da Alfabetica. Egli diceva che funzione del poeta è di preservare il senso della parola “attraverso un mondo che fa di tutto per alienare l’uomo, alienando anche le parole dell’uomo, svuotandole e declassandole a puro segno, puro lemma o fonema senza più significato. Può accadere allora che la parola sia astratta e non abbia più dentro di sé il caldo della sostanza della cose che dovrebbe nominare: perché l’uomo le sue cose le nomina, volendole e amandole dà loro il nome.” Ciò che diciamo e facciamo riporta alla nostra forma interiore, ricca o limitata; vale quindi la pena di porvi molta attenzione. Scrive Viviani: “Una gioia molto intensa è temuta / perché può spazzare via ogni interesse / per le cose pratiche, i compiti, gli impegni presi. / Si aggirava una donna per le periferie, / felice di avere tanto amato, indifferente / a ogni richiesta, insensibile a qualunque affare: / lei aveva appreso la scienza delle scienze, / il sapere più vero, quello che è inscritto / nel flusso del sangue, nelle funzioni degli organi.” Possibile che si arrivi ad allontanare la “gioia”? C’è da dubitare di se stessi! Eppure ”..l’immersione nell’attività / fa perdere la capacità di amare, / perché anche l’amore diventa un affare.” La sua parola poetica non è consolatoria, ma riguarda tutti e la comune fatica del vivere. Non offre rime, come abitualmente potrebbero essere intese – questo poema è molto vicino alla prosa - ma offre ritmi e musicalità; e se la ritmicità è piuttosto tesa nel corso della narrazione umana, essa pare invece distendersi quando le parole descrivono panorami naturali, quieti e accoglienti dell’esistenza, come forse soltanto la natura può fare, se non manipolata: “Il vento porta via parole come ‘possedere’ “. Sembra peculiare di questo poema la combinazione della ricerca artistica con quella filosofica, sociologica e psicologica – ed anche storica; se tra venti anni ci si chiedesse come

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eravamo alla fine del ‘900, questo libro potrebbe fornire molti indizi sul panorama delle relazioni, dei desideri, dei luoghi comuni, della religiosità, del rapporto con il lavoro, con gli affari; un tentativo di cogliere una coralità di un’epoca il cui sviluppo è collocato soprattutto nella città di Milano. E se il titolo, “La forma della vita”, poteva apparire desideroso di definire una “forma” per tutte, ci si rende ben presto conto che “la forma” sfugge continuamente, si immerge nelle “tante forme”, che le molte pennellate, le molte sintetiche forme, rimandano alle infinite sfaccettature “della vita”, senza l’intento di esaurirle. Anzi, favoriti da tanta ricchezza, è forse possibile praticare un esercizio: partendo dall’esempio dei testi di Viviani, si può continuare ad osservare e a delineare altri ritratti, altre forme, a dipingere quella vita di cui siamo parte. Se ‘il mondo è bello perché è vario’, esso è anche materia di studio appassionante. Aprile 2007 Il bosco dice se stesso: si dice come sottile pellicola di verde che ricopre la terra e che sopra ha l’infinito dell’aria, della luce. Lègge il sole la terra, la terra il sole, corre il lettore verso la fine. Si dicono gli alberi, le foglie, i massi del monte una storia senza la fine, senza fine: una storia senza le parole, o dove le parole non dicono la storia ma cadono di continuo come le foglie. E oggi la violenza più temuta non è quella contro le persone, è quella contro i beni di proprietà, i soldi, gli oggetti: perché rappresentano la vita, la fatica del vivere, lo sforzo del lavoro e del guadagno, sono la vita, ahimè è tutta lì la vita! Richiede più attenzione il nemico che l’amico – per quanto il primo è aggressivo, nocivo e portatore di morte. Richiede più affezione: più intenso l’animo che gli si dedica. Per questo motivo –pensava Michele – uno guasta le amicizie, comincia a sentire ostili le collaborazioni, spezza gli amori: per risuscitarli. Non c’è storia d’amore memorabile quanto una storia di amicizia profonda, perché non la familiarità o la riconoscenza, ma il sentimento di parità tra due amici è il più soave e potente, è ineguagliabile. Oh pensare e giudicare gli altri secondo la propria esperienza! Ma sì, non si può fare appello che alla propria, risponderanno i lettori che hanno sempre mirato / al possesso dell’esperienza.

Ogni giorno che passa senza una guerra presente, sarebbe da festeggiare la pace con riti di ringraziamento. Altrove si continua a combattere: come se il Dio sconosciuto di ciascun popolo – non quello riconosciuto e pregato – fosse lui a combattere, a spingere irresistibilmente l’uno contro l’altro. Oscure divinità si combattono, mettono in campo gli uomini. I residenti non capivano niente della presenza degli immigrati, niente della loro vita e si chiedevano: “Ma cosa ci fanno qui questi stranieri?” In fondo al cuore provavano ribrezzo, ostilità, si sentivano invasi. Fioccavano i luoghi comuni: “Il tempo in cui si poteva stare in casa con la porta aperta” / o “Sono fannulloni, venuti qui solo per rubare”. Ma c’erano anche coloro che, sapendo che siamo tutti figli di Dio, si fermavano a parlare con loro per strada, a sorridere, e tornavano a casa compiaciuti di quella sosta. Si illudevano di capirli – Mentre non si capiva più nessuno ormai, nemmeno i più vicini, i figli, perché non si riusciva che a considerare e a sentire i propri bisogni. Alfredo Galli non sopporta i poveri, non sopporta i ricchi, né la modestia insinuante degli uni, quello strisciare che non si arresta di fronte a niente, né la sicumera intollerante degli altri, quel rifugiarsi nell’orgoglio di fronte a qualunque condivisione. Non sopporta i clienti, e nemmeno la vecchia donna delle pulizie. / E deluso si conforta con il pensiero delle sue collezioni.

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ASCOLTARE LA ‘PAROLA’

LA DOMENICA E’ FESTA!

“Senza la domenica non possiamo vivere” è il titolo del Congresso Eucaristico Nazionale che si è tenuto a Bari nel maggio 2005. La vita pratica dovrebbe prendere stimolo dalla vita spirituale.

(Sul tema dello Shabbat (nome ebraico per indicare il Sabato Santo, per il calendario gregoriano e per i cristiani, la Domenica), riporto alcuni appunti delle lezioni tenute da André Wénin, docente di Antico Testamento e di lingue bibliche della Facoltà di Teologia della Università cattolica di Lovanio (Belgio), a Bose, comunità monastica ecumenica, agosto 2004.)

Nelle dieci Parole del Decalogo (Comandamenti o Legge), il RIPOSO è centrale. Perché? Vediamo in Es 20 e in Deut 5, nel quale sono riprese, che Dio ci interpella dandoci del

TU, un modo che riporta ad una vicinanza, ad una confidenza, e le Parole servono proprio per invitare a non fare cose contro la propria libertà, prima che contro Dio. Infatti esse sono offerte a un popolo libero di scegliere se aderirvi oppure no, non a uomini inermi o plagiabili.

“ Sei giorni servirai e farai tutta la tua opera; ma il settimo giorno è Shabbat, per

Adonai tuo Dio: non farai alcuna opera, tu e tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua domestica …” (Es, 20, 9-10); fa seguito il rimando a ciò che lo stesso Dio ha fatto dopo aver creato il mondo, descritto in Gen 2, 2: “Allora Dio … cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro.” Il Signore si ASTIENE. Precedono e seguono questo precetto, altre Parole che vietano, oltre alle opere, anche i sentimenti come la concupiscenza, la bramosia, ossia il desiderio umano che rifiuta il LIMITE; con esse si indicano concretamente le strade per restare nell’alleanza alla quale siamo stati invitati da Dio stesso.

Con lo Shabbat si sospendono quindi le opere, si frena la cupidigia: si accetta di perdere ciò che il proprio lavoro potrebbe dare, non solo in denaro, ma anche in fierezza, orgoglio per un’attività ben svolta. E colui che dà lavoro rinuncia al potere che esercita su altri, non fa lavorare. Quindi le Dieci Parole pongono dei “paletti” nei rapporti con il prossimo. Il Faraone invece faceva lavorare senza ricompensa e senza sosta gli schiavi israeliti, si prendeva tutto il loro spazio e il loro tempo.

Dio manifesta la volontà di liberare gli Israeliti dalla schiavitù sottoposta a tale onnipotenza ed essi acconsentono. Non praticare il “limite”, riconosciuto nell’ASTINENZA dalle opere, come fece Dio dopo la creazione, evidenzia che il proprio dio è il Faraone o Baal, un dio che serve la bramosia del fare e del consumare.

“Non farai per te alcuna immagine scolpita, e nessuna forma che è nei cieli lassù …” (Es 20, 4). Questa Parola mostra che con l’idolatria c’è una stretta connessione: l’idolo è qualcosa che posso fare con le mie “mani” e quindi è rapportabile anche alle opere, al frutto del proprio lavoro, nel senso che si assolutizza la propria opera, non ci si ferma, si “serve” il proprio lavoro fino a divenirne schiavi, anziché armonizzarlo con le altre cose della vita. Si origina così una catena schiavista; facilmente chi è schiavo del proprio lavoro arriva a schiavizzare anche gli altri. Si produce, si compra. Così facendo si placa la propria angoscia di morte.

Dio invece ha creato l’uomo a sua immagine (Gen 1, 26-31), affinché domini sui pesci, sui volatili, sulle bestie e sui rettili e lo ha invitato a nutrirsi dei frutti degli alberi e dell’erba che produce seme, a proseguire, benedicendolo, verso una qualità di vita (siate fecondi), verso una quantità (moltiplicatevi, riempite la terra). Non ha trattenuto le chiavi della vita nelle sue mani.

