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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 66 MARZO 2018 CITTÀ DEL VATICANO Donne e lavoro

D onne e lavoro - L'Osservatore Romano · D ONNE CHIESA MOND O 6 7 D ONNE CHIESA MOND O mondo in cui viviamo. Viviamo in una società diseguale, e questa di-suguaglianza aumenta in

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 66 MARZO 2018 CITTÀ DEL VAT I C A N O

D onnee lavoro

numero 66marzo 2018

L’I N T E R V I S TA

Il lavoro domestico: socio occultodel capitalismo

SI LV I N A PÉREZ A PA G I N A 3

L’I N C H I E S TA

Il lavoro (quasi) gratuito delle suoreMARIE-LUCILE KUBACKI A PA G I N A 11

PREGIUDIZIO E CASTIGO

Diventare donnaè un nascere per strappi

DANIELA SCOTTO DI FASANO A PA G I N A 17

SOLO UN ROMANZO?

La maternità come risorsa economicaMARIE-LUCILE KUBACKI A PA G I N A 22

LA S A N TA DEL MESE

La protezione di santa RosinaNUCCIA RESEGOTTI PALMAS A PA G I N A 26

LE D ONNE DI PAOLO

Giunia l’ap ostola

CARMEN BERNABÉ A PA G I N A 29

ARTISTE

La scrittura come unico appiglioELENA BUIA RUTT A PA G I N A 36

ME D I TA Z I O N E

Prudenti, astuti e sempliciA CURA DELLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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L’I N T E R V I S TA

Il lavoro domestico:socio occulto

del capitalismoCharles Ginner(1878-1952)

«Donne in una fabbricadi abbigliamento»

«Non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbia-no gli stessi stipendi degli uomini. È il più grande furto della sto-ria». Secondo Anuradha Seth, consigliera economica del Programmadi sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), il divario del 23 per centoche esiste in media nel mondo tra il salario delle donne e quello de-gli uomini si può definire come la più grande ingiustizia a cui oggisono sottoposte le donne. Sta finalmente emergendo all’attenzione ealla coscienza del mondo che le asimmetrie salariali, per quanto sisiano ridotte globalmente negli ultimi dieci anni, rendono evidentequanto siamo ben lontani dalla parità. È proprio il differenziale sala-riale a riflettere le discriminazioni e le disuguaglianze sul mercato dellavoro che, nella pratica, colpiscono ancora e soprattutto le donne.Al ritmo attuale, avverte l’Onu, ci vorranno più di settant’anni perporre fine a questa situazione. Il divario salariale, come dimostriamoin questo numero di «donne chiesa mondo», non ha una o due cau-se, ma è dovuto all’accumulo di numerosi fattori e comportamenticulturali che includono la sottovalutazione del lavoro delle donne, lamancata remunerazione del lavoro domestico, la minore partecipazio-ne al mercato del lavoro, il livello di qualifiche assunte e la discrimi-nazione. Uno svantaggio sociale che incide sul reddito femminilelungo tutto l’arco di vita: guadagnando meno degli uomini, anchedurante la pensione, le donne sono più esposte al rischio di povertàin vecchiaia. Ed è già oggi una vera piaga nel mondo l’alta percen-tuale di donne oltre i sessantacinque anni a rischio concreto di po-vertà. Troverete in queste pagine anche il parere della psicologa Da-niela Scotto di Fasano su come le logiche economiche che regolano illavoro femminile influiscano sulla scelta della maternità e sollecitino isensi di colpa connessi all’eventuale rinuncia a una propria realizza-zione professionale. Infine abbiamo rivolto lo sguardo anche all’in-terno della Chiesa dove, nel reportage di Marie-Lucile Kubacki, laquestione del corrispettivo economico non percepito è piuttosto l’al-bero che nasconde la foresta di un problema ben più grande: quellodel riconoscimento. Tante religiose hanno la sensazione che si facciamolto per rivalorizzare le vocazioni maschili ma molto poco per farelo stesso con quelle femminili. (silvina pérez)

L’EDITORIALE

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romanodiretto da

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ELENA BUIA RUTT

ANNA FOA

MARIE-LUCILE KUBACKI

RI TA MBOSHU KONGO

MA R G H E R I TA PELAJA

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

di SI LV I N A PÉREZ

Mercedes D’Alessandro, giovane e innovativa economista, scrive epensa al lavoro femminile da un punto di vista nuovo che ha su-scitato molto interesse e discussioni nella cultura femminista.

Il femminismo non è una novità, è sempre esistito. L’idea che la donna debba

avere gli stessi diritti dell’uomo è un dato culturale appurato. Allora, cosa c’è di

particolare nell’essere femminista nel momento storico in cui viviamo?

Una grande differenza è il ruolo che noi donne oggi ricopriamonel sistema economico. Negli anni sessanta solo due donne su die-ci lavoravano fuori casa, oggi a farlo sono sette su dieci.

Questo ha trasformato completamente i rapporti economici e sociali.In linea di massima, le donne hanno più autonomia perché hannouna professione e dispongono di entrate proprie. Negli Stati Unitisono il 50 per cento della forza lavorativa, in Argentina oltre il 40per cento. Ma tutto ciò si è ottenuto e si ottiene al prezzo di unadoppia giornata di lavoro: le donne, nella maggior parte dei casi,continuano a occuparsi dei lavori domestici e a prendersi cura dellafamiglia. Questi compiti richiedono tanto tempo (una media di seiore al giorno) e, per chi non può permettersi una collaboratrice do-

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mestica o disporre di una scuola materna per i figli, diventano unostacolo. Molte donne devono lavorare meno ore per riuscire a faretutto, o lavorarne tantissime, senza mai riposarsi, il che mina la lorosalute e la loro crescita personale. Oggi si è femministe con questadoppia identità, di donne con maggiori possibilità, ma ancora confi-nate culturalmente a un ruolo domestico, e quindi esposte a un mag-giore sfruttamento. Inoltre in media guadagniamo meno dei nostripari uomini e non riusciamo a ricoprire ruoli dirigenziali. In pocheparole, il capitalismo ha un socio occulto: la donna che svolge lavoridomestici non retribuiti. E se le cose cambiassero, il mercato ne subi-rebbe le conseguenze.

Negli anni settanta (come risultato delle lotte sociali del 1968), il femminismo radi-

cale sosteneva che il personale è politico e che i rapporti tra uomini e donne sono

rapporti di potere. Crede che la situazione sia ancora la stessa?

Quando parliamo di lavoro domestico non retribuito come di unproblema sociale, è proprio così. Perché qualcuno potrebbe dire chele donne scelgono di restare a casa e crescere i figli invece di fare car-riera. Ma si tratta di scelte che si fanno nell’ambito di una società incui, per esempio, una madre ha tre mesi di permesso di maternità e ilpadre due giorni (almeno in Argentina). Il padre può aver tutta lavoglia che vuole di prendersi cura del figlio, ma non ne ha la possi-bilità. Inoltre una madre che lascia il suo posto in famiglia per lavo-rare viene contestata, mentre ci si congratula con un padre che si “sa-crifica” per la sua famiglia e sta fuori tutto il giorno. Allora, fino ache punto le decisioni personali sono private? “Il personale è politi-co” è un motto tuttora vigente, che si riferisce anche alla violenzamaschilista e a certi modi di affrontare i problemi per cercare solu-zioni globali.

Esiste un cambio di guardia tra le veterane battagliere degli anni settanta e ottanta,

dallo sguardo molto combattivo ma forse un po’ settario, e le giovani attuali? Esiste

un filo conduttore tra il vecchio femminismo e quello di oggi? E il femminismo di

oggi su che cosa si basa e in che cosa si differenzia da quello del passato?

Credo che ogni ondata femminista abbia avuto caratteristiche e di-battiti interni molto costruttivi. Io non ho vissuto quelli del passato,che conosco solo attraverso le testimonianze di libri e racconti. Pensoin ogni modo che non siano stati meno appassionanti di quelli attua-li. Oggi ci sono tanti gruppi e idee, il femminismo è molto diverso.Il patriarcato invece non è cambiato molto. Quando si leggono i mo-tivi per cui le donne non potevano votare, suonano ancora attuali…In ogni caso credo che la sfida, non solo del femminismo ma anchedella nostra generazione, sia di trovare un’alternativa possibile al

Un’i l l u s t ra z i o n epubblicitaria del 1964

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mondo in cui viviamo. Viviamo in una società diseguale, e questa di-suguaglianza aumenta in rapporto al genere e al colore della pelle.Le donne povere, migranti, nere sono quelle che subiscono maggior-mente gli effetti della disuguaglianza. Il nostro sistema economico cicontrappone alla natura. Sono quindi tante le cose da smantellare. Intal senso il femminismo ha molto da offrire.

È notizia recente che l’importante caporedattrice della Bbc Carrie Gracie ha lasciato

il suo incarico per la persistente disparità salariale tra uomini e donne nella televi-

sione statale britannica. Nel mondo c’è una discriminazione sistemica contro le don-

ne? Com’è possibile che il divario salariale e la precarietà lavorativa siano il pane

quotidiano di milioni di donne in tutto il mondo?

