195
1 CONOSCENZE SPECIFICHE E TECNICHE PRODUTTIVE (settore zootecnico) INTRODUZIONE, GENETICA E TEMATICHE DELLA RIPRODUZIONE Elementi conoscitivi di base e terminologia, La genetica è la scienza che studia i geni, l'ereditarietà e la variabilità genetica degli organismi. Il campo di studio della genetica si focalizza dunque sulla comprensione dei meccanismi alla base di questi fenomeni degli organismi, noti sin dall'antichità, assieme alla embriologia ,ma non spiegati fino al XIX secolo, grazie ai lavori pionieristici di Gregor Mendel, considerato per questo il padre della genetica. Egli infatti per primo, pur non sapendo dell'esistenza dei cromosomi e della meiosi, attribuì ai 'caratteri' ereditati in modo indipendente dai genitori, la proprietà di determinare il fenotipo dell'individuo. In una visione moderna, l'informazione genetica degli organismi è contenuta all'interno della struttura chimica delle molecole di DNA. I 'caratteri' mendeliani dell'individuo corrispondono a sequenze di DNA, chiamate geni presenti nel genoma in duplice copia (nel cromosoma ereditato dal padre e in quello ereditato dalla madre). I geni infatti contengono l'informazione per produrre molecole di RNA e proteine che permettono lo sviluppo e la regolazione dei caratteri cui sono correlati. Le proteine vengono prodotte attraverso la trascrizione del DNA a RNA, che a sua volta viene tradotto in proteina dai ribosomi. Tale processo è noto come dogma centrale della biologia molecolare. Alcuni geni sono trascritti in RNA ma non divengono proteine, assolvendo a fondamentali funzioni biologiche. La Riproduzione in biologia, è l'insieme dei meccanismi mediante i quali gli esseri viventi provvedono alla conservazione della propria specie generando nuovi individui simili a sé e che subentreranno al genitore, o ai genitori, nella popolazione.

CONOSCENZE SPECIFICHE E TECNICHE PRODUTTIVE … Conoscenze scientifiche e... · Il Genotipo è la costituzione genetica di un organismo, ovvero l'insieme dei geni presenti nel suo

Embed Size (px)

Citation preview

1

CONOSCENZE SPECIFICHE E TECNICHE PRODUTTIVE

(settore zootecnico)

INTRODUZIONE, GENETICA E TEMATICHE DELLA RIPRODUZIONE

Elementi conoscitivi di base e terminologia,

La genetica è la scienza che studia i geni, l'ereditarietà e la variabilità genetica

degli organismi. Il campo di studio della genetica si focalizza dunque sulla

comprensione dei meccanismi alla base di questi fenomeni degli organismi, noti

sin dall'antichità, assieme alla embriologia ,ma non spiegati fino al XIX secolo,

grazie ai lavori pionieristici di Gregor Mendel, considerato per questo il padre

della genetica. Egli infatti per primo, pur non sapendo dell'esistenza dei

cromosomi e della meiosi, attribuì ai 'caratteri' ereditati in modo indipendente

dai genitori, la proprietà di determinare il fenotipo dell'individuo.

In una visione moderna, l'informazione genetica degli organismi è contenuta

all'interno della struttura chimica delle molecole di DNA. I 'caratteri'

mendeliani dell'individuo corrispondono a sequenze di DNA, chiamate geni

presenti nel genoma in duplice copia (nel cromosoma ereditato dal padre e in

quello ereditato dalla madre). I geni infatti contengono l'informazione per

produrre molecole di RNA e proteine che permettono lo sviluppo e la

regolazione dei caratteri cui sono correlati. Le proteine vengono prodotte

attraverso la trascrizione del DNA a RNA, che a sua volta viene tradotto in

proteina dai ribosomi. Tale processo è noto come dogma centrale della biologia

molecolare. Alcuni geni sono trascritti in RNA ma non divengono proteine,

assolvendo a fondamentali funzioni biologiche.

La Riproduzione in biologia, è l'insieme dei meccanismi mediante i quali gli

esseri viventi provvedono alla conservazione della propria specie generando

nuovi individui simili a sé e che subentreranno al genitore, o ai genitori, nella

popolazione.

2

La riproduzione asessuata, genera individui che mantengono, salvo mutazioni,

il patrimonio genetico dei genitori. È l'unica forma di riproduzione dei

procarioti, mentre negli eucarioti si affianca spesso alla riproduzione sessuata,

tranne che nei ciliati e in alcune piante ibride o poliploidi. È praticamente

assente negli animali superiori.

Alla base della riproduzione asessuale è l'assenza di fenomeni sessuali e di

ricombinazione genetica: le cellule che danno origine ai nuovi organismi si sono

infatti originate esclusivamente per divisione mitotica, con il mantenimento

invariato del corredo cromosomico (aploide o diploide) e senza alcun scambio

di geni fra cromosomi omologhi.

La riproduzione sessuata consiste nella generazione di un nuovo individuo il

cui nucleo deriva dalla fusione di due nuclei diversi, provenienti, di norma, da

due individui diversi; il genoma dell'individuo figlio è quindi diverso da quello

di entrambi i nuclei genitori.

Col termine razza, di uso zootecnico se riferito ai viventi, si intende un gruppo

animale appartenente ad una medesima specie, caratterizzato per la presenza di

caratteristiche ereditarie comuni che, in modo più o meno marcato, li

identificano come un sottoinsieme della specie differenziato da eventuali altri

gruppi cospecifici.

Esseri viventi di razze diverse possono, in quanto appartenenti alla stessa

specie, dare luogo ad incroci o ibridi con capacità riproduttive immutate. Il

termine corrispondente in agraria per il regno vegetale è cultivar e riguarda

anche in questo caso solo le piante coltivate.

La cultivar si identifica perciò in un particolare genotipo, isolato artificialmente

con la selezione massale o la selezione individuale, i cui caratteri sono fissati e

ripetibili con la propagazione gamica per almeno per 3-4 generazioni.

Per Formaggio si intende l'intera parte vegetativa di una pianta destinata, anche

dopo alcune trasformazioni, ad alimentare il bestiame. Frutti e semi rientrano

nel foraggio se sono raccolti insieme alla parte vegetativa, altrimenti se raccolti

a parte sono considerati CONCENTRATI. Le specie vegetali che vengono

3

utilizzate per la produzione di foraggio sono definite piante foraggere o colture

foraggere.

Colture foraggere normalmente ricche in proteine sono le leguminose, mentre le

graminacee risultano più ricche di carboidrati semplici, il che le rende

particolarmente idonee all'insilamento.