Ad imitazione di Dio pertanto si faranno le opere, ma si osserverà anche un momento di SEPARAZIONE, dominando le proprie potenzialità, per non invadere il proprio spazio, né quello altrui, perché Dio separandosi ha rivelato che la sua onnipotenza è capace di farsi mitezza, clemenza, moderazione. Potrebbe disporre di tutto il POTERE, ma se ne ASTIENE. Luglio 2005

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IL LAVORO: ASPETTI BIBLICI Note dal fascicolo di meditazione redatto dal monaco Luciano Manicardi

Nel seguire le tanti voci che intervengono e si interrogano sul LAVORO (lavoratori, imprenditori, sindacati, politici, giuristi, opinionisti ecc.), ho incontrato il pensiero di un monaco della Comunità di Bose, Luciano Manicardi, che, dopo aver tenuto una conferenza a Biella sul tema del lavoro e dei suoi aspetti biblici, ha riversato le sue meditazioni in un breve fascicolo. L’autore avverte nell’introduzione “che non possiamo trasferire di peso le nostre problematiche e le nostre tematiche moderne direttamente sul testo che è stato prodotto più di duemila anni fa all’interno di una cultura e di una visione del mondo nelle quali il lavoro non aveva la stessa importanza, la stessa funzione, la stessa configurazione che ha per noi oggi. “[…] La Bibbia, d’altra parte, non affronta il lavoro come tema a se stante […] ma solo in quanto parte dell’esistenza umana […].” Il contributo biblico non sarebbe da intendersi sul piano sociologico, bensì su quello dell’antropologia teologica. Tuttavia il percorso attraverso il quale Manicardi conduce il lettore è ricco di stimoli che possono essere “ascoltati” in rapporto alla vita di oggi, nella quale il lavoro presenta aspetti molto critici. Il lavoro è una dimensione fondamentale nella vita di ciascuno per l’identità, l’autonomia e la dignità personale che può fornire e per la stabilità che può agevolare nell’individuo; così anche un punto di vista spirituale può offrire spunti e riferimenti di qualità, che si professi o meno una religione. “La Bibbia”, sottolinea ancora l’autore, “più che fornire una dottrina del lavoro e un’etica del lavoro, consegna all’uomo una vocazione accogliendo la quale egli può liberarsi dall’alienazione prodotta dal lavoro così come dall’ozio. Indica la via per una liberazione non tanto dal lavoro, quanto del lavoro, affinché sia a servizio dell’umanizzazione dell’uomo.” Ma come definire oggi il lavoro? “’Lavoro’ designa qualsiasi attività, il darsi da fare? O l’attività faticosa, che esige uno sforzo? O l’attività socialmente utile, che ha una ricaduta sul bene comune? O l’attività che procura il sostentamento economico per vivere? O l’attività svolta per conto terzi e compensata con un salario? O l’attività personale e/o collettiva, manuale e/o intellettuale con cui l’uomo conosce il mondo e, nello stesso tempo, realizza se stesso nel contesto delle relazioni con gli altri?” Affrontando la lettura della Bibbia, appare subito evidente, fin dalla Genesi - il primo dei libri biblici - che è Dio stesso a dare esempio di lavoro: agisce nella creazione e nella liberazione del mondo e dell’uomo, non solo con la parola, ma anche con il fare, “il fare di Dio accanto al suo parlare”, la sua parola è efficace e “performante”; egli opera e lavora per l’uomo. “Il Dio che lavora per l’uomo è il Dio padre, il Dio che ama l’uomo e che non lo vuole schiavo, ma figlio, non muto esecutore, ma libertà dialogante.” C’è molta differenza con il dio ozioso di altre religioni dell’antichità che avevano creato l’uomo per essere sgravati dai lavori di cui si sarebbero dovuti occupare loro stessi.

Ne potrebbe allora derivare, a un livello antropologico riferibile anche alla cultura odierna, “che il lavoro non deve togliere voce e parola al lavoratore, altrimenti diventa un idolo che toglie libertà all’uomo. Il lavoro che toglie fiato, alito, voce e parola all’uomo è lavoro alienante […] Un lavoratore ridotto al mutismo, che non ha più fiato per respirare, è un uomo ridotto alla schiavitù.” E che “il lavoro non può occupare tutto il tempo dell’uomo”; anche così diventerebbe idolo e asservirebbe l’uomo, che ha bisogno invece di ritmi vivibili; inoltre il riposo serve non tanto per riacquistare energie fisiche e ricominciare a lavorare, ma perché l’uomo rimanga tale e non si abbrutisca. Dicevano gli antichi: “il lavoro più importante e più essenziale all’uomo è quello di divenire uomo.

Inoltre “Il Dio biblico non solo lavora, ma smette anche di lavorare, si riposa, respira.”

“Dal sabato biblico emerge dunque una valutazione critica della nostra sopravvalutazione dell’attività, del tempo produttivo, dell’efficienza ad ogni costo. Non si dimentichi che i regimi totalitari hanno conosciuto un’esaltazione dell’attività forsennata, della fatica estenuante sopportata con eroismo, dell’utilità sociale e collettiva del superlavoro […]. Il messaggio biblico sul lavoro ci interpella anche sulla nostra capacità di gioire, di fare festa, di riposare, di

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habitare secum, di vivere non alienati dai ritmi frenetici della vita quotidiana asserviti dagli idoli dell’efficienza e della produttività, di contemplare e non solo di usare, di gustare e non solo di gestire, di essere e non solo di fare, di creare e non solo di porci come funzionari a servizio della tecnica, insomma sulla nostra capacità di gratuità.”

E’ come se lavorare e far festa non fossero antitetici, ma complementari; in questo modo si evidenzia che le capacità umane non sono legate soltanto all’attività organizzativa e al lavoro, ma anche alla capacità di godere del prodotto della propria opera e di cantare, danzare, pregare, raccontare storie, insomma ciascuno dovrebbe poter sviluppare tutte le sue potenzialità umane. “La festività è un fenomeno universale nella vita dell’uomo. E’ presente in tutte le culture.” La fatica (sforzo, sudore, lotta, impegno) del lavoro sfocia così nella festa popolare o religiosa. Quest’ultima è occasione per fare memoria delle opere che Dio ha fatto per il suo popolo.

Convivono e si intrecciano quindi nel lavoro polarità positive e negative: la gioia e la fatica, l’appagamento e lo sforzo. Ma anche giustizia e ingiustizia, liberazione e alienazione. Nella Genesi è scritto che, dopo averlo creato, Dio consegna il mondo all’uomo e alla donna perché lo abitino, lo esplorino, lo conoscano e lo rendano abitabile e lo custodiscano “bello e buono” come è stato creato, per sé stessi e per chi verrà dopo, (non dice “soggiogare e dominare” la terra; la traduzione dall’ebraico dei verbi ‘kavash’è camminare, esplorare, e del verbo ‘radah’ è guidare, accrescere). L’attualità ci riporta quindi a due responsabilità: quella ecologica – rendere la terra “casa” dell’uomo, quindi “responsabilità nei confronti del mondo e degli altri uomini.”- e quella di rendere il tempo vivibile, non disumanizzante: “Non avere ritmi e orari di lavoro schiavizzanti, alienanti”. Ci sono poi passi biblici in cui c’è un richiamo alla consapevolezza dell’uomo sul fatto che “il debitore o il salariato è una persona non ‘forza lavoro’, non ‘risorsa umana’ ”, oppure ci sono passi in cui “si chiede giustizia nelle retribuzioni salariali facendo leva su elementi che cercano di creare compassione e comunione” verso gli altri, in particolare verso i poveri e si condanna “il lavoro che viene separato dalla persona umana venendo considerato fine e non mezzo.” Nell’Apocalisse è condannato chi asserve il suo lavoro favorendo il potente di turno e ricevendone in cambio vantaggi economici, così come il potente che richiede atti di ‘adorazione’, perché entrambi operano nella menzogna e nell’ingiustizia. Inoltre nell’Esodo sono ricordate le ingiustizie patite fuori dalla propria nazione, la fatica per il lavoro e si raccomanda di fare memoria di esse di fronte ai forestieri che saranno nel proprio paese per lavorare, affinché la memoria dell’ingiustizia subita si tramandi dal padre e non diventi vendetta per il figlio, ma comprensione. “Il lavoro radicalmente liberato dalla menzogna è quello che paradossalmente, più che produrre qualche cosa, toglie ogni ingombro perché l’immagine dell’uomo rimanga libera sì da farsi pura accoglienza. Coniugando lavoro e giustizia appare anche la dimensione sociale del lavoro e il suo essere ordinato alla solidarietà. Lì viene anche superata la possibile dicotomia tra lavoro individuale e lavoro collettivo. Ogni uomo con il suo lavoro è importante per l’altro nella costruzione della com-munitas.” Cosa aggiungere poi sulla ripetitività che è connotazione principale della maggior parte delle attività? Ripetitività è “occasione di approfondimento, di assunzione di competenza, di specializzazione e di abilità, ma anche di noia, di fastidio, di stanchezza, di frustrazione. Lavorare significa accogliere la limitatezza della condizione umana, la temporalità della condizione umana, la corporeità della condizione umana. E anche la mortalità della condizione umana: si lavora per vivere, ma il lavorare non ci libera dal morire. Anzi, possiamo dire che una delle idolatrie più comuni dell’uomo sia quella dell’attivismo, del lavoro dissennato che consente l’illusione dell’immortalità. E’ la tentazione dell’uomo che vuole darsi vita moltiplicando il fare e l’operare, che si definisce in base a criteri di efficienza e di produttività. Di fronte a questo rischio non vi è altra via che l’assunzione della limitatezza e finitezza della condizione umana e dunque del lavoro.”

Il lavoro “è a servizio di una relazione, esso procura il cibo, dunque provvede al sostentamento delle persone, alla loro vita. In questo senso il lavoro è a servizio del desiderio dell’uomo che è desiderio di amore e di vita, di senso e di relazione. Il lavoro mi consente di dare continuità e sostentamento a una relazione con la persona che amo, con la mia famiglia.

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E’ a servizio del senso che ho assegnato al mio vivere. La convivialità, il desco familiare è luogo in cui la fatica del lavoro diviene festa domestica e manifesta in pienezza il suo essere a servizio del desiderio dell’uomo […]” Vivere con equilibrio il proprio oggi e quindi anche l’impegno lavorativo. Non lasciarsi andare alla pigrizia e all’indolenza, ma nemmeno avere atteggiamenti idolatrici del lavoro. Guadagnarsi da vivere per essere autonomi, essere maturi nel “mestiere di vivere”, che si esprime anche nella capacità di lavorare in modo serio ed equilibrato. Lavorare per non rubare, avere dignità e condividere con chi ne ha bisogno e non può farlo. Lavoro inteso pure come dono e non solo come affermazione di sé. Nessuna idealizzazione del lavoro quindi, ma nemmeno l’espiazione di una caduta originaria.

