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Dalla pianta di cote ad un paio di jeans

Dalla pianta di cotone ad un paio di jeans · 5 Il cotone influenza la storia umana ormai da migliaia di anni. Le scoperte, le conquiste e il commercio degli schiavi sono strettamente

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Dalla pianta di cotone ad un paio di jeans

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8 Chi ci guadagna? pag. 26-27

Vuoi saperne di più? [ Contatti e workshops | Bibliografia ]

pag. 30-31

Caro libero pensatore, cara libera pensatrice,

da più di 25 anni l’oew si dedica alla forma-zione su molte tematiche sociali, nonché sull’economia globale e lo sviluppo.Tra le nostre offerte formative c’è anche “La valigia della moda”, che siamo lieti di arricchire con questa brochure informa-tiva sui blue jeans. Nel caso non avessi (ancora) avuto il piacere di partecipare ad un nostro workshop, ti invitiamo a tuf-farti nel mondo del tessile grazie a que-sto libricino. C’è qualcosa che ci preoc-cupa e ci sta molto a cuore e basta dare un’occhiata al nostro armadio per capire cos’è: il settore del tessile, ormai globa-lizzato, non è così affascinante come ci fa credere la pubblicità e nelle pagine suc-cessive scoprirai perché.Trovare un’alternativa a tutto questo, sia in quanto consumatori e consumatrici, sia in quanto produttori e produttrici, è la cosa più importante. Ognuno di noi, già da domani, può iniziare a cercarne una!

Matthäus Kircher Direzione oew

Indice 1 La storia del cotone

pag. 4-5

2 Il lungo viaggio di un paio di jeans [ Coltivazione del cotone | Filatura | Tessitura | Colorazione | Trattamenti | Cucitura | Lavaggio | Etichettatura | Vendita | Raccolta dell’usato ]

pag. 6-93 Più veloce, più economico “fast fashion” [ Vendere e gettare via | Dalla moda al “fast fashion” | Profitto e crescita ]

pag. 10-13

7 Chic da morire – le grandi catastrofi

pag. 24-25

9 Come riconoscere quelli “buoni” [ Un aiuto per orientarsi nella giungla delle etichette | Alternative in Alto Adige ]

pag. 28-29

4 Condizioni di lavoro nell’industria tessile[ Salari | Salari di sussistenza | Ore di straordinario | Contratti di lavoro | Sindacati | Lavoro minorile | Luogo di lavoro ]

pag. 14-19

5 Costi ambientali [ Uso di pesticidi | Consumo d’acqua | Pericolosamente bello: colori e trattamenti ]

pag. 20-21

6 Bangladesh – il futuro della manifattura tessile

pag. 22-23

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La storia del cotone

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Il cotone influenza la storia umana ormai da migliaia di anni. Le scoperte, le conquiste e il commercio degli schiavi sono strettamente legati a questa preziosa fibra. Le terre dove il cotone viene coltivato, lavorato e commercia-to sono unite tra loro come i fili di una rete.

La scoperta del cotone come materiale tes-sile avvenne circa 8.000 anni fa, in India, Pa-kistan, Messico e Perù. In passato, in Europa, per vestirsi si utilizzavano le fibre autoctone, come il lino, la canapa e la lana. Dall’ VIII se-colo però cominciarono ad arrivare in Europa, tramite i mercanti arabi, i primi vestiti fatti di cotone. I primi europei a lavorare questa fibra e a ricavarne delle stoffe furono gli inglesi nel XVII secolo, dato che il cotone veniva coltiva-to nelle loro colonie come l’India, una terra che soffrì particolarmente lo sfruttamento delle materie prime da parte dei coloni. Il Pae-se infatti era tenuto a fornire le materie prime a basso costo e ad interrompere tutti i contat-ti commerciali con gli altri Paesi.L’industria tessile inglese si guadagnò, quindi, il monopolio mondiale assoluto.

Ebbe così inizio l’era delle grandi invenzioni che contribuirono alla diffusione commercia-le del cotone: fu soprattutto grazie ai filatoi e ai telai meccanizzati infatti che la quantità prodotta aumentò in modo sostenuto.La ricerca di nuovi territori dove coltivare il cotone portò gli inglesi a spedire semi del cotone indiano nelle colonie americane. An-che lì, in poco tempo, si coltivarono a cotone grandi appezzamenti. L’ottimizzazione del la-voro fu possibile grazie al lavoro degli schiavi che, faticosamente, raccoglievano a mano il cotone e lo sgranavano.Poiché la forza lavoro non era sufficiente, ven-nero portati altri schiavi dall’Africa negli stati americani.Lì vissero lavorando duramente in condizioni disumane.Un secolo dopo gli Stati Uniti combatterono per la loro indipendenza, ma ciò non arrestò il commercio del cotone con l’Inghilterra. Nonostante le proteste contro lo sfrutta-mento degli schiavi, la situazione per lungo tempo non cambiò.

In India prevalse la linea pacifista del Mahatma Gandhi, che incitava a produrre le stoffe da soli e a non comprare le stoffe inglesi. Il fi-latoio divenne il simbolo dell’indipendenza indiana.Nel XIX secolo la coltivazione del cotone si estese rapidamente: Brasile, Etiopia, così come altre nazioni furono costrette dai “po-teri forti” ad entrare in questo commercio.Accanto a questa storica supremazia dell’In-dia e degli Stati Uniti, oggi anche la Cina si contende il commercio dell’“oro bianco”.Attualmente si è alla ricerca di nuovi territori da poter coltivare, poiché, nonostante la con-correnza delle fibre sintetiche, ancora oggi il cotone rappresenta il 44% del prodotto tes-sile. Dagli anni ‘70 ad oggi il consumo mon-diale di cotone come materia prima è quasi raddoppiato.

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29,5* 29,5* 14,5* 10* 6,7* 3,9* 2,8*

*milioni di balle di cotone

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Il lungo viaggio di un paio di jeans 1 - Coltivazione del cotoneIl cotone è la materia prima con la quale, in genere, si producono i jeans. Il cotone è una pianta che cresce nella fascia equatoriale, tra il 37° nord e 32° sud di latitudine. Più del 2,5% della superficie totale delle terre coltivate è destinata al cotone, ovvero circa 35 mi-lioni di ettari. Questa pianta preziosa si può trovare in oltre 90 Paesi.