Avendo un onere maggiore nei lavori domestici non retribuiti enelle cure familiari, le donne hanno meno tempo per lavorare in mo-do formale. E quindi svolgono lavori precari, che sono quelli peggiopagati. Hanno pertanto meno opportunità di crescere nella loro car-riera, professione o impiego. Il che le rende più povere. La povertà èsessista. La precarietà lavorativa è il pane quotidiano di milioni didonne. Certo, neanche gli uomini sfuggono a un mercato del lavorosempre più difficile, che non può che peggiorare al ritmo dei cambia-menti tecnologici e della robotizzazione. Il divario salariale è il sinto-mo di una malattia profonda del sistema che bisogna attaccare allaradice.

Secondo i dati 2017 del Forum economico mondiale il divario nel rapporto uomo-

donna non solo non sta diminuendo, ma sta addirittura aumentando. Inoltre i dati

indicano che il cammino si è invertito in senso negativo. La loro lettura ci mo s t ra

un mondo in cui, per esempio, un paese come la Germania, motore dell’Unione eu-

ropea, ha il terzo divario salariale più grande d’Europa. A suo giudizio, che biso-

gna fare per ribaltare la situazione?

I dati del Forum economico mondiale, e anche dell’O rganizzazio-ne internazionale del lavoro, mostrano che i divari non si stanno col-mando. Sono anni che in tutti i forum mondiali si sente parlare diemancipazione della donna ma, quando si cerca di vedere che cos’èstato fatto in tal senso, il quadro è molto triste. Anche nelle questionipiù elementari. L’Onu fa grandi discorsi, ma in tutta la sua storianon ha mai avuto un segretario donna. I paesi nordici sono general-mente il faro in questo campo e le loro politiche pubbliche nell’am-bito del sostegno alle famiglie hanno dato eccellenti risultati. Peresempio nei permessi di maternità e paternità prolungati, condivisi eobbligatori per entrambi i genitori. Ma c’è ancora tanto da fare.

Argentina, laureata ineconomia, docente in varieuniversità e divulgatriceeconomica, MercedesD’Alessandro è una delleeconomiste femministe chehanno suscitato maggiorinteresse negli ultimi anni.Nel 2015 ha lanciato il

portale «EconomíaFeminista». La pagina web,che si avvale del lavoro nonsolo di un gruppo dieconomiste, ma anche diesperte di altre discipline, èriuscita a inserire l’economiacon una prospettiva digenere nell’agenda pubblica

latinoamericana e aconquistare le reti sociali.D’Alessandro, che vive aNew York, ha pubblicatonel 2016 Economía Feminista.

Cómo construir una sociedad

igualitaria (sin perder el

glamour) del quale sonostate pubblicate sei edizioni.

Mercedes D’A l e s s a n d ro

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dei media né dei nostri colleghi economisti. È nata al grido di «NiUna Menos», il che le ha conferito un spazio più che importante neldibattito più vasto legato a tutte le disuguaglianze che noi donne vi-viamo e che vanno dalla violenza maschilista a quella economica,passando per gli stereotipi che ci vengono imposti e che ci limitano.Il sito, e soprattutto il dibattito nelle reti sociali, mi ha mostrato, sulpiano personale, che nell’economia femminista c’erano moltissimedomande senza risposta e mi è servito da ispirazione per scrivere il li-bro Economía feminista. Come il sito, volevo fosse uno spazio che of-frisse idee, dibattiti, e soprattutto che fosse formativo. Che chi lo leg-gesse potesse imparare qualcosa di nuovo, ma non come un aneddo-to, bensì come qualcosa che gli fornisse strumenti per trasformarequesto mondo diseguale e patriarcale. A due anni dall’apertura delsito e dalla pubblicazione del libro, posso dire, con grande orgoglio esoddisfazione, che abbiamo contribuito molto al dibattito e al tempostesso ci siamo incredibilmente arricchite attraverso il rapporto conti-nuo con le nostre corrispondenti. È il posto nel quale mi interessamettere a frutto la mia personale formazione accademica. Spero mol-to che possa superare le forme e le barriere delle università e forgiarestrumenti, per contribuire direttamente alle espressioni popolari delfemminismo.

Dal punto di vista della scienza economica, come spiega il fatto che il mercato punti

a mettere la donna in secondo piano all’interno del sistema lavorativo?

Non so se il mercato, inteso come entità astratta, punti a qualcosa.Quello che, sì, succede è che — come dice Heather Bushey — il capi-talismo ha un socio occulto: la donna che svolge lavori domesticinon retribuiti. Sono milioni di ore di lavoro non pagate che si fannoin silenzio e che sono vitali per sostenere tutti gli altri lavori. Senzaquesta donna che lava, stira, mette in ordine, fa la spesa, controlla icompiti dei figli, li porta a scuola o in palestra, spazza il pavimento ecucina, difficilmente si potrebbero portare avanti tutte le altre attivi-tà. Quest’idea è rimasta incollata alla donna, come se facesse partedella sua natura, come se fosse una sua responsabilità. Il che, in unmondo dove le donne lavorano otto ore al giorno, non solo è ingiu-sto, ma è anche penalizzante. Quello che voglio dire è che al m e rc a t ofa comodo avere lavoratrici multitasking e gratuite nelle case.

Ci racconti che cos’è «Economía Feminista». In che cosa consiste? Quando ha deci-

so di lanciarsi in questa avventura e quali sono state le sue motivazioni?

«Economía Feminista» è un sito nato come spazio di riflessioneper donne economiste su temi che non facevano parte dell’agenda né

David Allen«Women on rise»(“Donne in alto”)rifacimento della celebrefotografia «Lunch atopa Skyscraper»(“Pranzo in cimaa un grattacielo”)scattata nel 1932durante la costruzionedel Rockefeller Centredi New York

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L’I N C H I E S TA

Il lavoro(quasi) gratuito

delle suoredi MARIE-LUCILE KUBACKI

Suor Maria — i nomi delle suore sono di fantasia — è giunta a Romadall’Africa nera una ventina di anni fa. Da allora accoglie religioseprovenienti da tutto il mondo e da qualche tempo ha deciso di testi-moniare ciò che vede e che ascolta sotto il sigillo della confidenza.«Ricevo spesso suore in situazione di servizio domestico decisamentepoco riconosciuto. Alcune di loro servono nelle abitazioni di vescovio cardinali, altre lavorano in cucina in strutture di Chiesa o svolgonocompiti di catechesi e d’insegnamento. Alcune di loro, impiegate alservizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la cola-zione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casariordinata, la biancheria lavata e stirata…. In questo tipo di “servi-zio” le suore non hanno un orario preciso e regolamentato, come ilaici, e la loro retribuzione è aleatoria, spesso molto modesta».

Ma a rattristare di più suor Marie è che quelle suore raramente so-no invitate a sedere alla tavola che servono. Allora chiede: «Un ec-clesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di la-sciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È nor-male per un consacrato essere servito in questo modo da un’altraconsacrata? E sapendo che le persone consacrate destinate ai lavori

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Spesso il motivo addotto è che le suore non devono diventare orgo-gliose». Suor Paule insiste su questo punto: «Credo che la responsa-bilità sia anzitutto storica. La suora a lungo ha vissuto solo comemembro di una collettività, senza avere quindi bisogni propri. Comese la congregazione potesse prendersi cura di tutti i suoi membri sen-za che ognuno apportasse il suo contributo attraverso il proprio lavo-ro. È inoltre diffusa l’idea che le religiose non lavorano a contratto,che sono lì per sempre, che non vanno stipulate condizioni. Tutto ciòcrea ambiguità e spesso grande ingiustizia. È anche vero che senzacontratto le religiose sono più libere di lasciare un lavoro senza trop-po preavviso. Tutto ciò gioca su due fronti, a favore e contro le reli-giose».

Ma non si tratta solo di soldi. La questione del corrispettivo eco-nomico è piuttosto l’albero che nasconde la foresta di un problemaben più grande: quello del riconoscimento. Tante religiose hanno lasensazione che si faccia molto per rivalorizzare le vocazioni maschilima molto poco per quelle femminili. «Dietro tutto ciò, c’è purtroppoancora l’idea che la donna vale meno dell’uomo, soprattutto che ilprete è tutto mentre la suora non è niente nella Chiesa. Il clericali-smo uccide la Chiesa» afferma suor Paule. «Ho conosciuto delle suo-re che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e mihanno raccontato che, quando erano malate, nessun prete di quelliche servivano andava a trovarle. Dall’oggi all’indomani venivanomandate via senza una parola. A volte succede ancora così: una con-gregazione mette una suora a disposizione su richiesta e quandoquella suora si ammala viene rimandata alla sua congregazione… Ese ne invia un’altra, come se fossimo intercambiabili. Ho conosciutodelle suore in possesso di una dottorato in teologia che dall’oggiall’indomani sono state mandate a cucinare o a lavare i piatti, missio-ne priva di qualsiasi nesso con la loro formazione intellettuale e sen-za una vera spiegazione. Ho conosciuto una suora che aveva insegna-to per molti anni a Roma e da un giorno all’altro, a cinquant’anni, siè sentita dire che da quel momento in poi la sua missione era diaprire e chiudere la chiesa della parrocchia, senza altra spiegazione».