Dicembre 2007

Il portale della Chiesa in occasione della Decennale 2010 “Parola Pane di vita e Pane per la salvezza del Mondo”

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BEVERARA - ASCOLTARE E PRATICARE LA FEDE NELLA LITURGIA

PARLIAMO DI LITURGIA… E TROVIAMO UNA COMUNITA’ IN CAMMINO

“Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i

nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato […] noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.” (1Gv 1,1-3)

Parliamo di LITURGIA con Antonio Baroncini, componente del Consiglio Pastorale e

della Commissione Liturgia, che accetta questa intervista, registrata e riorganizzata con il suo avallo.

Antonio, pressoché ogni domenica e durante le messe solenni, presenzia e coordina l’azione liturgica. Il dialogo tra noi comincia dalla presentazione di sé come “ragazzo di Parrocchia”, con ricordi molto vividi sulla sua attività di chierichetto, di gioco e di studio: “La Parrocchia è stata anche il luogo di ritrovo, degli amici, delle compensazioni, degli affetti, il luogo dove nascondersi dalle paure e dalle insidie del mondo, il luogo dove fare le proprie furbate, le proprie monellate, cioè il luogo della giovinezza.”

Conosce quindi a fondo, per averle vissute in prima persona, la storia e la vita

parrocchiale di questi ultimi quarant’anni e proviene da una famiglia molto religiosa. La consapevolezza della fede? E’ un problema che non è si è posto subito; però fu senz’altro rapito dalla fascinazione dei pastori che si sono succeduti alla Beverara! E dal nonno materno, molto influente nella sua vita. Don Celso Ligabue è stato un punto di riferimento molto importante per la sua crescita negli ultimi anni dell’infanzia, il primo prete incontrato alla Beverara. Poi Don Nildo Pirani, Parroco di San Bartolomeo da trent’anni.

Fare il chierichetto, assistere il celebrante, per un dodicenne poteva essere anche un modo per mettersi in mostra di fronte ai genitori, ai parenti, agli amici e alle ragazzine, ma per quanto riguarda la consapevolezza della fede, Antonio ricorda di essere stato spinto da una forte curiosità, di essersi posto sempre un’infinità di domande; nel tempo è diventato un grandissimo appassionato di storia della Chiesa e vaticanista.

“Non mi sono mai abbandonato troppo al sentimentalismo e al misticismo - da ragazzo

intendo - e ciò che mi ha dato qualcosa è stata questa curiosità. Molte cose non mi tornavano in quello che veniva mostrato come fede, molte cose non mi tornano a tutt’oggi; però in questi anni ho guadagnato una certa consapevolezza; dovuta in gran parte a questa figura inaspettata che proveniva da San Sigismondo, Don Nildo appunto, che si è rivelato un autentico dono di Dio, sia dal punto di vista comunitario, sia dal punto di vista umano. E’ diventato una figura fondamentale della mia vita, nel tempo, in modi diversi, regalandomi un dialogo molto complesso, relativo soprattutto al “fare sul serio” nella sequela di Gesù, all’attenzione umana come fondamento dei rapporti, all’educazione alle scelte.

Don Nildo è sempre stato molto severo nel giudicare chi sta troppo in parrocchia. Chi cresce all’ombra del campanile non si ciba della “pietanza” giusta rispetto all’audacia della proposta del Vangelo; bisogna uscire dal proprio recinto e andare. La parrocchia non deve sostituire altri momenti importanti della vita, ma deve esser qualcosa che si vive anche con fatiche e poca voglia, luogo dove le cose importanti si fanno per scelta.“ Ti vedo sempre presente e attento a tutto quello che riguarda la liturgia.

“Adesso dopo molte metamorfosi e molti rivolgimenti, io aiuto nell’ambito della liturgia e delle liturgie principali, in particolare aiuto la conduzione della chiesa, senza avere un impegno fisso, perché collaboro con grande piacevolezza con Quirico Roberti che è il sacrestano ufficiale. Non mi piace avere un ruolo ufficiale di capo o di altro. Ritengo però che ogni mio gesto, ogni mio atteggiamento, soprattutto alla presenza della comunità, abbia comunque un riverbero sulla comunità stessa, ben sapendo che la comunità è il primo grande incontro con la reciproca testimonianza”

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Prima del nostro incontro ho letto parti del catechismo e dei documenti conciliari, interventi di pastori della Chiesa su questo tema e a un certo punto mi è stato evidente che la Liturgia è un modo per poter condividere, metterci in comunione, prendere quel cibo che è la parola, il corpo e il sangue di Gesù per tornare alla fonte e poi ripartire, ciascuno verso la propria vita!”

“Hai riassunto cosa significhi parlare di Liturgia! Essendo nato quarant’anni fa, io sono profondamente figlio, dal punto di vista intellettuale e della fede, della teologia liturgica esposta dal Concilio Vaticano II, di cui la costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium è il motore primo, e la prima pubblicata. La Liturgia è il culmine e la fonte di tutta la vita cristiana, è ciò a cui tutto tende e ciò da cui tutto nasce, perifrasi solo in apparenza inconciliabile. L’attenzione riservata alla Liturgia deve essere fondamentale nella vita cristiana, è il momento in cui la comunità cristiana incontra direttamente Cristo morto e risorto attraverso la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica, due momenti assolutamente compenetranti e complementari. Gli aspetti comunitario e partecipativo sono importantissimi e sono sentiti come tali nella nostra comunità, almeno per quanto riguarda la predicazione e le intenzioni. Nella prassi è molto difficile da attualizzarsi. Da noi la Liturgia è un momento creativo e partecipativo per eccellenza. Quando ci sembra che le cose non funzionino, le sottoponiamo con rigore a riflessione, a consiglio e a indagine: sappiamo che c’è ancora spazio per un ulteriore sviluppo nella cura del canto, del servizio e del segno liturgico.

La Liturgia è importante anche quando non ci sono forme di partecipazione solenni. Il nostro parroco del resto è figlio di una cultura liturgica attentissima; che non significa barocca, ridondante, rituale, ma molto attenta ai segni, al rispetto, alla sobrietà, al significato delle cose e molto attenta a togliere da questo ciò che è in più, ciò che potrebbe far nascere suggestioni altre nell’animo delle persone e non già una totale adesione all’evento della Parola e all’evento Eucaristico” Il Concilio è proprio intervenuto per fare in modo che il fedele fosse più consapevole della sua partecipazione; il parroco voltava le spalle ai presenti e la Messa era recitata in latino.

“Per aderire alla teologia della Sacrosanctum Concilium, si cerca una partecipazione assoluta, anche una sclericalizzazione. Voglio dire: il celebrante ha un ruolo preciso, importante, ma non è più l’unico asse portante e quando lo è, lo è perché parti della comunità non riescono ad essere partecipative come dovrebbero. I passi da fare sono ancora molti. Per esempio, il servizio liturgico, è attualmente quasi ridotto alle sole bambine; questo va a lode delle stesse, ma a detrimento delle altre parti della comunità. Siamo decisi a proporre, come dovrebbe essere, il servizio liturgico a uomini e donne di ogni età; tutti dovrebbero essere in grado di servire la messa, cioè “di apparecchiare la tavola dove si va a mangiare assieme”.

Per quanto riguarda le letture, c’è la volontà di fare leggere quante più persone possibili, ma tenendo presenti due altri fattori importanti: chi legge deve essere consapevole di ciò che legge e deve saper leggere minimamente bene, ovvero farsi comprendere e saper proclamare. Quindi essere attenti qui non significa che tutto sia fatto da tutti, ma significa fare in modo che tutti possano partecipare secondo il loro carisma, secondo le loro qualità; fare in modo che nessuno si senta escluso. E poi che tutti facciano “assieme”: quando ci si inginocchia, lo si fa tutti, quando si ascolta, si ascolta tutti, quando si canta si canta tutti, quando si risponde, si risponde tutti.

Durante la nostra Messa, a differenza di altre comunità, non si fanno altre cose, come le

confessioni, recita di rosari, accensioni di candele. Certo bisogna tener conto delle varie componenti e delle abitudini delle persone. Io ricordo quelle che erano le costumanze parrocchiali quando ero bambino e vedo come vanno ora. C’è stato un incremento di consapevolezza. Le persone vengono a Messa volentieri e partecipando. Non sempre, non comunque, non tutti, però c’è una bella partecipazione. Poi la Liturgia è figlia anche di quelli che sono i modi di vivere delle famiglie e dei singoli. Per cui fa le spese del week end, delle vacanze, del bel tempo. E qui bisogna che la comunità si confronti con le necessità, o con quelle che sono ritenute tali, della donna e dell’uomo moderni. La Chiesa necessita di un profondissimo cambiamento.

La parrocchia della Beverara, rimanendo silenziosa su molti argomenti, e parlando invece con ugola possente su altri, e senza prendere delle posizioni non ortodosse, cerca di

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comprendere le esigenze e i conflitti dell’uomo moderno e della donna moderna, anche per quanto riguarda i loro rapporti con la Liturgia.

Il sacramento della confessione è un sacramento assolutamente in crisi, non sentito, che forse subirà nei prossimi decenni o secoli dei mutamenti. La confessione a tutti i costi è cosa meno buona della confessione consapevole o dell’incontro personale e profondo con Dio. E’ chiaro che questo discorso personale deve sempre essere confrontato con la comunità. La lealtà con la comunità è fondamentale nell’essere cristiani. Non si può essere ambigui, ambivalenti nei confronti dei fratelli che appartengono alla stessa famiglia e quindi è chiaro che la confessione, come momento di rivelazione di sé al testimone della comunità, potrebbe essere fatta anche a livello comunitario.

Da noi non c’è un momento preciso in cui la confessione viene effettuata, ma Don Nildo è pastore assolutamente ortodosso e, per quanto estremamente progressista e avanzato, è cercatore della verità e non va in nessuna cosa contro il magistero ufficiale della Chiesa.