2 - FilaturaPrima della filatura è necessario eliminare i semi dalla bamba-gia: questa operazio-ne viene chiamata “sgranatura”. Dopo questo passaggio la bambagia va in filan-da, dove viene pulita, pettinata e lavorata con le macchine così da ricavarne dei fili.

3 - Tessitura Dopo la filatura i rocchetti di filo prose-guono verso le fabbriche dove verranno inseriti nei telai e lavorati per creare le stoffe vere e proprie.

Per poter crescere necessita di molta ac-qua, calore e luce. In genere costituisce una monocoltura che richiede l’uso di molti prodotti chimici per combattere malattie e parassiti.Oggi la maggior parte del cotone viene coltivato in India e Cina, seguiti dagli Stati Uniti e dal Pakistan. Questi quattro Paesi producono da soli circa il 70% del cotone mondiale.Il metodo di raccolta è prevalentemente manuale ed è necessario tornare più e più volte sui campi per raccogliere la bamba-gia quando matura.Dopo la raccolta il cotone viene trattato chimicamente per evitare che le tignole e le tarme possano danneggiarlo durante il trasporto.

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4 - Tintura

Una delle più importanti na-zioni dove si effettua la tintu-ra è la Cina. Nel nostro guarda-roba sono presenti più di 5000 colori sintetici. La maggior parte delle materie coloranti è prodotta in Polonia.

5 - Trattamenti In seguito a trattamenti chi-mici le stoffe diventano più morbide, resistenti e senza pieghe.

7 - Lavaggio Per dare ai jeans, prima della vendita, quel tipico look consunto è necessa-rio trattarli con la pietra pomice. La stoffa viene lavata per circa un’ora insieme a diversi pezzi di pietra po-mice che si dissolve completamente.Questo processo viene portato avan-ti in diversi Stati, spesso anche in Italia.Un metodo molto più pericoloso, che viene effettuato principalmente nei Pae-si asiatici, è quello della sabbiatura. Particelle

di sabbia fine vengono sparate sui jeans per ottenere il cosiddetto “ef-fetto usato”. I lavoratori addetti a questo processo sono esposti a gra-vi rischi per la salute: le particelle possono attraversare le mascherine utilizzate per proteggere la bocca e, già dopo tre mesi, sono causari di malattie curabili solo col trapianto di polmoni. Sebbene in molto paesi

il metodo della sabbiatura sia proibito, esso viene spesso usato di nascosto.

6 - Cucitura La maggior parte dei nostri capi d’abbiglia-mento viene cucita in Cina. Ultimamente il governo cinese sta cercando di garantire lo sti-pendio minimo di 175 euro al mese e per que-sto la produzione si sta spostando sempre più verso il vicino Bangladesh. In questo Paese,

infatti, ci sono ora circa 5.700 fabbriche tes-sili, molte delle quali costruite o

ampliate illegalmente negli ultimi anni.

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8 - Cucitura dell’etichetta“Made in...” è cucito dove si trova il valore aggiunto e quindi dove il capo d’abbiglia-mento acquista maggior valore. Se l’ultima fase del lavoro, quale ad esempio la cucitura dell’etichetta, viene effettuata in Italia, ciò è sufficiente per scriverci “Made in Italy”.

10 - Raccolta di abiti usatiDopo il loro utilizzo gli abiti finiscono nella spazzatura, negli armadi, da parenti e cono-scenti oppure gettati nei raccoglitori della Caritas. Questa da sola raccoglie circa 2.700 tonnellate di indumenti, 5 kg per sudtirolese.

Gli indumenti in esubero e che non possono essere ridistribuiti a livello locale vengono spediti in due fabbriche, una in Alto Adige e una a Brema dove vengono divisi per qualità e taglie secondo 300 categorie (pantaloncini bambino, camicie uomo, gonne...). Da lì i di-versi sacchi vengono spediti in tutto il mon-do per essere venduti sulle bancarelle o dai venditori ambulanti del Ghana, Thailandia, Danimarca, Romania...

9 - Vendita Più di metà della produzione mondiale del tessile (80 miliardi all’anno) arriva sul mer-cato europeo. Mediamente un*a europeo*a acquista circa 60 capi di abbigliamento in un anno.

Il giro del mondo

... dalla produzione alla venditaIl viaggio comincia dai cam-pi in India, per arrivare in Turchia dove il cotone viene filato e poi a Taiwan, dove viene tessuto. In Cina viene tinto con colori provenienti dalla Polonia, dopodiché vie-ne trattato in Bulgaria. Nel Bangladesh operai e operaie cuciono queste stoffe am-morbidite e resistenti per farne dei jeans. In Francia i pantaloni assumono quel tipico “look usato”, mentre l’etichetta con scritto “Made in…” viene cucita in Italia poco prima della vendita.Quando questo paio di jeans non piacerà più finirà nella raccolta degli abiti usati e da lì in giro per il mondo…

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India

Taiwan

Cina

Polonia

Francia

Germania

BulgariaBangladesh

Turchia

Italia

I chilometri percorsi da un paio di jeans 1 India → Turchia = 4.630 km2 Turchia → Taiwan = 8.035 km3 Taiwan → Cina = 2.105 km4 Polonia → Cina = 6.650 km5 Cina → Bulgaria = 6.570 km6 Bulgaria → Bangladesh = 6.575 km7 Bangladesh → Francia = 8.030 km8 Francia → Italia = 960 km9 Italia → Germania = 755 km

Totale dei km percorsi (in linea d’aria) = 44.310 km (la linea dell’equatore è lunga 40.075 km)

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Più veloce, più economico, “fast fashion”

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Il 40% dei vestiti comperati rimangono

quasi inutilizzati.

