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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 91 LUGLIO 2020 CITTÀ DEL VATICANO Vite di frontiera Madeleine Delbrêl Shalini Mulackal Lusia Shammas Cristina Simonelli Annalena Tonelli Shahrzad Houshmand Zadeh PRO MEMORIA LA STRAORDINARIA VICENDA DI MA R G H E R I TA GUA R D U C C I

D ONNE CHIESA MOND O · 2020-06-27 · D ONNE CHIESA MOND O 2 3 D ONNE CHIESA MOND O SOMMARIO QUESTO MESE - LIBRI Donne, Bibbia e libertà RI TA N N A ARMENI A PA G .4 DIPLOMA Fe

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 91 LUGLIO 2020 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Vite di frontieraMadeleine Delbrêl Shalini Mulackal

Lusia Shammas Cristina Simonelli Annalena Tonelli

Shahrzad Houshmand Zadeh

PRO MEMORIA LA STRAORDINARIA VICENDA DI MA R G H E R I TA GUA R D U C C I

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numero 91luglio 2020

LE IDEE

L a frontiera è una stretta striscia di territorio a ridossodel confine tra due stati, zona di varco ufficialmentedelimitata e dotata di un sistema difensivo. Nel corsodella storia, in particolare americana, la frontiera è pe-rò venuta anche ad indicare una regione scarsamente

colonizzata, a contatto con terre ancora sconosciute e intesa perciòcome punto di partenza per l’espansione colonizzatrice. Da qui leespressioni “spirito di frontiera” e “nuova frontiera”.

Quando parliamo di frontiera in senso figurato non ci scostiamo dimolto dal senso letterale. Immaginiamo infatti una linea di confine chesepara nettamente ambienti, situazioni, concezioni e discipline differen-ti. Alcuni intendono quella linea come confine fisso, invalicabile, da di-fendere. Altri la concepiscono invece come confine che può essere spo-stato, modificato, ovvero attraversato per dar luogo a concezioni piùavanzate. Solo in quest’ultimo caso si diventa veramente persone “dif ro n t i e r a ”, proprio come le donne protagoniste di questo numero. Mol-te di loro attraversano con coraggio i confini di ideologie, religioni eculture diverse nel tentativo di costruire ponti, sempre alla ricerca deldialogo e di una unità perduta. Altre, sfidando preconcetti e costumiconsolidati, hanno scelto di testimoniare con fatti concreti l’attraversa -mento dei confini e, rimanendo nell’ombra, vivono senza paura a con-tatto diretto con realtà ben al di fuori della loro comfort zone, imitandola vita di Gesù e di Maria che ci insegnano a stare nei posti più sco-modi, dove ci sentiamo disorientati, spesso anche stranieri.

Le diverse testimonianze di queste donne di frontiera diventanooccasione di profonda riflessione in quanto fanno intravedere la di-sposizione spirituale che le accomuna: non l’atteggiamento di chi sene sta quieta e rinchiusa nelle proprie dimore, nelle proprie certezze,e le difende, bensì lo spirito di chi ha un cuore inquieto, di colei che,sulla soglia, attende con ardore una visita, scrutando l’orizzonte.Questo stare sulla soglia è tipico anche del credente per il quale la li-nea di confine, la frontiera, diventa il luogo di passaggio del misterodove si avverte forte il desiderio di incontrare ciò o chi ancora non siconosce del tutto. Si potrebbe allora affermare che essere donne euomini di frontiera ci è possibile nella misura in cui, rimanendo sullasoglia, ci apriamo al mistero senza perdere il centro di noi stessi.

FRANCESCA BUGLIANI KNOX

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romano

Comitato di DirezioneRI TA N N A ARMENI

FRANCESCA BUGLIANI KNOX

ELENA BUIA RUTT

YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN

CHIARA GIACCARDI

SHAHRZAD HOUSHMAND ZADEH

AMY-JILL LEVINE

MA R TA RODRÍGUEZ DÍAZ

GIORGIA SA L AT I E L L O

CAROLA SUSANI

RI TA PINCI (co ordinatrice)

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I A GUIDI

VALERIA PENDENZA

SI LV I N A PÉREZ

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

Cop ertinaANNA MILANO

A cura diMARCO DE ANGELIS

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v aredazione.donnechiesamondo.or@sp c.va

per abbonamenti:abb onamenti.donnechiesamondo.or@sp c.va

Sulla soglia

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D ONNE CHIESA MOND O 2 D ONNE CHIESA MOND O3

SOMMARIO

QUESTO MESE - LIBRI

Donne, Bibbia e libertà

RI TA N N A ARMENI A PA G . 4

DIPLOMA

Fe m m i n i s m oe identità cattolica

ROMILDA FE R R AU T O A PA G . 5

QUESTO MESE - LA D ATA

22 luglio, festa di MariaMaddalena. Una storicaindaga sulla sua vicenda

ADRIANA VALERIO A PA G . 6

TRIBUNA A P E R TA

Amazzonia, le vere custodidella foresta

MÁRCIA MARIA DE OLIVEIRA A PA G . 7

TESTIMONIANZA

Io, ebrea, insegnoNuovo Testamento(che è storia ebraica)

AMY-JILL LEVINE A PA G . 9

FRONTIERE ECCLESIALI

Ho vissuto con i romcon l’istinto della mula

CRISTINA SIMONELLI CON LILLI MANDARAA PA G . 10

FRONTIERE TEOLO GICHE

Porto i miei studentinegli slum degli Intoccabili

SHALINI MU L A C KA L CON FRANCESCA LOZITOA PA G . 14

FRONTIERE S P I R I T UA L I

La figlia musulmanadi Francesco

SHAHRZAD HOUSHMAND ZADEHCON FEDERICA RE DAV I D A PA G . 18

FRONTIERE RELIGIOSE

Prima cattolica svizzeracappellana militare

LUSIA SHAMMAS CON MARIE CI O N Z Y N S KAA PA G . 22

FRONTIERE UMANE

Annalena, capacedi attraversare ogni confine

ELENA BUIA RUTT A PA G . 25

FRONTIERE IDEOLO GICHE

In missionenella città marxista

RI TA N N A ARMENI A PA G . 26

LE STORIE

La romita Alberto,uomo per fede

GLORIA SAT TA A PA G . 29

NELLE SCRITTURE

Maria, sulla frontiera tra Dioe l’Umanità

SIMONA SEGOLONI RU TA A PA G . 30

PRO MEMORIA

Ciò che la Chiesa devea Margherita Guarducci

ST E FA N I A FALASCA A PA G . 39

L:15.8.78cc A:10.5nmod

7

39LA F O R E S TA SILENZIOSA

Las Patronas del Messicoche lanciano ciboai migranti aggrappatisui treni per gli Usa

LUCIA CAPUZZI A PA G . 32

Martina Zavagli,mamma da 5 mesi,negli slum del Mozambicoper salvare i bambini

ELISA CALESSI A PA G . 35

Janeth Marquez,l’impegno con la Caritasdel Venezuelae la vicinanza ai poveri

FEDERICA RE DAV I D A PA G . 37

6

Correggio (1523-1524) Noli Me Tangere,Museo del Prado - Madrid

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D ONNE CHIESA MOND O 4 D ONNE CHIESA MOND O5

QUESTO MESE LIBRI

di RI TA N N A ARMENI

Nel 1898 fu pubblicata la Wo m a n ’s

Bible. Per la prima volta ungruppo di teologhe commentò iltesto sacro dal punto di vistadelle donne discostandosi e de-

costruendo la lettura dei Padri. Fu scandalo. LaBibbia della donna fu boicottata e censuratadalla Società biblica e anche dalle Associazionifemministe. Non si poteva accettare che i fonda-menti educativi e religiosi del testo sacro fosseromessi in discussione. Era ovvio. Fu sorprenden-te e inaspettato, invece il successo del libro chein poco tempo diventò un best seller.

La Bibbia pesa.La vita delle donnenei millenni è statacondizionata daiversetti della primalettera a Timoteo.«La donna impariin silenzio, in pienasottomissione. Nonpermetto alla donnadi insegnare né didominare sull’uomo;rimanga piuttosto inatteggiamento tran-

DIPLOMA

Fe m m i n i s m oe identità cattolicadi ROMILDA FE R R AU T O

Femminismo e cattolicesimo non sonosempre andati d’accordo. Non c’èdunque da stupirsi se un diplomasull’argomento susciti interesse; tanto piùse è organizzato da un’istituzionecattolica di alto livello.«Donne nella vita pubblica: femminismoe identità cattolica nel XXI secolo», è iltema di un diploma internazionale inDottrina sociale della Chiesa,organizzato dall’Accademia latino-americana dei leader cattolici. L’obiettivoè chiaro: riflettere ad un nuovofemminismo che abbia una identitàcristiana inconfutabile. È un argomentoche divide anche se non è nuovo. InMulieris dignitatem, Giovanni Paolo II

aveva già auspicato un femminismocristiano capace di resistere allatentazione di imitare i modelli maschili edi esprimere, al contrario, l’autenticogenio femminile.D all’11 al 25 luglio, personalità rinomatene parleranno in una prospettivaevangelica, cercando di discernere gliaspetti dei diversi femminismi e diindividuare i rischi di manipolazioneideologica. Fatto da non sottovalutare: lasessione inaugurale è stata affidata ad unresponsabile della Curia romana, padreAlexandre Awi Mello, segretario delDicastero Laici, Famiglia e Vita. È ladimostrazione di quanto la condizione ele attese delle donne, la necessariavalorizzazione del loro impegno e delleloro capacità, così come le ingiustizie egli abusi di cui sono vittime interpellinooggi la Chiesa cattolica.

quillo. Perché prima è stato creato Adamo e poiEva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si resecolpevole di trasgressione fu la donna, che si la-sciò sedurre…». È cominciata lì, da quel libro edalla lettura che ne è stata fatta, la storia diemarginazione di metà dell’umanità? Davvero leSacre scritture vogliono relegare le donne inuna condizione di schiavitù, di silenzio, di sacri-ficio di sé? Oppure questa è la lettura che nehanno fatto gli uomini influenzati anche dallecondizioni sociali e culturali in cui è stata lettae commentata? Sicuramente i Padri hanno inparte adattato i testi ai codici morali del tempo,riproponendo emarginazione e subordinazionefemminile. Così parte della potenza liberatoriadel testo si è perduta, alcuni suoi significatifraintesi e edulcorati.

Oggi venti teologhe (più una), cattoliche eprotestanti, hanno ripetuto l’operazione fattanel 1898. Hanno riletto i testi biblici e hannoproposto una lettura femminile in un volumeedito da Piemme, una nuova Bibbia delle don-ne. Passione teologica contro gli stereotipi pa-triarcali con cui si è letta per secoli. Esultanzaquando contrariamente a quanto si pensa si sco-pre il potenziale di liberazione presente nel te-sto sacro. Acume spregiudicato di fronte alleparti più controverse. I famosi versetti della let-tera a Timoteo letti e commentati da Maria diN a z a re t h .

Chi legge La Bibbia delle donne troverà un ri-baltamento dell’immagine maschile di Dio “vec-chio con la barba amorevole e simpatico” e lascoperta nella tradizione mistica ebraica dei ca-ratteri materni e femminili. Scoprirà come ilprincipale attributo di Dio, la sapienza, sia sem-pre femminile e assuma «i tratti di una sorella,di una madre, di una beneamata, di una ristora-trice ospitale, di una liberatrice, di una pacifica-trice».

Troverà una lettura certamente controcorrentee liberatoria delle figure di Marta e Maria, nonpiù divise nei ruoli e negli interessi ma unitenella ricerca della propria strada di libertà versocui Gesù le incoraggia.

Rimarrà incantato dalla lettura di un’analisidella bellezza femminile e dalla cultura esteticanei testi sacri. Testi rivoluzionari, sul corpo, sul-

D onne,Bibbia

e libertà

Matthijs Musson (1598-1678)La visita di Gesù a casa di Marta

e di Maria (foto © Matthijs Musson)

Venti teologhe, cattolichee protestanti, rileggono

il testo sacro. E si scopre...

la maternità, sulla sterilità. E tante figure fem-minili Marta, Maria, Ruth, Maddalena Sara Re-b ecca.

La conclusione? La Bibbia può essere un li-bro liberatorio per le donne. Va riscoperta, letta,studiata e approfondita con occhi e sapienzafemminile. È difficile, si tratta di risalire unachina, di opporsi a una corrente patriarcale, male venti donne coordinate da Élisabeth Parmen-tier, Pierrette Daviau e Lauriane Savoy ci riesco-no e ci danno un testo che non è solo dotto mapiacevole, ricco di scoperte e di sorprese.