Al tempo stesso ha un modo di porgere il magistero e la dottrina che privilegia l’attenzione alla persona umana, piuttosto che l’attenzione al fatto dottrinale e basta. Ovvero ciò che giustifica il fatto dottrinale e certe regole morali, comunitarie, liturgiche, dogmatiche è innanzitutto l’uomo, soggetto principale dell’amore e dell’attenzione di Gesù. E’ questa la visione profondamente umanizzata, antropologica e confrontata con la parola di Dio nuda e semplice che ci è stata restituita dal Concilio Vaticano II.

Accanto alla Sacrosanctum Concilium, si pone poi un’altra grandiosa costituzione conciliare, la Dei Verbum, che ha rivoluzionato completamente il modo di vedere la “parola di Dio” e, al tempo stesso, di considerarla anche in ambito comunitario. La Parola è restituita alle genti; la lettura diretta della Parola di Dio è fonte diretta di salvezza, di bellezza, di crescita, di pace e di amore. Quindi è un momento particolare della Liturgia, tenuto in grande considerazione, assieme all’Omelia. Secondo alcuni l’Omelia dovrebbe essere estremamente spersonalizzata e didattica tout court: in verità la predicazione di Don Nildo è assolutamente attenta a quella che è la parola letta in chiave umana – e pertanto accolta con attenzione da parte di chi ascolta - ma non mistificata da sentimentalismi, da buonismi, da esempi a basso prezzo, o da giudizi.” Non c’è il foglio domenicale.

“E’ per favorire la dimensione dell’ascolto comunitario. Il foglio è un modo per distrarsi più facilmente dalla Messa, per vedere quando finisce. Ma senz’altro la lettura che viene proclamata deve penetrare attraverso la voce, la parola che viene spiegata deve penetrare attraverso la voce.

L’ascolto implica una partecipazione più diretta. Io stesso ho i messalini, a volte seguo leggendo, però mi sono imposto di ascoltare molto, quando ci riesco è molto più penetrante.

I segni devono essere segni veri. Sempre si cerca di non fare mascherate. Tutto quello che si fa, lo si fa perché ha un senso e va fatto con serietà. Che non significa seriosità, ovvero esibirsi e nascondersi in un ruolo preciso, e usarlo più per scopi personali che per altro” Vengono anche persone non credenti?

“E’ difficile parlare di non credenti oggi. Un tempo era un fatto contenuto nella sfera dottrinale. Oggi il grande problema è che tutti in qualche modo credono e che pochi partecipano fino in fondo a quello in cui dicono di credere.

La sete di Dio, di un Amore più grande di quello che vediamo con i nostri occhi è una “nostalgia che è stata impressa dalle mani di Dio nelle rughe del nostro cuore” - per citare Sant’Agostino - a cui difficilmente si resiste. Per quel che so la comunità che partecipa all’evento liturgico è abbastanza variegata e la comunità della Beverara è una comunità allargata, che non emargina nessuno.

Ho avuto discussioni, molto proficue per me, con Don Nildo su questo; è saltato fuori che la nostra è una comunità che non si sente tradita ad accogliere con consapevolezza, anche persone che, secondo certi dettami della Chiesa ufficiale, sono in difficoltà. La nostra comunità deve fare del cammino, a cominciare da me, però è una comunità, nei fatti, che va molto oltre quelli che sono i confini di una normale comunità parrocchiale. Sono sempre molto di più le comunità che si trovano in queste condizioni.

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Resta il fatto che né il nostro parroco, né gli educatori, né coloro che fanno pastorale, non hanno mai fatto dei proclami contro questa o quella cosa, pur avendo idee chiare e forti nell’animo; evitare certi argomenti imbarazzanti ha fatto sì che non si facesse sentire alcuno escluso” Non mancano quindi manifestazioni di una certa fatica di vivere, di camminare nella fede, ma dove uno stile attento e aperto può creare ricerca e confronto.

“Vivendo in Parrocchia ho imparato a non chiudermi occhi e orecchie di fronte a niente e ad interrogarmi sempre su tutto. Resta il fatto che questa è una comunità che ha persone in crisi e persone di successo, che conta anche esempi familiari insigni, però è anche la comunità in cui coloro che sono nati nel 1966 come me e si sono sposati, sono tutti divorziati. E’ anche una comunità nella quale sono successi drammi grossi, condivisi. Percorsa da tutta una serie di chiacchiere, di fermenti positivi e negativi. Sono morte tante persone, anche bambini, si sono uccise delle persone. Dove alcuni matrimoni sono andati in crisi in maniera violenta e forte. Questo fatto non è del tutto estraneo anche al nostro modo di vivere la Liturgia.

Certamente la messa della Beverara è un luogo di ritrovo di tante esperienze, di momenti bellissimi e di momenti drammatici, e di persone anche in difficoltà, di persone che sono alla ricerca, di persone che non possono dirsi incardinate in una situazione o in un'altra. E’ anche il luogo dove ci sono tante famiglie regolari e osservanti, individui singoli osservanti. Ma è un luogo dove tutti sono costretti a confrontarsi con la realtà della vita: i problemi dell’oratorio, della sua gestione, dove si sfiora la possibilità di atteggiamenti realmente violenti, della droga, comportamenti che non sono né cristiani né civili in senso lato. Vi è la forte volontà di accogliere donne e uomini di ogni latitudine del mondo e l’Ecumenismo è un imperativo molto sentito.

A cominciare dalla Liturgia si può vedere che la nostra è una comunità che non chiude le porte assolutamente a nessuno: si ritrova a fare la comunione una bambina nomade di fede islamica, un ragazzino ha fatto la comunione prima del suo tempo, per curiosità. Ci sono parecchi concubini, divorziati, divorziati e risposati che fanno la comunione. Ciò non significa che il nostro parroco non sia in imbarazzo o non faccia uno sforzo, ma lui, apertamente, non nega la comunione a nessuno.

Durante la Liturgia ci sono mamme che allattano nelle aule adiacenti la chiesa, alcuni bambini vanno a disegnare in sacrestia; tutto sommato c’è una notevole attenzione all’ascolto dell’Omelia; non c’è un’eccedenza ritualistica che potrebbe annoiare, e ciò va a favore di una profondità e di uno spessore liturgico maggiore. Credo che la Chiesa cattolica abbia i suoi momenti di verità maggiore proprio nelle piccole comunità locali piuttosto che nei movimenti, nelle associazioni, piuttosto che nei moti della Chiesa ufficiale, cioè ai suoi più alti livelli della gerarchia, che a volte mostra straordinari momenti di fedeltà e testimonianza alla parola di Dio, a volte invece mostra una grande distanza dalla vita delle persone. Nella nostra comunità non c’è tanto una discussione sulla dottrina, ma è la vita che tenta di confrontarsi con la parola di Dio.

A me piace molto come è fatta la nostra comunità, sento che si tratta di un modo di vivere la fede cristiana molto efficace e personalmente devo molto a questo. Inoltre la nostra Parrocchia è socialmente molto attenta e lontana dalle logiche di mercato, lontana dalle logiche di potere, assolutamente pacifista, sedotta dal tema della povertà, molto legata al tema della pace, con alcune punte all’interno di questo clima generale, ora in una direzione, ora in un’altra, ma questa è la ricchezza dei vari carismi”!

Gennaio 2007

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IL CANTO LITURGICO Ora lasciatemi cantare la tenerezza dell’amore. Ora lasciateci cantare tutta la forza della vita. Ora lasciateci cantare tutta la nostra gioia. Ora lasciateci cantare Cristo risuscitò.

L’ascolto si rivolge al CANTO LITURGICO che accompagna la Messa e che è una

componente molto importante della Celebrazione Liturgica. Ne parlo con Luciano Catalano, Fondatore, assieme ad Anna Fin, e Maestro del Coro della Parrocchia di San Bartolomeo della Beverara ormai da 33 anni e componente del Consiglio Pastorale e della Commissione Liturgia. Quanto riportato è il frutto di un dialogo da cui abbiamo estratto le parti ritenute essenziali per chiarire il tema. Parlaci della funzione del canto liturgico.

Il canto è un’espressione liberatoria e la liberazione ha come legame la gioia perché il liberato esplode in una invocazione, un inno, in una elevazione di gioia. La musica suonata e cantata insieme e quindi, la musica assembleare, lega, accomuna la gioia di tutti per una elevazione di tutti, anche per una consapevolezza di se stessi e del proprio senso umano. Il canto liturgico ha questa caratteristica di fondo. Se canto con l’intento di pregare, anche se canto le stesse parole da anni, posso arrivare ad un risultato: cantando la stessa cosa o pregando la stessa Ave Maria, alla fine della vita posso aver colto, sviscerato nei suoi significati più profondi ogni singola parola. Lo si ripete perché è un approfondimento costante. All’interno di questa tensione, quale attenzione tu e i coristi ponete al “saper cantare” e al “fare liturgico”?

Certo è importante una tecnica, e non trascuriamo la preparazione; ma soprattutto, come base, cerchiamo di avere una coesione e una consapevolezza di gruppo per quanto riguarda il servizio liturgico. Non solo a livello di coro, ma per tutti coloro che partecipano e che si coinvolgono nella liturgia. Noi siamo componente liturgica con un ruolo guida anche e dobbiamo vivere questo servizio perché la liturgia possa avere il maggiore effetto attraverso l’assemblea.

Il canto è la consapevolezza che, mentre tu stai cantando, stai pregando e quindi esprimi la tua invocazione, il desiderio di incontro con Dio; così ti elevi a Dio.

Sarebbe bello che tramite questo percorso, questo incarico di trasmettere, stimolare, coinvolgere, si offrisse effettivamente la propria autenticità. Durante l’esecuzione di un canto si riesce a cogliere un’autenticità espressiva che riesce a coinvolgere, si sente una unità corale che abbraccia e unisce, e anche l’assemblea partecipa unendosi. Più si è consapevoli di questo e più è efficace. Poi il senso di unità è fondamentale. L’unità vissuta con questi segni concreti, liturgicamente, vuole dire: essere uniti tra di noi con la presenza di colui che aggrega, che è Cristo stesso.