Comprare e gettareMediamente ogni adulto nel Nord globa-le possiede 95 capi d’abbigliamento (senza contare la biancheria): le donne in media 118 pezzi, gli uomini 73. Questo si traduce in 5,7 miliardi di indumenti. Questo dato mostra

In Alto Adige, annualmente, ogni abitante but-ta nei cassoni della Caritas circa 5 kg di vestiti. I motivi sono svariati: gli abiti sono usati, trop-po piccoli, troppo grandi, fuori moda…oppure, semplicemente, non c’è più posto nell’armadio.

In un sondaggio effettuato in Germania, solo un intervistato su sette ha ammesso di aver provato a rammendare un vestito.Il consumo medio di vestiti ed accessori in Europa si aggira sui 10 kg pro capite all’anno.

chiaramente che la mag-gior parte di noi compra più indumenti di quelli che effettivamente uti-lizza. Un indumento su 5 (il 19%) non viene usato, quindi in Italia un miliardo di capi d’abbi-gliamento restano inu-tilizzati negli armadi. Un ulteriore miliardo viene usato raramente, non più di una volta ogni tre mesi. Si può dire che il 40% degli abiti venga prodotto solo per restare nell’armadio. Oggi pos-sediamo un guardaroba quattro volte più ricco ri-spetto a quello del 1980.

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Il “fast fashion” è reso possibile dall’accele-razione nella produzione. Tra il 2010 e il 2015 i tempi di produzione si sono abbreviati del 30%. Se una volta un capo arrivava in com-mercio in 2-3 mesi, ora sono sufficienti poco più di due settimane. Il ritmo serrato del cambio di collezione sta creando pressioni sui produttori e sui fornitori. Per il consumatore è importante che il prodotto venga consegna-to in tempo e con la qualità desiderata. Sta ai produttori e alle produttrici in Bangladesh, Cina, India o Pakistan riuscire a star dietro alla richiesta. In molti casi le aziende di pro-duzione non hanno le competenze necessarie né le macchine per la realizzazione in queste velocità. Ne consegue che spesso si rendono necessari straordinari e turni notturni per i lavoratori, che raramente vengono pagati in modo giusto. Pur di raggiungere i risultati desiderati viene fatto anche uso di sostanze chimiche pericolose e del lavoro minorile.

Dal profitto alla crescitaI dati mostrano un boom dei marchi a basso costo, le cui vendite, infatti, salgono annual-mente di alcuni miliardi. Questo grande suc-cesso riguarda principalmente aziende come H&M (con i marchi H&M, COS, Monki, Week-day, Cheap Monday, Other Stories) o il grup-po INDITEX (Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Zara Home, Uterqüe). Il prezzo del successo lo pagano i lavoratori invisibili che stanno sullo sfondo dei grandi gruppi industriali.Non solo i marchi economici approfittano della crescita dei consumi, ma anche i marchi prestigiosi come Giorgio Armani, Max Mara, Hugo Boss, G-Star, Nike, Adidas e Ralph Lauren aumentano di anno in anno i loro profitti.

Dalla moda al “fast fashion”Un vestito è qualcosa che indossiamo, che ci copre e ci protegge, è un oggetto necessario e indispensabile. Ma un vestito è anche moda: ci identifica, esprime il nostro carattere, mo-stra l’appartenenza ad un gruppo oppure ci differenzia dalle masse. La moda è parte es-senziale dei codici culturali, per questo un vestito può diventare oggetto di culto e di questo ne approfittano gli stilisti.Il concetto “fast fashion”, o moda veloce, in-dica una strategia aziendale il cui obiettivo è quello di portare sempre nuovi modelli nei negozi. Il concetto classico di moda presup-pone due stagioni: quella primavera/estate e quella autunno/inverno. Oggi le catene di ne-gozi economici producono 12, 18 o addirittura 52 collezioni in un anno. L’obiettivo di queste aziende è tenere costantemente accesa l’at-tenzione mediatica sul cambio di tendenza, in modo da continuare a riempire i loro nego-zi di clienti, soprattutto di giovani.

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H&M (H&M, COS, Monki, Weekday, Cheap Monday, Other Stories)

2008 2009 2010 2011 2012 2013

11,74 mrd. 13,39 mrd. 14,32 mrd. 14,53 mrd. 15,9 mrd. 16,98 mrd. 1,73 mrd. 1,85 mrd. 2,11 mrd. 1,78 mrd. 1,9 mrd. 1,94 mrd.

GRUPPO ADIDAS (Adidas, Reebok, Taylor made, Rockport)

2008 2009 2010 2011 2012 2013

10,8 mrd. 10,38 mrd. 11,99 mrd. 13,32 mrd. 14,88 mrd. 14,49 mrd. 642 mio. 245 mio. 567 mio. 613 mio. 791 mio. 839 mio.

GRUPPO INDITEX (Zara, Pull & Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho, Zara Home, Uterqüe)

2008 2009 2010 2011 2012 2013

10,41 mrd. 11,05 mrd. 12,53 mrd. 13,79 mrd. 15,95 mrd. 16,72 mrd. 1,26 mrd. 1,32 mrd. 1,74 mrd. 1,95 mrd. 2,37 mrd. 2,38 mrd.

Fatturato e guadagno di tre grandi marchi Sviluppo dal 2008 al 2013

● = Fatturato (in euro)

● = Guadagno (in euro)

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Condizioni di lavoro nell’industria tessile

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del Bangladesh. Dati sconcertanti riportano che per una camicetta ricamata, un lavoro di un’ora, si guadagnano 0,45 euro. In Bulgaria e in Bosnia Erzegovina il guadagno basta a ma-lapena a coprire le spese mensili per il cibo. Altre spese, come affitto, riscaldamento, costi sanitari o trasporti, rendono la vita dei lavora-tori davvero difficile.“Con il nostro guadagno non possiamo avere una vita normale. Ognuno qui ha dei parenti che lo aiutano. Noi abbiamo la fortuna di ave-re un orto nel nostro paese, che ci fa vivere in estate, ma in inverno la vita diventa mol-to dura” racconta una lavoratrice moldava (Luginbühl & Musiolek. 2014).È importante inoltre sottolineare che le don-ne guadagnano molto meno degli uomini e che la maggior parte della forza lavoro delle fabbriche è femminile.

mentre una stanza in una struttura meglio organizzata circa 34. In queste abitazioni non è raro trovare un solo rubinetto e due toilette per 50 persone.Purtroppo non solo in Bangladesh, ma anche in altri stati, i lavoratori del tessile guadagnano troppo poco per condurre una vita dignitosa.