Il Genotipo è la costituzione genetica di un organismo, ovvero l'insieme dei geni

presenti nel suo genoma. I prodotti di tali geni interagiscono tra loro

determinando tutte le caratteristiche dell'intero organismo. L'insieme dei

caratteri osservabili viene chiamato FENOTIPO Quindi il genotipo rappresenta

la possibilità del realizzarsi di una particolare caratteristica fenotipica; lo

sviluppo di questo potenziale dipende dalle interazioni tra geni, da influenze

ambientali e da eventi casuali che si verificano durante lo sviluppo.

Il fenotipo è l'insieme delle caratteristiche influenzate dal genotipo, che è

l'insieme dei geni dell'individuo; quest'ultimo termine indica, a seconda delle

accezioni, la totalità dei geni presenti nel genoma o dei geni coinvolti nella

determinazione di un singolo tratto fenotipico. La determinazione genica del

fenotipo avviene attraverso la presenza di uno dei diversi possibili alleli che

l'individuo porta per un determinato gene, oppure, più comunemente per una

serie di geni.

Tuttavia il fenotipo è determinato soltanto in parte dal genotipo e i fattori

ambientali possono avere una maggiore o minore influenza a seconda dei casi,

spesso tale da rendere imprevedibile il fenotipo anche conoscendo il genotipo,

se non si conoscono le condizioni ambientali.

Caratteristiche degli animali: origine, possibilità di intervento e di indirizzo,

fattori che condizionano il miglioramento genetico

Il miglioramento genetico (MG) degli animali zootecnici è la tecnica che

consente l'aumento delle prestazioni produttive e riproduttive degli allevamenti

attraverso la valutazione e la conseguente scelta (selezione) dei riproduttori;

4

esso, pertanto, può essere considerato una delle tecniche di produzione a

disposizione dell'allevatore al pari dell'alimentazione, della mungitura, della

riproduzione, dell'allevamento dei giovani e della stabulazione.

Il MG in zootecnica si occupa quasi esclusivamente di caratteri di interesse

economico (produzione di latte, contenuto lipidico del latte, ritmo di

accrescimento nei giovani, indice di conversione alimentare, numero di uova

deposte, spessore del lardo dorsale nei suini, ecc..) che sono espressi in unità di

misura (cioè in kg, cm, numero) e sono comunemente indicati come caratteri

metrici. Il valore osservato nel caso che il carattere sia misurato in un singolo

individuo è il valore fenotipico dell'individuo (P) e, se i fenotipi dei caratteri

metrici si distribuiscono con continuità (cioè con incrementi differenziali) nel

campo di variabilità, il carattere è detto quantitativo.

Nel caso in cui una parte del fenotipo (per il momento non importa quanta)

possa essere trasmessa alla discendenza, il carattere in esame ha un

determinismo genetico: la branca della genetica che si occupa di questi caratteri

è la genetica quantitativa (quantitative genetics).

Il MG dei caratteri di interesse zootecnico si compie in quattro tappe: a) la scelta

degli obiettivi della selezione; b) lo studio e la descrizione della popolazione

oggetto di selezione; c) la valutazione genetica dei riproduttori; d) scelta dei

criteri del miglioramento.

La scelta degli obiettivi della selezione deve essere la più precisa possibile (ad

esempio per la produzione del latte: la quantità prodotta per lattazione, il

contenuto lipidico, il contenuto proteico; per la produzione della carne: i ritmi

di accrescimento, gli indici di conversione alimentare, la qualità della carne),

perché deve essere ben chiaro dove si vuole arrivare, e limitata perché la ricerca

del miglioramento di molti caratteri provoca la riduzione del guadagno

ottenibile per ciascuno di essi (non è possibile, o almeno è molto difficile,

individuare animali portatori del migliore genotipo per diversi caratteri;

giocoforza dovranno essere scelti animali con un genotipo complesso buono per

tutti i caratteri, ma probabilmente non eccellente per ciascuno di essi).

5

Le valutazioni in tal senso non possono che essere di tipo economico: il

guadagno produttivo ottenibile con il MG nell'intera popolazione (cioè il

progresso genetico atteso dR) deve contribuire all'aumento del reddito in

maniera superiore, o al limite uguale, ai costi sostenuti per la sua realizzazione.

Ciò significa che devono verificarsi tre condizioni: 1) che il carattere selezionato

abbia un buon prezzo di mercato (ad es. non è pensabile selezionare la razza

ovina Sarda per la produzione della lana data il basso prezzo del prodotto)

oppure contribuisca significativamente all'aumento del fatturato aziendale (ad

es. il miglioramento della riproducibilità influenza positivamente la produzione

anche negli allevamenti da latte); 2) che gli incrementi ottenibili (dR) siano di

una certa entità; 3) che il sistema di miglioramento sia compatibile con il

contesto tecnico-culturale delle imprese a cui esso è destinato (ad es. non è

sempre vantaggioso applicare ad una specie sistemi di miglioramento che

hanno dato buoni risultati in un'altra, come nel caso degli ovini da latte in cui

l’adozione degli schemi utilizzati nei bovini con buon esito non ha fornito i

risultati sperati).

Esempio : Nella selezione della razza bovina Frisona Italiana l'organizzazione

del miglioramento è basata sul cosiddetti schema convenzionale che prevede

l'impiego massiccio dell'inseminazione artificiale, la valutazione dei tori tramite

la prova di progenie (cioè con l'impiego delle informazioni fenotipiche delle

figlie), la selezione di un numero relativamente ristretto di madri di tori. Il

valore riproduttivo dei tori è generalmente molto attendibile, ma è ottenuto a

scapito di un lungo tempo di attesa per l'ottenimento dell'indice (elevato

intervallo fra le generazioni). Da qualche tempo a questa parte gli allevatori di

Frisona Italiana utilizzano sempre più frequentemente come riproduttori i

cosiddetti "tori giovani“ per i quali non sono ancora disponibili indici genetici

attendibili, ma che possono creare un progresso genetico tanto più elevato (o

tanto più basso) quanto maggiore è l'incertezza degli indici genetici che si

possiedono.

6

GLI STRUMENTI DELLA SELEZIONE

La stima del valore riproduttivo (VR) degli animali scelti (selezionati) quali

genitori della generazione successiva si basa sui fenotipi degli animali stessi e

dei loro parenti. La base per effettuare tale stima, perciò, è la raccolta

sistematica delle produzioni (controlli funzionali), degli eventi (nascite, morti) e

dei rapporti di parentela fra gli animali interessati alla selezione.