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D ONNE CHIESA MOND O 6 D ONNE CHIESA MOND O7

QUESTO MESE TRIBUNA

di MÁRCIA MARIA DE OLIVEIRA*

Il 9 luglio 2009, lo scrittore EduardoGaleano, uno dei più importanti pensa-tori contemporanei dell’America Latina,è stato insignito dell’Ordine di Maggiodella Repubblica Argentina. Come rin-

graziamento per il premio ricevuto, lo scrittoreha composto una bella poesia intitolata «Lemappe dell’anima non hanno frontiere», in cuiha riportato i molteplici significati del termine“f ro n t i e r a ” che ne sottolineano concezioni diver-se. Quando si parla di “spingersi più avanti”, di“espansione”, di “p i o n i e re ”, non si sta necessa-riamente indicando la “linea di frontiera” o i “li-miti” tra paesi, dentro “strisce di confine”.

Se riflettiamo su alcuni aspetti dell’esp erienzadel Sinodo speciale per l’Amazzonia, possiamodire che il processo sinodale è stato un’opp ortu-nità per confermare che veramente «le mappedell’anima non hanno frontiere». E che le fron-

tiere che separano, dividono, umiliano, violenta-no e uccidono, perdono il loro significato quan-do riconosciamo di abitare nella stessa “casa co-mune”.

Il processo sinodale che, chiaramente, è pas-sato per le mani, la ragione e il cuore delle don-ne, è stata un’occasione di avvicinamento, dialo-go, incontro e celebrazione per tutta la Chiesadei nove paesi che compongono la Pan-Amaz-zonia, con una nota comune che ha riaffermatola lotta in difesa dell’Amazzonia e dei suoi po-p oli.

Alla luce dell’enciclica Laudato si’ è stato ri-badito che «tutto è interconnesso in questa casacomune», dall’evangelizzazione dei popoli allepossibilità di un’ecologia integrale e alle lezionidi convivenza e di cura del creato che i PopoliIndigeni impartiscono a tutto il pianeta. In par-ticolare, le donne, vere custodi della foresta,delle acque e dei territori, insegnano come pren-dersi cura, con amore e con responsabilità, di

Amazzonia, le vere custodi della foresta

QUESTO MESE LA D ATA

Il 22 luglio, dal 2016, per volere di Papa France-sco la Chiesa celebra non più la memoria ma la fe-sta liturgica di santa Maria di Magdala. A lei èdedicato l’ultimo libro della storica e teologa Adria-na Valerio «Maria Maddalena – Equivoci, storie,rappresentazioni» (Il Mulino). Ne riportiamo unb ra n o .

di ADRIANA VALERIO

I ricordi dei discepoli e, tra questi, delledonne al seguito di Gesù sono conflui-ti, con esiti differenziati a seconda dichi ha trasmesso e delle specifiche si-tuazioni dei gruppi di riferimento, nelle

diverse redazioni scritte che hanno dato origineai vangeli. I racconti della Passione, molto di-versi tra di loro, fanno riferimento a una dupliceesperienza, la scoperta della tomba vuota e leapparizioni post-pasquali, ma non sempre con-vergono sul ruolo e sulle emozioni che i singolipersonaggi svolgono e sentono.Comunque, in tutte le narrazionipasquali le donne sono presentatecome le prime testimoni del sepol-cro vuoto (…)

La Maddalena, a capo del grup-po femminile, viene descritta condiversi atteggiamenti. In Marco,fugge impaurita – insieme a Maria,madre di Giacomo, e a Salome –davanti alle «apparizioni di ange-li» che attestano l’avvenuta resur-rezione e tace sull’accaduto (16,1-8); in Matteo, insieme con «l’altra

Maria», riconosce il Risorto e corre a dare l’an-nuncio agli altri discepoli (28,1-8); in Luca lasua testimonianza non è ritenuta affidabile(24,1-12). Giovanni, più di tutti, le riserva un’at-tenzione particolare e la pone al centro della fe-de nel Risorto (…) Il quarto evangelista, nel di-re che «Maria stava all’esterno, davanti al sepol-cro e piangeva» (20,11), sottolinea come lei siarimasta da sola a piangere davanti alla tombavuota (…) Solo sentendosi chiamata per nome –«Maria!» – sa riconoscere la voce del Maestro,apparso nel giardino sotto le sembianze di ungiardiniere (…)

Gesù le disse: «Non mi trattenere, perchénon sono ancora salito al Padre; ma va’ dai mieifratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padrevostro, Dio mio e Dio vostro». Maria la Mag-dalena andò subito ad annunziare ai discepoli:«Ho visto il Signore» e anche ciò che le avevadetto (Giovanni, 20,16-18). Questa narrazione è

un potente richiamo simbolico aquella ricerca dell’amato, perduto,ritrovato e trattenuto, celebrato nelCantico dei Cantici (3,1-4) e che fa dasfondo a quest’incontro drammaticoe appassionato (…) Maria incarnaqui il tipo ideale di discepolo chevede, riconosce, testimonia e annun-cia. Il Risorto, infatti, appare perso-nalmente a lei e, sottraendosi a ognitrattenimento, la invia come testi-mone del Vivente alla comunità deidiscepoli ormai divenuti i suoi «fra-telli». Ci troviamo in presenza di unvero e proprio mandato apostolico.

22 luglio, festa di Maria MaddalenaUna storica indaga sulla sua vicenda

© L’Osservatore Romano

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D ONNE CHIESA MOND O 8 D ONNE CHIESA MOND O9

questa grande casa comune che non conoscefrontiere, ma solo l’orizzonte che lo sguardoraggiunge.

Il processo sinodale ha mostrato una “Chiesadal volto amazzonico”, capace di celebrare e vi-vere la Parola di Dio, con una spiritualità pro-pria, con la sua devozione e religiosità; ha rico-nosciuto l’identità e il grido del popolo di Dioin Pan-Amazzonia, in particolare dei Popoli In-digeni; ha contribuito a rivelare al mondo la ric-chezza della biodiversità del territorio e a cono-scere meglio il suo bioma per poter difendere laregione con le sue foreste, le sue acque e i suoipopoli contraddistinti dalla diversità sociocultu-rale, politica, economica e religiosa.

L’intensa partecipazione delle donne a tuttoil processo sinodale non fa che confermare que-sta caratteristica riconosciuta sia nel Documentofinale dell’Assemblea sinodale (2019) sianell’Esortazione post-sinodale Querida Amazonia

di Papa Francesco (2020), ossia che in questaregione esiste “una Chiesa con volto di donna”.

L’Assemblea sinodale ha riconosciuto il pro-tagonismo delle donne nelle comunità, nelle pa-storali, nei movimenti sociali e nell’insieme dellamissione della Chiesa in Pan-Amazzonia. Allostesso modo, riconosce che la loro partecipazio-ne e la loro rappresentatività nel mondo dellapolitica, nei movimenti sociali, nelle organizza-zioni di donne nere, quilombalas, indigene, con-tadine e migranti transfrontaliere, sono innega-bili.

Ciononostante, i paesi della Panamazzoniahanno in comune un contesto caratterizzato dal-la violenza contro le donne, con un alto tasso difemminicidio. È una violenza storica che è co-minciatanella regione con i processi di coloniz-zazione e che deve essere affrontata con serietàdalla Chiesa, dagli Stati nazionali e da tutta laso cietà.

Tuttavia, anche situazioni di violenza, è inne-gabile il ruolo delle donne nella lotta per supe-rare ogni forma di oppressione, di maschilismo,di misoginia e di discriminazione, eredità delpatriarcato che perdura ancora persino nellefrontiere della Chiesa.

Nell’Assemblea sinodale i partecipanti si sonoimpegnati a «identificare il tipo di ministero uf-ficiale che può essere conferito alle donne, te-nendo conto del ruolo centrale che esse svolgo-no oggi nella Chiesa amazzonica». Fondatasull’esperienza della Chiesa primitiva, «quandorispondeva alle sue necessità creando ministeriappropriati», la Chiesa in Panamazzonica rico-nosce «la presenza e l’ora delle donne», eviden-ziandone i carismi, i talenti e lo spazio che sto-ricamente occupano nella società. Perciò am-mette che la loro voce venga ascoltata, che sia-no consultate e partecipino alle decisioni e aiministeri pastorali ed ecclesiali.

Infine, l’Assemblea sinodale ha sottolineatoche «la saggezza dei popoli ancestrali affermache la madre terra ha un volto femminile», fon-damento di una eco-teologia femminista che ri-conosce che l’azione delle donne è fondamenta-le per la formazione e la continuità delle cultu-re, della spiritualità, dei cambiamenti che tra-sformano le strutture ingiuste in una società fra-terna e solidale, senza frontiere che separano elimitano.

* Rete Ecclesiale Panamazzonica–Repam,Universidade Federal de Roraima - Ufrr

Nel giugno del 1963 mia madre mi fece guardare in televisione le esequiedi Papa Giovanni XXIII, perché, disse «lui è stato un bene per gliebrei». Appresi che il papa viveva in Italia (che per me significavaspaghetti), che era acclamato dalle folle e che era un bene per gli ebrei.Dissi a mia madre che volevo fare il papa. Lei replicò: «Non puoi».

«Perché no?», le domandai. Mi rispose: «Perché non sei italiana».Quello stesso anno una ragazzina mi disse: «Hai ucciso nostro Signore».«Non è vero», risposi. Se si uccide qualcuno, si dovrebbe sapere.«Sì, l’hai fatto», disse. «L’ha detto il nostro prete».Ero convinta che il prete indossasse un collare speciale e che quindi se avesse mentito ilcollare lo avrebbe soffocato (guardando indietro, mi sembra una buona idea). Pertantodovevo per forza essere responsabile della morte di Dio. Quando arrivai a casa inlacrime, mia madre mi assicurò che il prete aveva torto e che non avevo uccisonessuno.(Nel 1965 Nostra Aetateconvalidò l’insegnamento di mia madre.)I miei genitori mi dissero che cristiani ed ebrei adorano lo stesso Dio. Leggiamo glistessi libri, come la Genesi e iSalmi. Amiamo il nostro prossimo, come ci impone ilLevitico 19. Mi dissero anche che i cristiani parlano di un uomo ebreo di nome Gesù.Come poteva un sacerdote, che dovrebbe sapere tutto ciò, accusarmi di deicidio?

Decisa a correggere questo insegnamento antiebreo,chiesi di seguire il catechismo della chiesa cattolica.(All’inizio pensavo che il sacerdote avesse fatto un erroredi traduzione. Nella sinagoga stavo imparando l’ebraico esapevo che errori potevano capitare. Allora nessuno midisse che il Nuovo Testamento è scritto in greco). I mieisaggi genitori acconsentirono. «Purchéti ricordi chi sei –dissero – vai e impara. È bene conoscere la religione deinostri vicini».Amavo quelle lezioni (probabilmente tra i bambini erol’unica). Le storie mi ricordavano storie sentite insinagoga. Il Bambino Gesù è quasi stato ucciso, come ilbambino Mosè. Gesù

racconta parabole e guarisce persone, come altri ebrei nellestoria ebraica.In seguito, leggendo il Nuovo Testamento, compresi duecose. Anzitutto, i miei amici cattolici sapevano ciò chedicevano i Vangeli, ma mi volevano bene. Mi resi dunqueconto che scegliamo noi come leggere. In secondo luogocapii che il Nuovo Testamento è storia ebraica.Oggi insegno a studenti che si preparano a essere sacerdoti einsegnanti di religione. Nella primavera del 2019 sonodiventata la prima ebrea a tenere un corso di NuovoTestamento al Pontificio Istituto Biblico. Nello stessoperiodoMarc Brettler e io abbiamo presentato a PapaFrancesco il volume da noi curato:The Jewish Annotated New

Te s t a m e n t .Aiutare i cristiani a leggere il Nuovo Testamento senza falsistereotipi contro gli ebrei e mostrare agli ebrei come ilNuovo Testamento facciaparte della nostra storia è unavocazione e una gioia. Non rendo culto a Gesù, ma continuoa trovare affascinanti e ispiratrici le storie che ha raccontato equelle che lo riguardano.

TESTIMONIANZA

Io, ebrea, insegnoNuovo Testamento(che è storia ebraica)di AMY-JILL LEVINE

Duomo di Monreale, Creazione della Luce

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D ONNE CHIESA MOND O 10 D ONNE CHIESA MOND O11

di CRISTINA SIMONELLI con LILLI MANDARA

Sono entrata in un campo rom a 20 anni, un po’ per casoe un po’ per sfida, e ci sono rimasta 35 anni. Volevo met-tere alla prova il Vangelo, nelle sue frontiere: perché sefunziona lì allora funziona anche al centro, pensai. Quan-do lo dissi a mio padre, lui mi rispose: «Se Dio non esi-

ste, voi siete perduti»: io perduta non mi sono sentita mai.

La mia è stata una vita un po’ a casa e un po’ fuori luogo, un po’a proprio agio e un po’ spaesata, da quando ero una ragazza deglianni Settanta, asimmetrica, terzomondista, resistente e di quel femmi-nismo respirato per cui ritenevo di non dover essere autorizzata danessuno. Quando nel 1975 la soglia della maggiore età si è abbassataa 18 anni, a me si è spalancato un ventaglio di libertà.