Anche l’Europa dell’Est è di-ventata sempre più

invitante per le aziende tessili: Georgia, Bulgaria, Ucraina, Mace-

donia, Moldavia e Romania sono posti

dove lavorare in fabbrica significa guadagnare una miseria. In questi paesi le condizioni sono paragonabili a quel-le dell’Asia. In Georgia il salario minimo ga-rantito è di circa un euro superiore a quello

SalarioPer gli investitori e i grandi marchi un criterio di scelta decisivo è senza dubbio il costo del lavoro, soprattutto quando si tratta di sce-gliere il sito produttivo per una fabbrica. La comparazione tra i livelli salariali dei diversi Paesi li guida alla ricerca delle località econo-micamente più convenienti e vantaggiose.Questo trend può essere spiegato bene dal seguente esempio: sebbene la Cina resti al primo posto nella produ-zione del tessile, sempre più fabbriche vengono spostate in Bangladesh, dove si trovano i lavoratori ancora più sottopa-gati. Il salario minimo regolare è di 59 euro al mese, ma questo non viene garantito ovunque. I sarti specializzati vengono pagati fino a 65 euro. Metà di questo guadagno viene subito speso per l’affitto: una stanza in una baracca di lamiera costa 24 euro,

“I posti di lavoro a basso costo creano povertà

invece di combatterla” (Inkota, 2014)

Nonostante i progressi tecnologici nell’industria dell’abbigliamento, questo resta ancora una delle attività con la più alta richiesta di manodopera.

I salari di circa 30 milioni di operai*e in tutto il mondo rientra in questo settore.

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una fabbrica tessile. “Survival of the cheapest” ovvero “la so-pravvivenza del più economi-co” potrebbe essere il motto sia nei Paesi di produzione, sia

nel mercato globale. Ad esempio, le autorità di una regione turca pro-

muovono una loro provincia come “più con-veniente della Cina”.Uno slogan del governo bengalese, pensato per attrarre imprenditori stranieri, recita così: “Le persone sono felici di ciò che hanno (...) I lavoratori tessili sono obbedienti e disposti ad imparare. Capiscono velocemente il loro com-pito, e sono disponibili in gran numero, come richiesto dalle vostre esigenze di fabbrica” (Burckhardt, 2015).

In tutti i Paesi interessati dalla campagna internazionale “Abiti Puliti” c’è un ampio diva-rio tra il salario minimo garantito e il salario base di sussistenza. Questo divario è maggiore in Paesi europei con bassi stipendi, rispetto ai Paesi asiatici in analoghe condizioni.I governi sanno che i bassi salari rappresen-tano un vantaggio competitivo e sono perciò un requisito per ottenere l’insediamento di

Salario di sussistenzaPoiché il salario minimo in diversi Paesi non è sufficiente per garantire la so-pravvivenza dei lavoratori, molte or-ganizzazioni promuovono l’aumento degli stipendi al livello del cosiddetto “salario di sussistenza”. Questo non solo assicura la sopravvivenza fisica del lavoratore e della sua famiglia, ma gli permette anche di partecipare alla vita sociale e culturale della sua comunità. L’importante è che questo sa-lario corrisponda ad una settimana lavorativa di massimo 48 ore e che non siano previsti straordinari.Nonostante i numerosi sforzi degli ultimi anni, nella maggior parte dei Paesi il salario minimo rappresenta, in pratica, il livello su-periore di guadagno e non quello inferiore.

Carta Europea dei diritti:

“Tutti i lavoratori hanno il diritto ad avere una giusta retribuzione, che assicuri loro e alle loro

famiglie un ragionevole standard di vita.” (Luginbühl & Musiolek, 2014)

nutrimento abitazione salute abbigliamentoistruzione trasporto risparmi

Attraverso un salario di sussistenza i lavoratori e le lavoratrici dovrebbero essere capaci di coprire le seguenti spese:

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Gli straordinariFare gli straordinari in fabbrica è la quotidianità: 10 ore di lavo-ro al giorno sono la regola, non l’eccezione. Spesso gli operai vengono costretti a lavorare anche 12-14 ore al giorno. Una giornata lavorativa comincia alle 8 e finisce alle 22. Più volte sono stati riportati casi di turni fino a mezzanotte. Non è affatto inusuale che un lavoratore faccia più di 100 ore di straordina-rio al mese, solo per poter sopravvivere.In Bangladesh un decreto governativo del 2014 sancisce che siano concesse ai proprietari delle fabbriche fino a quattro ore di straordinario al giorno per svolgere le loro attività. Gli operai che non sono disposti a questo possono essere li-cenziati senza un valido motivo e, per giunta, le ore di straordinario non vengono pagate. Esisto-no diverse strategie: in alcune fabbriche si viene pagati a seconda degli obiettivi di produzione, che spesso sono talmente alti da costringere le donne lavoratrici a fare molti straordinari ogni mese per poterli raggiungere. In altre aziende le donne lasciano ufficialmente la postazione alle ore 17 e firmano l’uscita, ma poiché i por-toni sono chiusi almeno fino alle 20, ritornano

alle loro macchine per cucire. Spesso, inoltre,

la necessità di fare ore di straordinario e turni di not-

te viene comunicata ai lavoratori nel pomerig-gio del giorno stesso.In una fabbrica di Chittagong, in Bangladesh, nel 2009 una ragazza di 18 anni è morta a cau-sa di un esaurimento nervoso. Il direttore della fabbrica l’aveva fatta lavorare sette giorni su sette, arrivando a 97 ore di lavoro in una set-timana. Quando la ragazza, ormai indebolita, aveva chiesto un congedo per malattia, le era stato negato e pochi giorni dopo morì. Anche in Romania le ore di straordinario sono considerate normali. Una donna che lavora nella stessa fabbrica da 25 anni, ha dichiara-to: “Io ricevo solamente il salario minimo. Un mese non ero riuscita a raggiungere il salario minimo, sebbene avessi lavorato di sabato. Ho detto al mio capo che a volte non riesco a guadagnare abbastanza se non lavora anche di sabato. La sua unica risposta è stata: allora vieni anche il sabato” (Luginbühl & Musiolek, 2014).