LA RACCOLTA DEI DATI FENOTIPICI

La raccolta di tutte le informazioni di base utilizzate per la selezione è affidata,

in Italia (ma analoghe strutture sono presenti anche all'estero), alle associazioni

degli allevatori, poste sotto il controllo del Ministero per le Risorse Agricole (e

per questo compito finanziate dallo Stato) per il carattere di pubblica utilità del

MG, riunite nell'Associazione Italiana Allevatori (AIA) con sede in Roma.

Gli allevatori di ciascuna specie sono organizzati autonomamente in

associazioni (ad es. associazione nazionale suini ANAS) che possono essere

suddivise per razza, come nei bovini (Associazione Frisona Italiana ANAFI,

Associazione Nazionale Allevatori della Razza Bruna ANARB, Associazione

Allevatori Razza Bovina Piemontese ANABORAPI) oppure essere

interspecifiche, come per gli ovini ed i caprini (Associazione Nazionale della

Pastorizia ASSONAPA).

Queste associazioni, attraverso i loro organi direttivi (normalmente le

commissioni tecniche centrali), decidono gli obiettivi e le modalità della

selezione, raccolgono le informazioni provenienti dagli allevamenti, calcolano il

valore riproduttivo degli individui candidati alla selezione, pubblicano i

risultati ed aggiornano i parametri della popolazione relativamente ai caratteri

oggetto della selezione. Esse sono normalmente fornite di un ufficio studi che

valuta, tra le altre cose, il progresso genetico ottenuto e che cura la

pubblicazione di notiziari o di riviste vere e proprie (ad es. l'ANAFI pubblica

Bianco e Nero, l'ASSONAPA pubblica l'Allevatore di Ovini e Caprini, ecc.).

7

L'AIA è organizzata perifericamente attraverso le Associazioni Provinciali degli

Allevatori (APA) che sono strutturate al loro interno in sezioni di specie o di

razza in funzione delle principali specie e razze allevate nell'ambito territoriale

di propria competenza. Le APA, i cui organi direttivi sono eletti dagli allevatori

iscritti, curano la raccolta dei dati aziendali attraverso: a) i controlli funzionali,

per i dati produttivi; b) la registrazione degli eventi per i dati riproduttivi e

quelli relativi alla riforma (scarto) degli animali; c) la valutazione morfologica,

operata da esperti punteggiatori, alle età tipiche dell'animale; d) la trascrizione

delle parentele note e delle genealogie. Esse, inoltre, custodiscono il libro

genealogico in cui sono iscritti gli animali in selezione e dal quale è possibile

risalire agli ascendenti per ciascun animale presente,Libri Genealogici (o dei

cosiddetti Registri di Razza).

Le APA di quasi tutte le regioni italiane sono consorziate a costituire

l'Associazione Regionale Allevatori a cui, di norma, spetta il compito di

armonizzare le azioni svolte in sede provinciale con la politica agraria delle

Regioni alle quali, come è noto, è delegato il maggior onere degli interventi nel

settore agricolo. Molte ARA, sono dotate di un corpo di tecnici (Agronomi

Zootecnici) e di Medici Veterinari che fornisce un servizio di assistenza tecnica

alle aziende zootecniche( A.T.Z.)in base a precisi piani concordati in sede

regionale con gli Assessorati per l'Agricoltura.

LA DIVULGAZIONE DEL VALORE GENETICO DEI CANDIDATI ALLA

SELEZIONE

La divulgazione delle valutazioni genetiche,operata sui principi e con le

tecniche,avviene di solito semestralmente per opera delle varie organizzazioni

responsabili per la selezione. A titolo di esempio, e per la maggiore importanza

che questo settore riveste per l'economia italiana, esaminiamo il caso della

specie bovina e dell'indirizzo produttivo "Produzione del latte".

Le due più importanti razza bovine da latte allevate in Italia sono la Frisona

Italiana (FI) e la Bruna (RB); le loro associazioni di razza pubblicano le

8

valutazioni genetiche per i tori in volumetti (Cosa Valgono per la FI e

Conoscere i Tori per la RB), completi di tutti i dati relativi ai caratteri oggetto di

selezione, delle statistiche della popolazione obiettivo e della scala di merito dei

tori, e per le vacche in quaderni comprendenti però soltanto le migliori vacche

dalle quali saranno selezionati i tori da impiegarsi per la inseminazione

artificiale (IA). Gli allevatori (ed i tecnici) hanno pertanto ogni 6 mesi una serie

di informazioni sul valore genetico degli animali selezionati (cioè scelti perché

risultati non peggioratori per la maggior parte dei caratteri considerati) che essi

possono utilizzare per pianificare il tipo di animali (cioè la genetica) desiderati

per la generazione successiva. Questa scelta è di fatto orientata da ragioni di

ordine economico (il costo della dose di seme, che dipende dal valore del

riproduttore e dalla disponibilità; l'attendibilità dell'indice), tecnico

(miglioramento di alcuni caratteri, come ad es. l'attacco anteriore della

mammella, la percentuale di grasso nel latte, ecc.) e genetico (livello di

consanguineità raggiunto nell'allevamento).

Se si prende in esame il volumetto Conoscere i Tori del luglio 1995, alla pagina

69 è pubblicata la scheda riassuntiva della valutazione genetica del toro DAL e

vediamo subito che il seme è importato dalla Germania, che è nato il 1° marzo

del 1980, che è stato pubblicato la prima volta nel 1992, che è un miglioratore

per il latte di 156 kg, del grasso di 12 kg (+0,10%),

delle proteine di 12 kg (+0,13%), dell'indice totale economico di +499 che lo

colloca fra il miglior 12% della popolazione (rank), che è stato provato su 213

figlie distribuite in 193 allevamenti (163 figlie effettive), che l'attendibilità è del

94%.

Vediamo ancora che la produzione media delle figlie, espressa in equivalente

vacca adulta (EVM), è stata di 6211 kg con il 3,96% di grasso ed è riportata

anche l'età media al parto.

La prima informazione importante è il metodo di calcolo degli Indici Genetici

Tori (IGT) : quelli per la produzione e per la morfologia sono stati elaborati con

il BLUP-ANIMAL MODEL (BLUP = best linear unbiased prediction cioè il

9

Migliore Preditore Lineare non Distorto) mentre quelli per l'attitudine alla

mungitura sono stati elaborati con l'algoritmo BLUP-SIRE MODEL.

L'ITE,( Indice Tecnico Economico), tiene conto non solo delle produzioni e della

morfologia, ma anche del tipo di variante genetica della k-caseina posseduta dal

toro (questa frazione caseinica è infatti connessa con le proprietà casearie del

latte: tipo AA bassa attitudine alla caseificazione, tipo AB media attitudine, tipo

BB alta attitudine) .