Adesso vivo ancora in zona sinti-rom, non più in un campo ma nel-la stessa comunità divita, in quel lontano che mi è diventato oltremo-do vicino: ho passato quei 35 anni come un giorno, come un’ora diveglia nella notte, citando il salmo. In un lembo di terra in cui, rifat-te le mappe, la vita comune è possibile, promessa di più pacifici uni-versi di vita e di pensiero.

Anche le frontiere della comunità ecclesiale avrei voluto abitarepermanentemente, perché la chiesa è in se stessa profondità e frontie-ra, e studiando la storia delle donne mi resi conto che alcune figurefemminili partivano corpo a corpo col Vangelo, come se fossero auto-rizzate dal Vangelo. Quando mi sono chiesta perché, mi sono rispo-sta che alla donna accade ciò che accade alle minoranze, anche seminoranze non sono: ma è la marginalità imposta che le accomuna etramuta la quantità (siamo maggioranza) in qualità (siamo ritenutesecondarie). A volte sembra che le donne, come i rom, siano oggettiche la chiesa tratta e non soggetti ecclesiali con pieni diritti. Non ècosì: cambiamo l’idea di centro e di periferia e si vedrà che siamosoggetti a pieno titolo.

Nel 1975 c’era l’onda lunga del Concilio e si lavorava tanto nelleparrocchie, il rapporto tra il Nord e il Sud del mondo mi appassio-nava, ero stata un anno in una comunità di missionarie ma non mibastava più. Volevo andare in Africa, ai rom non ci pensavo ancora.Li vedevo per strada e mi colpivano per la loro estraneità e quella lo-ro fierezza, ma niente di più.

Ho vissuto con i romcon l’istinto della mula

Cristina Simonelli, teologa, racconta i suoi 35 anni in un campo

Fiorentina di nascita e veronese di adozione, Cristina Simonelli

ha iniziato a studiare teologia dall’interno di un’esperienza

di condivisione: dal 1976 al 2012 ha infatti vissuto in

contesto Rom, prima in Toscana, poi a Verona,

entrando a far parte del Gruppo Ecclesiale veronese

per i Sinti e i Rom, comunità di vita oltre che

realtà pastorale. A questo titolo è stata presente

nella rete che ha sostenuto questo tipo di pastorale

della Chiesa Italiana. Ha conseguito nel 1993 il

Baccalaureato in Teologia a Verona, affiliata

all’epoca al Laterano (PUL), nel 1995 la Licenza

in Antropologia teologica presso l’allora Studio

teologico fiorentino (aggregato all’epoca alla

Gregoriana-PUG), il Dottorato in

Teologia e Scienze patristiche presso

l’Augustinianum (Roma). Attualmente

è docente di Storia della Chiesa e

Teologia patristica a Verona (Studio

teologico San Zeno, Istituto Superiore

di Scienze Religiose San Pietro

Martire) e presso la Facoltà Teologica

dell’Italia Settentrionale (Milano).

Attenta alla questione femminile e

prospettiva di genere si è associata fin

dalla sua fondazione al Coordinamento

delle Teologhe Italiane, di cui è ora

P re s i d e n t e .

FRONTIERE ECCLESIALI

Cristina Simonelli(da moltefedi.it)

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Una nostra compagna della comunità veronese raccontava che lei,di tradizione intellettuale, per anni non aveva preso in mano un li-bro, perché sarebbe stato come mettersi su un altro piano, rispetto aloro. Nessuno di noi leggeva niente. Poi, quando finalmente abbia-mo iniziato a leggere e io a studiare, la nostra vita è diventata appro-priata, a proprio agio, più libera.

Ho calpestato queste terre, ho abitato questi mondi, per compren-derli. E ho condiviso la vita, le nascite, i matrimoni, le difficoltà, ipregiudizi. Sono loro, i rom ma soprattutto le donne, le ro m n i a , leprincipali vittime della discriminazione; con loro e per loro attraversiun’altra frontiera che è quella del razzismo perché morte le streghe,morto l’antisemitismo, forse, sono rimaste le zingare rapitrici a nutri-re le isterie di cui la società ha bisogno e di cui l’alterità interpretatacome minacciosa è stata sempre ottima fornitrice.

L’intolleranza e il razzismo non sono scomparsi, e coinvolgono an-che le chiese. Nella seconda metà del XX secolo, periodo del Conci-lio, nacque una forma di condivisione della realtà rom basata sullasua stima, piccole comunità ecclesiali la vivevano — e tuttora la vivo-no — e hanno sviluppato una ministerialità ampia e inclusiva. Le pic-cole comunità — di uomini e donne, di laici e preti, di religiose e fra-ti — hanno molti legami: con la Cei e con realtà ecclesiali europee emondiali: macché confini!

Attualmente l’esistenza di associazioni rom, a livello culturale epolitico, sta aprendo nuovi scenari.

Gli uni di fronte agli altri, impariamo chi siamo: e in quegli annidi vita nei campi rom abbiamo potuto vedere noi stessi allo specchio.Questa idea dello specchio può anche essere usata per il rapporto“Chiese/Rom”: infatti, non è solo questione di descriverlo dal puntodi vista pastorale, ma di chiedersi quali sfide e quali immagini diChiesa ne emergano. Nel 1965 a Pomezia, Paolo VI disse ai pellegrini:«Voi non siete ai margini della Chiesa, ma sotto certi aspetti, siete alcentro, siete nel cuore». Fu il primo discorso ufficiale di un Papa anon contenere un decreto di espulsione dallo Stato Pontificio. Eppu-re, con quel suo «ma sotto certi aspetti», il Papa dimostrò che la sfi-da era in corso, non risolta, e purtroppo è ancora così.

* * *

Giuseppina, la donna sinta, prima di morire, mi ha regalato unoscialle di lana che conservo. Un gesto piccolo dal grande significato.Quello scialle che Giuseppina indossava mi ha fatto pensare al mantelloche Antonio eremita del deserto ricevette e a sua volta lasciò in eredità.

Ora, a chi mi chiede sempre e soltanto questo, la mia vita con irom, rispondo, come faceva un’amica, con un brano di Saint Exupe-ry: «Certamente un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa virassomigli, ma lei, lei sola è più importante di tutte voi perché è leiche ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di ve-tro. Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei houcciso i bruchi. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi e vantarsi oanche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa». Sì, loro sono lamia rosa.

Anche nella teologia, tradizionale dominio maschile, sto bene mami sento pure un po’ fuori posto: è un mondo che mi consente di in-crociare linguaggi diversi, persino molto stimolante, tanto da apparir-mi una sorta di principio euristico, un modo di stare al mondo, diabitare la città e anche la chiesa, secondo il principio della mula: «Lamula (…) pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla partedi fuori e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vede-va sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto o, come pensava lui, unprecipizio. “Anche tu — diceva tra sé alla bestia - hai quel maledettovizio d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero”».

Così come per la teologia, quando entrai nel campo rom a 20 anninon si trattò di un’affinità spontanea ma di una scelta, anche se aquel tempo non sono stata io a scegliere ma un amico, Sergio. Ave-vamo già incontrato una comunità di sinti in Toscana, poi lui avevaconosciuto una famiglia e tenuto una bimba a battesimo, era diventa-to per loro un compare, quasi un parente.

Cominciò con un invito di Giuseppina, la madre della piccola:«Venite qui, c’è posto». E così siamo stati catapultati in quel mondo,come fosse l’alba del primo giorno del mondo.

Devi imparare tutto. A vivere in una roulotte, e a muoverti in pun-ta di piedi. A pregare nel loro santuario e loro nella tua chiesa; a reg-gere gli sguardi delle maestre che ricoprono anche te dello stesso ve-lo di diffidenza di quelle famiglie che non vogliono essere “normali”.

Molto mi ha aiutata quel mio essere spaesata e sempre fuori luo-go. All’inizio è come un viaggio all’estero, ti muovi con le orecchie egli occhi ben aperti, devi imparare i modi di parlare, la cortesia chesegue altri canoni, e alla fine è come quell’espressione che si usa nelmatrimonio: «Prometto di amarti e onorarti per tutta la vita». Ono-rarli non è un dettaglio, a volte è stato un sacrificio; e non è dettoche tutto funzioni alla perfezione.

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di SHALINI MU L A C KA L con FRANCESCA LOZITO

Sono nata in una famiglia cattolica in Kerala appartenenteal rito siro-malabarese, una delle tre Chiese rituali in In-dia. Terza di dieci figli, cinque femmine e cinque maschi.Uno dei miei fratelli è sacerdote nell’eparchia/diocesi diUjjain. Sono cresciuta in una famiglia unita, insieme ai

nonni paterni. Mio nonno era un uomo pio e orientato alla spirituali-tà. Ogni sera guidava le preghiere in famiglia. Andava regolarmentea messa, e quando non poteva, recitava a casa le preghiere dell’Euca-ristia. Ricordo che da bambina mi svegliavo presto e sentivo i mieinonni recitare il Rosario.

Mia madre aveva una profonda fede in Dio e una devozione perla Vergine Maria. Ha fatto in modo che tutti i suoi figli crescesseroin questa fede. Durante l’Avvento e la Quaresima ci incoraggiava adandare a messa tutti i giorni. Osservava il digiuno e l’astinenza ilmercoledì e il sabato oltre che nel tempo di Avvento e di Quaresima.A noi figli ha inculcato i valori, specialmente quelli della verità edell’onestà. È stata l’educazione ricevuta a darmi la gentilezza e lacompassione per i poveri e i sofferenti. A 15 anni il mio obiettivo eradiventare medico per servire i bisognosi e i sofferenti. Non avevo al-cun desiderio di sposarmi e avere una famiglia. Ma non volevo nem-meno entrare in convento e farmi suora.

Sin da adolescente avevo una certa concezione della vita religiosae ritenevo che molte religiose non vivessero conformemente alla lorovocazione. Avevo stretti contatti con alcune religiose, specialmentedurante gli studi pre-universitari, e la loro vita e i loro valori non miimpressionavano affatto.

Era il disegno di Dio che scegliessi la vita religiosa così da averepiù opportunità di servire i bisognosi. Quando conobbi il carisma ela missione della Congregazione della Presentazione della Beata Ver-gine Maria fondata dalla venerabile Nano Nagle fui certa di trovarminel posto giusto.

Primo presidente donna dei teologi. Sono membro dell’Asso cia-zione teologica Indiana (Ita) e ne sono stata il primo presidente don-na dal 2014 al 2017. Pur essendo numerose le religiose che hannosvolto studi teologici fino a conseguire il dottorato, tante di loro nonsono presenti nella scena pubblica. Quando vengono loro affidate re-sponsabilità in seno al loro ordine, poche continuano a svolgere atti-vità accademiche serie, a tenere conferenze, lezioni, scrivere articoli di

Porto i miei studentinegli slum degli Intoccabili

Suor Shalini Mulackal, presidente del Centro di studi Dalit

L’India delle persone più povere,

la prospettiva delle donne, l’apertura ad una

teologia che abbia prima di tutto uno sguardo

su chi viene quotidianamente dimenticato. La

vocazione di suor Shalini Mulackal, prima

donna a presiedere l’associazione nazionale dei

teologi indiani, nasce sul confine tra la

riflessione e l’azione, tra l’accademia e la vita

quotidiana. Ed è tutta nell’immagine con cui

racconta l’esperienza fatta con i suoi studenti

di teologia, durante la visita agli slum: dalla

cima di una collina guardano la povertà

incarnata nella terribile lotta per il cibo tra

animali e umani. E’ questa la frontiera

in cui ogni giorno opera questa donna

che vive il suo essere parte della Chiesa

con una attenzione specifica alle minoranze

del suo Paese.

FRONTIERE TEOLO GICHE

Suor Shalini Mulackaldurante una manfestazione(foto da lei fornita)

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ricerca... Tra i membri dell’Ita c’èqualche religiosa, ma poche parteci-

pano regolarmente all’incontro e al semi-nario annuale. Pertanto, i contributi dalla pro-

spettiva femminile o femminista sono scarsi nel no-stro paese. Sono pochissime le donne laiche che hanno

ricevuto una formazione teologica.

Essere femminista. Una femminista è colei che è consapevoledella situazione oppressiva in cui vivono le donne e che fa qualcosaper cambiarla. È stato mentre prendevo la licenza in Teologia che misono resa conto del posto secondario che hanno le donne nella socie-tà indiana e delle atrocità compiute nei confronti delle ragazzine edelle donne. La maggior parte degli uomini e delle donne in Indiahanno interiorizzato i valori patriarcali e quindi hanno “normalizza-to” l’oppressione e la sottomissione delle donne nella società e anchenella Chiesa. Attraverso il mio insegnamento e i miei scritti continuoa suscitare questa consapevolezza, specialmente tra quanti stanno studiando per diventare sacerdoti e anche tra le religiose.