Lavoratrice turca:

“Niente straordinari, niente denaro”

(Luginbühl & Musiolek, 2014)

Salario di sussistenza vs salario minimoLe cifre in euro si riferiscono al salario minimo, i valori in percentuale, invece, quanto è coperto dal salario di sussistenza.

Georgia 52 euro

10 %Moldavia

71 euro 19 %

Ucraina 80 euro

14 %Macedonia

111 euro 14 %

Romania 133 euro

19 %Bulgaria

139 euro 14 %

Turchia 252 euro

28 %

Bangladesh 50 euro

19 %Sri Lanka

50 euro 19 %

India 52 euro

26 %Cambogia

61 euro 21 %

Indonesia 82 euro

31 %

Cina 175 euro

46 %

Malesia 196 euro

54 %

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Sindacati

Le attività sindacali e le riunioni organizzate vengono combattute con ogni mezzo. Grazie alle pressione dall’esterno in alcuni Stati, tra cui il Bangladesh, ora sono permesse. Tutta-via i lavoratori non possono riunirsi durante l’orario di lavoro. Ma allora quando posso-no incontrarsi? Dopo un turno di 14 ore o la mattina alle 5? I capri espiatori sono sempre i sindacalisti: nei loro confronti sono nume-rosi i casi di percosse, furti e persino omici-di. In Bangladesh è molto difficile registrarsi

presso un sindacato, perché è nell’interesse del go-

verno evitarlo. At-tualmente sono

149 i sindaca-listi registra-ti su un to-tale di 5.700 fabbriche.

Oltre all’indignazione per i licenziamenti

arbitrari, c’era an-che la richiesta di un salario tre volte superiore a quello minimo.

La polizia reagì con molti arresti, le

aziende con licenzia-menti di massa.

Contratti di lavoro

Nel mondo molti lavoratori del settore tessile han-no contratti di lavoro non a norma o non ne hanno affatto.Di solito, in Bangla-desh, i lavoratori e le lavoratrici non firmano un contratto cartaceo: nel momento dell’assun-zione viene data loro una sorta di carta di identità con la quale possono accedere alla fabbrica.La campagna “Abiti Puliti” ha dichiarato che anche nell’Europa occidenatale circa un terzo degli occupati nel settore tessile sottoscrive un rapporto di lavoro informale. Questo vuol dire che i datori di lavoro non pagano i con-tributi per l’assistenza sanitaria e che i lavo-ratori possono essere licenziati senza motivo, poiché non possono appellarsi a nessun dirit-to, né tantomeno trattare.Per motivi analoghi a questi, nel 2016, migliaia di lavoratori del tessile bengalesi decisero di scioperare per una settimana.

Lavoratrice georgiana:

“Noi accettiamo ciecamente qualunque contratto ci venga

dato perché non abbiamo soldi e ci sta cuore la sorte delle

nostre famiglie” (Luginbühl & Musiolek, 2014)

Lavoratrice rumena:

“Ciò che mi fa più male è il fatto che le donne in fabbrica abbiano paura di organizzarsi e non

chiedano alla direzione un aumento del salario minimo. Se noi fossimo unite, forse potremmo cambiare qualcosa, ma le lavoratrici hanno paura, nell’attuale situazione

economica, di perdere il posto. E alla fine rimaniamo tutte”

(Luginbühl & Musiolek, 2014)

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Riduzione e regolamentazione degli straordinari, nonché una giusta ed equa retribuzione nel caso fossero necessari

Contratti chiari, comprensivi di contributi sociali e tutela della maternità

Sicurezza sul posto di lavoro

Lavoro minorileIl lavoro minorile viene impiegato laddove si vuole produrre al minor prezzo possibile. I bambini guadagnano ancora meno dei lavo-ratori adulti e, normalmente, sono più obbe-dienti. Secondo alcune stime, nelle piantagio-ni di cotone in India lavorano circa 450.000 bambini, in età compresa tra i 6 e i 14 anni. Sebbene le pressioni internazionali diventino sempre più forti, lo sfruttamento del lavoro minorile in tutto il mondo non si ferma: in Bangladesh il 10% dei*delle ragazzi*e tra i 5 e

Luoghi di lavoroIn genere i capannoni nei quali si cuciono gli abiti sono di grandi dimensioni. Nello stesso luogo si possono trovare diverse li-nee di produzione per pantaloni, camicie o magliette. Sono luoghi generalmente molto caldi, rumorosi e maleodoranti e il rischio di incendio è molto elevato. Le scale di emer-genza spesso non ci sono o sono inacces-sibili.Il problema non è solo la precarietà dei luoghi di lavoro, ma anche il sostentamento insufficiente

e non garantito ai*alle lavoratori*rici. Si rispar-mia su tutto, anche sul cibo, come nel caso dell’aprile del 2014 quando in due fabbriche bengalesi circa 1.000 dipendenti sono stati avvelenati con cibo scaduto. Casi analoghi si sono verificati in altre grandi ditte, compresi i fornitori di H&M, Esprit e C&A.Un altro problema è la violenza sessuale. Le donne non sono sempre al sicuro sul posto di lavoro e spesso vengono molestate, umiliate e offese.

Giustizia al 100 %

i 14 anni anni lavora duramen-te e a contatto con sostanze tossiche o pericolose. Una gran parte di loro è impiegata nell’industria tessile.Secondo gli studi, il lavoro mi-norile è un problema ancora largamente diffuso nel set-tore tessile e non si limita al mondo asiatico. Un esempio è il caso dei bambini siriani addetti alla cucitura e piega-tura dei jeans nelle fabbriche in Turchia.