I RAPPORTI FRA FENOTIPO, GENOTIPO ED AMBIENTE

Lo studio di un carattere quantitativo in una popolazione animale si basa sulla

misurazione dei valori fenotipici e sulla stima di quanta parte della variabilità

osservata è di origine genetica e perciò può essere trasmessa alla generazione

successiva. Innanzitutto occorre che il valore fenotipico del carattere misurato

sia ripartito nelle due componenti attribuibili all'azione del genotipo ed a quella

dell'ambiente.

Il genotipo è quel particolare assortimento di geni posseduto da un determinato

individuo e l'ambiente è l'insieme di circostanze non-genetiche in grado di

influenzare l'espressione del carattere. Le due componenti, allora, possono

essere associate additivamente nel senso che l'espressione fenotipica è la somma

del genotipo e delle deviazioni casuali che l'ambiente esercita sul carattere in

esame;

INFLUENZA DEI FATTORI AMBIENTALI

Nel caso della vacca da latte, le principali deviazioni ambientali

sono:

a) l'età al parto;

b) la stagione di parto;

c) i giorni di asciutta;

d) l'intervallo parto concepimento;

e) la durata della lattazione;

10

f) il numero di mungiture.

La produzione di latte cresce al crescere dell'ordine di parto (primipare,

secondipare, terzipare, ecc..) fino ad arrivare al massimo in bovine di 5 anni di

età che è ritenuta l'età di riferimento (età adulta).

La produzione è maggiore per le bovine che partoriscono a fine inverno e che

incontrano la primavera nella fase iniziale della curva di lattazione in quanto,

nella bella stagione, si ha un effetto sinergico positivo del clima e del

fotoperiodo che si ripercuotono sul quadro ormonale e su quello

comportamentale degli animali.

I giorni di asciutta influenzano positivamente la produzione, fino al 60° giorno

al di là del quale non si hanno miglioramenti: ciò è dovuto alla necessità della

mammella di ricostituire il tessuto secretivo da una lattazione alla successiva ed

alle esigenze della vacca di orientare il metabolismo di fine gestazione verso la

nutrizione del feto.

L'intervallo parto-concepimento influenza la produzione nel senso che se è

eccessivamente breve questa è depressa.

Il numero di mungiture, infine, influenza la produzione in quanto

l'introduzione di una terza mungitura provoca incrementi di circa il 20% e

quella di una quarta ulteriori incrementi del 10% (negli ovini non è stato

osservato, con gli attuali livelli produttivi, nessun miglioramento rispetto alle

due mungiture). La riduzione delle mungiture giornaliere da 2 ad 1, invece,

limita la produzione nelle due specie.

Applicazioni pratiche nell'allevamento, uso di documenti e informazioni

specifiche

LE RAZZE

Il sottordine dei Ruminanti (ordine Artiodattili, superordine Euteri o Placentati,

sottoclasse Terii, classe Mammiferi) è caratterizzato da:

11

· Apparato buccale privo di incisivi superiori (sostituiti funzionalmente da un

cercine calloso) e di canini e dotato di 20 denti negli animali giovani (8

incisivi: 2 picozzi, 2 primi mediani, 2 secondi mediani, 2 cantoni; 12

premolari: 3 per mascella e per lato, da latte e di 32 denti negli animali

adulti (8 incisivi, 12 premolari, 12 molari, da adulto;

· Apparato gastrico formato da 4 cavità, di cui 3 prestomaci (rumine, reticolo

ed omaso) ed 1 stomaco vero (abomaso), tutti completamente funzionanti

soltanto dopo lo svezzamento;

· Apparato scheletrico con colonna vertebrale formata da 43÷51 vertebre (7

cervicali, 13 dorsali o toraciche, 6÷7 lombari, 5÷4 sacrali, 12÷20 caudali o

coccigee), con costato formato da 13 costole (8 sternali o fisse e 5 asternali o

semifisse), con testa provvista di corna in entrambi i sessi oppure in uno

soltanto oppure in nessuno, con piede formato da 4 dita corneificate (2

unghioni e 2 unghielli);

· Apparato tegumentale con cute ricoperta da dense formazioni pilifere, di

vario colore e lunghezza (mantello), talvolta di tipo particolare (vello);

· Apparato mammario suddiviso in unità funzionali autonome: 4 quarti

(bovini e bufalini) oppure 2 emimammelle (ovini e caprini).

Le principali specie ruminanti di interesse zootecnico, tutte appartenenti alla

famiglia dei Bovidi o Cavicorni, sono le specie Bovina, Bufalina, Ovina e

Caprina.

La prima è rappresentata dai 2 gruppi, ormai considerati intraspecifici perchè

illimitatamente interfecondi, dei bovini taurini (Bos taurus) e dei bovini gibbosi

o zebù (Bos indicus); è diffusa in tutto il mondo ed in particolare nei paesi

economicamente più avanzati; è allevata per la produzione del latte e/o della

carne, del lavoro limitatamente ai paesi sottosviluppati ed alle aree non

meccanizzabili, del pellame e del letame.

La seconda (Bubalus bubalis) è diffusa prevalentemente nelle regioni tropicali

ed è allevata per la produzione del latte, che in Italia è destinato, grazie al suo

12

elevato contenuto lipidico e proteico, alla caseificazione per l'ottenimento di

prodotti particolari (mozzarella).

La terza (Ovis aries) è diffusa in tutto il mondo ed è allevata per la produzione

della lana e della carne nei paesi e nelle regioni ad allevamento estensivo, per la

produzione del latte e della carne prevalentemente nei paesi temperati circum-

mediterranei.

La quarta (Capra hircus) è diffusa in tutto il mondo ed è allevata per la

produzione del latte e della carne e, limitatamente ad alcune regioni, per la

produzione del pelame e del pellame.

LE RAZZE BOVINE

Le razze bovine taurine attualmente allevate nel mondo deriverebbero tutte —

per evoluzione e/o selezione e/o incrocio e/o meticciamento e/o mutazione —

dai 4÷5 ceppi seguenti, ormai estinti, a loro volta provenienti da un progenitore

ancestrale comune (Leptobos indicus) vissuto in epoca pliocenica (oltre 2

milioni di anni fa):

· Bos primigenius (l'antico Uro selvaggio, presente in Europa sino alla metà

del 1600), di grande mole, con mantello rossiccio alla nascita e grigio a

maturità, dotato di corna grandi a sezione circolare, a forma di semiluna nel

maschio e di lira nella femmina, ritenuto il progenitore o capostipite

principale di tutte le razze macrocere, sia celtiche che podoliche;

· Bos longifrons, con testa allungata e corna corte a sezione ellittica, diffuso

nella regione alpina, ritenuto il capostipite principale della razza bruna

alpina e delle razze normanne;

· Bos frontosus, a fronte larga e a corna corte orizzontali, ritenuto il

capostipite principale delle razze pezzato-rosse dell'Europa continentale;

· Bos brachiceros, a faccia larga ma corta ed a corna corte, ritenuto il

capostipite principale delle razze locali svizzere ed austriache;

· Bos akeratos, acorne, la cui esistenza come ceppo autonomo è però dubbia,

ritenuto il capostipite principale delle razze acorni.