Penso che si tratti di un miracolo liturgico. Più ci sentiamo uniti, con il coinvolgimento di fede e con le nostre espressioni, e più ci avviciniamo a quella che è l’unità con Cristo. Noi entriamo in ciò che è diverso, ci trascende. Non prestiamo una voce, stiamo vivendo un’esperienza alta. Tutta l’assemblea converge a questo apice: la presenza concreta di Cristo. Allora cosa suggeriresti ad una persona che crede di non saper cantare o che teme di stonare?

Uno può cantare benissimo, ma se lo fa per sé e non lo fa per l’altro… Ciò che importa è l’incontro di liberazione: se anche uno è stonato ma si coinvolge, si intona, c’è un perfezionamento che avviene dentro di lui. Incontrando Cristo non c’è più ebreo, pagano, né maschio o femmina, o stonato. Ciascuno incontra la pienezza. Iniziamo con l’esperienza terrena a stimolare, ricordare e perseverare in questa ricerca. Abbiamo un ritorno di grazia. Forse non ci rendiamo conto dell’efficacia dell’incontro.

Vi tendiamo, ne abbiamo una minima percezione, ma la nostra parte interiore ce lo conferma: quando ci coinvolgiamo nella gioia e nell’unità, abbiamo un senso di pace, di realizzazione del nostro senso di appagamento.

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Entrando in questa dimensione totalmente diversa anche da noi è necessario un perfezionamento, una verifica nostra, i primi tempi anche dolorosa. Come sei arrivato a pensare di fare il maestro di un coro liturgico, come ti ha coinvolto la musica, pur non trasferendo questo nella tua attività lavorativa?

Ho cominciato a studiare musica dalla seconda media; ora ho cinquantuno anni, ma ho avuto la mia vocazione. L’ho maturata proprio nella Chiesa della Beverara, avevo due o tre anni, frequentavo l’asilo e mi sono detto: “Questa è una cosa che mi piacerebbe fare da grande”. Avevo delle sensazioni fortissime. A me la musica sacra ha sempre dato delle vibrazioni interne a livello nervoso-cerebrale. Mi sconvolgeva, mi scuoteva.

Sentii cantare una volta, forse ero più grandino, 6 o 8 anni, e mi dissi ancora: “Come sarebbe bello averlo sempre!” Lo pensai e mi sono adoperato per questo.

Per trasformarla in attività lavorativa avrei dovuto studiare molto di più e poi volevo fare questo. Ho sempre detto “Quando sarò più anziano e non lo potrò più fare, spero che questa tradizione vada avanti, che ci sia qualcun altro che vi spende le proprie energie”. Come ti poni con la tua vocazione e la tua consapevolezza di servizio di fronte ai cantori? Cosa ritieni importante ci sia nella relazione tra voi per suscitare coinvolgimento ed elevazione in tutti?

L’intensità che il maestro espande, e che viene colta senz’altro, è importante per il modo stesso di porsi dei cantori. Io con loro dicevo, qualche anno fa: “Il nostro rapporto dev’essere un rapporto d’amore. Come io mi offro a voi, così voi dovete rispondere, è una osmosi: voi vi dovete affidare e io devo ricevere fiducia.” Io posso comunicare solo se c’è un’apertura nei miei confronti, sennò rimango sterile, asettico. Se uno non mi riceve, non mi può dare. E’ per quello che noi dobbiamo liberarci di noi stessi, perché io libero un modo di sentire l’espressione musicale, la offro e la chiedo, voglio una compartecipazione di questa mia offerta.

Il tuo atto liberatorio, il tuo atto interpretativo, nelle tue corde interiori, nel tuo travaglio interpretativo-esistenziale – perché poi il canto è anche questo – è l’espressione del profondo. Devi essere aperto all’altro, farti entrare l’altro dentro di te, farlo diventare una cosa tua, è questa la compartecipazione. Vivere “ama il prossimo tuo come te stesso” è proprio questo: l’apertura, l’incontro umano è questo. La parola che incontra l’altro, l’autenticità della parola. Noi abbiamo paura di chi non conosciamo. Ma quando lo incontriamo nella sua intimità e viviamo noi stessi nell’altro ci sentiamo appagati, rincuorati, consolati. E quindi non è più minaccioso. Per cui, anche l’assemblea, unendosi alla vostra “unità” corale, risponde all’abbraccio offerto, partecipa e si eleva, nell’invocazione al Signore, in una circolarità nella quale ciascuno si impegna in prima persona e tutto questo provoca un ritorno anche a voi!

Sì, per esempio, quando cantano i bambini alla Messa delle sei di pomeriggio del sabato. Si sente proprio un impeto, il canto liberato per la gioia, il loro fervore. A volte è più difficile per l’adulto liberarsi, affidarsi agli uomini e a Dio. Cosa diresti all’assemblea per invitarla a cantare?

Come prima fase penso ci sia proprio questo: predisporsi all’ascolto e “disporsi all’ascolto” vuole dire liberarci di tutto ciò che ci impedisce di ascoltare. In primis di noi stessi, tutte queste voci nocive interne. Dobbiamo arrivare ad aprirci; solo così ci possiamo unire: iniziando ad ascoltare; non ad ascoltarci nel nostro continuo travaglio di scontentezze, di pesantezza della vita, di dolore, di sofferenza, non nel rimuginare continuamente: per es. che vorremmo avere una vita diversa; così diventiamo tristi.

Questo lo lasciamo fuori e ci liberiamo, chiediamo uno sforzo a noi stessi, ma ci apriamo e ascoltiamo. I pensieri più cattivi e tenebrosi vengono a dileguarsi appena incontriamo una persona che ci dà questa motivazione diversa, ci dà questa ventata di aria fresca, e il nostro umore cambia, cambia la visione della vita in quel momento, e riceviamo. Il canto è un momento di gioia, di esaltazione, entri proprio nella luce, in un’altra dimensione, ti elevi e ciò ti fa allontanare da quello che ti trattiene, dalle pastoie, da tutto ciò che non ti fa esprimere.

Aprile 2007

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BEVERARA - ASCOLTARE E PRATICARE LA FEDE OGNI GIORNO

I ROM, QUANTO NE SAPPIAMO?

Avevo da tempo l’intenzione di conoscere l’impegno dei gruppi parrocchiali e delle singole persone della nostra comunità nell’applicazione quotidiana della Parola, per stimolare la discussione e possibili vocazioni al volontariato, sempre necessarie e bene accolte. Nei giorni scorsi i problemi relativi alla clandestinità, all’incendio di campi rom, alla sicurezza e all’accoglienza, sono stati al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. Oltre alla cronaca, è stato uno scritto di Alberto Zucchero, insegnante di religione presso la scuola media Volta, e impegnato con la Comunità Papa Giovanni XXIII nel Servizio civile volontario e nel cammino a fianco di una decina di famiglie rom da vari anni, che mi ha indirizzato verso questo tema. Cosa sta succedendo, Alberto, in particolare nella nostra città su questo problema? Nel Paese sui rom il clima si è fatto pesante. Cresce in tanti la paura, alimentata con compiacimento dalla televisione; ma anche il solo semplice ‘fastidio’ per come sono e per come fanno diverso da noi. Così stiamo perdendo l’idea che vi sono tanti rom (vuol dire ‘uomini’), tanti caratteri, storie, speranze, pianti, splendori e sciagure, come in tanti siamo anche ‘noi’ (tutti uguali?). I rom sono irrimediabilmente ‘una cosa’ diversa e indistinta. Poi ci aspettiamo che ‘collaborino’ con buona volontà al nostro bisogno di ridare ordine e senso alla nostra vita sociale. “Ma come, con l’aria che tira?”… Invece loro rimangono se stessi, irriducibili fieri ostinati. Questo ci provoca, ci irrita. L’insofferenza cresce nascosta, vederla sfociare in violenza è un attimo. A Bologna per fortuna gli animi non si sono surriscaldati, anche se a giudicare da certi volantini c’è chi prova a ‘lisciare’ la paura della gente. Però non ci sono nemmeno molte proposte costruttive in giro. Ogni tanto scatta regolare lo sgombero: non fa più notizia. Quando si sgombera si rimettono ‘i problemi’ -le persone- per strada, cioè direttamente sulle spalle della gente. Questo non è risolvere i problemi, è solo spostarli. Devo dire che qualcosa funziona: i rom della Romania sono regolari in quanto cittadini comunitari, con possibilità nel campo lavorativo dell'edilizia. Con fondi europei e regionali il Comune ha avviato progetti di inclusione: per chi ‘sta ai patti’ questo significa avere un posto dove abitare e mandare regolarmente a scuola i figli (ne ho anch'io nella mia scuola a Borgo). E nel nostro quartiere? Qui oltre ai rom della Romania ci sono quelli della ex Yugoslavia. 'Abitano' dalle nostre parti da parecchi anni. I loro genitori sono arrivati in Italia negli anni Settanta e Ottanta. Altri nei Novanta con i conflitti balcanici. Hanno incontrato l’Italia. Ottenuto il permesso di soggiorno. Poi sono cambiati i tempi, e le leggi. E quei permessi non sono stati più rinnovati. Oggi sono extracomunitari irregolari. O meglio il più delle volte: nati in Italia, ma senza cittadinanza italiana. Apolidi di fatto, ma non giuridicamente. Non sono entrati illegalmente, quindi nemmeno la nuova legge sul reato di clandestinità li colpirà. Non sono espellibili, perché la Bosnia non li riconosce come propri cittadini. Semplicemente: ci sono, con tutti i loro figli dietro, sfornati ai ritmi che vediamo. Irregolari, scarsamente scolarizzati, raccoglitori di metallo (e di altro), senza altre competenze lavorative. Vivono alla giornata, spesso di espedienti, un piede nella legalità l’altro fuori. Sfuggenti, diffidenti, furbi, pronti a ‘sfruttarti’ classificandoti per il tipo di aiuto che gli dai. Se li incontri per strada e non hai una relazione che ti lega a loro, provi facilmente antipatia o avversione: sono sporchi, chiassosi, insistenti, vivono su camper o furgoni scassati, i bimbi fanno la cacca dove capita, ad esempio nei parcheggi dove dormono dopo l’ultimo sgombero, oppure davanti alle Bottego... E giù i genitori a raccogliere firme per farli andare via... Ma sono davvero poveri? Passano le giornate all'Ipercoop e comprano, non sempre generi di prima necessità. I giovani soprattutto. Il danaro non gli manca. Ma la povertà qui da noi oggi è non averli o averne e vivere a quel modo, cioè senza andare a scuola, evitati da tutti? Prendiamo una famiglia che conosco. C’è una donna che vediamo spesso al Ca’ Bianca, il marito sempre mezzo bevuto e sette figli dietro. Il piccolo nel fagotto, il grande è già stato al Pratello, poi al