Le ricerche sulle cattoliche dalit. Attualmente sono presidente delCentro di studi dalit (Cds) a Nuova Delhi. Il Centro ha funzionatomolto bene fino alla morte del suo fondatore e primo direttore JamesMassey, pochi anni fa. Stiamo cercando di riprendere le attività, masono tanti gli ostacoli da affrontare. I Dalit sono coloro che un tem-po erano detti gli intoccabili della società di caste indiana e sono cir-ca 200 milioni. Ancora oggi la loro situazione è tragica. Vengono di-scriminati a ogni livello. Alcuni anni fa, Rohit Vemula, studente diHyderabad, si è suicidato e nel biglietto che ha lasciato ha detto chela sua nascita era il suo destino. Il suo unico sbaglio era di essere na-to Dalit. C’è stato un tempo in cui i Dalit si convertivano numerosial cristianesimo. Poiché il cristianesimo non crede nel sistema dellecaste e offre rispetto e dignità a ogni essere umano, era naturale chealcuni Dalit si convertissero al cristianesimo. Devo però ammettereche nemmeno i cristiani in India si sono liberati pienamente dallamentalità delle caste e che in alcuni luoghi si fa sentire ai Dalit diappartenere a una categoria secondaria.

Ho fatto ricerche sulle donne cattoliche di origine Dalit nel di-stretto di Thiruvallur, nel Tamil Nadu. Ho studiato le loro pratichereligioso-culturali dalla prospettiva dell’empowerment. Accanto allepratiche religiose cattoliche, compiono anche rituali culturali comecelebrare le prime mestruazioni di una ragazza, la prima gravidanza,la vedovanza e così via. Alcuni di questi rituali aiutano la donna ad

avere consapevolezza positiva del proprio corpo e contribuiscono adarle sicurezza di sé. Poiché come Dalit vengono private della lorodignità umana, c’è un forte desiderio di acquisire rispetto di sé. Eper far questo, anche se la maggior parte di loro è povera, amano ce-lebrare rituali spendendo tanti soldi presi in prestito.

Il Centro di studi Dalit sotto la guida del dottor James Massey in-traprese il progetto di scrivere commenti biblici su tutti i libri dellaBibbia, una serie di venti volumi che è stata completata. Io ho con-tribuito con due volumi (il volume 6 e il 20). Questa Dalit BibleCom-

mentary è la prima del suo genere in India. Il fine era di leggere laBibbia dalla prospettiva della realtà Dalit e di trovare modi per darloro potere. Così mentre scrivevo il commento ai tre libri di Rut,Ester e Giuditta mi sono concentrata sulle donne Dalit e la loro si-tuazione. Ho posto l’enfasi sull’azione delle donne Dalit, poiché siparla di tre donne bibliche che prendono l’iniziativa per salvare il lo-ro popolo.

Con gli studenti negli slum. Il Vidyjyoti College of Theology, do-ve insegno dal 1999, dà importanza alla teologia contestuale. Il pri-mo corso degli studenti del primo anno si chiama «Introduzione allateologia e analisi socio-culturale». L’ho tenuto sin dall’inizio. All’in-terno, proponiamo ai nostri studenti programmi di contatto diretto aDelhi. Finora non abbiamo vissuto negli slum, ma ho condotto glistudenti negli slum di Delhi, specialmente tra le persone che si gua-dagnano da vivere nella discarica. Ci arrampichiamo sulla struttura aforma di collina, che non è altro che un mucchio di rifiuti. Quandoarriviamo in cima, la cosa che colpisce di più è vedere animali e esse-ri umani che lottano e combattono per prendere tutto ciò che riesco-no ad afferrare quando il nuovo carico di rifiuti viene riversato daicamion. È una visione terribile. L’odore che sale dai rifiuti è insop-portabile. Tuttavia si vedono uomini, donne e perfino bambini cherestano tutto il giorno in quel luogo per guadagnarsi da vivere. Visi-tiamo anche alcune delle loro case situate ai piedi di quella collina.Non ci sono parole per descrivere la miseria nella quale vivono.L’esperienza lascia negli studenti un’impressione profonda della sof-ferenza dei poveri nel nostro paese. E questo diventa il punto di rife-rimento per la nostra riflessione teologica. Li porto anche a Jantar-Mantar, un luogo, a Delhi, dove le persone si possono recare e prote-stare contro i diversi torti subiti. Gli studenti interagiscono con quel-le persone, che possono rimanere lì anche settimane e mesi a esigere iloro legittimi diritti dal governo.

Discarica Ghazipura New Delhi

(dal sito Youth Ki Awaaz)

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di SHAHRZAD HOUSHMAND ZADEHcon FEDERICA RE DAV I D

Una frontiera difficile ho dovuto attraversarla dentro lamia anima, quando, da musulmana convinta, ho in-contrato la spiritualità cristiana. A livello accademicolo avevo già fatto, avevo capito le regole dogmatichedi un’altra religione, il significato delle parole, ma

questa volta la vita mi chiedeva di oltrepassare un confine più pro-fondo, qualcosa che mi penetrava dentro l’anima, quasi dentro le cel-lule. Ero arrivata da poco in Calabria dall’Iran, alla fine degli anniOttanta, e ho incontrato i Focolarini, attraverso Rita Calabrò, la vo-lontaria che mi insegnava l’italiano. Si sono avvicinati a me in modorispettoso, con loro mi si è presentata una religione vissuta, amata.Amavano Cristo, lo mettevano in pratica, e amavano me. Non solo:non si ponevano in contrasto, rispettavano la mia religione, ero liberadi raccontare la mia spiritualità intima, i miei Maestri, la mia liturgia;comprendevano. In loro ho visto una spiritualità autentica, la lucedell’amore di Dio e mi sono interrogata. Era una condizione nuova:io in gioventù avevo scelto di abbracciare la religiosità islamica conpiena convinzione, avevo fatto una scelta cosciente, libera e amorevo-le; ma adesso davanti a me vedevo il valore di un’altra spiritualità.Ho passato un lungo periodo a interrogarmi: innamorata come erodella luce della spiritualità islamica, mi trovavo di fronte al valore diun’altra spiritualità, quella cristiana.

Non lo sapevo, ma in quel momento il confine era già scavalcatocon la nascita di una nuova luce dentro di me, una forza mistica nel-la mia anima. Non è stata una conversione, semplicemente i mieispazi interiori si sono allargati e le braccia dell’anima si sono aperteancora di più per accogliere la vita con la V maiuscola. Penso che al-la fine sia questo il disegno di Dio su di noi: il Corano dice che lospirito che vive in noi, il Ruh, ci è soffiato dentro da Dio, ha la stes-sa essenza del Suo spirito. Credo che questo dono della vita mi ab-bia fatto ritrovare il mio io profondo, riconoscere lo spirito di Diodentro di me, senza barriere. Mi sono nutrita del Verbo di Dio che simanifestava anche nel Verbo di Gesù, che il Corano stesso riconoscee apprezza. Ho passato momenti di disagio spirituale, non lo nascon-do, ma poi ho compreso anche la mia religiosità in modo più pro-fondo e spirituale, il senso più autentico del monoteismo: Dio è sem-pre uno ed è il Dio dei musulmani, degli ebrei, dei cristiani, dei noncredenti, dei diversamente credenti … Così ho superato l’ostacolo, ed

La figlia musulmanadi Francesco

Shahrzad Houshmand Zadeh e le teologie islamica e cristiana

Shahrzad Houshmand Zadeh, teologa musulmana, è nata aTeheran e vive a Roma. Già docente di Studi Islamici allaPontificia Università Gregoriana, docente invitata diStudi Islamici alla Pontificia Facoltà TeologicaMarianum; lettrice di Lingua e letteratura persianaalla Sapienza. E’ vice presidente della Consultafemminile del Pontificio Consiglio della Cultura emembro del Consiglio relazioni con l’Islam italianodel ministero Interno. E’ consulente scientifica delCentro dialogo interreligioso dei Focolari e membrodel Comitato direttivo del Centrointerconfessionale per la pace, copresidentedell’Organizzazione religioni per la paced’Italia, presidente dell’associazione Donneper la dignità, copresidente dell’associazioneKarol Wojtiła. Dopo gli studi nel Centrosecolare e tradizionale dell’Islam sciitanella Città Santa di Qom, si èspecializzata in Teologia Islamicaall’Università di Teheran, poi laureatain Scienze religiose alla PontificiaUniversità dell’Italia Meridionale. Nel1999 Licenza in Teologia FondamentaleCristiana alla Pontificia UniversitàL a t e ra n e n s e .E’ nel Comitato di Direzione di DonneChiesa Mondo, e non per ultimo madredi tre figli.

FRONTIERE SP I R I T UA L I

Shahrzad Houshmand Zadeh(foto Stefania Casellato)

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è arrivata la comprensione del senso più profondo del monoteismodentro il mio cuore. Uno dei frutti di quell’incontro è stata la colla-borazione per lunghi anni con Chiara Lubich, che traduceva la vitaspirituale in un linguaggio vissuto, concreto, per dare vita alla Paro-la. Mentre lei ogni mese, da un versetto del Vangelo, riportava la pa-rola da vivere, mandata a milioni di persone al mondo, io facevo lastessa meditazione con i versi del Corano, in una pagina, ogni mese,e loro la traducevano in 5 lingue mandandola nel mondo. Una co-munione d’anima, del sacro vissuto, un’unità nella diversità tra cri-stianesimo e islam. Avevo già oltrepassato altri confini, anche diffici-li, ma esteriori o razionali. Il primo a 15 anni. Dopo la rivoluzionedel ’79, in Iran le scuole erano state chiuse e io, a casa, avevo comin-ciato a interessarmi alla religione. I miei genitori erano universitari,mamma docente di psicopedagogia e direttrice del suo dipartimento,papà ingegnere geologo; sono cresciuta tra i libri in un ambienteaperto e tollerante, non religioso ma ricco di valori umani. In queigiorni ho avuto un’esperienza spirituale personale, che mi ha fattonascere un profondissimo desiderio verso il sacro, verso il mistero diDio. Ho pensato che quella bellissima luce che avevo sentito dentro,forse avrei potuto trovarla in un ambiente religioso, di studi spiritualie ho chiesto ai miei genitori di lasciarmi andare nell’istituto femmini-le della città santa di Qom. Non è stato facile per loro accettare que-sta scelta così diversa dai progetti che avevano per me, li ho fatti unp o’ soffrire e ancora li ringrazio per la loro comprensione.

Ero cresciuta nel lusso, nel benessere morale e materiale, mi sonoritrovata a dormire in piccole stanze senza letti, in 4, 5, a volte in 8;mangiavo cibo semplice, seduta per terra, condividevo tutto con uncentinaio di ragazze di cui neanche l’1 per cento veniva dalla miastessa condizione sociale. Eppure ero felice, non mi accorgevo degliostacoli, mi sono messa il velo e ho diviso la mia vita tra studio epreghiera, 24 ore su 24, per 7 anni. Ero brava, aiutavo le compagne.Non dormivo più di 5 ore a notte, e per 5 ore ogni giorno pregavo.

Poi lo studio civile, all’Università Statale di Teheran: Religioni eMisticismo sembrava un corso fatto apposta per me. Avevo 21 anniquando ho vinto il dottorato, ero la più giovane.

Da studentessa, mi sono sposata e, a settembre del 1988, ho segui-to il piano di Dio per me, in Italia; spinta dalla mia sensibilità versola religione, mi sono iscritta alla Pontificia Università dell’Italia Me-ridionale, a Reggio Calabria. Entravo in un luogo dove mai avevamesso piede un musulmano. Il direttore, monsignor Vincenzo Zocca-li, mi ha fatto fare il giro delle classi. Portavo il velo, il hijab e tutti

mi mostravano rispetto e accoglienza: guardavano con grande stupo-re e curiosità questa ragazza venuta da un altro mondo, di un’altracultura, un’altra religione e che voleva studiare la loro. Non c’era an-cora stato l’11 settembre.

All’inizio è stata dura, avevo enormi difficoltà con la terminologiareligiosa, ma non si trattava solo di un problema di lingua: era unmondo molto lontano dalla mia struttura orientale e musulmana.Quando monsignor Zoccali, che insegnava il Mistero Trinitario, dise-gnava sulla lavagna quel triangolo, era molto difficile per me pensaredi abbattere il muro del monoteismo che avevo studiato per lunghianni. Un monoteismo trino? Inconcepibile nella mia logica mentale.Così come il Mistero Eucaristico. Ogni termine rappresentava unostacolo, non solo linguistico, ma culturale, religioso, razionale. Misembrava assurdo: come potevano questi studiosi metterci nella testache uno è uguale a tre? Che senso ha, mi chiedevo, un Dio che ètre? Che senso ha un Dio che si fa sangue e offre il suo sangue a tut-ti? Non riuscivo a oltrepassare quel confine. Avevo deciso di lasciare,ma una compagna molto più grande di me, Candida Lasco, cardiolo-ga all’ospedale di Melito Porto Salvo, mi ha presa per mano e mi haspiegato ogni parola, accompagnandomi passo dopo passo attraversoil confine dello studio razionale della religione.