13

Le razze bovine zebuine attualmente allevate nel mondo deriverebbero tutte da

un unico progenitore comune, ormai estinto, che era il Bos namadicus.

La specie Bos taurus si accoppia con la specie Bos indicus, generando individui

illimitatamente interfecondi che hanno dato origine alle razze tauro-indiche (ad

es, la razza Santa Gertrudis), particolarmente resistenti ai climi tropicali; si

accoppia con il genere Bison, originando animali poco fecondi, chiamati Cattali;

ma non si accoppia, per amissia, con la specie Bubalus bubalis.

LE RAZZE DA LATTE

Le razze da latte possono essere: specializzate per la produzione del latte, in cui

la produzione della carne costituisce un'attitudine sempre secondaria, anche se

talvolta importante; oppure a duplice attitudine, in cui le due produzioni

contribuiscono alla formazione della produzione lorda vendibile in parti quasi

uguali.

LE RAZZE SPECIALIZZATE

Le razze specializzate — numericamente ed economicamente preponderanti

sulle duplici, soprattutto sono contraddistinte, qualunque sia il loro livello

produttivo, dalle seguenti caratteristiche morfo-funzionali generali:

• mole elevata e taglia alta;

• impalcatura scheletrica solida, ma non grossolana;

• testa lunga e leggera a profilo rettilineo, con bocca ampia che è indice di

elevata capacità di prensione degli alimenti, con narici larghe che è indice di

buona capacità respiratoria, con corna piccole e sincipite rilevato;

• Collo sottile, lungo e profondo;

• tronco allungato con linea dorso-lombo-sacrale orizzontale;

• torace ampio, lungo e profondo, con costole distanziate che è indice di buona

capacità respiratoria;

• addome molto sviluppato che è indice di elevata capacità digestiva;

14

• groppa ampia, robusta ed inclinata posteriormente che è indice di facilità di

parto;

• arti solidi e asciutti, con garretti robusti, stinchi lunghi e pastoie corte;

• mammella molto sviluppata ed elastica, attaccata alta, con vene addominali e

mammarie tortuose e ramificate e capezzoli uguali, verticali ed elastici;

• testicoli discesi e lunghi, con scroto elastico.

Le principali di queste razze allevate in Italia sono le razze: Frisona, Bruna e,

localmente, Modenese, Reggiana, Rendena e Burlina. All'estero sono presenti

anche le razze: Jersey, Guernsey ed Ayrshire.

La razza Frisona

La razza Frisona, in Italia chiamata anche Olandese e/o Pezzata nera e nei paesi

anglosassoni Holstein Friesian, è ufficialmente registrata in Italia come Frisona

italiana. Essa è la più importante razza bovina specializzata da latte del mondo

sia per consistenza numerica (quasi 50 milioni di capi).

La sua vasta diffusione è dovuta sia alla elevata produttività che alla grande

adattabilità alle diverse condizioni climatiche. E’ originaria della Frisia, regione

geografica a cavallo fra la Germania e l’Olanda, da cui prende il nome; il suo

mantello è normalmente pezzato nero, più raramente pezzato rosso (il rosso è

infatti carattere recessivo). Grazie alla sua diffusione in tutto il mondo essa si è

evoluta, nelle diverse aree di allevamento, dando origine ad entità subrazziali

(ceppi) con caratteristiche talvolta abbastanza diverse fra loro. I principali ceppi

attuali sono: fra gli americani, lo Statunitense ed il Canadese; fra gli europei,

l’Olandese, il Tedesco, l’Inglese, il Danese, lo Svedese, il Polacco, il Francese e

l’Italiano. Questi ultimi due derivano, di fatto, prevalentemente dal ceppo

americano (sia statunitense che canadese) che ha sostituito gradualmente quello

olandese. I ceppi europei sono, rispetto a quelli americani, morfologicamente

più omogenei (soprattutto nel mantello), ma di taglia e di livello produttivo

talvolta leggermente inferiori.

15

La Frisona italiana è,il risultato della mescolanza dei ceppi statunitense e

canadese e, in minor misura, olandese. I primi capi frisoni furono importati in

Italia dall’Olanda nel 1870, inizialmente vennero importati nella pianura

padana; successivamente nelle zone di bonifica dell’Agro romano.Le regioni di

maggior diffusione sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna ed il Veneto che da

sole allevano quasi il 75% della razza. La Frisona italiana è caratterizzata da:

grande mole (kg 900÷1.300 nei tori e 550÷800 nelle vacche) e taglia elevata (cm

138÷155 e 127÷145, rispettivamente); tronco lungo, con masse muscolari

abbastanza sviluppate ma non troppo evidenti; buona conformazione

dell’apparato mammario.

La produzione lattea media delle vacche iscritte al L.G. nel 2000 è stata quella

riportata quì di seguito:

Produzioni per lattazione convenzionale di 305 giorni (dati AIA, 2000)

Categoria Latte kg Grasso % Proteine %

Primipare 7.958 3,53 3,23

Secondipare 8.613 3,53 3,22

Terzipare e oltre 8.601 3,56 3,16

Totale 8.373 3,54 3,20

La produzione della carne è discreta, con un peso alla nascita di kg 40÷45 nei

maschi e 35÷40 nelle femmine, un ritmo di accrescimento di kg/d 1,0÷1,1 e una

resa media alla macellazione del 54%.

Le caratteristiche riproduttive sono mediamente le seguenti: l'età al primo parto

è di 29 m; il periodo di servizio (intervallo parto-concepimento) è di 111 d;

l’incidenza degli aborti è dello 0,79%.

(L'associazione nazionale degli allevatori della razza è l'Anafi).

La razza Bruna

La razza Bruna, originaria della Svizzera centrale, è la seconda razza

specializzata da latte del mondo, sia per consistenza numerica (quasi 15 milioni

di capi) che per diffusione geografica. Essa ha avuto origine dall’azione selettiva

16

operata nei monasteri della Svizzera, in particolare nell'Abbazia di Einsielden

del cantone di Schwyz, Attualmente è allevata, oltrechè in Svizzera, anche nel

resto dell’Europa, nelle Americhe ed in Africa. Anche questa razza presenta

diversi ceppi, tutti derivati per selezione da quello svizzero; tra quelli europei i

più importanti sono: lo svizzero, il tedesco, l’austriaco e l’italiano; il ceppo

statunitense o Brown Swiss è quello che attualmente domina il mercato

mondiale della razza.