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Centro dove lavora Cristiana (mia moglie). Dormono su un furgone, sequestrato due volte dai vigili questo inverno. Hanno dormito anche a casa di qualcuno di noi, adesso li teniamo in un cortile della comunità terapeutica a Castel Maggiore. Ma sono sempre al Ca' Bianca! Abitavano in via Benazza, terreno comprato, poi sgomberato per abuso edilizio: avevano tirato su una ‘casa’ di assi di legno. Sono stati nel campo di via Dalla Volta, ma adesso anche quello è stato chiuso. I bimbi alle Silvani li hanno sempre mandati, e anche adesso li manderebbero con maggiore regolarità, se non dovessero partire la mattina a piedi da Sabbiuno di Castel Maggiore. Non è pietismo, né buonismo. Mi arrabbio con loro un giorno sì uno no. Cosa pensate di fare come Comunità Papa Giovanni XXIII? Pensiamo che prima di tutto ci vuole un posto dove stare. E subito dopo la scuola: i bimbi rom devono stare con gli altri bimbi. Stiamo al loro fianco, impariamo ad accettarli un po’ di più, cerchiamo di fare amicizia con loro. Ne ospitiamo 9 a Sabbiuno, 6 a Casadio dove il più delle volte ne arrivano altri 10 perché i parenti si appoggiano a loro. Un'altra famiglia di 10 (dal nonno ai nipoti) sono stati con noi 2 anni e mezzo; ora sono tornati a chiederci un posto, che al momento non c'è. Sono qui con permesso di soggiorno e con partita Iva: ogni anno producono reddito e ottengono il rinnovo. Ma nessuno affitta loro un appartamento; non ci sono terreni abitabili da comprare; il Comune dice di non averne a disposizione. Dormono nei parcheggi, come tanti altri. Come vedi questa tendenza diffusa a vedere nei ROM il “nemico” da emarginare e cacciare? Il 'nemico' è tale perché tu decidi di viverlo così. Ma poi rimani nell’odio, e nella paura. Ed è un problema tuo. Non vedi più l’uomo che hai davanti, che si porta dentro sogni e paure, miseria e santità, proprio come te. Se invece decidi di vivere, in colui che hai davanti, l'‘amico’, ti si schiude un orizzonte vasto di umanità. La ricchezza infinita dell’umanità, della tua umanità, dell’umanità ricchissima di quel rom. Ripenso ai numeri che ti ho snocciolato e vedo che sbaglio. Non si tratta di mostrare i muscoli della solidarietà, di fare a gara a chi è più bravo. Almeno per me, tra le tante miserie con cui mi arrabatto, succede che quando Gesù ti libera nella vita uno spazio di amore (la tua famiglia, i tuoi genitori, gli zingari perché no!?) trovi con limpidezza il senso della vita, la fai finita con tante menate, evaporano paura rabbia e tetraggine, come quelle di questi tempi, di questa politica, di tanti di noi italiani. Ma perché noi che ci diciamo cristiani, che ci cibiamo dell’Amore della Croce, non mettiamo questa cosa una volta per tutte davanti a tutto, così, con semplicità? Eviteremmo la sciagura di reputarci giusti e già salvi, la tendenza a mettere rom e clandestini (un tempo qualcuno metteva gli ebrei..) alle origini di tutto il ‘morto’ che c’è in noi svanirebbe di colpo. Cosa si potrebbe fare per aiutarli? Raccolta di fondi o aiuto nell’integrazione? Qualcuno in parrocchia ha proposto di versare l’ICI risparmiata quest’anno per progetti a loro vantaggio. Un bel coraggio, bisogna essere proprio convinti! Io ero d’accordo. Anche se a far andare a rotoli i progetti capita che siano proprio loro! Ma se la paura di buttare via i soldi fosse un ostacolo, sarebbe già sufficiente come genitori di scuola, frequentatori dell'oratorio, consumatori dell'Iper, animatori della vita del quartiere, decidere nel cuore un altro 'viaggio': decidere cioè di mettersi in relazione con loro, promuoverli noi -arbitrariamente e gratuitamente- a nostri vicini di casa a tutti gli effetti. In pratica come proporresti di sviluppare questo ‘viaggio’? Potremmo fare tante cose soprattutto per i bimbi: aiutarli nell’andare a scuola tutti i giorni, nel frequentare i nostri figli, portarli dal dottore, a calcio, all'estate ragazzi, alle crescentine, alle feste... Fare qualcosa al pomeriggio, durante la scuola, per quelli in età di scuola media… Io da settembre provo a ridurre un po' il mio impegno lavorativo, per affiancarli in modo più stabile. Il problema che sento più grosso non è solo la fattibilità tecnica (cala lo stipendio ma qualche soldo per un progetto forse si riuscirà a farlo saltare fuori), ma soprattutto i miei limiti personali. Se saremo una comunità che accoglie, che anima, che fa festa, che va a scuola, che fa i compiti, che fa famiglia, che fa la spesa CON LORO avremo molte possibilità in più... Io comunque cerco un posto dove organizzare due pomeriggi alla settimana con i bimbi, e anche qualche ‘volontario’: io come animatore valgo poco…

Settembre 2008

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VOLONTARIATO NELLA CARITA’ (1) CENTRO DI ASCOLTO CARITAS

Per approfondire l’impegno delle persone della nostra parrocchia nell’applicazione quotidiana della Parola, ho intervistato questa volta Maria Pia Baroncini responsabile da 25 anni del Centro di Ascolto Caritas e Anna Di Paola, responsabile da 28 anni del Centro Indumenti Caritas; ho pensato che fosse interesse di molti conoscere la loro esperienza di servizio per un territorio sempre più allargato, rivolto soprattutto a persone di altre religioni e di altre etnie, compresi i Rom, che restano coloro che ne manifestano sempre di più il bisogno, assieme a pochi italiani. Il Centro di Ascolto è situato a lato degli uffici parrocchiali - Intervista a Maria Pia Baroncini Puoi spiegare in che cosa consiste il tuo servizio nel Centro di Ascolto Caritas? Il servizio è Caritativo e, per come è strutturato ora, consiste nel mettere a disposizione alcune decine di borse-spesa del valore di circa 25 Euro, o altre di 15 Euro, per i bisognosi che ne fanno richiesta. I fondi necessari provengono dal Centro Indumenti, da qualche offerta dei parrocchiani e dal Banco Alimentare della Diocesi di Bologna, che si trova ad Imola. Non possiamo elargire le borse-spesa più di una volta al mese e di solito ce n’è a sufficienza per una trentina di famiglie. Non è facile organizzarsi: per cercare di essere equa avevo consegnato un bigliettino con il timbro parrocchiale e la data in cui venivano; quando tornavano dovevano esibirlo. Per cinque mesi ha funzionato, poi mi sono accorta che la maggioranza tendeva a raggirarmi e veniva più volte al mese. Io vengo qui al Centro di Ascolto alcune ore, sia al mattino che al pomeriggio; ascolto le persone che mi parlano delle loro necessità materiali, chiacchiero con loro, cerco di capire, ma è molto difficoltoso: i più sono sfuggenti anche quando mi parlano della loro vita e così è quasi impossibile comprendere il loro stato reale di bisogno. La slealtà… mi colpisce, forse adottano questi atteggiamenti perché sono nel bisogno? Non so. Capisco pure che con quello che noi diamo una famiglia non possa viverci per un mese. E allora vanno dappertutto e ritornano… e trovano vari modi per ottenere di più. Si cerca di volere loro bene, ma… C’è più dialogo con gli italiani, che sono soltanto tre o quattro. Qualche tempo fa cercavamo di fornire la borsa della spesa una volta a settimana, in più provavamo a soddisfare anche la richiesta di copertura di alcune bollette di casa. Anche adesso, se rimane qualche fondo ne valutiamo di volta in volta la destinazione. Come funziona il Banco Alimentare? E’ un Centro Caritas diocesano che ha sede ad Imola e raccoglie alimentari che vengono definiti “non commerciabili”; alcuni sono donati dalle aziende produttrici; altri provengono da una raccolta che avviene attraverso la gente che va ai supermercati. Quando all’entrata troviamo i volontari che forniscono una sportina vuota e chi lo desidera restituisce parte della sua spesa, i prodotti vanno anche a finire lì. Poi una volta al mese, il Banco ha il compito di suddividere queste risorse tra i vari Centri di Ascolto delle parrocchie diocesane che, come noi, si occupano della ridistribuzione. Qui mi aiuta Cesare Nanetti che si reca al Banco e torna carico di roba da suddividere nelle borse. Per riempirle chiedo aiuto ad Anna Di Paola, e a quei parrocchiani che sono pratici del nostro servizio. Pasta, latte a lunga conservazione, riso…arriviamo a fare una ventina di sporte. Poi ci sono spese che vado a fare io con i fondi raccolti dal Centro Indumenti. Mi aiuta Quirico Roberti e mio marito Norberto; compriamo olio, latte, tonno, pasta, formaggini… Il Banco fornisce pure rimanenze di alimentari, scaduti o la cui scadenza è vicina; questi li diamo agli italiani, perché non vogliamo dare adito a fraintendimenti linguistici; non possiamo assumerci questa responsabilità. Chi li prende sa della scadenza e, se vuole, li usa con le cautele del caso. Allora ci sono Centri di Ascolto che non svolgono questo servizio? Sì, questo è un servizio non strettamente legato al territorio parrocchiale della Beverara. Vengono dalla parrocchia della Noce, della Bertalia, dal centro del Lazzaretto e da via Barbieri, dove abitano tanti stranieri. So che pagano moltissimo per dormire anche in tre in una camera. Quindi restano pochi soldi per mangiare. Teniamo conto che ci sono parrocchie vicine che hanno chiuso i servizi: il Sacro Cuore offriva la mensa, l’Arcoveggio dava la borsa della spesa.