€Parificazione del salario minimo con quello di sussistenza del relativo Paese

Possibilità di riunirsi e di fare attività sindacale

Divieto del lavoro minorile

Parità di genere

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Costi ambientali

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La pianta del cotone è la pianta che mon-dialmente necessità della maggior quan-tità di prodotti antiparassitari. Circa il 25% degli insetticidi e l’11% dei pesticidi vengono utilizzati nei campi di cotone. Queste sostanze fi-niscono nel ciclo dell’acqua, contami-nando l’ambiente. È stimato che questi pesticidi causino ogni anno 20 milioni di avvelenamenti a livello mondiale. Meno dell’1% del cotone viene col-tivato secondo criteri biologici.

L’industria del tessile consuma grandissime quantità d’acqua. Il cotone, infatti, è al secondo posto dopo il riso per quanto riguarda i consumi idrici. Per 1 kg di stoffa si possono utilizzare fino a 11.000 li-

Per la colorazione di circa 80 miliardi di capi d’abbigliamento prodotti annualmen-

te vengono utilizzati grandi quantitativi di sostanze perico-lose per la salute e per l’ambiente. I*le produttori*rici hanno a disposizione 5000 differenti varietà

di tinte tra cui scegliere. In linea di massima le operazioni di tintura av-vengono in Paesi nei quali la tutela dell’ambiente e della salute scarseg-gia. La Cina è il Paese magggiormen-te scelto per la tintura delle stoffe. Molti dei colori utilizzati possono causare allergie e cancro e per questo in Europa sono proibiti. Le aziende approfittano della mancan-za di tutela ambientale per risparmiare

grosse somme di denaro: così facen-do possono da un lato disfarsi delle acque contaminate senza depurarle risparmiando sullo smaltimento; dall’altro possono utilizzare colo-ranti economici e tossici in maniera legale.Greenpeace ha rivelato che circa due terzi dei fiumi e dei laghi cinesi sono ormai inquinati. È stato dimostrato che le sostanze tossiche delle tintorie finiscono nelle falde dell’acqua po-tabile e quindi nel cibo. Sempre più spesso questo comporta un rischio per la salute di persone ed animali.Nella produzione di un paio di je-ans le sostanze tossiche non ven-gono utilizzate solo nel processo di tintura: esistono infatti circa 7.000 sostanze per rendere i jeans elastici o rigidi, senza pieghe, lisci o ruvidi. Anche queste sostanze velenose ven-gono rilasciate nell’ambiente.

Pericolosamente bello – colorazione e trattamenti

tri d’acqua e per la produzione di un paio di jeans sono necessari circa 8.000 litri, equivalente a 53 vasche da bagno colme.

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Bangladesh – il futuro della manifattura tessile

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In Bangladesh, un piccolo stato del sudest asiatico, vengono prodotti i capi d’abbiglia-mento di quasi tutti i marchi più famosi. Ciò avviene perché il costo del lavoro in questo Paese è il più basso al mondo. Questo boom industriale ha dato lavoro a 4-5 milioni di per-sone e, indirettamente, 10 milioni di persone trovano sostentamento grazie a questo set-tore produttivo. L’83% di queste sono donne.

Nell’arco di 25 anni questo piccolo Stato è di-ventato il secondo esportatore mondiale di abbigliamento. Si stima che il Bangladesh nei prossimi cinque anni si farà largo fino a rag-giungere il primo posto, sorpassando la Cina. Questo grande sviluppo ha creato molti posti

di lavoro. Per poter lavorare non sono richie-ste particolari competenze e ciò significa che i salari sono bassi.Il 30% della popolazione vive sotto la soglia di povertà con 30 euro al mese, mentre il sala-rio di sussistenza è di 259 euro mensili.La percentuale di analfabetismo è piuttosto elevata: solo il 60% delle donne e il 65% de-gli uomini sa leggere e scrivere.Gli standard sociali e ambientali sono ancora piuttosto bassi e possono essere aggirati sen-za difficoltà.Le cause di questo boom del tessile in Bangla-desh sono facilmente ascrivibili al fatto che il 60% dei parlamentari rappresenta gli inte-ressi delle aziende o diventano parlamentari

gli stessi proprietari delle fabbriche. In Ban-gladesh esiste una federazione dei produttori del tessile, la BGMEA, a cui aderiscono tutti i proprietari delle maggiori fabbriche. Questa organizzazione è guidata da 27 persone che mantengono un contatto diretto con i servizi segreti e il Primo Ministro.Per contrastare la mancanza di spazio nelle fabbriche si tende spesso ad innalzare gli edi-fici o a ridurre gli spazi lavorativi degli*delle operai*e.Nessuno conosce esattamente il numero del-le fabbriche tessili bengalesi, ma le stime par-lano di 5.700 stabilimenti. Molte aziende non sono legalmente registrate a causa della scar-sa quantità di macchine da cucire o perché

Bangladesh - fatti e cifreSuperficie: 147.570 kmqAbitanti: 162 milioni (2016), di cui 1/3 minori di 15 anni (L’Italia ha una superficie grande il doppio, ma solo 60 milioni di abitanti)Capitale: DhakaLingua ufficiale: bengaleseReddito pro capite: 688 euro all’anno, circa il 30% della popolazione vive sotto la soglia di povertà con solo 1 euro al giorno

Occupati nell’industria tessile: 4-5 milioni (dati 2013)Export abbigliamento: 14, 2 miliardi di euro (dati 2013)Salario minimo: 59 euro al mese (dati 2015)Salario di sussistenza: 259 euro al mese (dati 2013)

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sono state costruite o ampliate abusivamente.Chi ricorre maggiormente al “Made in Bangladesh” sono gli Stati europei (il 58% di tutto l’abbigliamento prodotto finisce in Europa) e gli Stati Uniti (23%). L’azienda svedese H&M è il più importante acquirente ed è ar-rivata a spendere 1,1 miliardi di euro nel 2012.