Il ceppo svizzero, che è il ceppo originario dal quale derivano tutti gli altri, è

caratterizzato da: conformazione molto armonica ed uniforme; tronco con

buone capacità toracica e addominale; mantello bruno, con diverse tonalità;

mole e statura elevate; garretti asciutti; mammella ben sviluppata e sostenuta.

Inizialmente considerato a triplice attitudine, attualmente è caratterizzato da

buona produzione di latte e da discreta produzione di carne. La produzione

media delle vacche iscritte al L.G. nel 2000 (204.000) è stata di kg 6.066, con un

contenuto lipidico del 3,99% e proteico del 3,32%.

La Bruna italiana, originata dal ceppo svizzero, si è diffusa inizialmente nelle

vallate alpine e successivamente in tutta la Penisola. Nelle zone settentrionali

(pianura padana) essa è stata sostituita gradualmente dalla più produttiva

Frisona; è invece ancora ben rappresentata nell'Italia centrale e soprattutto

meridionale e insulare, grazie alla sua ritenuta superiore rusticità ed adattabilità

rispetto alla Frisona.

La razza è caratterizzata da: mole (kg 900÷1.000 nei tori e 500÷600 nelle vacche)

e taglia (cm 145 e 133, rispettivamente) grandi; conformazione tipica

dell'animale da latte, ma con forme meno angolose rispetto alla Frisona;

mantello bruno, di diversa tonalità; ottima conformazione della mammella. Una

caratteristica peculiare della razza è la buona capacità di adattamento a

condizioni ambientali anche difficili. Sotto l'aspetto produttivo, la Bruna

italiana è una razza capace di dare ragguardevoli produzioni di latte di ottima

qualità, con alta resa alla caseificazione, particolarmente adatto alla produzione

di formaggi tipici, grazie anche all'elevata frequenza (64%) in essa della variante

17

genetica B della k-caseina, che è la più favorevole alla caseificazione. La

produzione media delle vacche iscritte al L.G. nel 2000 (136.000) è stata di kg

6.010 di latte, con un contenuto lipidico del 3,88% e proteico del 3,41%. La razza

presenta inoltre buona attitudine alla produzione della carne (peso alla nascita

di kg 40÷45 nei maschi e 35÷40 nelle femmine, ritmo di accrescimento di kg/d

0,9÷1,1, resa alla macellazione del 55÷56%).

Gli obiettivi della selezione sono l'innalzamento del contenuto proteico del latte,

il miglioramento della conformazione e l'aumento della longevità che

attualmente è scarsa (3,4 lattazioni per vacca). (L'associazione nazionale degli

allevatori della razza è l'Anarb).

LE RAZZE A DUPLICE ATTITUDINE

Le razze a duplice attitudine, in cui la produzione di latte e quella di carne

hanno quasi la stessa importanza economica, presentano caratteristiche

somatiche e produttive intermedie fra le razze specializzate da latte a quelle

specializzate da carne; sono allevate, in genere, in aziende di piccole dimensioni

(diretto-coltivatrici), in zone collinari e in allevamenti di livello tecnico non

elevato. Esse sono rappresentate dalle razze Pezzata Rossa, Normanna, Grigio-

Alpina, Valdostana e Norica.

La razza Pezzata Rossa, derivata dal B. frontosus, originaria della Svizzera e

diffusa in tutta l’Europa continentale, tra i quali i più importanti sono quello

svizzero o simmental da cui derivano tutti gli altri, quello tedesco o bavarese e

quello italiano o friulano.

Il ceppo italiano, denominato ufficialmente Pezzata Rossa Italiana, è originario

del Friuli, è diffuso soprattutto nel Friuli e nel Veneto. E’ caratterizzato da:

· conformazione robusta, ma non pesante;

· mantello pezzato rosso, dal chiaro al mogano, con pelle morbida ed

elastica;

· statura media (cm140÷150 nel tori e 135÷145 nella vacche) e mole elevata

(kg 1.000 e 600, rispettivamente);

18

· testa leggera e larga e collo molto muscoloso; petto largo e torace ampio;

· ventre voluminoso;

· groppa lunga e ampia, coscia muscolosa e natica convessa;

· mammella voluminosa, spugnosa ed ampia, vene appariscenti e

tortuose.

La razza ha buona attitudine alla produzione del latte (kg 5.500÷6.000, con un

contenuto lipidico del 3,88% e proteico del 3,37%) e della carne (kg 40÷50 alla

nascita, ritmo di accrescimento kg/d 1,1÷1,2 e resa alla macellazione del 58%,

con carne di buona qualità) e buona precocità (peso a 12 mesi kg 480 nel

maschio, 320 nelle femmine). (L'associazione nazionale degli allevatori della

razza è l'Anapri).

La razza Normanna è la vecchia razza da latte francese — ormai in via di

sostituzione per lam produzione del latte con la Frisona e per quella della carne

con la Charolaise .

Le razze Grigio-Alpina, Valdostana e Norica hanno tutte interesse locale, anche

per la loro limitata consistenza e diffusione.

LE RAZZE DA CARNE

Sono ormai considerate razze da carne sia quelle in cui l’attitudine alla

produzione della carne — elevato ritmo di accrescimento, basso indice di

conversione alimentare, alta resa alla macellazione, ottime caratteristiche della

carcassa e ottima qualità e composizione della carne — è preminente, in quanto

insita nel patrimonio genetico della razza, sia quelle che, pur non essendone

dotate naturalmente, possono acquisirla per mezzo dell'incrocio industriale con

quelle da carne: le prime sono le razze specializzate, le seconde sono le razze

rustiche.

LE RAZZE SPECIALIZZATE

Le razze specializzate sono contraddistinte dalle seguenti caratteristiche

somatiche: taglia e/o mole elevata, impalcatura scheletrica robusta ma non

19

grossolana, pelle sottile; testa piccola, collo corto e muscoloso, gibboso nei

maschi; tronco lungo e robusto con garrese, dorso e lombi larghi; petto e torace

ampi; ventre ampio ma non voluminoso; groppa lunga, larga e orizzontale,

natica spessa e sviluppata e coscia convessa; arti robusti, solidi, ma leggeri;

appiombi diritti e stinchi asciutti.