Suor Cécile, insegnante, da molti anni sta facendo esperienza diquesta mancanza di considerazione. A suo parere, le suore di vitaattiva sono vittime di una confusione riguardo ai concetti di servizioe di gratuità. «Siamo eredi di una lunga storia, quella di sanVincenzo de’ Paoli, e di tutte quelle persone che hanno fondato con-gregazioni per i poveri in uno spirito di servizio e di dono. Siamo re-ligiose per servire fino in fondo e proprio questo provoca uno slitta-mento nel subconscio di molte persone nella Chiesa, creando la con-vinzione che retribuirci non rientri nell’ordine naturale delle cose,

Fo t o g ra f i edi Ura Iturralde

Un manifestoper le donnenella ChiesaÈ frutto di unpercorso dicondivisione fattocon una trentina didonne appartenenti avarie realtà ecclesialidi tutta Italia ilManifesto per le donnenella Chiesarecentemente uscitosul sitow w w. g l i s t a t i g e n e r a l i . c o m :«Attraverso ilmetodo dellarevisione di vita,sperimentato per laprima volta in ungruppo facebook,abbiamo ragionato —spiegano lefirmatarie — su ciòche abbiamo vissuto,ma anche su ciò cheauspichiamo alla lucedella Parola di Dio,ben sapendo di nonessere delle teologhe,ma delle semplicidonne credenti, chesi sentono figlie dellaChiesa e sanno dipoter parlare a cuoreaperto ai propripastori e a tutta lacomunità. Questodocumento da unlato riassume ciòche, come donne,

DAL MOND O

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domestici sono quasi sempre donne, religiose? La nostra consacrazio-ne non è uguale alla loro?». Un giornalista romano che si occupad’informazione religiosa le ha addirittura soprannominate «suore piz-za», riferendosi proprio al lavoro che viene assegnato loro.

Prosegue suor Marie: «Tutto ciò suscita in alcune di loro una ri-bellione interiore molto forte. Provano una profonda frustrazione mahanno paura di parlare perché dietro a tutto ci possono essere storiemolto complesse. Nel caso di suore straniere venute dall’Africa,dall’Asia e dall’America latina, ci sono a volte una madre malata lecui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia religiosa,una fratello maggiore che ha potuto compiere i suoi studi in Europagrazie alla superiora…. Se una di queste religiose torna nel propriopaese, la sua famiglia non capisce. Le dice: ma come sei capricciosa!Queste suore si sentono in debito, legate, e allora tacciono. Tra l’al-tro spesso provengono da famiglie molto povere dove i genitori stessierano domestici. Alcune dicono di essere felici, non vedono il proble-ma, ma provano comunque una forte tensione interiore. Simili mec-canismi non sono sani e certe suore arrivano, in alcuni casi, ad assu-mere ansiolitici per sopportare questa situazione di frustrazione».

È difficile valutare l’entità del problema del lavoro gratuito o pocopagato e comunque poco riconosciuto delle religiose. Anzitutto biso-gna stabilire che cosa s’intende con questo. «Spesso significa che lesuore non hanno un contratto o una convenzione con i vescovi o leparrocchie con cui lavorano» spiega suor Paule, una religiosa con in-carichi importanti nella Chiesa. Quindi vengono pagate poco o perniente. Così accade nelle scuole o negli ambulatori, e più spesso nellavoro pastorale o quando si occupano della cucina e delle faccendedomestiche in vescovado o in parrocchia. È un’ingiustizia che si veri-fica anche in Italia, non solo in terre lontane».

Al di là della questione del riconoscimento personale e professio-nale, questa situazione pone problemi concreti e urgenti alle suore ealle comunità. «Il problema più grande è semplicemente come viveree far vivere una comunità» prosegue suor Paule. «Come prevedere ifondi necessari per la formazione religiosa e professionale dei suoimembri, chi paga e come pagare le fatture quando le suore sono ma-late o hanno bisogno di cure perché invalidate dall’età. Come trovarerisorse per svolgere la missione secondo il carisma proprio».

La responsabilità di tale situazione non è solo maschile, ma spessoè condivisa. «Ne ho parlato con un rettore universitario che mi haraccontato di essere stato colpito dalle capacità intellettuali di unasuora che aveva una licenza in teologia» ricorda suor Marie. «Luivoleva che continuasse gli studi ma la sua superiora si è opposta.

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in discussione il sistema, lo convalida e vi partecipa attivamente ac-cettando accordi svilenti per le suore».

Suor Cécile ritiene anche che le religiose debbano prendere la pa-rola: «Da parte mia, quando vengo invitata a fare una conferenza,non esito più a dire che desidero essere pagata e qual è il compensoche mi aspetto. Ma, è chiaro, mi adeguo alle disponibilità di quantime lo chiedono. Le mie sorelle e io viviamo molto poveramente enon miriamo alla ricchezza, ma solo a vivere semplicemente in condi-zioni decorose e giuste. È una questione di sopravvivenza per le no-stre comunità». Il riconoscimento del loro lavoro costituisce anche,per molte, una sfida spirituale. «Gesù è venuto per liberarci e ai suoiocchi noi siamo tutti figli di Dio» precisa suor Marie. «Ma nella lorovita concreta certe suore non vivono questo e provano una grandeconfusione e un profondo sconforto». Alcune religiose ritengono infi-ne che le loro esperienze di povertà e di sottomissione, a volte subitee a volte scelte, potrebbero trasformarsi in una ricchezza per tutta laChiesa, se le gerarchie maschili le considerassero un’occasione peruna vera riflessione sul potere.

qualunque sia il servizio che offriamo. Le suore sono viste come vo-lontarie di cui si può disporre a piacere, il che dà luogo a veri e pro-pri abusi di potere. Dietro tutto ciò c’è la questione della professio-nalità e della competenza che molte persone fanno fatica a riconosce-re alle religiose».

Suor Cécile poi aggiunge: «Al momento lavoro in un centro senzacontratto, contrariamente alle mie consorelle laiche. Dieci anni fa, nelquadro di una mia collaborazione con i media, mi è stato chiesto sevolevo davvero essere pagata. Una mia consorella anima i canti nellaparrocchia accanto e dà conferenze di quaresima senza ricevere uncentesimo… Mentre quando un prete viene a dire la messa da noi, cichiede 15 euro. A volte la gente critica le religiose, il loro volto chiu-so, il loro carattere…. Ma dietro tutto ciò ci sono molte ferite». Persuor Marie, si tratta di violenza simbolica: «È accettata da tutti sottoforma di tacito consenso. Alcune suore che vengono da me sono an-gosciate, ma non riescono a parlare. Allora dico loro: “Avete il dirittodi dire la verità su quel che provate. Di dire alla vostra superiora ge-nerale quello che vivete e come lo vivete”. Talvolta di questa situazio-ne è responsabile anche la superiora generale che, lungi dal mettere

abbiamosperimentato esperimentiamo nellecomunità cristiane edall’altro rappresentauna dichiarazioned’intenti riguardo al come vogliamo agirenella Chiesa, piùancora che al cosafare». Dopo lapubblicazione, èstata data lapossibilità di firmareanche a quantiseguono la paginafacebook delprogetto: in un paiodi giorni le firmesono triplicate.Evidentemente ilmessaggio, chiaro eargomentato, hacolto nel segno.Precise sono lerichieste che ilmanifesto avanza.«Chiediamo:rispetto nei confrontidel nostro impegno,la possibilità diesprimere un serviziocoerente con lenostre competenze ecapacità; che ipresbiteri ai quali lenostre comunitàsono affidateconoscano eapprezzino ilfemminile, cheabbiano un rapportosano e sereno con ledonne, che sianop ersonepsicologicamentemature; che siprenda inconsiderazione che laricerca vocazionalefemminile ha aperto

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di DANIELA SCOTTO DI FASANO

Virginia Woolf, invitata nel 1929 a parlare sul «problema della vera na-tura della donna e della vera natura del romanzo», chiede: «Aveteun’idea di quanti libri si pubblicano sulle donne in un anno? Aveteun’idea di quanti fra questi libri sono scritti da uomini? Sapete di es-sere, forse, l’animale più discusso dell’universo?».

In effetti, tra la fine dell’Ottecento e i primi del Novecento, ununiverso femminile va sostituendosi ai protagonisti maschili della sce-na letteraria del secolo precedente. Nei secoli che preparano il pas-saggio alle società industriali a struttura prevalentemente metropoli-tana, romanzi il cui titolo era costituito da un nome e cognome —Oliver Twist, Robinson Crusoe — testimoniavano vicende dove i per-sonaggi passavano da identità sfumate a identità più sp ecificate. Unpassaggio che avviene prima per gli uomini e solo più tardi per ledonne. Inoltre, se i protagonisti maschili della scena letteraria affron-tano nelle storie narranti la vastità del mondo, ai personaggi femmi-nili spettano gli spazi angusti della casa e dell’ambiente domestico.Introdotte dai loro nomi e cognomi, Thérèse Raquin, Anna Kareni-na, Effi Briest sono donne verosimili sulle quali vegliano Émile Zola,Lev Tolstoj, Theodor Fontane. E fin qui nulla di strano, il nome

Diventare donnaè un nascere per strappi

PREGIUDIZIO E CASTIGO

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miche, ebbe la forza di assumere, come ha scritto Silvia Vegetti Fin-zi, «gli scarti, i margini del discorso, le cadute di intenzionalità, co-me oggetto d’indagine privilegiato» e di dare vita a uno stile cogniti-vo particolare, che eleva a fattore terapeutico la parola dei pazienti.