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Ora sono calate le risorse per tutti. La Caritas ha cercato varie strade, per esempio, quella informatica, per mostrare i prodotti presenti nei vari Centri per uno scambio, ma tutto si complica. Io ho scelto di non informatizzare il servizio. Le persone le conosco abbastanza bene quasi tutte. Anche se hanno nomi strani, difficili da trascrivere, ho ben presenti i volti, i modi di fare. Confondo invece le fisionomie delle donne musulmane per via del velo… pazienza, cos’altro si può fare? Ci sto attenta il più possibile. Ti ho visto svolgere altri servizi… Questo servizio Caritativo si svolge bene se si è da soli e non si suddivide l’esperienza. Aiuti ne chiedo, ma ci deve essere un unico gestore, sennò si fa più confusione e non si riescono a conoscere le persone che ci frequentano. Che ti cercano mattina e pomeriggio. Poi ci sono i conti da seguire… Ma in effetti svolgo anche tanti altri servizi. Seguo le Messe, le prenotazioni per commemorare i defunti e ne faccio gli elenchi settimanali, poi mi occupo dei fiori in chiesa, assieme ad Anna Fin. Do una mano all’Oratorio per le cene, le serate. Altre piccole cose che non sto ad enumerare, ma c’è sempre bisogno. Inoltre organizzo le due ‘pesche’ annuali; le spese qui sono rimborsate dai biglietti venduti. In questi casi collaboro con altri parrocchiani che a rotazione presidiano le ‘pesche’ e aiutano a rifornirci degli oggetti necessari. Sono soprattutto straniere le persone che accogli. Da quali nazioni? Anche i Rom? No, i Rom di solito non vengono, da anni. Loro gli alimenti li hanno, vanno a chiedere indumenti invece. In passato hanno risposto alla nostra accoglienza disfacendo e portando via tutto. A volte sono contenta di non vederli più, sia perché era tutta una ruberia, sia perché penso che forse stanno bene; vedo le donne, che erano bambine, ora sono mamme e rubano. Un destino così triste! Tornano invece i nomadi italiani di via Erbosa… Poi vengono gli stranieri che si sono insediati in zona, ma ci sono altri da più lontano, perché si passano la voce. Vengono anche da Corticella, Borgo Panigale, dal centro città. E’ così che sono riuscita a capire che vanno in giro in tutti i centri. Poi ci sono signore musulmane, e anche uomini, una decina. Abitano qui nei dintorni nelle case dell’Acer. So che alcune sono badanti, uomini che arrivano con grandi macchine. A volte mi portano un dolcino, un modo per essere grati. Ma quando chiedo: “Di dove venite?” “Marocco!” è sempre la risposta. Sembra impossibile che vengano tutti di lì. “Ma qui a Bologna dove vivi?” Ripeto. Alcuni vivono al Lazzaretto, o nei Centri Sociali; ma ti sviano, oppure sono reticenti: le razze che vedo sono molte; io tento di memorizzare l’apparenza… per riconoscerli. Riesci a capire, dal tuo osservatorio, se qualcuno è riuscito a migliorare la sua posizione? No, io devo ancora incontrare qualcuno che si sia “redento”, ossia davvero integrato, e sono più di venti anni che sono qui. La signora che hai incontrato poco fa erano almeno dieci anni che non la vedevo. E’ tornata adesso che ha avuto un altro figlio, il terzo. Provo anche delle soddisfazioni in questo servizio, per esempio quando ho gli alimenti da offrire, e li ho spesso. Poi quando ricevi una parola buona… Altre volte come ti ho detto, devi invece discutere con le persone che vengono tutte le mattine a chiedere, soldi, alimenti… e questo non è possibile affrontarlo. Ci vuole costanza e pazienza per un servizio così... In me le trovo. Ci sono persone che fanno arrabbiare, c’è la difficoltà della lingua, i furbi che fanno finta di non capire… o che cercano di rubare… marocchini non solo nomadi, persone litigiose, caratteri difficili. A un certo punto abbiamo fatto una scelta precisa più verso la fornitura di alimentari piuttosto che di danaro. I soldi fanno gola a tutti. Ma la distribuzione dei pacchi spesa ti fa capire che hanno bisogno di mangiare, di questa prima necessità. E’ umiliante andare anche alla porta di una Parrocchia e chiedere, chiedere… A volte con i disguidi, il menefreghismo… ci si arrabbia, però facciamo quello che possiamo e sappiamo che questo è utile. La bolletta la paghiamo proprio se capiamo che c’è una necessità estrema e li conosciamo. Oppure una piccola somma saltuaria alle persone che sappiamo avere molti figli, o che non hanno lavoro.

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Ma tanto raccogliamo e tanto spendiamo… diceva un nostro parrocchiano che nella cassa dei poveri non ci devono essere rimanenze… e così avviene. Sembra che non sia facile “amare” lo straniero o il bisognoso! Cosa si può fare per integrarci meglio, a parte la cena musulmana ormai tradizionale? Non è facile l’integrazione. Come comunità parrocchiale questo è quello che possiamo fare. I bambini musulmani vanno a scuola, quelli dei nomadi sono abituati ad andare a fare l’elemosina con gli adulti e non so quanto frequentino.

Ci sono compiti della comunità civile tutta...

Ottobre 2009

VOLONTARIATO NELLA CARITA’ (2) CENTRO INDUMENTI CARITAS

Intervista ad Anna Di Paola, responsabile da 28 anni del Centro Indumenti Caritas, collocato al piano terra esterno della casa di Via Beverara al n.70. Anna, come si attiva il volontariato presso il Centro Indumenti Caritas? Prendiamo gli indumenti che ci portano i parrocchiani e facciamo una distinzione. Alcuni capi vanno al mercatino mensile. Quelli che teniamo noi vengono selezionati per tipologia e riposti negli scaffali. Quando le persone vengono al Centro ci chiedono di vedere quello che gli serve e se va bene ci facciamo dare un contributo che va da 0,50 Euro (per gonne, maglie, camicie e scarpe) a 1,50 Euro per un giubbotto. Prezzi simbolici per evitare l’accaparramento senza scelta. Tempo fa li ritrovavamo buttati per la strada. Vogliamo che li prendano perché servono, non perché li buttino. Se consideriamo il numero dei pezzi distribuiti, siamo il negozio che vende più di Bologna. Forse anche 1.500 pezzi al mese, comprese coperte, panni, giubbotti… Lo spazio per farlo è piccolissimo, ma ci siamo abituati, teniamo gli scatoloni per i cambi di stagione su scaffalature. Teniamo il minimo che sappiamo utile; del resto, ne arriva sempre di roba. Ufficialmente apriamo il venerdì dalle 9 alle 11,30. E in questo giorno vengono soprattutto i nomadi. Poi, dato che i musulmani non tollerano i nomadi, apriamo per loro il giovedì pomeriggio e così vengono altri della parrocchia. L’apertura è breve, ma c’è molto lavoro dietro. Chi svolge il servizio al Centro con te? C’è Paolo Salsi; è un aiuto, ma anche una presenza maschile utile perché i rom non ascoltano molto noi donne. Quindi, se c’è bisogno di far rispettare delle regole, è lui che ci dà una mano. Paolo è anche il nostro contabile e ogni settimana consegna il ricavato al Centro di Ascolto di cui è responsabile Maria Pia Baroncini, che ha già detto come li utilizza. Nulla resta alla Parrocchia. Poi c’è Roberto Ragona, che è attivo presso di noi con una borsa lavoro dell’AUSL. C’è l’Angela Giordani, mia cognata che viene da San Donato e la figlia Giovanna. Questa conduzione, in parte familiare, è cominciata con una richiesta di aiuto – delle volte ci vediamo anche la domenica pomeriggio per riordinare - e poi è andata avanti. Abbiamo iniziato nel 1980, ventotto anni fa. Ci siamo un po’ specializzati nei settori: scarpe, camicie… io non sopporto di piegarle, e le lascio a mia cognata, per esempio. Giovanna ci porta via tutti i sacchi degli indumenti che non andranno venduti. Succede spesso quando muore qualcuno e la famiglia ci porta tutti gli abiti, anche vecchi di decine di anni fa; noi sappiamo che sono da smaltire perché non li indosserà più nessuno. A volte ci danno della roba rotta, scarpe bucate… ma sono da mandare direttamente nel bidone. E’ il lavoro più noioso e tedioso da fare. La Caritas ha già troppa roba e questa non la vuole. Poi bisogna stare attenti. Ho telefonato all’Hera: in via Tolmino si possono portare dei sacchi come privati, ma come Parrocchia dovremmo pagare. Figurati se andiamo a pagare per buttare via della roba vecchissima! Ma queste sono le regole e dobbiamo cercare i cassonetti per vestiti. Giovanna ha il camioncino, li carica e li smaltisce. Lei è specializzata in questo!