Le razze italiane sono allevate in purezza quasi esclusivamente in Italia,sono

quasi tutte caratterizzate da taglia e mole elevate, associate a ottima qualità

della carne, ma, ad eccezione della Piemontese, da scarsa attitudine materna.

Esse sono le razze Chianina, Romagnola, Marchigiana e Piemontese, le cui

associazioni di razza fanno capo all’Anabic (Associazione Nazionale Allevatori

Bovini Italiani da Carne).

La razza Chianina, originaria della Val di Chiana, è l’unica razza autoctona

italiana. E’ caratterizzata da: taglia (cm 170÷175 nei tori e 160÷165 nelle vacche)

e mole (kg 1.500÷1.600 e 800÷900, rispettivamente) elevatissime che ne fanno il

gigante della specie; mantello bianco porcellana su cute pigmentata e pelle

sottile; testa sottile e allungata, con corna piccole; collo e tronco allungato, con

linea dorso-lombare orizzontale; arti lunghi e robusti. Le caratteristiche

produttive più salienti sono: l’elevatissimo ritmo di accrescimento (kg/d

1,3÷1,4), il basso indice di conversione (5,5÷6), la alta resa alla macellazione

(62÷64%), la ottima conformazione della carcassa e l'elevata resa in tagli

pregiati, la ottima qualità della carne (bistecca fiorentina) e la alta resa allo

spolpo; a tali caratteri pregevoli sono però associati: scarsissima attitudine

materna, scarsa rusticità soprattutto alimentare, temperamento eccessivamente

vivace e maturazione somatica molto tardiva, che ne limita, di fatto, l’impiego

alla produzione del vitellone pesante. La caratteristica riproduttiva principale è

la grande facilità di parto che la rende utilizzabile su tutte le razze (da latte, da

carne e rustiche) per l’incrocio industriale.

La razza Romagnola, originaria della Podolia è allevata quasi esclusivamente

in Romagna. E’ caratterizzata da: mantello bianco-grigio (fromentino alla

nascita, come in tutte le razze podoliche), con cute pigmentata e pelle spessa

20

(10÷12% del peso corporeo); taglia non elevata (cm 145÷150 nei tori e 135÷140

nelle vacche) e grande mole (kg 1.200÷1.400 e 700÷900, rispettivamente); testa

con corna piccole e collo molto muscoloso; torace e petto robusti e profondi;

dorso e lombi larghi; groppa, coscia e natica non molto larghe; arti solidi e

robusti, con piedi grandi.

La razza Marchigiana, originaria delle Marche e derivata dall’incrocio di

assorbimento del bovino podolico locale con le razze Chianina e Romagnola, è

diffusa, oltrechè nella regione di origine, anche nell'Europa settentrionale e

nelle Americhe soprattutto come razza incrociante con razze specializzate da

latte. E' la più consistente fra le razze dell'Italia centrale (200.000 capi, di cui

90.000 vacche iscritte al L.G.) ed è somaticamente molto simile alla Chianina

(cm 150÷155 nei tori e 140÷145 nelle vacche; kg 1.200÷1.500 e 700÷900,

rispettivamente) da cui deriva, ma è più atterrata, più resistente, con rese alla

macellazione superiori (64÷65%) e più precoce (raggiunge infatti il peso di

macellazione più anticipatamente).

La razza Piemontese, originaria del Piemonte, è la più importante razza italiana

da carne E’ caratterizzata da: mantello grigio, con occhiaie e pisciolare neri;

ossatura molto sottile e pelle finissima (8÷10% del peso corporeo); sviluppo

muscolare eccezionale, soprattutto nei soggetti a groppa doppia ("piemontesi

dalla coscia"), grazie all’ipertrofia muscolare della coscia e delle natiche; testa

molto sottile e collo muscoloso e gibboso; tronco rotondeggiante e ventre

retratto; dorso, groppa e lombi molto larghi; coscia e natiche molto carnose; arti

delicati e spesso deboli (quelli posteriori sono in genere "sotto di sè"); taglia (cm

140 nei tori e 130 nelle vacche) e mole (kg 800 e 500, rispettivamente) non

elevate. Le caratteristiche produttive sono: buono ma non prolungato ritmo di

accrescimento (kg/d 1,1÷1,2), elevatissima resa alla macellazione (65÷66%),

carcasse e tagli di qualità eccezionale, eccellente qualità della carne (resa in

muscolo del 76%) ed ottima attitudine materna. A tali caratteristiche positive

sono associate però scarsa capacità di deambulazione e di impennata,

soprattutto nelle zone impervie; scarsa fertilità, per oligospermia; difficoltà di

21

parto, per eccessivo sviluppo dei vitelli alla nascita (anche 70÷80 kg nel tipo a

groppa doppia); scarsa adattabilità ad ambienti difficili. La razza è utilizzata

soprattutto per incroci industriali con razze specializzate da latte e rustiche

nella produzione di vitelloni semipesanti e come razza incrociante finale negli

incroci tripli. (L'associazione nazionale degli allevatori della razza è

l'Anaborapi).

Le razze francesi sono caratterizzate da: taglia media (cm 140÷150 nei tori e

130÷140 nelle vacche) ma da mole elevata (kg 1.000÷1.300 e 700÷900,

rispettivamente); conformazione rotondeggiante, con grande sviluppo dei

diametri trasversali e delle relative masse muscolari che determinano elevate

rese alla macellazione (62÷65%); in genere buona adattabilità anche a condizioni

ambientali difficili; buona attitudine materna. Fra di esse le principali sono le

razze: Charolaise, Limousine, Blonde d’Aquitaine e Blu Belga.

La razza Charolaise (detta anche Nivernaise), originaria della regione di

Charolle (F) .Essa è allevata sia in purezza che per incrocio industriale con razze

specializzate da latte, con razze specializzate da carne e con razze rustiche ed è

utilizzata per il meticciamento con razze zebuine.E caratterizzata da:

impalcatura scheletrica molto robusta, con grande sviluppo dei diametri

trasversali; mantello bianco crema, con cute depigmentata e mucose rosee; testa

corta, con corna giallognole dirette lateralmente e in avanti; collo breve e

muscoloso; tronco cilindrico, lungo e largo, con profilo dorso-lombare

orizzontale; torace ampio e profondo e petto largo; groppa, coscia e natica

molto sviluppate e muscolose, superconvesse nei soggetti a groppa doppia

(culard) per ipertrofia muscolare; arti solidi, robusti e tozzi, con stinchi e piedi

larghi; taglia media (cm 140 nei tori e 130 nelle vacche) e mole notevole (kg

1.200÷1.300 e 800÷900, rispettivamente). Le caratteristiche produttive sono:

ritmo di accrescimento elevato e prolungato (kg/d 1,2÷1,3), resa alla

macellazione ottima (62÷65%), qualità della carcassa ottima per la prevalenza di

tagli pregiati del treno posteriore, qualità della carne mediocre per scarse

colorazione e consistenza. Le caratteristiche riproduttive sono: buona precocità,

22

longevità e fertilità, associate a grande adattabilità ambientale.La razza è adatta

alla produzione di vitelloni semipesanti (kg 450÷500) e pesanti (kg 500÷550) e

per consumatori che non richiedano carni di particolare pregio e per

ingrassatori orientati all’acquisto di ristalli con conformazione e mantello molto

marcanti.