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Chic da morire – le grandi catastrofi

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Il 24 aprile 2013 a Dhaka, la capitale del Bangladesh, ebbe luogo il più grave incidente del settore tessile: il palazzo del Rana Plaza, alto otto piani e parzialmente abusivo, crollò. Oltre 1.100 persone, soprattutto donne, ven-nero sepolte dalle macerie. Altre 2.500 rima-sero gravemente ferite. Molti subirono l’am-putazione di una gamba o di un braccio per poter essere tratti in salvo dalla montagna di mattoni e acciaio.Il giorno prima della tragedia la polizia aveva vietato l’ingresso nel palazzo. La fabbrica, di proprietà del politico bengalese Sohel Rana, mostrava infatti delle grandi crepe e non la-sciava presagire nulla di buono. “Il giorno seguente molti non volevano entrare, ma ci venne detto di andare tranquillamente a lavo-rare. Improvvisamente il palazzo è crollato e io non ho più rivisto mia madre” ha racconta-to il quattordicenne Yeanur (Zeit online, 2016).Un anno prima al Rana Plaza erano stati aggiunti tre piani abusivamente. Nessun ispettorato statale aveva mai controllato la fabbrica. L’uso di materiali molto economici per la costruzione ha favorito il collasso del-la struttura. Anche se sulle porte d’ingresso

della fabbrica compariva la scritta “closed”, quando alle ore 9.00 del 24 aprile il palazzo crollò, al suo interno c’erano più di 3.600 per-sone che erano state obbligate ad entrare in servizio comunque.

I racconti delle vittimeRita ha 23 anni e un figlio di 6. Stava lavoran-do al terzo piano per la ditta Phantom quan-do il palazzo è crollato. Si è salvata solamen-te perché è rimasta incastrata in una cavità, ma nonostante questo ha perso un braccio.Anche Shila ha 23 anni ed è vedova. Quel giorno al Rana Plaza è rimasta sotto le ma-cerie per 16 ore e le è stata amputata una gamba fin sopra al ginocchio, altrimenti non sarebbe stato possibile salvarla.

La tragedia del Rana Plaza è finora la più grave mai accaduta nel settore del tessile, ma è solo una delle tante. Tra il 2004 e il 2006 hanno perso la vita circa 200 persone in incendi e crolli di fabbriche. Solo in Bangladesh, tra il 2006 e il 2009, sono morti sul posto di lavoro

414 dipendenti del tessile. Dal 2009 al 2012 si sono aggiunte altre 203 vittime di infortuni sul lavoro. Ecco alcuni esempi: 25 febbraio 2010: 21 lavoratori*rici muoiono dopo che, per la seconda volta nel giro di un anno, è divampato un incendio nella fabbri-ca. Le fibre acriliche bruciate hanno creato un fumo denso e nero che li ha soffocati. Gli estintori non funzionavano e le finestre erano sigillate.14 dicembre 2010: Più di 20 operai*e hanno perso la vita in un incendio infernale, perché le porte delle vie di fuga, al nono piano del palazzo, erano sbarrate. Uno degli operai è morto gettandosi dalla finestra.24 novembre 2012: Una fabbrica fuori Dhaka ha preso fuoco alle ore 18.30. Sebbene ufficial-mente all’interno non ci dovesse essere nes-suno, a quell’ora 600 persone erano ancora al lavoro. I direttori della fabbrica hanno impe-dito intenzionalmente ai*alle lavoratori*rici di mettersi in salvo. 112 persone sono morte carbonizzate, altre 150 sono rimaste ferite così gravemente da non essere più in grado di lavorare. Allora, la fabbrica di Tazreen, produ-ceva per la Disney e KiK.

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Chi ci guadagna?

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Solo l’1 % del prezzo finale di un capo di abbigliamento va a finire nelle tasche dei*delle lavoratori*rici che si trovano all’inizio della catena produttiva. Il restante 99% viene spartito tra il singolo negozio, i trasporti, le fabbriche e i marchi.

Il seguente grafico mostra la distribuzione dei profitti nel commercio mondiale:

1 % = 0,30 euroguadagno

dei*delle lavoratori*rici

Jeans da 30 euro

“Made in Bangladesh”

50 % = 15 eurocommercio al dettaglio

(affitto, salari, pubblicità, tasse)

25 % = 7,50 euromarchio

(design, affitto, dipendenti,

amministrazione, pubblicità)

11 % = 3,30 eurotrasporto

(carburante, personale, tasse, dogane)

13 % = 3,90 euromateriali e profitti

delle fabbriche nei paesi con salari minimi

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Come riconoscere quelli “buoni” Un aiuto per orientarsi nella giungla delle etichetteI*le consumatori*rici possono avere delle difficoltà a orientarsi tra le tante etichette. Questa lista identifica i vari criteri che le contraddistinguono:

Criteri• sostegnodeisistemidicoltivazionenaturali• divietodiutilizzaresementiOGM• prezzominimogarantitoperilcotone• premisocialiperiprogetticollettivi• sicurezzaetuteladellasalutesulluogodilavoro• divietodilavorominorilee/oforzato• libertàdiassociazioneedirittoallacontrattazionecollettiva

Criteri• fibredaagricolturabiologicacontrollata• divietodiutilizzaresementiOGM• divietodiusaresostanzeecolorantidannosiperlasalute• glistandardsocialivalgonosoloperlaproduzionedella

stoffa grezza, non per i successivi passaggi• divietodilavorominorilee/oforzato• libertàdiassociazioneedirittoallacontrattazionecollettiva

Criteri• salariodisussistenza• orariodilavoronellanorma• sicurezzaetuteladellasalutesulluogodilavoro• rapportidilavorobendefiniti• divietodilavorominorilee/oforzato• libertàdiassociazioneedirittoallacontrattazionecollettiva

Criteri• fibredaagricolturabiologicacontrollata• divietodiutilizzaresementiOGM• divietodiutilizzodisostanzepericolosepergliesseriumani

e per l’ambiente in tutta la filiera di produzione• gestioneeconomicadell’acquaedell’energia• salariodisussistenza,divietodilavorominorileeforzato• libertàdiassociazioneedirittoallacontrattazionecollettiva

Criteri• l’etichettapuòessereutilizzatadalleimpresechein

tutta la loro filiera di produzione rispettano i principi del commercio equo e solidale

Criteri• almenoil95%delprodottofinaledafibrebiologiche• divietodisostanzepericolose• divietodilavorominorilee/oforzato• libertàdiassociazioneedirittoallacontrattazionecollettiva

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Non vuoi essere pezzo di questa rete che sfrutta lavoratori e lavoratrici nel globale Sud del mondo rende loro la vita così pesante?