Si stagliano, nei titoli degli scritti di Freud, le figure di altre prota-goniste: Anna O., Dora, nel ruolo di «co-autrici dell’impresa psico-analitica ai suoi esordi», donne che testimoniano del bisogno, ormaiirrinunciabile, di divenire “soggetto”.

L’ipotesi che si può quindi fare per comprendere la ragione di tan-ta insistenza nei romanzi citati sulla colpa connessa al desiderio fem-minile di far proprie aree tradizionalmente riservate agli uomini con-cerne il sospetto che gli uomini temessero il fatto che le donne ini-ziassero a muoversi sul terreno della libertà. Ma non basta. Ci si puòinfatti chiedere se, nell’intento esplicito di mantenere la donna neiruoli a lei tradizionalmente assegnati, non possa essere accaduto che,in funzione di una trasformazione della femminilità invisibile macontinua e sicura, i romanzi citati non abbiano paradossalmente con-tribuito a ottenere l’effetto opposto a quello perseguito. La mia im-pressione è, in altri termini, che queste storie abbiano reso manifestie possibili scenari prima impensabili come scelte di vita e perciò resestorie di trasgressione. Scenari di ambizioni, bisogni, desideri che,trovando accesso a un piano di “dicibilità”, ad esempio con Freud econ la psicoanalisi, hanno potuto iniziare a venire allo scoperto, tro-vando a quel punto il modo di declinarsi da storie di trasgressione instorie di formazione.

Ma l’inconscio cambia molto più lentamente del conscio, e quindiè legittimo chiedersi quanto resta in noi donne, a nostra insaputa, disensi di colpa, interiorizzati nei secoli, relativi alle attività extradome-stiche, stigmatizzate a livello sociale come vere e proprie trasgressio-ni? È per questo che le donne vivono nei confronti sia del lavoro chedella famiglia un disagio che spesso ha il sapore della colpa? Mispiego. Se a livello conscio la “normalità” (e, nel caso di ceti socialimeno abbienti, addirittura la necessità) è avere un lavoro e anche de-gli interessi fuori casa, può capitare (e molto spesso capita) che a li-vello inconscio la riprovazione connessa in passato a interessi e ambi-zioni extradomestici crei un disagio colpevolizzante: mi sento quindiin colpa se non ho nulla che mi porti nel mondo, dal momento che alivello conscio ritengo che la normalità sia avere un lavoro fuori casa.Ma, al contempo, mi sento in colpa se tale dimensione mi dis-trae(letteralmente mi es-trae) da quella che a livello inconscio ritengo es-sere per me donna la dimensione «normale». In tal senso, è il fanta-sma della riprovazione sociale che in un caso come nell’altro crea

dell’autore campeggiando anche sulla copertina dei romanzi maschili.Ma Thérèse Raquin, Anna Karenina, Effi Briest vivono già nel titolopiù volte dipendenti. Oltre che dal loro autore, anche dal cognomedi un altro uomo: padre o marito. Così quei titoli finiscono per espri-mere una legge, sottolineando che non a caso l’etimo di “nome” ènòmos, cioè legge. E nel caso di questi romanzi femminili la storia èsempre di una trasgressione cui farà seguito la relativa condanna das c o n t a re .

Si impone a questo punto una domanda. Perché, tra la finedell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, si assiste a un taleproliferare di protagoniste che, uscendo dalle mura domestiche, in-cappano in una condanna sociale? Forse per via delle trasformazioniepocali indotte dalla rivoluzione industriale e dalla prima guerramondiale, che ridefinirono sulla base di necessità materiali compiti eruoli maschili e femminili. Infatti, proprio in quegli stessi anni ledonne iniziavano a muoversi in aree tradizionalmente riservate agliuomini. Erano anche gli anni in cui Freud, un intellettuale ignoto, incondizioni di emarginazione in quanto esponente della minoranzaebraica, di oscura appartenenza sociale e in misere condizioni econo-

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nuovi e più articolatiorizzonti, in unamaturazione diprospettive chenecessita diattenzioni e risposte;che si riconosca lapossibilità per ledonne di avvicinarsial cuore della vitaecclesiale e che siattribuisca il dovutovalore all’autenticodesiderio dipartecipare a unaministerialità piùattiva, compresaquella sacramentale.E che pertanto èlegittimo e va nelsenso del bene per laChiesa intera iniziarea concepire risposteconcrete in questoambito. Non siamodei sostituti d’azione,ma possiamo“i n v e n t a re ” formenuove chearricchiscono laChiesa. Nonchiediamo posti dipotere, ma di esserepienamentericonosciute comefiglie di Dio emembri dellacomunità alla paridegli uomini». Perquesto, proseguonole autrici, «siamopronte a metterci alservizio della Chiesacon tre criteri:Assertività: nontemiamo di proporre,di chiederericonoscimento perciò che facciamo eportiamo allacomunità; Libertà: il

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Auguste Rodin«Naiade»

A pagina 16Mikhail Vrubel,

illustrazione per il romanzo««Anna Karenina»

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evocando la perdita che nell’inconscio femminile si connette alla ri-nuncia alla maternità. Uccidendo gli sposi, le Danaidi si condannanoa essere non madri e a versare per sempre acqua in giare bucate.

Oggi inevitabilmente la scelta di diventare madri deve fare i conticon i vissuti di colpa connessi all’eventuale rinuncia a una propriarealizzazione professionale e, viceversa, e inevitabilmente, il suo con-trario: non diventare madre, non fare bambini, oltre che sanzionatoda se stesse a livello inconscio nel proprio mondo interno, espone alrischio di percepirsi “diverse”, “fuori norma”. Nicki de Saint Phalle,l’artista che ha creato il Giardino dei tarocchi, scrive, a proposito deifigli spesso trascurati per la vita artistica: «Un giorno avrei voluto fa-re qualcosa di imperdonabile, la cosa peggiore che una donna po-trebbe fare. Avrei voluto abbandonare i miei figli per il mio lavoro,gli uomini molto spesso lo fanno. Avrei voluto darmi una buona ra-gione per sentirmi in colpa!».

Beata Nicki de Saint Phalle! Mentre l’esperienza più comune èquella dei versi di Armanda Guiducci utilizzati come titolo di questol a v o ro .

nostro agire non èfinalizzato aconquistare posti diprestigio e questo cimette in condizionidi non ricattabilità;Alleanza femminile:là dove siamo e tranoi scegliamo diessere alleate dellesorelle cheincontriamo esoprattutto di noncadere nella rivalitàtra donne pero t t e n e rel’a p p ro v a z i o n emaschile». Ilmanifesto così siconclude: «Abbiamodeciso di trovarci tradonne adulte, chehanno vissuto evivono un percorsodi fede percondividere escambiare e siamopronte ad accoglierequante deciderannodi unirsi a noi.Vogliamo dare unmessaggio chiaro sulgenere di femminilitàdi cui riteniamo chela Chiesa abbiabisogno. Vogliamofarci conoscere pertestimoniare chenella Chiesa ci sonodonne che non sisottomettono e potercosì avvicinare anchealtre sorelle nellafede che si sentonodisorientate daquest’ondatatradizionalista. Nonrinunciamo a portareavanti istanze serie egrandi».

nella donna un senso di colpa. Se non lavoro e non ho interessi fuoricasa non sono “normale”; ma, se a una certa età non ho ancora unarelazione di coppia stabile e, soprattutto, non ho bambini, non sono“normale”.

Il timore della riprovazione sociale fa sentire minacciata la propriaappartenenza al gruppo di riferimento e, dal momento che di questaappartenenza abbiamo estremo bisogno, è colpevolizzante sentirsiper propria scelta “diversi”: se non lavoro perché non lavoro, se lavo-ro perché non sono a casa a occuparmi delle faccende domestiche. Sitratta del «bisogno di appartenenza», che rende insopportabile lapercezione di una propria non appartenenza. Diventare donna con-temporanea obbliga dunque a ritenere desiderabile e normale sentirsiproiettata nel mondo esterno. Ma diventare donna obbliga anche afare i conti con coniugalità e maternità, quest’ultima sedimentata nelnostro mondo interno in modo ancora oggi inestricabilmente connes-so a vissuti di colpa se non realizzata. A tale problematica allude ilmito delle Danaidi, condannate dagli dei a versare per sempre acquain giare bucate per aver ucciso i propri mariti. Nel mito “delle acquep erse” la ricchezza femminile si trasforma in una perdita senza fine,

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Un’o p e radi Nicki de Saint Phalle

per il suo «Giardinodei tarocchi»

a Garavicchio (Grosseto)

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SOLO UN ROMANZO?