Poi l’incontro illuminante con i Focolarini, la laurea con lode, iltrasferimento a Roma e il desiderio di superare un’altra barriera: nel1997 chiesi di iscrivermi alla Pontificia Università Lateranense. Lì sicostruivano i nuovi sacerdoti, gli insegnanti di religione cattolica,non c’era stato mai uno studente musulmano: hanno dovuto riunireil Consiglio per ammettermi. Ma ce l’ho fatta: licenza in TeologiaFondamentale Cristiana con 110 e Lode, con una tesi intitolata Cristo-

logia coranica. I confini io non li vedo più, dove c’è bellezza non cisono muri. Nel Corano le tenebre sono al plurale, ma la luce è sem-pre al singolare, una sola. Sento una sintonia spirituale forte con Pa-pa Francesco. Quando l’ho incontrato, mi sono venute dall’animaqueste parole: «io sono sua figlia musulmana».

Ai miei tre figli non ho dato imposizioni, ma ho cercato di essereuna testimone sincera. Io ho dovuto lottare molto per i miei figli, lavita mi ha mostrato anche i suoi lati più oscuri e terrificanti. Il Mae-stro dell’universo guida, ama, accoglie ed insegna ad accogliere ed al-largare l’anima.

L’ultima parola che mi accompagna dentro è grazie! S h u k r.

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di LUSIA SHAMMAS con MARIE CI O N Z Y N S KA

Io sono nata in una Chiesa martirizzata dalla persecuzione edalle guerre, e, come già mia madre, la Chiesa, mi ha inse-gnato a non odiare, anche se avevo dei motivi per farlo, adaccettare di portare la croce fino alla fine. La Chiesa mi haaiutato a perseverare nella fede. Quante volte noi iracheni

abbiamo dovuto ricostruire le nostre chiese e le nostre vite senza per-dere la nostra gioia?

Sono nata in un villaggio di montagna al confine tra l’Iraq e laTurchia, quindi si può dire che da subito ho camminato al confine:tra due frontiere, due Paesi, poi due condizioni. Non ho mai smesso:oggi vivo in Svizzera, e sono la prima donna cattolica cappellano mi-litare. E sono la moglie di un sacerdote caldeo.

In Iraq con la mia famiglia abbiamo spesso traslocato, ci siamotrasferiti di continuo e abbiamo sempre ricominciato da zero, comemolti altri cristiani laggiù. Le guerre che si sono susseguite hanno-spezzettato la nostra storia e noi abbiamo dovuto ricucirla continua-mente per riunificare, o meglio percepire, le nostre radici e le nostre-sorgenti di vita, per non dimenticare da dove veniamo. Io ero una ra-gazzina ribelle, l’ottava in una famiglia di cinque maschi e cinquefemmine. Avevo fama di farmi giustizia da sola, di difendere i piùdeboli. Un giorno – avevo solo dieci anni – volevo andare a giocarecon le mie amiche, ma mio padre ha detto no. Allora mia madre hagridato: «Lasciala andare, non ho paura per Lusia, neppure se va inmezzo a una truppa armata».

Gli psichiatri vi diranno che una frase può cambiare tutto in unavita. E così è stato. Quelle parole di mia madre hanno avuto unenorme impatto sulle mie decisioni. Mia madre mi diceva anche:«L’essenziale nella vita è la fede, tutto il resto è effimero».

A 15 anni, per la prima volta, ho visto delle religiose e la loro vitami ha attratta. Uno dei motivi della mia vocazione religiosa è statoche la Chiesa dava spazio alle donne, e alle donne forti. In paesi co-me l’Iraq le religiose svolgono un ruolo importante nella società, tra ipoveri, tra quanti soffrono, per offrire loro un sostegno materiale etestimoniare la grazia di Dio.

All’epoca del mio postulato, a Mosul, la mia migliore amica erauna ragazza musulmana che portava il velo, si chiamava Amal, era

Prima cattolica svizzeracappellana militare

Lusia Shammas dal 2017 è cappellano militare dell’esercito svizzero. Irachena d’origine, è naturalizzata

cittadina elvetica. Arrivata a Friburgo nel 1996 per studiare Scienze Bibliche, la sua madrelingua

è l’aramaico, ma oggi parla correntemente inglese, francese, tedesco, arabo, italiano e capisce il curdo.

Ha creato l’associazione umanitaria Le Sourire du Prochain. E’ sposata con il teologo

Naseem Asmaroo, sacerdote

della Chiesa cattolica caldea.

Entrambi sono impegnati

per favorire il dialogo

culturale e ecumenico

Lusia Shammas, nata in Iraq, è moglie di un sacerdote caldeo

FRONTIERE RELIGIOSE

Lusia Shammas(foto da lei fornita)

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una poetessa ed era intelligente. Un giorno qualcuno mi ha tiratodelle pietre per strada perché portavo la croce e Amal mi ha difeso.

Io però ero consapevole che una forma d’ingiustizia sociale e cul-turale mi aveva seguito nel convento: perché i miei fratelli non stira-vano le loro camicie visto che anche noi sorelle studiavamo? Perchéle religiose cucinavano per i sacerdoti, e mai il contrario?

Quando mi sono recata in Svizzera per il diploma e la laurea, hocominciato a fare avanti e indietro con l’Iraq e mi sono impegnata inprogetti di sostegno alla popolazione irachena. Ho sentito crescere“la vocazione del ponte”: volevo creare un ponte tra Iraq e Svizzera,Oriente e Occidente, tra due Chiese. Mi sono presa due anni, dal2006 al 2008, per discernere, con il mio padre spirituale. Al terminedel primo anno ho capito che avrei lasciato la vita comunitaria, manon la vita di fede. Un amico mi ha detto: «tu così ti riduci allo sta-to laicale!». Quelle parole mi hanno rattristata ma non scoraggiata,perché sentivo forte la prima vocazione, quella per la quale Dio miaveva formata fin dall’infanzia: creare ponti e riunire persone. Que-sto cammino di fede pieno di sfide mi ha condotto verso colui che èdiventato mio marito, un teologo appassionato di Dio come me. Miomarito, che è ordinato sacerdote caldeo, è diventato bi-rituale e faparte di quelle pochissime persone che celebrano allo stesso temponella Chiesa orientale e in quella latina. Cerco di superare le frontiereanche attraverso l’associazione umanitaria che ho creato in Svizzeranel 2004, Basmat-al-Qarib, Le Sourire du Prochain, il sorriso del pros-simo, che sostiene la popolazione irachena.

La mia vocazione di essere un ponte, vissuta nell’inquietudine, miha posto dinanzi un’altra sfida: diventare la prima donna cattolicacappellano dell’esercito svizzero! Non mi ero mai interessata all’eser-cito, ma quando ho ricevuto la proposta mi sono detta che poteva es-sere l’occasione per ringraziare la Svizzera. La specificità dell’e s e rc i t osvizzero di essere promotore della pace all’estero è stata una rivela-zione per me che provavo sempre paura quando incrociavo militariin Iraq. In realtà, la Svizzera non si limita a essere neutrale ma con-tribuisce agli accordi di pace. Oggi, come cappellano militare, condi-vido la mia esperienza di fede e d’integrazione con i giovani. Duranteil mio percorso ho capito che dovevo cambiare pelle come fa il ser-pente. Il dolore della muta è necessario per non morire di nostalgia.Ho capito che ciò che conta sono le nostre sorgenti di vita, le nostreculture e la nostra identità: irrigate, le nostre radici si possono semprepiantare … altrove. Ho smesso di cercare “una terra e un paese”. Ilmio paese è diventato una relazione, un cuore, e questo mi ha salvato.

FRONTIERE UMANE

di ELENA BUIA RUTT

Elegante nel portamento, esile, dalcarattere schivo, con occhi talmentechiari da rispecchiare quella suaanima sospesa tra terra e cielo: An-nalena Tonelli non ha fondato mo-

vimenti, né ordini religiosi, non ha costruitochiese né santuari. Ha realizzato con determina-zione e tenacia il suo sogno, quello di dedicarsiagli ultimi della Terra. Donna di frontiera, capa-ce di attraversare ogni tipo di confine, fisico, re-ligioso, culturale, è stata definita la Madre Tere-sa della Somalia, per i suoi trentaquattro annidi servizio indefesso, prestato ai poveri e agliammalati in Africa. Donna instancabile, più vol-te aggredita, sequestrata, minacciata, ma semprepronta a ricominciare. Il suo era un “vangelo difatti”, di opere, ospedali, scuole: un vangelo diatti quotidiani e straordinari: «Il dialogo con lealtre religioni è questo — sottolineava — è condi-visione. Non c’è bisogno quasi di parole. Il dia-logo è vita vissuta, io, almeno, lo vivo così: sen-za parole».

Nata a Forlì nel 1943, dopo una laurea in leg-ge presa per accontentare i genitori, AnnalenaTonelli inizia a studiare medicina di notte, per-ché il suo desiderio bruciante è quello di partirein missione: «Scelsi di essere per gli altri: i po-veri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amatiche ero una bambina e così sono stata e confidodi continuare a essere fino alla fine della mia vi-ta. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’a l t romi interessava così fortemente: Lui e i poveri inLui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale... anche se povera come un vero povero, i po-

veri di cui è piena ogni mia giornata, io nonpotrò essere mai».

Nel 1970, a ventisette anni, sceglie Waijr, unvillaggio desolato nel deserto kenyota del nord-est, dove, fra le tribù nomadi rigidamente mu-sulmane, Annalena insegna ai bambini e curagli ammalati, lotta contro la tubercolosi, l’Aids,l’analfabetismo, la cecità e la mutilazione fem-minile; donna giovane, bianca, cristiana, nonsposata, Annalena lotta contro i pregiudizi.

Espulsa dal Kenya per essere riuscita a docu-mentare fotograficamente il massacro di una tri-bù perpetrato dall’esercito governativo, torna inItalia, ritirandosi negli eremi umbri e toscani.

Dopo un anno è di nuovo in Africa, questavolta in Somalia, a Borama, dove fonda unospedale con 250 letti per i tubercolotici e i ma-lati di Aids, oltre a una scuola per bambini sor-di e disabili. I potenti locali hanno deciso diucciderla, ma i suoi malati sfilano davanti al ca-po del paese chie-dendogli di salvarlela vita. Il 15 ottobre2003, all’uscita delsuo ospedale, vienegiustiziata con uncolpo di arma dafuoco alla nuca. An-nalena Tonelli, 60anni, trentaquattrodei quali trascorsi inAfrica, viene sepoltaa Waijr, come erasuo desiderio: anco-ra oggi i nomadi deldeserto raccontanola sua storia.

Annalena, capace di attraversare ogni confine

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In missionenella città marxista

Madeleine Delbrêl e l’apostolato nella periferia operaia di Parigi

di RI TA N N A ARMENI

La frontiera di Madeleine Delbrêl eraa Ivry-sur-Seine. Per arrivarci siprende la linea sette della metropo-litana parigina; lasciandosi allespalle la grandeur degli edifici haus-

smaniani e dei boulevard, il lusso delle vetrinescintillanti e i café affollati e rumorosi e per ar-rivare in una delle città satellite che un tempocircondavano la capitale e che oggi fanno partedella sua periferia: palazzi popolari, costruzionibasse, qualche esempio di moderna architettura,la Marie, spazi incolti e curatissimi orti, voltiche vengono da lontano, mercati etnici.

Ivry-sur-Seine era chiamata la città delle 300fabbriche ed è stata fino agli anni Settanta uncrogiolo di tensioni, rivendicazioni salariali, lot-te operaie, scontri sociali e ideologici. Egemo-nizzata e governata dal partito comunista diMaurice Thorez. La parrocchia è in BoulevardStalingrad.

Al numero 11 di Rue Raspail a pochi metridalla piazza principale in una palazzina a duepiani con le finestre verdi ha abitato fino al 1964Madeleine Delbrêl, poetessa, assistente sociale,

mistica. Con lei una o due compagne, poi qual-cun’altra fino a venti. Il gruppo si chiamò Cha-rité de Jesus. Era formato da laiche senza alcunlegame istituzionale la cui missione era stare perla strada, a fianco della gente che soffriva eaprire a chiunque la propria casa. Nessun ordi-ne, nessuna gerarchia. Solo Madeleine.

Era arrivata in quella cittadina abitata dallaclasse operaia e dal marxismo nel 1933 quandoaveva scelto «di essere volontariamente di Dioquanto una creatura umana può appartenere acolui che ama». E di combattere sul fronte dellapovertà, della condizione operaia, del lavoro edello sfruttamento. Contro la povertà suoi allea-ti erano i comunisti. Contro il marxismo con-dusse una lotta serrata in nome del cristianesi-mo e di Dio. Senza odiare chi lo sosteneva, anzicon collaborazione e amicizia «Gesù ci ha dettodi amare tutti i nostri fratelli e sorelle. Ma nonci ha detto “eccetto i comunisti”»

Se a qualcuno capita di girare nel centro di Pa-

rigi, di fronte alla Chiesa di Saint Sulpice c’è la li-

breria cattolica La Procure. Ci si trova tutto quello

che un laico o un cattolico possa desiderare di legge-

re. Ci sono decine e decine di volumi di e su Made-

leine: i suoi scritti, le sue poesie, le sue confutazioni

filosofiche e poi tante biografie, perché in tanti sono

stati sedotti dalla figura di una donna che è vissuta

in trincea». Cominci da questo, «Ville marxiste,

terre de mission» la sua autobiografia. È un libro

meraviglioso» mi dice la gentile signora cui ho chie-

sto informazioni. L’entusiasmo mi contagia. Prendo

il libro e decido di cercare i luoghi di Madeleine.