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La Caritas in passato li vendeva ad industrie di Prato per la cernita della lana, cotone, ecc. Ora i cinesi vendono gli indumenti a poco prezzo e il riciclo verrebbe a costare troppo. Hai detto che vengono soprattutto nomadi e musulmani… I nomadi scelgono di solito le gonne lunghe, quando ci sono. Le ragazze scelgono sempre di più i jeans stretti, i giubbotti in vita, tendono a vestirsi alla moda. Per i bimbi scelgono indumenti colorati, né bianchi, né neri. Ma i ragazzi sono pieni di soldi; glielo dico sempre che qui da noi non possono pensare di trovare le cose che hanno indosso. Una volta usati, non li tengono, non li lavano, finita la stagione li buttano via. Vengono saltuariamente pochi italiani, a volte anche per scambiare qualche parola in amicizia; quando si sistemano non vengono più. Mentre i Rom, li vediamo crescere, di famiglia in famiglia. Poi vengono anziani marocchini, tunisini, clienti di vecchia data. Sono tranquilli, sappiamo già cosa vogliono. Per quanto riguarda i musulmani vengono più spesso gli uomini che comprano anche per le donne, tranne le signore che abitano qua vicino e hanno i mariti che lavorano di giorno. Sono difficili da accontentare, e non amano cucire. Non attaccano nemmeno un bottone. Seguono i bimbi, lo vedi, sono vestiti bene e puliti; loro pure sono in ordine e cambiano spesso i loro completi: tuniche e pantaloni, sono belli ed eleganti. Ma con noi ce l’hanno, lo senti quel rancore che ti trasmettono. Fondato su che cosa? Sulla religione. Non ne parliamo mai, non è il luogo. Se loro dicono qualcosa, rispondiamo. Si capisce però che vorrebbero parlare della loro religione, ma non vogliono sentire della nostra. Il luogo forse non è adatto per farlo, ma ci provano, provocano. Sui nomadi “Sotto il campanile” ha riportato mesi fa la lettera appassionata di Alberto Zucchero. Cosa vedi tu da questo ‘osservatorio’? C’è una cosa da cui resto sempre colpita: la loro gioia di vivere. Li vedo allegri, sorridenti. Quando arrivano per cercare vestiti, a me e ai compagni di gruppo chiedono sempre come stiamo. Se trovano altri gruppi di nomadi si abbracciano, si fanno le feste, sono fraterni. Noi italiani spesso brontoliamo per il cattivo tempo, i doloretti fisici, loro non sembrano toccati da queste cose; non parlano dei loro disturbi e per loro il tempo sarà sempre bello. Poi, i bimbi: mi colpisce che non piangano, a dieci giorni, due mesi… avranno pure le coliche, insomma, non piangono e non mi sembra che stiano molto bene nel fazzolettone che le mamme portano attorno alla loro cintura! Piangono se glielo dicono i genitori, oppure quando prendono le botte: ne prendono tante… calci nel sedere, sberle… è il loro modo di educare. Però di recente a diverse famiglie hanno portato via i bimbi. Le mamme, dopo due mesi sono ancora inebetite. Vengono da noi la mattina, forse per passare il tempo. Non comprano e le vedo disorientate, ora che passano la giornata senza i loro bimbi! Tu dici che loro si dedicano alla cura dei bambini, mentre noi li vediamo andare in giro a chiedere l’elemosina coi bimbi e li giudichiamo per questo… Nel loro modo vogliono molto bene ai loro bimbi. Se un bimbo viene ricoverato all’ospedale, tutti si muovono per andarlo a trovare. Noi pensiamo che li “sfruttino”, ma fa parte del loro modo di vivere, sono venuti su così i grandi e lo trasmettono ai piccoli. Potranno dare uno scappellotto, ma non ho visto mai un bimbo con un occhio nero. Non mi sembra che ci siano correzioni violente. Da quale campo li hanno presi e dove li hanno mandati questi bimbi? Hanno disfatto il campo di via Della Volta e coloro che vi si erano stabiliti continuavano ad andare in giro qua attorno in furgoni dove si faceva tutto ed era tutto sporco, accatastato, condiviso… A Casadio, vicino ad Argelato, l’Istituto Giovanni XXIII ha messo delle famiglie in alcuni appartamenti, due o tre. In pochi casi quindi hanno mantenuto la famiglia compatta, che sarebbe l’unica strada. I bambini presi ai genitori di recente sono stati messi in famiglie aperte e in istituto. Io vedo quello che soffrono le mamme, passa il tempo e soffrono come il primo giorno. Ma penso anche a quanto soffrono i bimbi. Sarà già una tragedia lavarsi tutti i giorni. Poi come

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passeranno il loro tempo? Non usano i giocattoli, neanche si perdono con una palla o le macchinine. I puzzle, sono al di fuori della loro mentalità. E’ fatto senz’altro tutto per il loro bene. Ci sono psicologi e assistenti sociali che avranno valutato. Però i bimbi sono sempre dietro ai genitori, fanno cose da adulti. Ho chiesto ad Alberto se si poteva fare qualcosa. Ma anche lui non sapeva cosa suggerire. Hanno tanti figli i nomadi, cominciano a quattordici, quindici anni. Otto, nove. A trent’anni le mamme sono già nonne. Forse solo nostro Signore può metterci le mani, per noi uomini è dura… Quando vengono al Centro, anche se ti avvicini a loro con amicizia, tentano di fregarti, sono indisponenti, e a volte ti arrabbi… Ma i Servizi glieli hanno presi per sempre? Secondo me sì, per sempre, all’improvviso, uno shoc per tutti, ma come vivevano… Quando faccio un esame di coscienza, mi chiedo: se io avessi vissuto in un campo nomadi, cosa avrei fatto? Divento come il fariseo che ringrazia perché non è come loro. A volte dico a Don Nildo che non lo faccio più questo servizio nel Centro Indumenti, perché alla fine faccio più peccati che se me ne stessi a casa mia. Mi arrabbio anche con i musulmani…, poi penso che mi sarei arrabbiata anche con i cattolici o gli italiani, forse anche di più e allora… vado avanti.

Ma i rom hanno mantenuto la cultura musicale, l’artigianato del rame…?

Hanno perso quasi tutti i loro valori, come nel resto del mondo. Furti, ma anche droga e prostituzione, oramai sono in mezzo a loro. Arrivano da noi con tanti soldi, li spendono troppo facilmente, quasi li buttano quando li hanno, poi restano in bolletta… Non si accontentano più, come tutti noi del resto. Ma noi cerchiamo di lavorare e di scegliere rispetto al guadagno. Loro non si pongono questa remora: “Mi piacerebbe, ma non lo posso comprare”. Se non hanno, appena possono se lo prendono. Quando non avevano che un pezzo di pane da mangiare, lo consideravo quasi giusto andare a prendersi una gallina, ma adesso…

Per loro il furto non è una ‘mancanza’, quando hanno bisogno di qualcosa, vanno da chi ne ha. Che poi è tutto relativo. Il telefonino l’hanno quasi tutti; l’hanno rubato?

Ma ti posso anche dire che mi è capitato di visitare il campo nomadi di via Gobetti, quando accadde la tragedia della Uno Bianca. Ci fecero una festa grandissima… tirarono fuori il salamino, il vino. Erano contenti. Ma è comunque è difficile fare breccia a livello di amicizia.

Ci sono persone che vengono al Centro Indumenti da venti anni, erano ragazzi, eppure ci dicono il nome sbagliato. Tu cerchi di dare fiducia, di essere affabile, ma loro restano sulla difensiva.

Un’altra cosa che mi infastidisce è che non riconoscono di “dare fastidio… o di ostacolare gli altri”; vedono un posto per parcheggiare il pulmino e lì si fermano. Non si pongono il problema di intralciare chi vuole uscire da un cortile. Gli si dice. “Spostalo!” e loro rispondono “Che fastidio dà a te?” Però se fossero loro a dover uscire da un cortile e trovano un’auto che li intralcia, non credo che darebbero in escandescenze come noi. Aspetterebbero. L’orologio per loro non esiste. L’ idea di “tempo” e di “spazio” sono molto diverse da quelle che intendiamo noi!

Anche quelle di ordine… e di pulizia! Quando hanno aperto i campi qua vicino, c’erano le docce, con acqua calda. Nel tempo le hanno rotte senza ripristinarle. Lasciano in giro i pannolini dei bimbi, gli escrementi… non si preoccupano di chi verrà dopo. Diventano discariche e sporcizia dove si aggirano i topi. I bimbi cadono, si sbucciano un ginocchio, chi li disinfetta? Piuttosto che pulire, incendiano la roulotte. Se si organizzasse una cena con loro, tu pensi che i nostri parrocchiani parteciperebbero? Penso di sì, i parrocchiani ci sarebbero, ma non i musulmani; sono molto lontani i loro principi culturali. Ma penso pure che sia difficile trovare i gruppi rom da invitare. Sono un po’ sparsi ora che il campo di via Della Volta è stato chiuso. Adesso si spostano con la roulotte e trovano difficoltà ovunque. Non possono fermarsi. Da un lato non è chiudendo i campi che si risolvono i nostri problemi con loro. E forse nemmeno facendo un altro campo: dopo dieci giorni le docce sarebbero rotte, la corrente elettrica staccata… né gradirebbero controlli.

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I rom, sinti… seguono qualche forma religiosa’

Assomiglia più alla superstizione. O forse la usano in modo strumentale, per quello che vedo io. Se vogliono uno sconto: “Fammelo così Dio ti benedice!” Quelli che abitavano al campo di via Gobetti facevano dire messa a Don Nildo. Ora tutto è cambiato, in peggio. Se tu potessi invitare la nostra comunità a un cambiamento di mentalità, quale pensi possibile? E se potessi invitare i nomadi a un cambiamento, cosa proporresti? E’ un’utopia grande forse, ma proviamo a sognare, a fare un ‘viaggio’…come suggeriva Alberto Zucchero… Direi che dobbiamo volerci tutti bene, come cristiani è il minimo. Ascoltarli di più, quindi, ma senza essere permissivi e pietistici… Il rispetto reciproco, insomma. I nomadi invece dovrebbero mandare i figli a scuola… vengono da noi e chiedono abiti per i figli da mandare a scuola, ma non li mandano. Li vestono per andare dall’assistente sociale a chiedere soldi; pur avendone, li chiedono. Dovremmo puntare sulla scuola. Con gli adulti ormai non si può fare più nulla. Investire sui bambini sì. Se vogliamo sognare… perché vadano a scuola si potrebbe dare loro un incentivo congruo in denaro… altrimenti ai genitori conviene che i figli vadano ad elemosinare. Per quanto riguarda questo nostro Centro Indumenti, a volte ragioniamo se conviene tenere aperto il servizio. Ma è vero che rappresenta un contatto tra i parrocchiani e la chiesa, la comunità dei dintorni e la parrocchia. Uno sportello aperto e… andiamo avanti… per accogliere soprattutto.

Dicembre 2009

Il coro della Parrocchia di San Bartolomeo della Beverara (2011)

Come già riferito altre volte, ho intenzione di continuare queste interviste per altri servizi già esistenti e per stimolare possibili vocazioni al volontariato; sarà un piacere essere contattata dagli interessati che vogliono parlare della propria esperienza. Grazie. Angela Mazzetti Fanti (Tel. 0516345116).