La maternitàcome risorsa economica

di MARIE-LUCILE KUBACKI

All’origine di tutta la storia c’è il crollo delle curve di natalità. L’inqui-namento atmosferico ha reso sterile gran parte delle donne, ma anchedegli uomini, sebbene la colpa venga ampiamente addossata alledonne. Nei reparti maternità regna un silenzio di morte. A volte sisente il vagito di un neonato, ma tutti sanno che le sue possibilità disopravvivere sono comunque esigue. A volte una giovane madre cheha appena perso il proprio bambino, udendo il pianto di un altroneonato, precipita nella follia. Mentre nella società cresce il senso diangoscia, un gruppo di fondamentalisti di “ricostruzione cristiana” simette a sognare un mondo nuovo, Gilead, fondato su rigidi valorimorali stabiliti a partire da una lettura fondamentalista travisata dellaBibbia. Questo mondo nuovo, i Figli di Giacobbe, lo costruisconoattraverso un sistema perverso in cui coppie di padroni, nelle cui ma-ni sono concentrati il potere e le ricchezze, assumono delle schiave, ein particolari delle madri surrogate, le famose Ancelle, vestite di ros-so. Sono ragazze a cui viene imposto di redimersi operando per ilbene comune, a cui, in definitiva, viene proposta la salvezza con unapistola puntata alla tempia. Invece che un’utopia, Gilead è un totali-tarismo, dunque un vero inferno, ben lungi da un inizio di paradiso.

Negli Stati Uniti Il racconto dell’ancella è divenuto un fenomenoculturale e politico tale da trasformare il romanzo in un manifesto.Donne vestite di rosso lo brandiscono nelle manifestazioni. La serie

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Gilead le donne come Serena Joy Waterford, mogli di alti funzionari,esistono solo per la loro capacità di mettere al mondo un figlio, conqualunque mezzo. Al pari delle serve, non hanno accesso ai libri. Leprime, se non incinte, vivono sotto la minaccia di essere inviate nelleColonie, spazi post-apocalittici, per raccogliere scorie radioattive amani nude. Se incinte, vengono trattate come animali da concorso.La loro alimentazione è rigidamente controllata, come del resto nellecliniche delle madri surrogate che esistono già in diverse parti delmondo. Partoriscono sulle ginocchia delle loro padrone, che, in unaparodia tragica, imitano i loro ansiti, le loro spinte in tempo reale,per recuperare il neonato alla fine del parto e poi prendere subito ilposto della partoriente nel letto. La serva vede il suo bambino soloper qualche settimana, il tempo di svezzarlo dopo averlo allattato,poi viene consegnata a un’altra coppia in attesa di un figlio.

In modo estremo, la serie affronta il legame tra maternità surroga-ta e tratta umana: la madre surrogata, in questa transazione, può for-se essere considerata qualcosa di diverso da un oggetto? E che ne èdel bambino? Sintomaticamente, a Gilead, i bambini sono tanto si-lenziosi quanto sono stati desiderati. Li si esibisce, ma non li si guar-da veramente e li si ascolta ancor meno. I dirigenti assicurano cheavranno una vita bella, comoda e piena di opportunità. Tutti parlanoper loro ma nessuno pensa di dare loro la parola. Le madri surrogatenon hanno il diritto di lasciarsi andare alla tristezza perché l’hannofatto, per così dire, in nome del bene: le loro emozioni devo essereinibite.

Eppure le emozioni montano in loro come la lava in un vulcanopronto a esplodere: strazio durante la gravidanza al pensiero che ilbambino che portano in grembo sarà strappato loro alla nascita, an-goscia al pensiero della separazione. Immagine speculare di questasofferenza è il malessere di quante ricorrono a una madre surrogatatra gratitudine e risentimento. Quest’ultima, poiché “p ortatrice”, ma-dre non lo è già più: la transazione infatti spezza il legame di forza.Ufficialmente le serve sono motivo di orgoglio nazionale per Gilead.Ma in realtà sono solo una risorsa economica che i dirigenti — congrande cinismo — commercializzano con altri paesi a loro volta colpi-ti dalla crisi della natalità. Sono un mercato. La loro vita è uno stru-mento di produzione. Tutto in questo totalitarismo è strumentalizza-to, al pari della religione ridotta al rango di cosmetico, usato pertruccare piacevolmente l’orrendo volto dello sfruttamento umano.«Non si fa una frittata senza rompere delle uova. Una società idealelo è solo per alcuni».

basata sul romanzo e trasmessa nel 2017 su una piattaforma america-na ha riscosso un tale successo internazionale da far razzia di bencinque riconoscimenti ai celebri Emmy Awards. Un entusiasmo incre-dibile per questo romanzo pubblicato nel 1985 da Margaret Atwood,la scrittrice specializzata nel genere distopico. E, fatte poche eccezio-ni, la serie è rimasta abbastanza fedele al romanzo.

A pagina 23una illustrazione

di Rebekka Dunlapper il «New York Post»

La storia, molto lugubre e violenta nel romanzo, ma ancor di piùnelle immagini della serie televisiva, viene raccontata dal punto di vi-sta di June, una delle madri surrogate, che trova la forza di affrontarela sua condizione di serva richiamando alla mente i ricordi della suavita precedente al rapimento e alla riduzione in schiavitù, quando erasposata con un uomo che amava e con il quale aveva avuto una fi-glia. June lavora presso i Waterford. Non si chiama più June ma Di-fred, proprietà di Fred Waterford. Ogni mese deve subire uno stupronella camera matrimoniale, dopo un rituale segnato dalla lettura delracconto biblico della storia di Sara che, non potendo avere figli, of-fre la sua serva Agar allo sposo Abramo. E poiché il regime decimameticolosamente i preti e i pastori, le voci pronte a levarsi controquesta lettura delirante dei testi religiosi sono ormai poche. Alcunedonne, ed è questo forse l’aspetto più agghiacciante, sono complicidel sistema che asservisce le loro simili. È il caso di Serena Joy, la“p a d ro n a ” di June. Brizzolata nel libro, bionda hitchcockiana nellaserie, ma pur sempre machiavellica, ha scritto un saggio sulla fecon-dità come ricchezza economica reale di uno stato. Con quel saggio,Serena Joy ha concettualizzato l’utopia politico-economica di Gilead,fornendo una pseudo-giustificazione umanistica e spirituale alla trattaumana. Ma ha anche tessuto la tela in cui ora si dibatte. Perché a

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LA S A N TA DEL MESE

di NUCCIA RESEGOTTI PALMAS

Sul volto della donna sileggeva un sintomod’impazienza: il suopiede batté sulle pietredel selciato. Era la mo-glie del sindaco, condi-videva l’autorità del ma-rito, e il reverendo arci-prete parroco del duo-mo le stava facendo

perder tempo. L’anziano sacerdote si permiseun sorriso:

— Stia tranquilla, ho trovato una fanciullaadatta. Viene sempre a messa e …

Fu interrotto dalla voce decisa della signora:— Ha una buona figura?

Seguì un nuovo sorriso dell’a rc i p re t e :

La protezionedi santa Rosina

— È graziosa. È adatta a rappresentare la no-stra santa nel quadro vivente che prepariamoper la processione.

La moglie del sindaco annuì convinta:

— Al vestito penserò io. Concordo pienamen-te con la sua decisione di preparare quadri vi-venti dei nostri santi …

Questa volta fu l’arciprete a interrompere:— Sarà un ricordo della santa Rosina nella no-stra città. Essa è patrona a Wenglingen e lì è fe-steggiata l’11 marzo, noi la festeggeremo nellaprocessione del Corpus Domini.

La decisione fu così presa.

La processione del Corpus Domini a Mies-bach ebbe in quell’anno 1769 una grande impor-tanza. I quadri viventi in onore di alcuni santierano sistemati su carri agricoli, ognuno tiratoda un paio di robuste mucche. Venivano dopoil baldacchino del Santissimo sostenuto dall’ar-ciprete con attorno tutti i preti della cittadina.Questo era preceduto dai rappresentanti dellecorporazioni oranti, molto numerose, vi eranogli orfani del convitto civico, i maschietti e lefemminucce che avevano appena fatto la primacomunione che spargevano petali di rose lungoil percorso, le suore e i frati dei vari conventi ecosì via. Immediatamente al seguito del baldac-chino c’erano i maggiorenti della città poi veni-vano i carri attorniati dagli uomini della BuonaMorte che indossavano il saio scuro con il cap-puccio che scendeva a nascondergli il viso. Gre-ta, la fanciulla che impersonava la santa Rosinastava in piedi sul suo carro davanti a un’a rc a t adi legno che con l’aiuto di stracci dipinti achiazze raffigurava l’entrata di una grotta. Vesti-ta con una tunica chiara su cui era drappeggia-

to un manto scuro, abbracciava un ramo di pal-ma mentre la sua mano destra si chiudevasull’elsa d’argento di una spada talmente lungache appoggiava davanti ai suoi piedi. Aveva consé i simboli di vergine martire mentre la grottarappresentava il suo ruolo di eremita. Compresadel suo stato stava immobile senza guardarsi at-torno. La processione si svolgeva lungo la viaprincipale, finestre e portoni di case e palazzierano decorati con drappi e arazzi. Molti popo-lani assistevano e quando furono al portoneaperto del duomo quelli di confessione prote-stante si ritirarono, mentre i cattolici entravano.Le tre navate del duomo furono riempite. I pre-ti di Miesbach, ammantati dai paramenti piùmagnifici, si apprestavano a celebrare la funzio-ne del Tantum ergo che avrebbe concluso il rito.Ai rappresentanti dei santi nei quadri viventi erastato riservato un posto di riguardo ai latidell’altare maggiore. Greta era in mezzo ai dueuomini che figuravano i vescovi protettori diMiesbach. Nessuno si accorse che il suo viso di-ventava sempre più pallido, lei riuscì a resisterefino al termine della benedizione, poi si acca-sciò. Per fortuna dietro loro c’erano tre scrannie lei si rovesciò sul suo.