Tutti possono fare qualcosa per cambiare questa situazione. Rammendare un calzino o attaccare un bottone caduto, organizzare o prendere parte ad un party per scambiarsi gli abiti usati, sferruzzare per farsi uno scial-le o fare una gonna all’uncinetto, portare le scarpe ancora un altro anno o semplicemente comprare meno vestiti.Hai bisogno di qualcosa di nuovo? È sempre più facile trovare produzioni tessili equosoli-dali o locali anche in Alto Adige. Sulla mappa digitale della pagina web dell’oew è possibile trovare la lista dei negozi in Alto Adige dove è possibile fare shopping equo e solidale: www.oew.org/abbigliamento La pagina viene costantemente aggiornata con informazioni e nuovi negozi, tra cui anche quelli dell’usato.

Alternative in Alto Adige

Comprare di meno, facendo attenzione alle etichette

Li posso portare ancora un anno?

Party per scambiarsi i vestiti

Fai da te (cucire, lavorare ai ferri e all’uncinetto)

Rammendare

Controlla online: www.oew.org/abbigliamento

BurgraviatoTRILLI Sinigo

Pusteblume ParcinesBest Second Hand RifianoBergauf Santa Valburga

Bottega del Mondo Merano e LanaPrachtstube Merano

Natürlich Terra MeranoGlashaus Merano

Tausch-Verschenk-Treff Lagundo CORA happywear Lana

Second-hand & ARt Lana

Val VenostaKleiderstube Wilma

NaturnoBolzano

Botteghe del Mondo Bolzano e LaivesCreativ - Spiel Kunst Textil Bolzano

Aufburg Bolzano Re-bello Bolzano

Valle IsarcoBottega del Mondo Bressanone

Prachtstube Bressanone

Val PusteriaBottega del Mondo Brunico

LA VIE Second Hand Boutique BrunicoHandweber Herman Kühebacher Villabassa

ecopassion Brunico Alpinschnuller Campo Tures

Oltradige-Bassa AtesinaETHIKA - Organic Fashion Egna

WipptalBottega del Mondo Vipiteno

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L’oew - Organizzazione per Un mondo solidale si impegna da più di 25 anni per ottenere migliori condizioni lavorative nel Sud globale e per un mercato più giusto in Alto Adige.

Il workshop interattivo di tre ore “La valigia della moda – Il lungo viaggio dei nostri abiti”, pensa-to per gli studenti e le studentesse delle scuole medie, superiori e professionali, si pone l’obietti-vo di denunciare la grave situazione della produ-zione tessile nel mondo e prova a mostrare delle alternative. Il workshop può essere prenotato tutto l’anno. Il team dell’oew è disponibile ad or-ganizzare su richiesta anche conferenze, corsi di formazione o ad aiutarvi con l’organizzazione di party per scambiarsi i vestiti.

Nella Biblioteca specialistica dell’oew Un solo mondo possono essere presi in prestito libri e DVD su questa tematica. Il team della biblioteca, inoltre, è a disposizione di gruppi e classi per pre-parare dei pacchetti multimediali personalizzati. Inoltre anche l’esposizione itinerante “Fashion Revolution”, contenente fatti e dati riguardo all’industria tessile mondiale, può essere presa in prestito a titolo gratuito.

Contattooew-Organizzazione per Un mondo solidaleVia Vintler 34 – 39042 Bressanonetel. 0472 833950 | e-mail: [email protected] www.oew.org

Vuoi saperne di più? Indice bibliograficoBurckhardt, Gisela (2015). Todschick: Edle Labels, billige Mode – unmenschlich produziert (2. Auflage). Pößneck: Heyne.Greenpeace magazin. (2011). Textil-Fibel 4. Hamburg.Inkota (2014). Informationsblatt Bangladesch. Inkota netzwerk. Acesso: 30 dicembre 2016, da http://www.inkota.de/fileadmin/user_upload/Themen_Kampagnen/Soziale_Verpflichtung_fuer_Unternehmen/afw/INKOTA-CCC_Hinter-grundinfo_Existenzlohn_Bangladesch.pdf. Luginbühl, C., & Musiolek, B. (Juni 2014). Im Stich gelassen: Die Armutslöhne der Arbei-terinnen in Kleiderfabriken in Osteuropa und der Türkei. Clean Clothes Campaign. Acesso: 29 dicembre 2016, da http://lohnzumleben.de/wp-content/uploads/2014 /06/CCC-GE-Report-GER-DEF-LR-spreads.pdfOrsenna, E. (2007). Weisse Plantagen. Eine Reise durch unsere globalisierte Welt. München: C.H. Beck.Steinberger, K. (2014). Im Stich gelassen. Süddeutsche Zeitung, Heft 17/2014. Acesso: 29 dicembre 2016, da http://sz-magazin. sueddeutsche.de/texte/anzeigen/41852/1/1. ZEIT ONLINE (27 dicembre 2016). Mindestens 1.500 Textilarbeiter nach Streik entlassen. Die Zeit. Acesso: 28 dicembre 2016, da http://www.zeit.de/wirtschaft/2016-12/bangladesch- textilfabriken-streik-entlassungen.

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Via Vintler 34 | 39042 Bressanone | T +39 0472 833 950 | [email protected] | facebook/oew.org | www.oew.org

Pubblicato nel 2018 da:oew-Organizzazione per Un mondo solidale

Testo: Verena GschnellTraduzione: Carla De Vita

Grafica: Alias Idee und Form, VarnaStampa: Kraler Druck, Varna