Perché? Non lo so.

Al numero 11 di Rue Raspail la casa è ancora

lì, un portone piccolo, le finestre verdi chiuse. Non ci

abita più nessuno. Fino a qualche hanno fa c’e ra

Susanne Perrin che con Madeleine aveva condiviso

gli anni dell’impegno sociale e cristiano. Accanto al

portone un cancello e dietro un grande e abbando-

nato cortile. L’ho aperto e vi ho trovato una fami-

glia Rom che cucinava il suo pranzo. Era stata

ospitata in quella parte della casa che era di Made-

leine forse in ricordo della sua attività fra gli ultimi

e in attesa – raccontano - che la casa sia ristruttu-

rata. Perché il comune di Ivry intende restituire

Madeleine al ricordo pubblico.

La tomba di Madeleine è al cimitero, grande

quadrato, nel mezzo della città, circondato da palaz-

zoni da cui nel tardo pomeriggio provengono voci,

canzoni, rumori casalinghi. È difficile trovarla. È

coperta di foglie, non c’è un fiore, solo una pianta

mezza secca e un piccolo crocefisso sul quale qualcu-

no ha appoggiato un rosario fatto con una cordicella

rosa. Poi il suo nome. Si può solo poggiare la mano

e carezzare la lapide.

Madeleine era di famiglia borghese e dichia-ratamente atea. Scriveva poesie nichiliste e ar-rabbiate «Dio è morto, viva la morte».

Poi arrivò la conversione. Violenta. La defini-sce così lei stessa: «conversione violenta». Comeavviene, perché, non si sa. Neanche lei, che pu-re scrive tanto e analizza tutto, sa trovare unaspiegazione. S’innamora di Dio. Non lo cerca.

FRONTIERE IDEOLO GICHE

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È Dio che la trova e non la abbandona più, di-ce.

Il resto nella sua vita viene con la naturalezzacon cui un fiume trova il suo alveo e continua ascorrere calmo o impetuoso secondo dei mo-menti e dei luoghi.

Madeleine è ufficialmente assistente socialedel comune rosso, guidato dai comunisti, nellarealtà è molto di più: un punto di riferimento,una guida, una compagna dei poveri. C’è laguerra e la fine della guerra, i poveri, profughi,i senza tetto, i bambini senza scuole, i malatisenza ospedali. Poi la fabbrica, lo sfruttamento,la miseria. Lei e le sue sorelle si dedicano ad al-leviare sofferenze e diseguaglianza. Ivry diventaun laboratorio nella lotta alla povertà eall’esclusione. E grazie a Madeleine terra dimissione contro l’ateismo.

Nello stesso tempo continua a scrivere e aprodurre. È incredibile la mole delle opere diMadeleine, gli argomenti trattati: meditazioni,poesie, trattati. Libera e mai conformista, nonpoche volte si trova in disaccordo con le posi-zioni ufficiali della Chiesa.

Quando esce il suo libro Città marxista, terra

di missione Madeleine lo regala al vicesindaco diIvry di cui era fedele collaboratrice.

Per capire come Madeleine combatteva e suquale frontiera si collocava vale la pena di leg-gere la sua dedica al vicesindaco di Ivry e la ri-sposta del comunista.

«A Venise Gosnat, di cui sono stata cattivaallieva in marxismo, ma di cui sono anchel’amica fedele, rispettosa della sua bontà e dellasua generosità concreta, offro con tutto il cuorequesto libro, certo che se egli non lo approva locapirà».

Risponde Venise Gosnat:

«Dopo che il marxista, che io sono, haespresso la ragione principale del profondo di-saccordo esistente sulla questione sociale con lacristiana che lei è, l’amico vuole dirle ora che leinon si sbaglia e assicurarla che io la capirò…Con il suo innegabile talento lei ci ha messo inun bel pasticcio: ma per quanto riguarda la no-stra amicizia sono certo che lei è tranquilla co-me lo sono io. Le è stata data la forza di parlarea tutti da parte di Dio. Coscientemente fedele almio partito comunista e alla sua politica, io fac-cio parte dei quadri locali delle rete marxista.Ciascuno di noi continuerà a proclamare la pro-pria certezza ma il professore non dimenticheràle qualità di cuore e la delicatezza della sua cat-tiva allieva in marxismo».

Si può stare su un fronte e non odiare il pro-prio nemico, anzi stimarlo ed esserne stimata. Sipuò lottare insieme contro un nemico comune.Questo insegna Madaleine nella sua vita dif ro n t i e r a .

Lei, sostenitrice del più ampio coinvolgimen-to dei laici nella Chiesa, morì all’improvviso alsuo tavolo di lavoro il 13 febbraio 1964, lo stessogiorno in cui, per la prima volta, un laico avevapreso la parola durante il concilio Vaticano II.Al suo funerale organizzato dal comune in mi-gliaia arrivaronocon le bandiere rosse a darlel’ultimo saluto.

LE STORIE

di GLORIA SAT TA

È il 15 agosto 1676, festa dell’Assun-zione. Fra’ Alberto, un eremita chevive isolato nell’entroterra del Gar-gano, assiste alla Messa nel Santua-rio di Santa Maria di Stignano e ri-

ceve la Comunione. Poi torna, come sempre, al-la sua grotta tra i monti. Ma la domenica suc-cessiva, contrariamente alle sue abitudini, nonricompare in chiesa e i religiosi preoccupati van-no a cercarlo nel luogo sperduto in cui ilsant’uomo prega, fa penitenza, osserva il silen-zio. E lo trovano morto con la croce tra le brac-cia, l’espressione estatica e il libro delle orazioniaperto tra le mani. Ma quando lo portano perla sepoltura all’eremo di Sant’Agostino, la strut-tura principale della Valle degli Eremi, scopronouna verità inaspettata: Fra Alberto non è unmaschio bensì una femminache per 40 anni aveva celato atutti la propria identità. Per vi-vere nella contemplazione diDio senza subire le discrimina-zioni di genere.

Coraggio, abnegazione, sen-so della sfida, la fede più fortedelle convenzioni e una sceltaestrema: la vicenda della “romi -ta Alberto”, donna di frontieradel XVII secolo, è un appassio-nante esempio di eremitismofemminile, una realtà piuttostodiffusa fin dalle origini del cri-stianesimo. Tra le donne che

nell’antichità abbracciarono la vita consacrata intotale isolamento Sofronia di Taranto nel IV seco -lo, la benedettina Chelidonia nel XII secolo, se-polta nella cattedrale di Santa Scolastica a Subia-co, o Donna Geronima de Spinoza vissuta nelSeicento. Si pensa che alcune di loro abbianodovuto travestirsi da maschio come Romita Al-berto. E proprio quest’ultima è una delle più av-venturose. Non conosciamo il suo nome né illuogo di origine: di certo “Alb erto” appartenevaa una famiglia benestante e probabilmente eradestinata a un matrimonio combinato. Quandosi presentò ai frati del Gargano per la “p ro v a ” invista del romitaggio, raccontò che la sua decisio-ne era maturata al funerale di una nobildonna:durante la sepoltura in chiesa, vedendo il cadave-re già quasi ridotto in polvere, venne scossa daun fremito. E decise di abbandonare le vanità delmondo. Di notte, per sfuggire alla sorveglianzadei parenti, inforcò un cavallo e approdò a Ro-ma dove visitò le principali basiliche. Poi si ritiròin un eremo dell’Abruzzo dalle parti di Pacentro.E quando la famiglia, che non si dava pace, treanni dopo arrivò nei pressi della sua grotta, lasanta donna venne avvertita in sogno da un an-

gelo che le consigliò di rifu-giarsi tra i monti del Gargano.La Romita Alberto visse per40 anni sotto mentite spoglienel romitoricchio dell’Annun -ziata pregando, indossando ilcilicio, flagellandosi. QuandoFr a ’ Guglielmo, prefetto deglieremiti, andò a visitarla si me-ravigliò della durezza delle suecondizioni di vita, insopporta-bili per qualunque essere uma-no. Ma non per una donnaforte, animata dalla fede e dalcoraggio che solo le scelteestreme possono dare.

La romita Albertouomo per fede

Ritratto di Santa Chelidoniaa Subiaco (sec. XIII)

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NELLE SCRITTURE

bere (Giovanni 19,25-27). E così, perfetta disce-pola nell’ora della gloria come nell’ora dellamorte, può partecipare all’opera dello Spiritoche fa nascere la chiesa dalla testimonianza diquelli che erano vissuti con Gesù e che coinvol-gono nella loro fede e nella loro famiglia tuttiquelli che lo vogliono riconoscere come Signore(Atti, 1-2). La frontiera della testimonianza, cheMaria condivide con gli altri testimoni in quelprimo giorno della chiesa raccontato dal librodegli At t i , è quella su cui la chiesa costantemen-te vive, protesa verso coloro che non conosconoil Vangelo o che in qualsiasi modo sono affati-cati e oppressi.

Per questi sono le parole profetiche che Ma-ria stessa pronuncia nel cantico del Ma g n i f i c a t

ergendosi sul fronte lungo cui si schierano tuttiquelli che combattono il male (Luca 1,66-79). Ladonna di Nazareth proclama il cambiamentodelle sorti: chi opprime e affama verrà rovescia-to, mentre chi soffre e ha fame verrà liberato.Sul confine del Regno ne annuncia l’avventoimminente, che Gesù avrebbe realizzato: i pove-ri possono rallegrarsi, gli altri convertirsi. Bellis-sima e terribile come un esercito schierato inbattaglia, il popolo cristiano la vede vittoriosacontro il male: il peccato non la tocca, la mortenon può vincerla. L’ultima frontiera di tutti,l’orrore del male e il nemico della morte, la ve-de pegno di speranza per ciascuno e ciascuna.E come anticamente le donne affrontavano iltravaglio accompagnate da una donna piùesperta (Ap o c a l i s s e 12,1-6), così il travaglio diogni credente che lotta contro il male della vita,vede lei come compagna sicura a mostrare lameta del cammino di cui ogni frontiera è segno:la pienezza della vita e dell’a m o re .

*Teologa, docente di Teologia trinitaria,Ecclesiologia e Mariologia all’Istituto Teologicodi Assisi

di SIMONA SEGOLONI RU TA *

Per immergersi nel vissuto di Maria,dobbiamo abbandonare l’o dorestantio di quello che ci sembra no-to, per spostarci al confine del no-stro sentire e cogliere così la straor-

dinaria provocatorietà della donna di Nazareth.Guardando lei ci viene indicata una direzioneche porta altrove, perché lei ammicca verso dinoi dalla soglia di un luogo altro.

La vediamo giovanissima, legata a Giuseppema senza ancora essere entrata nella casa di lui,fronteggiare la chiamata di Dio, non solo peruna nascita straordinaria (di queste situazioni laScrittura è piena), ma per una vera e propria al-leanza (Luca 1,26-38). Così lei, come Mosè, stasul confine fra Dio e il popolo, in cima ad unnuovo monte Sinai, e le viene chiesto di stringe-re un patto con Dio che vuole visitare il suo po-polo. Tiene così saldamente la prima frontiera,quella fra Dio e l’umanità, accogliendo il donodi lui e lasciando che i confini tribolati del po-polo vengano beneficati dalla presenza di lui.

Luca ce la presenta poi subito in viaggio perandare a vedere il segno che le viene dato: ilgrembo gravido di Elisabetta (1,29-45). Maria sispinge qui su un altro confine, perché dopoaver aderito al progetto di Dio in totale autono-mia e aver concepito da sola il Messia di Israe-le, si mette in viaggio da sola per contemplare ecomprendere ciò che le sta accadendo. La fron-

tiera su cui cammina è quella della libertà edell’indipendenza che le donne ai suoi tempi (ein buona parte anche oggi) non conoscevano.Non appare soggetta all’autorità paterna, né aquella del marito: dispone di sé, del suo corpo,del suo tempo. La verginità di lei — persa laquale a quei tempi si diventava proprietà di chil’aveva “infranta” — è il segno non della purez-za, ma dell’indisponibilità della persona: questadonna non ha padroni e così conduce tutte ledonne (vergini o meno) a guardare verso lafrontiera della libertà e dell’emancipazione, libe-rate da ogni soggezione.

Giovanni, invece, ci descrive Maria che, dopoil segno a Cana di Galilea, si trova a seguireGesù (2,1-12). Ce la presenta mentre scende ver-so Cafarnao dietro a quello che le era figlio eora le è maestro, in fila con i discepoli che han-no creduto in lui grazie a quello che lei gli hachiesto di fare. La sequela la conduce in regioniinesplorate, dove il privilegio della maternità vaabbandonato per vivere dell’ascolto della Parolae così condividere con tutti quelli che si fannodocili alla Parola l’intimità con Gesù. Egli lo di-rà espressamente alla donna che si alza fra lafolla e loda colei che l’ha portato in grembo eallattato: beati piuttosto coloro che ascoltano laParola di Dio e la custodiscono (Luca 11,27-28).Maria, protagonista di una maternità straordina-ria che poteva farla esaltare per il ruolo unicoche le era toccato, vive invece la frontiera deldiscepolato, radicata soltanto, come tutti e tutte,nella docilità alla parola.