— Un bicchier d’acqua! Datele dell’acqua!

La voce preoccupata dell’arciprete aveva untono paterno ma fu interrotto dalla voce furiosadella moglie del sindaco che, accomodata afianco del marito nel banco delle autorità, si eraprecipitata accanto a Greta: — Macché acqua!Un sonoro ceffone la farà rinvenire!

— È soltanto stanca … — fu detto da qualcu-no intorno.

La dama proseguì irata:

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— Una ragazza giovane non si stanca anchese deve stare in piedi per una processione. Èsvenuta in una chiesa così affollata e io comedonna sospetto del suo stato. Altro che venire amessa! Quando lei arciprete le ha affidato ilruolo della nostra santa, la ragazza dovevaconfessarle il suo stato. Questa svergognata èincinta!

Il suo tono acuto si levò nel silenzio che siera fatto lì intorno e scosse Greta. Questa sipiegò in avanti alzando le mani a nascondersi ilviso. Un mormorio serpeggiò tutt’attorno. Tutti,dai preti alle autorità, dai popolani ai borghesi,esprimevano il loro giudizio:

— È una vergogna! Deve essere punita! Penadi morte merita, pena di morte!

Soltanto le mani dell’arciprete, magnifico eimponente di aspetto nella sua casula ricamata,si sporsero su di lei in un gesto di difesa:

— Tu cosa puoi dire di te?

Greta abbassò le mani quasi a proteggersi ilv e n t re :

— Forse questo è meglio per me. È stato ungesto di amore, non pensavo di offendere la no-stra santa. L’ho pregata tanto.

In quel momento una voce che si alzò e at-traversò la folla:

— Lasciatemi passare! Lasciatemi! Ho qualco-sa da dire!

Un giovane si stava facendo strada nella cal-ca per avvicinarsi a Greta, fino a prenderle lamano. Il viso della ragazza si trasformò,un’espressione gioiosa lo pervase. Il giovanedisse:

— Anch’io ho pregato tanto la nostra santa.Ci ha fatto la grazia, ho trovato lavoro dove leiè patrona, a Wenglingen. Possiamo sposarci,amor mio.

Greta mormorò:

— Se sarà una bambina le daremo il suo no-me, Hector.

L’arciprete alzò le braccia sorridendo mentreattorno il mormorio si faceva approvazione:

— Vi sposerò stasera. Questo è senz’altro unmiracolo della nostra santa Rosina. A lei deveandare tutto il nostro affetto.

L’autrice

Erminia Palmas in Resegotti,laureata in medicina, quattro figliin cinque anni, non si è sentita di lavorarecome medico.Si è invece dedicata alla scrittura,firmandosi Nuccia Resegotti.I suoi romanzi per ragazzi (d’a v v e n t u re ! ) ,hanno avuto successo:Tre + due: un’avventura per cinque

e quello più recente Siamo tutti spie,editi da La Scuolae Nevicò presto quell’inverno,(Edizioni Messaggero Padova,e per rispondere alle richiestedegli insegnantiora edito da Youcanprint).L’unico suo lavoro per adultiè Le ragioni di Sara,un romanzo storico biblico( Yo u c a n p r i n t ) .

Giunial’ap ostola

di CARMEN BERNABÉ

PAOLO E LE D ONNE

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«S alutate Andronico eGiunia, miei parenti ecompagni di prigio-nia; sono degli apo-stoli insigni che eranoin Cristo già prima dime» (Lettera ai Roma-

ni 16, 7). Nel capitolofinale della sua letteraai Romani Paolo salu-

ta un gruppo di uomini e donne che sembrano essere i responsabilidi diverse comunità (chiese domestiche). Tra i quasi trenta nomi pro-pri che menziona figurano nomi di donne e di uomini, alcuni deiquali presentati come coppie.

Nel versetto 7 Paolo saluta Andronico e Giunia, due nomi chesembrano designare una coppia che potremmo assimilare a quellamenzionata nel versetto 3, composta da Prisca e Aquila. Tuttavia ilgenere del nome Giunia è stato al centro di un intenso dibattito.Anche se le edizioni attuali nelle lingue parlate lo traducono al fem-minile, ci sono stati momenti, e alcuni non molto lontani nel tempo,in cui il nome greco che appare nei manoscritti era tradotto al ma-schile, come Giunio. È molto interessante chiedersi perché e su qualebase.

Le traduzioni attuali del Nuovo Testamento dipendono dalle edi-zioni critiche del testo greco che rivedono e selezionano le lezioni deimanoscritti greci antichi di cui disponiamo. Manoscritti diversi perqualità e antichità. La critica testuale è una scienza complessa e spe-cializzata, ma non esente da premesse metodologiche, e talvolta ideo-logiche, che vanno esplicitate. Il caso di Giunia, trasformata in Giu-nio, ne è un buon esempio, come vedremo di seguito.

Il nome all’accusativo Iounian del versetto 7 è stato oggetto di unaqualche incertezza testuale: in vari manoscritti appare infatti riporta-to in modi diversi. A volte è scritto Ioulían (Giulia), ma ancora piùcurioso e significativo è il cambiamento dell’accento (acuto o circon-flesso) posto su questo nome in alcune edizioni critiche che fondanole proprie scelte su diversi manoscritti. L’attribuzione di un accentopiuttosto che un altro su un nome non è ininfluente: di fatto un ac-cento circonflesso sull’ultima sillaba indica che quel nome deve essereletto come maschile, mentre un accento acuto sulla penultima sillabaindica che quel nome è molto probabilmente femminile. Ebbene, nelcaso di Iounian, le edizioni critiche hanno mantenuto la lettura ma-schile (con l’accento circonflesso) dal 1927 (edizione di Erwin Nestle)

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colo, Marie-Joseph Lagrange, grande esegeta, pioniere del metodostorico-critico, si mostrò propenso a interpretare Iounian come nomefemminile.

Quali motivi sono stati addotti a favore della lettura maschile delnome Iounian? A volte si è fatto ricorso all’onomastica greca e latinaper le forme del nome e gli usi più comuni. I difensori del nome ma-schile hanno proposto che Giunio sarebbe il diminutivo di Junianus.Tuttavia, mentre Giunia come nome femminile era molto comune,non ci sono testimonianze per Giunio come presunta abbreviazionedi Junianus. Quanti affermano che Iounian sia il diminutivo maschiledi Junianus o Junios, stanno sostenendo che i nomi latini, nei dimi-nutivi, venivano abbreviati come quelli greci, mentre in realtà veniva-no allungati. Pertanto si può dire che, oltre ai manoscritti, anche lafilologia e l’onomastica non avallano la lettura maschile del nome,bensì quella femminile.

D’altro canto, la lettura femminile del nome fu quella più comunetra gli autori più antichi. Origene (prima metà del III secolo) optòper la variante testuale Giulia, e sia lui sia Girolamo (tra il IV e il V

Carmen Bernabéè docente titolaredi Nuovo Testamentopresso la Facoltàdi Teologiadell’università diDeusto (Bilbao).È stata nominatad i re t t r i c edell’Asociación BíblicaEspañola.I suoi lavori vertonosoprattuttosulle originidel cristianesimo.

fino a pochi anni fa (2001), quando le edizioni più utilizzate dagliesegeti, come la Nestle-Aland e quella delle United Bible Societies,hanno iniziato a scrivere il nome con l’accento acuto, propendendocosì per una lettura al femminile, ritenuta quanto meno più probabi-le. Il fatto che queste edizioni critiche propongano l’una o l’altra op-zione ha una grande rilevanza perché la loro scelta determina in lar-ga misura l’esegesi dei testi e le traduzioni nelle lingue parlate.

Forse l’aspetto più curioso e significativo della lettura maschile, eil suo fondamento, è che le testimonianze testuali su cui poggia sonomanoscritti maiuscoli che fino al VII secolo non erano accentati, cometra l’altro si fa notare nell’apparato critico. Se le testimonianze a cuisi fa appello sono anteriori e quindi non presentano accenti, allora lalettura maschile del nome resta senza una base.

Esistono invece testimonianze testuali della lettura femminile chesi collocano tra il VI-VII e il IX secolo. L’accentazione e l’i n t e r p re t a -zione femminile del nome divennero comuni a partire dal IX e fino alXIII secolo, quando un autore, Egidio Romano, pur optando per lavariante loulian, decise di leggerla come maschile, senza spiegare per-ché si discostava così dal consenso precedente. Fu nel XVI secolo ches’impose la lettura maschile con Jacques Lefevre d’Étaples, ma so-prattutto con la versione a cura di Lutero del Nuovo Testamento, an-che se la lettura femminile continuò ad avere sostenitori. Nel XX se-

L’autrice

«Le pie donne al sepolcro»p a r t i c o l a re

della Croce di Tereglio

Tra le sue numeroseopere spiccanoMaría Magdalena:

tradiciones en el

cristianismo primitivo

(1995);Mujeres con autoridad

en el cristianismo

antiguo (2007),entrambe pubblicateda Editonial VerboD ivino.

secolo) o Giovanni Crisostomo (tra il IV

e il V secolo), interpretarono come fem-minile il nome menzionato accanto aquello di Andronico. Per la chiarezza eprecisione della sua testimonianza, si èsoliti citare un testo di Crisostomo(all’inizio della sua trentunesima omeliasulla Lettera ai Romani) che dice al ri-guardo: «Stare tra gli apostoli è già unagrande cosa, ma essere insigni tra loroconsidera che è un grande elogio; ederano insigni per le opere e le azioni vir-tuose. Immagina quale doveva essere la“filosofia” di questa donna, se era ritenuta degna dell’appellativo de-gli apostoli».

Proprio la lettura e l’interpretazione patristica del nome come fem-minile sono state tra i motivi che hanno portato gli esegeti cattolici aessere più restii ad accettare Giunia come diminutivo di Giuniano.D’altro canto, già nel versetto 3, Paolo aveva citato un’altra coppia,Prisca e Aquila, che probabilmente erano marito e moglie, missionarie responsabili di una chiesa domestica.

In alcuni commenti antichi e moderni, in modo più o meno chia-ro, si menziona un altro motivo a favore del genere maschile del no-me Iounian, ossia la definizione di «apostoli insigni». Il ragionamen-

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apostoli era però diverso e più vasto rispetto a quello lucano. Di fat-to lui stesso si considera apostolo (Prima lettera ai Corinzi 15, 9). PerPaolo, apostolo è colui che ha fatto l’esperienza del risorto ed è statoinviato da lui. A suo parere, gli apostoli formano un gruppo diversoe più numeroso di quello dei Dodici (Prima lettera ai Corinzi 15, 5.7;Prima lettera ai Tessalonicesi 1, 1; 2, 7), anche se certamente sono instretto rapporto con Gesù e con i momenti iniziali. Questo concettodi apostolo, più flessibile e ampio, che ha Paolo, risponde meglio al-la realtà storica che vediamo riflessa in altri scritti (Didachè 11, 3-6).

In Cristo già prima di lui. Ossia Giunia era diventata credente e se-guace di Gesù il Cristo prima di Paolo. Il che vuol dire che era unaseguace della prima ora; per il suo nome potrebbe essere stata unagiudeo-ellenista residente a Gerusalemme che si era convertita findall’inizio o che potrebbe addirittura aver ascoltato Gesù. Gli elleni-sti di Gerusalemme avevano lasciato la città a causa delle tensionicon le autorità religiose del Tempio. Con la loro partenza verso ilnord e altri luoghi avevano portato il messaggio in Samaria, ad An-tiochia, in Asia Minore e, molto probabilmente, anche a Roma. Se laloro adesione a Cristo era precedente a quella di Paolo, bisogna col-locarla nei primi anni trenta del I secolo.

Con quanto detto finora, possiamo tracciare un ritratto a grandi li-nee di Giunia. Fu probabilmente una giudeo-ellenista, convertita allafede in Gesù il Cristo e alla sua sequela, forse nei primi anni dopo lasua morte sulla croce a Gerusalemme, dove fece l’esperienza del ri-sorto. Per scelta, per affari, o forse spinta dalla situazione e difficileche si era creata a Gerusalemme tra gli ellenisti e le autorità religiosedella città per la critica dei primi al Tempio andò via portando consé il messaggio del Vangelo e diventando una delle prime missionariedi Roma, insieme al marito Andronico. Probabilmente quel compitocomportò per lei un periodo di prigionia e proprio in prigione coin-cise con Paolo e poté conoscerlo. Tutto ciò le aveva conferito un po-sto eminente tra gli apostoli dei primordi. È evidente che il suo esse-re donna non le impedì di essere apostolo, di diffondere il Vangelo edi subire il carcere a causa sua. E questo pensavano gli autori dei pri-mi secoli.

Giunia è un buon esempio di come le donne con autorità sianostate rese invisibili e come la loro autorità sia stata ricondotta ad am-biti e modi che gli uomini di ogni epoca hanno ritenuto propri econsoni alle donne. Questi schemi hanno influito in modo decisivoal momento di fare memoria del passato e ricordarlo, un’attività che,lungi dall’essere puro aneddoto, è carica di futuro.

to parte dalla premessa che una donna non poteva essere apostolo,per cui il nome doveva riferirsi a un uomo.

Una volta stabilito con sufficiente sicurezza che il nome Iounian siriferisce a una donna, probabilmente la moglie di Andronico, è ne-cessario riflettere su ciò che il testo dice di lei e del marito. Dice chesono: parenti di Paolo; compagni di prigionia; apostoli insigni; inCristo già prima di lui. Esaminiamo la portata di tali affermazioni.

Parenti di Paolo. Il termine greco usato qui, e che Paolo utilizzaanche in altri punti della lettera (9, 3), indica che si tratta di unadonna che appartiene al popolo giudeo, che ha la stessa origine etni-ca di Paolo.

Compagni di prigionia. Sia Prisca sia Aquila sembrano aver condivi-so con Paolo un periodo della sua prigionia. Si può pertanto direche Giunia ha subito la prigionia a causa del Vangelo. Stare in pri-gione a quei tempi era un’esperienza realmente dura.

Apostoli insigni. Anche questo appellativo ha suscitato problemid’interpretazione. Alcuni lo intendono come escludente: Andronico eGiunia sono conosciuti e stimati tra gli apostoli ma non sono aposto-li. Ma la maggior parte degli interpreti (compreso Giovanni Crisosto-mo nel commento appena citato) ritiene che vada inteso come inclu-

Giunia è un buon esempio di come le donne con autoritàsiano state rese invisibili

e come la loro autorità sia stata ricondotta ad ambiti e modiche gli uomini di ogni epoca hanno ritenuto consoni alle donne

dente: Andronico e Giunia fanno parte del gruppo degli apostoli.Perciò Giunia è chiamata apostola, proprio perché appartiene algruppo dei cosiddetti apostoli.

Invece di negare a priori che una donna potesse essere chiamataapostolo e appartenere al gruppo di quanti erano considerati tali, cidobbiamo domandare quale fosse il significato del termine e qualifossero i requisiti necessari per appartenere al gruppo degli apostoli.Di solito s’intende il termine apostolo a partire dalla concezione lu-cana che lo limita agli uomini, testimoni della vita di Gesù fino allasua Ascensione (Atti degli apostoli 1, 21-22), identificandoli troppo conil gruppo dei Dodici. Il concetto paolino sul significato dell’e s s e re

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di ELENA BUIA RUTT

Bambina timida, in-troversa, malinconi-ca, Leony (Nelly)Sachs nacque a Ber-lino nel 1891 in unafamiglia ebraica. Fuiniziata all’arte e al-la musica dal padre,figura autoritariadal carattere ambi-

valente, la cui opposizione alla relazione con ungiovane condusse la figlia sull’orlo dell’a n o re s -sia. A soli quindici anni, dopo la lettura di unlibro di Selma Lagerlhöf, Nelly Sachs scrisseall’autrice per manifestarle il suo entusiasmo,ignara che quelle poche parole a commentoavrebbero di lì a poco salvato la sua vita e quel-la della madre. Dopo la morte del padre, infatti,a seguito della promulgazione delle leggi razzia-li e con l’inizio delle deportazioni, fu proprioSelma Lagerlhöf, con cui Nelly era rimasta incontatto epistolare, ad aiutare le due donne, nel

to, per richiamarli all’attenzione, interpellarliall’ascolto:

Se i profeti si levasseronella notte degli uominicome amanti in cerca del cuore dell’amato,notte degli uominiavresti un cuore da donare?

I suoi versi rappresentano una tenue possibi-lità di lenimento del dolore, dopo la tragediadella Shoah, in quanto testimonianza e appelloall’apertura; in quanto unico sottile legame ri-

ARTISTE

La scritturacome

unico appiglio

frattempo costrette a vendere tutti beni di fami-glia, a fuggire a Stoccolma. Lagerlhöf, primadonna a vincere nel 1909 il premio Nobel per laletteratura, morì poco tempo prima che NellySachs e la madre arrivassero.

A Stoccolma le loro condizioni di vita furonoinizialmente molto precarie — Nelly fece dap-principio la lavapiatti — ma la giovane fu inseri-ta nel vivace ambiente letterario e artistico dellacapitale, avendo modo di iniziare un vasto e im-pegnativo lavoro di traduzione in tedesco dellagrande poesia svedese: una fatica che avrebbeconferito in seguito ai suoi versi un nuovo regi-

stro espressivo. Da questo periodo di sofferenza,dovuto alla malattia mortale della madre e allacattura e alla deportazione dei parenti e degliamici rimasti in Germania, nacquero le raccolteNelle dimore della morte (1947) e Le stelle si oscu-

ra n o (1949).