Tale sarà l’intensità del suo cammino che di-venterà in mezzo ai testimoni della prima oracolei che ha creduto per prima, la testimone au-torevole di ciò che è accaduto fin dall’inizio.Questa testimone eccellente è affidata ai disce-poli perché ne imparino la fede e ne seguano ilcammino: infatti lei non fugge la croce, beven-do fino in fondo il calice che Gesù stesso deve

Mariasulla frontiera

tra Dio e l’umanità

Madonna della torredei Frisoni (1370-1380)

Artista anonimo di ColoniaMuseo Schnütgen, Colonia

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LA F O R E S TA SILENZIOSA MESSICO

«Ci chiamano le farfalle di Guadalupe,lanciamo cibo ai migranti aggrappati sui treni»Chi attraversa il confine con gli Usa riceve aiuto da Las Patronas, le donne della famiglia Romero

di LUCIA CAPUZZI

«A C ó rd o b a ,Ve r a c ru z / l eb ellissime

patrone/ farfalle corag-giose/ danno luce almigrante», recita il cor-

rido (canzone popolare)uno dei tanti dedicatialle «farfalle coraggio-se» di Guadalupe o LaPatrona, minuscolo vil-

laggio di 3mila abitanti nel municipio di Ama-tlán de los Reyes, a novanta chilometri dal por-to di Veracruz. Là, circondata da campi di can-na da zucchero e caffè, c’è la casa, ampia espartana, della famiglia Romero. E la cucinacon i mattoni a vista, il lungo tavolo di legno, ipentoloni scuri e l’immagine della Vergine diGuadalupe – La Patrona, da cui prende il nomela comunità – dove, venticinque anni fa, Leóni-da Vazquez, le sue quattro figlie e sette tra ni-poti e vicine hanno iniziato a preparare le razio-ni di cibo per le centinaia di migranti che fug-gono dalla violenza e dalla miseria del Centroa-merica in groppa alla Bestia. Così è conosciutoin Messico il malconcio treno merci che attra-versa da sud a nord il Paese, fino al confine congli Stati Uniti. Blindati negli scompartimentimetallici viaggiano grano, cemento, mattoni daesportare. Aggrappati al tetto o incastrati neglisnodi tra i vagoni, ci sono i migranti. Non han-no altra scelta per raggiungere La Línea, i 3.200

chilometri di frontiera che uniscono o separano— a seconda delle convenienze politiche — ledue Americhe. La porta, chiusa per un terzo daun muro high tech, dell’ElDorado Usa. Sui busrischiano di essere intercettati dalla polizia e,nel migliore dei casi, rispediti indietro, in quan-to irregolari. Anche sulla Bestia, in teoria, nonpotrebbero viaggiare. Di fatto, però, macchinistie autorità chiudono un occhio o tutti e due incambio di una tangente. E, così, i centroameri-cani avanzano in un’infinita gincana che duraalmeno un paio di settimane. Non c’è una trattadiretta dal Chiapas al Rio Bravo. Le varie loco-motive si alternano sulla ragnatela dei binari intragitti di dieci-dodici ore, inframmezzati dapause di due, tre, anche sette giorni, in cui i mi-granti diventano bottino dei gruppi criminaliche controllano il territorio. Pochi riescono asalvare qualche spicciolo per cibo e acqua. Fa-me e sete sono oppressive compagne di viaggionel calvario verso gli Stati Uniti.

Il 7 febbraio 1995, un gruppo di migrantistremati, in attesa di ripartire da Guadalupe-LaPatrona, si è imbattuto nelle sorelle Romero.Rosa e Bernarda tornavano dall’emporio con unsacchetto pieno di pane e latte, appena compra-ti. Ammassati lungo i binari, c’erano centinaia ecentinaia di esseri umani, sporchi, laceri, affa-mati. Uno spettacolo consueto per la gente del-la comunità. Quel giorno, però, tre ragazzi han-no alzato lo sguardo. I loro occhi hanno incro-ciato quelli delle due donne. È stato un attimo,

lungo un’eternità. «Per favore, dateci qualcosa,non mangiamo da giorni». Rosa e Bernarda so-no tornate a casa senza pane né latte e conun’angustia profonda. Subito hanno raccontatol’accaduto al resto della famiglia. «Avete fattobene figlie mie, avete fatto bene — ha sussurratola madre Leónida nell’abbracciarle — La Verginedi Guadalupe sarà contenta: ma dobbiamo faredi più».

«Li chiamano le mosche, perché viaggianoaggrappati al treno come insetti. Ma non sonomosche. Sono esseri umani, come me», raccontaNorma Romero, anche lei figlia di Leónida e lapiù conosciuta delle dodici farfalle che amman-siscono la Bestia. «Magari lo fossi. Potrei volaree distribuire i sacchetti con gli alimenti a tutti imigranti del treno. Sono solo una contadina,umile ma fortunata. Dio mi ha dato una fami-glia, un lavoro nei campi grazie al quale possoprocurarmi da mangiare senza essere costretta amigrare. E molti, molti figli oltre al mio Jafet».Norma, mani callose, lunghi capelli scuri raccol-ti in una coda e Rosario al collo, dice di consi-derare tali le migliaia e migliaia a cui ha dato

cibo e acqua nell’ultimo quarto di secolo. Lasua chiamata, però, non è arrivata quel 7 feb-braio. «È accaduto un anno o due dopo. Aiuta-vo già mia madre e le mie sorelle nella distribu-zione. Non è facile: non tutti i macchinisti dimi-nuiscono la velocità quando ci vedono. Devilanciare il sacchetto il più in fretta possibile eavere già pronto l’a l t ro … Una sera, ero statatroppo lenta. E un ragazzo non era riuscito aprenderlo. In compenso, aveva perso l’equilibrionello sporgersi. Due compagni l’hanno afferratociascuno a una spalla. Il ragazzo, giovane e conla pelle scura, è rimasto in bilico non so quantotempo, con il corpo e le braccia tese, come Ge-sù sulla Croce. Allora, ho capito: il Signore erarealmente in quel fisico prostrato, offeso, rifiuta-to da tutti. Mi sono detta: «Vergine di Guada-lupe, d’ora in poi saprò riconoscere tuo Figlionei corpi dei migranti».

È la certezza di servire Gesù, a spingere Nor-ma, ogni giorno, tra le 21 e le 22, e le altre un-dici Patrone, come le hanno ribattezzate, a cari-care razioni di riso, fagioli, tortillas (spianate dimais) e bottiglie d’acqua in zaini e borsoni. Per

Las Patronas mentre aiutano i migranti (foto da loro profilo Facebook)

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poi raggiungere i binari, in attesa del fischiodella Bestia. «Ormai ci siamo organizzate. SuorMaria de los Ángeles ci telefona da Tierra Blan-ca appena vede la locomotiva passare. Sappia-mo che dopo circa tre ore arriverà da noi. La re-ligiosa ci dice anche la quantità di migranti abordo per regolarci sulle porzioni». Da diecianni, oltre a distribuire cibo, le Patronas hannoaperto un piccolo rifugio per chi vuole rifocil-larsi prima di proseguire il viaggio. «Era unacasetta che mi ha regalato mio padre. L’abbia-mo riadattata. Con quali mezzi? Gli stessi con

cui ci procuriamo il cibo per i migranti. Noimettiamo ciò che possiamo. Al resto pensa laProvvidenza. Non abbiamo contributi fissi, nonsiamo nemmeno un’associazione: riceviamo solole offerte di quanti vogliono aiutarci. Per fortu-na sono tanti. Tanti sono pure coloro che criti-cano. Dicono che siamo complici dei trafficanti,che sfamiamo i malviventi, come se migrare fos-se una colpa e non una necessità…. Non ci fac-ciamo troppo caso e andiamo avanti. Per quan-to? Fin quando la Vergine di Guadalupe vorrà.Senza di Lei, le Patronas non sarebbero qui…».

Coordinatrice per l’Avsi in un Paese flagellato da Jihad e uragani. «Mia figlia è nata qui»

di ELISA CALESSI

Ci sono posti, ilMozambico èuno di questi,

dove le emergenze so-no la norma. E non alritmo di una alla volta.Ma tante, tutte insie-me. Questo immensoPaese dell’Africa sud-orientale, 800mila chi-

lometri di estensione per quasi 30 milioni dipersone, in questo momento fa i conti con la fa-me, la povertà, l’assalto dei jidahisti al nord(dall’ottobre 2017 il terrorismo ha causato tra350 e 700 morti e 150 mila sfollati), gli effettidevastanti dei cicloni e naturalmente, il Covid-19.

È in questo contesto che vive e lavora Marti-na Zavagli, 36 anni, mamma da cinque mesi. Lasua bambina è nata qui, in Mozambico, dovelei, imolese di nascita, è arrivata a inizio aprile2017. «In realtà sono in Africa dal 2011, quasi treanni in Sudan e due in Rwanda» racconta. Hascelto di partire perché «spinta dalla curiosità diconoscere mondi diversi. Ho fatto il servizio ci-vile estero in Rwanda, lì ho conosciuto il mon-do della cooperazione, ho visto cosa vuol diremettere a disposizione le proprie competenzeper contesti difficili».

Vive a Maputo, capitale del Mozambico ecoordina i progetti di Avsi, che sono 15 e inte-ressano le province di Maputo, Cabo Delgado e

Zambezia. I problemi da affrontare sono im-mensi. Intanto per la vastità del paese. Poi perla condizioni di vita della stragrande maggio-ranza delle persone: quasi la metà, il 46,7 percento della popolazione, vive al di sotto dellasoglia di povertà. Una persona su due vive conmeno di 0,50 dollari al giorno. Un popolo dipoveri. E di poveri giovani. Il 60per cento hameno di 24 anni. Come se non bastasse, unbambino su quattro è vittima del lavoro minori-le.

Avsi è presente nel Paese dal 2010. «Siamoimpegnati — racconta Martina — su tre settori:educazione, ambiente, agricoltura. Per quantoriguarda i primi, seguiamo tutto il percorso diistruzione del bambino, dall’asilo alla scuolaprimaria, secondaria, fino all’università». Un la-voro che parte dai muri per arrivare ai libri:«Ristrutturiamo le scuole, facciamo lezioni agliinsegnanti e forniamo materiale scolastico. Se-guiamo più di 20mila bambini, perché lavoria-mo su varie regioni e più scuole». Il primo«problema» da affrontare è il numero enormedi bambini. «Ogni scuola — spiega — è sovraf-follata». Quella elementare, per dire, ha classiformate da una cinquantina di alunni. «E ognistruttura ha qualcosa come 2-3mila studenti».Un problema che si ingigantisce nelle periferie,negli slums dove Avsi lavora. «Non ci sonostrutture sufficienti per accoglierli tutti» spiegaMartina. Tanto che per potere garantire la pos-sibilità di frequentare i corsi, si fanno i turni:

LA F O R E S TA SILENZIOSA MOZAMBICO

Martina Zavagli, negli slum di Maputo«Dalle cucine alle scuole, per salvare i bambini»

Murales con l’immagine della Patrona e Norma Romero Vazques (da profilo Facebook Las Patronas)

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«Si comincia con le prime classi, poi nella se-conda parte della mattinata ci sono i bambinipiù grandi. Perché non c’è la capacità di acco-gliere tutti». Da qui, il lavoro che stanno facen-do: «Cerchiamo di costruire nuove scuole e ri-strutturare quelle esistenti per renderle in gradodi accogliere più classi».

L’altro settore di intervento è l’ambiente el’energia. «Negli slums proponiamo la venditadi piani di cottura migliorati». Ossia fornellielettrici. La maggior parte delle famiglie, infatti,cucina con fornelli a carbone, che comportanonotevoli emissioni di CO2. «Il risultato è che sicrea molto inquinamento domestico. E questoprovoca tante morti per malattie respiratorie. Inpiù costa molto e la gente, qui, non ha i soldinemmeno per comprare il cibo necessario. I pia-ni di cottura che proviamo a diffondere fannorisparmiare e riducono le emissioni di carbonio,in questo modo cala l’inquinamento e migliorala salute soprattutto delle mamme e dei bambinipiccoli che stanno sempre con loro».