La tragedia umana e lo «scandalo teologico»della Shoah si trasformarono in Nelly Sachs inuna propulsione inesausta alla scrittura. La suaè la parola scarna e dolorosa del superstite: unsuperstite che cerca, confidando nelle ultimeestreme gocce di speranza da cui è abitato, diindicare agli uomini «ignari» l’orrore attraversa-

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masto con la speranza in un futuro privod’odio. Il canto di Nelly Sachs si fa profezia:

Se i profeti irrompesseroper le porte della notte,incidendo ferite di parolenei campi della consuetudine…Se i profeti irrompesseroper le porte della nottee cercassero un orecchio come patria

Orecchio degli uominiostruito d’orticasapresti ascoltare?

Il superstite vive nella posizione mediana ditramite tra i morti, a cui vuole rendere giustizia,e i vivi, che ignorano o intendono ignorare, lasorte dei loro fratelli. Le parole non sono unbalsamo, ma procurano ferite, perché mostrano,sussurrano, come flauti intagliati dalla morte, losterminio di milioni di innocenti e di questiscomparsi, intendono farsi voce («Leggeri scivo-liamo giù per questa ripida roccia dell’o r ro re » ).L’apolide Sachs, la donna sradicata, «l’ebrea er-rante», ricolloca la sua ragion d’essere nel versopoetico dotato di valenza profetica, facendodell’«orecchio» la propria patria, l’appro donell’altro della propria voce scampata al massa-cro («Invece della patria stringo le metamorfosidel mondo»).

«Ma tu capisci, viviamo entrambi nella patriainvisibile» scriveva la poetessa al grande poetarumeno di madrelingua tedesca e francesed’adozione Paul Celan, con il quale nel 1954 ini-ziò un’intensa e lunga corrispondenza epistola-re. Con Celan, ebreo anch’egli, Sachs condivisela condizione di esule, la sofferenza psichica euna creatività poetica intesa come ancora di sal-vezza dall’orrore del passato. Scriveva Celan:«Penso a te, Nelly, sempre, pensiamo sempre ate e a ciò che vive grazie a te! Ricordi ancora

quando abbiamo parlato di Dio per la secondavolta, a casa nostra, del tuo Dio, il Dio che tiattende, ricordi che c’era il riflesso dorato sullatua parete? Sei tu, è la tua vicinanza, che per-mette di vedere il riflesso, c’è bisogno di te, an-che in nome di coloro ai quali tu sei e ti pensitanto vicina, c’è bisogno della tua presenza quie tra gli uomini, c’è bisogno di te ancora a lun-go, c’è chi cerca il tuo sguardo; mandalo, quellosguardo, mandalo ancora all’aperto, consegnaglile tue parole vere, le tue parole liberatrici, affi-dati a lui, affida a noi, tuoi compagni di vita,della tua vita, questo sguardo, fai in modo chenoi, già liberi, diventiamo i più liberi in assolu-to, facci stare ritti, con te, nella luce!».

L’amicizia con Celan fu un balsamo nella tra-vagliata vita di Nelly Sachs: nel 1950 la scrittriceiniziò a soffrire di gravi disturbi psichici che lecomportarono lunghi ricoveri in cliniche psi-chiatriche, con spaventose sedute di elettro-shock. La scrittura, anche in questo frangente fuil suo unico appiglio: al 1959 risale Fuga e tra-

sformazione e al 1961 Al di là della polvere. Nel1960, seppur allo stremo delle forze, Nelly Sa-chs poté intraprendere un viaggio che la portòper la prima volta nuovamente in Germania(dove non era più voluta tornare), e infine a Pa-rigi, dove ebbe finalmente modo di incontrarePaul Celan di persona.

Nel 1966 venne insignita del premio Nobelper la letteratura, riconoscimento che Nelly Sa-chs ricevette con la modestia di un sorriso smar-rito e incredulo. Nonostante la celebrità arreca-tale dal Nobel, Nelly continuò la vita di sem-pre, nel suo modesto appartamento di Stoccol-ma, tra crolli fisici e psichici, a contatto con ilsuo dolente mondo interiore e con la creativitàliberatoria dei suoi versi: morì il 12 maggio 1970,lo stesso giorno in cui a Parigi si stava tenendoil funerale di Paul Celan, suicidatosi pochi gior-ni prima gettandosi nella Senna.

MAT T E O 7, 21-29

La buona notizia che ciè consegnata in que-sta pagina del vange-lo secondo Matteo èl’annuncio che il Si-gnore costruisce la ca-sa (cfr. Salmi 127, 1),l’annuncio che la suapotenza e l’efficaciadella sua parola edifi-

cano la comunità e la vita di coloro che la ac-colgono, poiché hanno il potere di contrastarele energie di morte che a volte abitano sia i sin-goli cristiani che le comunità del Signore. Sì,chi accoglie le parole del Signore Gesù e lemette in pratica, chi in esse ha fede e le accogliein una vita di conversione vedrà sprigionarsinella propria esistenza energie di amore e di vi-ta, capaci di vincere quelle che egli sperimentacome forze mortifere che lo abitano e che sonopiù forti di lui. Ma il Signore è il più forte del

ME D I TA Z I O N E

P ru d e n t iastuti

e semplici

a cura delle sorelle di Bose

Jean-Francois Millet«La roccia di Castel Vendon» (particolare, 1848)

Nella pagina successiva:Nicholas Roerich, «Rond rocks» (particolare, 1911)

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forte (cfr. Ma t t e o 12, 29), è colui che può vincerela potenza del male che ci abita (cfr. Ma t t e o 15,19), è colui che con il suo Spirito può cambiareil nostro cuore di pietra in cuore di carne (cfr.Ezechiele 36, 25-26).

Ma la parola del Signore non è magica, poi-ché il Signore non vuole dominare gli uomini,ma essere a loro servizio, ed è per questo cheanche la sua parola non porta frutto se non vie-ne accolta, se cioè non trova acconsentimentoda parte della libertà di chi la ascolta. Il Signo-re non desidera fare degli uomini dei burattiniin suo potere, ma elevarli alla dignità di suoipartner in una relazione di comunione, di al-leanza, poiché a sua immagine egli li ha fatti(cfr. Genesi 1, 26-27). Per questo l’accoglienzadella parola del Signore ha bisogno di una fedeche sia adesione con tutta la propria persona,anche con il proprio corpo, con la propria vita,con le proprie forze; in una parola: ha bisognoanche di essere accolta con un cammino di con-versione, di ripudio degli idoli, cammino a cuila quaresima che stiamo vivendo ci invita in ma-niera assidua.

E anche questo itinerario ci è presentato daquesta pagina di vangelo non come un doverema come una «furbizia», una forma di sapien-za, un essere scaltri, «prudenti» (cfr. v. 24), unmodo di sapere dove sta la via della vita e intra-

prenderla, abbandonando le vie mortifere in cuipotevamo essere incorsi. Molte volte Gesù neivangeli ritorna su questo concetto: la vita cri-stiana è una vita che invita alla furbizia, si trattadi essere scaltri, intelligenti, imboccando e per-correndo la via della vita, poiché per questo Ge-sù confessa di essere venuto (cfr. Giovanni 10,10). Allora, si tratterà per i discepoli di essereprudenti, astuti come i serpenti, e allo stessotempo semplici come le colombe (cfr. Ma t t e o 10,16), si tratterà di usare dei beni di questo mon-do in modo tale che ci conducano alla vita enon alla rovina (cfr. Luca 16, 8-9), si tratterà diimparare a vivere questo tempo di attesa dellavenuta gloriosa del Signore in modo da non la-sciarci trovare impreparati alla sua venuta (cfr.Ma t t e o 25, 1-13). E il segno della fedeltà di undiscepolo e di una comunità cristiana è la suaperseveranza nell’amore, nella carità (cfr. Ma t t e o

24, 12).

Questo è il frutto da cui si conosce l’alb ero(cfr. Ma t t e o 7, 15-20; 12, 33-37), e non una reli-giosità apparente, magari ammantata di devo-zione («Signore, Signore!», v. 22). No, non so-no né le apparenti confessioni di fede né i mira-coli, ci dice Gesù, che possono autenticare la vi-ta di un vero discepolo (cfr. v. 22), poiché nelgiorno del giudizio vi saranno magari molti chein vita hanno compiuto molti miracoli nel nomedel Signore, ma a cui egli dirà: «Non vi ho maiconosciuti» (cfr. vv. 22-23). Non dobbiamo darenessun credito a forme di religiosità fatte sia ditante parole (cfr. Ma t t e o 6, 7-8) sia della ricercadi grandi segni (cfr. Ma t t e o 16, 1-4), poiché lavenuta del regno di Dio avviene nella debolezzadel Crocifisso (cfr. Ma t t e o 12, 38-40) e nell’ascol-to obbediente, in quello che Giovanni chiamaun “r i m a n e re ”, un abitare, un dimorare senza la-sciarsi smuovere, nella sua Parola (cfr. Giovanni

8, 31: «Se rimanete nella mia parola siete vera-mente miei discepoli».

Sta a noi accogliere o rifiutare questo lietoannuncio.