E poi c’è l’agricoltura, uno dei pochi settoriche dà lavoro, ma che sconta un clima capace disconvolgere in un giorno la fatica di mesi. Loscorso anno due uragani, uno nella zona centra-le del Paese, l’altro al Nord hanno distrutto par-

te del Mozambico. «Tante famiglie si sono tro-vate con case distrutte e con semine completa-mente da buttare per tutta la stagione. Da allo-ra abbiamo deciso di occuparcene. Abbiamo ini-ziato a lavorare con i contadini per riprendere lalavorazione e capire nelle loro zone quali sonole problematicità, così da mitigare i rischi dovutial cambiamento climatico». I danni provocatidai cicloni ancora non sono finiti. «Tuttora mol-te famiglie sono sfollate». Poi c’è il jihad. Nellaprovincia di Cabo Delgado, nel nord del Mo-zambico, è guerra da tre anni: da una parte i ri-belli di matrice islamica, dall’altra le forze go-vernative. In mezzo, i civili che si vedono di-struggere case, decapitare i familiari. Secondo idati delle Ong, dal 2017 a oggi sono morte mil-le persone e centomila sono state costrette afuggire. Martina vive a Maputo con la famiglia.Ha conosciuto quello che ora è suo marito inSud Sudan. Cinque mesi fa, hanno avuto unabimba. Da questi anni in Africa ha imparato «aessere paziente, a capire che ci possono esserevite molto diverse dalla mia, ma degne di ri-spetto, a non dare per scontato nulla, a rispetta-re ritmi che sono diversi da quelli che possiamoavere noi in Italia, a vivere e ad apprezzare lecose semplici: non c’è bisogno di chissà cosaper essere felici».

Il vescovo Fernàndez, segretario Cev: «La direttrice della Caritas è uno dei volti materni di Dio»

di FEDERICA RE D AV I D

Ogni giorno Ja-neth Marquez,direttrice di

Caritas Venezuela, escedi casa e cerca di tam-ponare le falle di unPaese devastato da fa-me, saccheggi, violen-ze. Ogni giorno regi-stra i conflitti politici,la guerra della benzina

con gli Usa, l’embargo, gli aiuti umanitari bloc-cati al confine con la Colombia e migliaia di di-sperati che quel confine lo attraversano in cercadi cibo, farmaci, lavoro.

Janeth risponde alla videochiamata fra unariunione e una distribuzione di pacchi alimenta-ri e medicinali. Ha chiesto di farle da interpretea monsignor Josè Trinidad Fernàndez, vescovoausiliario di Caracas e segretario della Conferen-za episcopale venezuelana, che tiene subito asottolineare: «Le donne sono sempre importantinella Chiesa, sono il cuore dell’amore di Dio.Perché l’amore manifesta il senso materno cheDio ha verso tutti gli esseri umani, il modo incui Dio è madre». Janeth ci sta, gli fa eco: «Co-me dice il Vangelo, sono proprio due donne chearrivano al Sepolcro per assistere alla Resurre-zione di Cristo. L’80 per cento delle personeche lavorano in Caritas Venezuela sono donne;e parlando anche di grammatica, la Caritas èfemminile, non è il Caritas».

Entrambi ricordano il dipinto di RembrandtIl ritorno del figliol prodigo, custodito al Prado.«In quell’abbraccio ci sono i due volti di Dio,quello paterno e quello materno: c’è una manoforte, che è il sostegno dell’uomo, e la mano diuna donna, che è la carezza di Dio. Questa è laChiesa: una mano forte, che non ci lascia nelmale, e l’amore, la tenerezza del Signore, che cioffre un’opportunità per diventare migliori. LaCaritas è questo volto materno».

Janeth Marquez, 55 anni, è sposata con Bar-tolo Solèr, allenatore di calcio per bambini. Hadue figli: «Gabriel, 29 anni, e Santiago, 26.Hanno dovuto lasciare il Paese a causa del miolavoro, erano in pericolo. Vivono in Cile, perchéqui chi vuole fare del bene non è accettato, maperseguitato. Sono due anni che mio marito edio non li vediamo, ma in qualche modo mi sonovicini: lavorano tutti e due nella Caritas Cile».

La scorsa estate, Janeth ha vinto il PremioUmanitario di Interaction, rete mondiale di 180organizzazioni non governative. «È la nostraambasciatrice nel mondo», dice il vescovo Fer-nàndez. «Sa parlare della sofferenza. Ha semprelavorato nella Chiesa, sin da piccola, in parroc-chia. È politologa, laureata in sociologia: è ingrado di capire la situazione sociale della popo-lazione e di leggere la situazione politica delPaese. Di partecipare a diversi programmi condiverse istituzioni; in Venezuela ma anche fuori.Ha questo ardore per il Vangelo, per fare di

LA F O R E S TA SILENZIOSA VENEZUELA

Janeth Marquez: «La mia famiglia paga carala vicinanza ai poveri di Caracas»

Martina Zavagli in Mozambicoe le stufe economiche dell'Asvi (Courtesy Asvi)

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Cristo una missione che aiuti le persone chehanno più bisogno».

«Il dramma più grande, in Venezuela, è quel-lo dei bambini» dice Janeth. Malnutriti e spessoabbandonati, vittime di tratta, arruolati da ban-de criminali. In oltre sette anni di una crisi eco-nomica senza spiragli, più di un milione di mi-nori ha visto i propri genitori emigrare in cercadi cibo lasciando i figli soli, alle stazioni deipullman o negli orfanotrofi. Per non parlaredelle centinaia di orfani causati da una crimina-lità che fa di Caracas la terza città più pericolo-sa al mondo (in base al numero di omicidi ogni100mila abitanti, oltre cento).

Secondo uno studio recente del World FoodProgram delle Nazioni Unite, un venezuelanosu tre soffre la fame, 9,3 milioni di persone nonsono in grado di beneficiare quotidianamente diun apporto nutrizionale sufficiente; costrette auna dieta a base di tuberi e fagioli da salarisvuotati da un’inflazione che il Fondo Moneta-rio Internazionale ha stimato a 10 milioni percento nel 2019.

Un rapporto Unicef dello stesso anno indica-va in 3 milioni e 200mila la cifra di bambini

sotto la soglia di povertà. Dal 2013, il governonon fornisce più dati sulla mortalità infantile.«Ma il 65 per cento della popolazione infantileè in una situazione di denutrizione severa, chesi fa acuta per il 13 per cento», chiarisce Janeth.

Lei gestisce un’organizzazione con oltre20mila volontari, eppure «riusciamo ad arrivaresolo al 5 per cento della popolazione». «Ci ser-vono finanziamenti», sottolinea il vescovo Fer-nàndez.

È Janeth a fare l’elenco delle criticità. «Il sa-lario mensile di un operaio è intorno ai due eu-ro, una cifra con cui si comprano venti uova:per una famiglia di cinque, otto persone, in ungiorno la spesa è finita. E manca la benzina, inun Paese che è il maggior produttore di petro-lio. Il gas per cucinare arriva nelle case una vol-ta al mese, se arriva. La gente ha cominciato acomprare le cucine elettriche, ma manca anchel’elettricità: quattro famiglie su dieci, ogni gior-no, sono senza corrente per otto ore; non pos-sono cucinare neanche così. L’unica possibilitàresta la legna, ma le case non sono sono statepreparate per questo. L’acqua? Il 71 per centodelle famiglie ci dice che in casa non ne arriva».

PRO MEMORIA

di ST E FA N I A FALASCA

«I o la ringrazio, a nome mio edella Chiesa, di oggi e di do-mani». In una delle sue ulti-me udienze private san PaoloVI aveva voluto ringraziare

Margherita Guarducci, l’archeologa autrice delritrovamento e del riconoscimento delle reliquiedell’Apostolo Pietro nella Basilica vaticana.

Era il 26 giugno 1968 quando Papa Montiniannunciò alla Chiesa e al mondo l’autenticitàattestata di quel ritrovamento. E ne ribadì l’im-portanza fino all’ultimo discorso del 28 giugno1978 nel quale, proprio su quelle «superstiti reli-quie», chiese di «rimanere saldamente fondatisulla fede di Pietro, ch’è la pietra della nostrafede». L’autrice della scoperta, per la statura delsuo profilo accademico, non aveva avuto biso-gno di presentazioni: fiorentina, nota archeolo-ga e specialista in epigrafia greca, materia di cuitenne la cattedra di docente ordinario fino al

1973 all’Università La Sapienza di Roma e cheinsegnò poi alla Scuola Nazionale di Archeolo-gia. Margherita Guarducci — scomparsa nel1999 a 97 anni — aveva fatto parte di accademiescientifiche italiane ed estere. Ma certo, le ricer-che compiute per volontà di Pio XII prima e disan Paolo VI poi, alle quali dedicò più di qua-rant’anni della sua attività, furono proprio quel-le sulla localizzazione della tomba e l’identifica-zione delle ossa di san Pietro sotto l’altare dellaConfessione nella Basilica vaticana. Per incaricodi Pio XII dal 1956 al 1958 si dedicò alla decifra-zione dei graffiti del famoso muro “g” nella ne-cropoli vaticana, dove vennero ritrovati i restiattribuiti al corpo dell’Apostolo Pietro, risultati

Ciò che la Chiesa deve a Margherita Guarducci

poi pubblicati nell’opera in tre volumi (I graffiti

sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano, Cit-tà del Vaticano 1958).

Della professoressa Guarducci conservo unacara memoria personale. La conobbi sul finiredel 1989, nella casa romana dove viveva con lasorella Marola. Diverse volte ero salita al quintopiano di via della Scrofa 117 per una visita. Laricordo al tavolo di studio, la ricchissima biblio-teca di testi greci e latini alle spalle, il tratto in-sieme gentile e fermo unito a uno sguardo sere-no e vivace. Era già molto avanti con gli anni,ma d’intatta e rara lucidità, quella di una stu-

L’archeologa che ritrovòle reliquie di Pietro

nella Basilica vaticana

Janeth Marquez con un gruppo di bambinie con monsignor Josè Trinidad Fernàndez

(foto dal profilo Facebook Caritas de Venezuela)

Il piccolo frammento di intonaco (cm 3,2 x 5,8),proveniente dal cosiddetto “muro rosso” i n t e rp re t a t o

con la frase «Petros enì», «Pietro è qui»(@Fabbrica di San Pietro in Vaticano)

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diosa straordinaria, avvezza alla ricerca e alla re-sistenza al lavoro che le restituivano una lucesingolare e insieme la solida convinzione nelleconclusioni che aveva tratto dai suoi studi. Ri-cordo uno dei suoi racconti più vivi: quando nel1967 scese nella necropoli vaticana accompa-gnando, per volere di Paolo VI, Atenagora, ilPatriarca ecumenico di Costantinopoli. Mi rac-contò che spiegando in greco moderno al Pa-triarca i risultati delle ricerche, si chinarono in-sieme a leggere la parete di graffiti con i nomidi Cristo e Maria intrecciati a quelli di Pietrosulla parete del loculo dove erano stati rinvenutii resti dell’Apostolo. Atenagora s’inginocchiò aterra e ne restò commosso. Nel 1995, dopo lamorte della sorella, che le fu di aiuto per tuttala vita, dovette lasciare l’abitazione in via dellaScrofa, insieme a gran parte dei suoi libri, cheoramai non poteva più leggere perché quasi cie-ca. Venne sepolta a Grottaferrata, nella tombadove riposa anche il professor Venerando Cor-renti, l’antropologo che esaminò le ossa cheMargherita Guarducci riconobbe come quelle diP i e t ro .

È stata lei a consegnare alla storia e allaChiesa un dono preziosissimo. Fu tuttavia trat-tata con sufficienza a causa di invidie e meschi-nità di un certo curialismo di quegli anni, chepurtroppo forse mal tollerava fosse una studiosaa giungere a tali esiti e che aveva evidenziatoanomalie e mancato rigore scientifico nella con-

duzione degli scavi compiuti tra il 1940-1949sotto la Basilica vaticana, nei quali erano staticoinvolti anche scrittori della «Civiltà cattoli-ca». Dopo la morte di san Paolo VI alla Guar-ducci era stato addirittura negato l’ingresso neisotterranei. Nonostante le attestazioni e la stimadei papi, fino agli anni Novanta i risultati dellesue ricerche non apparvero più neppure accen-nati nelle guide alla necropoli vaticana. P i e t ro

fondamento della Chiesa. Itinerario nei sotterranei

della Basilica vaticana – la guida scritta dallastudiosa e stampata per i visitatori con le parolericonoscenti di Paolo VI «per l’esito di così si-gnificativo avvenimento archeologico» – era sta-ta ritirata. Compresi così quanto fosse vero ilcommento del cardinale Josef Ratzinger sull’in-tera vicenda: «Unglaublich, incredibile». Provvi-denziale è stata l’occasione della prima esposi-zione voluta da papa Francesco il 24 novembre2013 delle reliquie di Pietro contenute nel reli-quiario. Il nome di Margherita Guarducci nonpuò che rimanere accanto alle «reliquie supersti-ti» del primo Papa. È alla sua competenza e te-nacia che dobbiamo la scoperta dell’ubicazioneesatta dove ab antiquo per secoli avevano riposa-to i resti mortali del Pescatore di Galilea e il ri-conoscimento della loro autenticità. Gli unici,almeno finora, in tutto l’Occidente e l’O rientesicuramente attestati di un apostolo di Cristo. Edi questo la Chiesa intera le resta debitrice.

Ma rg h e r i t aG u a rd u c c i

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