La razza Limousine, originaria della regione del Limousin (F) è la seconda razza

francese da carne per importanza e per consistenza; è allevata, sia in purezza

che per incrocio, anche in Italia ed in altri paesi europei. E’ caratterizzata da:

impalcatura scheletrica sottile e conformazione generale molto armonica, con

grande sviluppo delle masse muscolari; mantello rossiccio o fromentino vivo e

pelle sottile; taglia media (cm 140 nei tori e 130 nelle vacche) e mole elevata (kg

1.000÷1.200 e 700÷800, rispettivamente); testa corta e stretta, con corna sottili;

collo corto e muscoloso, con coppa pronunciata; tronco cilindrico e allungato,

con profilo orizzontale della linea dorso-lombare; petto largo e torace

rotondeggiante; groppa, coscia e natica molto sviluppate e convesse; addome

retratto; arti sottili ma solidi. Le caratteristiche produttive sono: ritmo di

accrescimento elevato, ma limitato al primo anno di vita (kg/d 1,0÷1,2), resa

alla macellazione molto alta (62÷65%), resa in tagli pregiati alta e qualità della

carne eccezionale. Le caratteristiche riproduttive sono: precocità sessuale e

somatica spinte, buona longevità, alta fertilità, associata ad ottima attitudine

materna, grande facilità di parto anche in purezza, ma scarse rusticità ed

adattabilità climatica ed alimentare. La razza è adatta anche per l'allevamento

brado per produrre vitelloni leggeri (kg 380÷420) o al massimo semipesanti (kg

420÷480), per incrocio anche con razze caratterizzate da parto non facile (ad es.

Bruna) e per consumatori che apprezzano le carni di grande pregio.

La razza Blonde d’Aquitaine, La razza Hereford, originaria della contea di

Hereford (Inghilterra), è caratterizzata da: corna giallognole di media

lunghezza; mantello rosso scuro, con faccia, giogaia, ventre e coda bianchi;

La razza Aberdeen-Angus, originaria della contea di Aberdeen (Scozia), è

caratterizzata da: testa acorne, con sincipite prominente; mantello nero

23

uniforme, con pelo raso e lucente; tronco cilindrico, con scheletro

particolarmente leggero; arti brevissimi; mole elevata (kg 1.000 nel toro e 700

nella vacca) e resa alla macellazione eccezionale (70%). E’ impiegata, oltrechè in

purezza, soprattutto per l'incrocio industriale con razze specializzate da latte o

da carne o duplici.

LE RAZZE RUSTICHE

Le razze rustiche sono le ex razze da lavoro le quali — venuta meno, con la

diffusione della meccanizzazione in agricoltura, la loro funzione produttiva

economicamente preminente (il lavoro), hanno ritrovato una nuova funzione

produttiva (la carne). Esse sono caratterizzate da: elevata rusticità, ossia alta

capacità di adattamento agli ambienti più difficili sia sotto l’aspetto orografico,

che climatico che alimentare; grande facilità di parto, indispensabile per

garantire la sopravvivenza del vitello negli allevamenti

bradi; buona attitudine materna, ossia notevole capacità di allevare il vitello in

buone condizioni alimentari sino allo svezzamento; alta riproducibilità, ossia

precocità sessuale, longevità riproduttiva e fertilità elevate; infine,

compatibilmente con l’ambiente di allevamento, taglia e mole grandi associate

ad impalcatura scheletrica robusta. Le razze più rappresentate sono: in Italia, la

Maremmana, la Podolica, la Modicana, la Sarda, la Sardo-Bruna, la Sardo-

Modicana; in Francia, la Salèrs e l'Aubrac.

La razza Maremmana, di origine podolica e diffusa soprattutto nella Maremma

toscana e laziale, dove è allevata in mandrie brade che trascorrono l’inverno

nelle zone boschive, ha limitata consistenza (20.000 capi, 8.000 vacche). E'

caratterizzata da: impalcatura scheletrica molto robusta; taglia elevata (cm 150

nei tori e 125 nelle vacche), mole media (kg 800 e 500, rispettivamente); mantello

rosso alla nascita e grigio a maturità, scuro nei maschi, chiaro nelle femmine,

con pelle nera e resistente; testa leggera, con corna a semiluna nei maschi ed a

lira nelle femmine; collo corto e muscoloso, con abbondante giogaia; tronco

robusto, con spalle, garrese, dorso e lombi larghi e muscolosi, con torace e petto

24

profondi e ventre sostenuto; coscia e natica muscolose; arti solidi e asciutti con

piedi serrati. E’ razza molto rustica ed adatta all’incrocio industriale con razze

specializzate da carne (L’associazione nazionale degli allevatori della razza fa

capo all’Anabic).

La razza Podolica, diffusa ormai soltanto nelle zone appenniniche meridionali

(dall’Abruzzo alla Calabria), ha limitata consistenza (100.000 capi, 40.000

vacche) ed è allevata brada in zone molto difficili. E’ caratterizzata da:

impalcatura scheletrica solida, ma leggera; mantello fromentino alla nascita e

grigio a maturità, con pelle nera, fine ed elastica; testa leggera, con corna come

nella Maremmana; tronco e arti simili a quelli della maremmana, rispetto alla

quale però è di taglia e di mole inferiori, ma di maggiore rusticità.

La razza Modicana, originaria della contea di Modica (RG) e diffusa quasi

esclusivamente in Sicilia, ha consistenza ridotta (30.000 capi in purezza).

LE RAZZE BUFALINE

Sono allevate: principalmente, per la produzione del latte (kg 2.000÷3.000) che,

grazie all'alto contenuto lipidico (8%) e proteico (4,5%), è destinato alla

produzione di formaggi tipici (mozzarella);

Secondariamente.Le razze bufaline vengono di solito distinte: in razze indiane

(B. bubalis), adatte ad ambienti umidi e con buona capacità produttiva; e razze

africane (B. caffer), adatte ad ambienti aridi e con minori capacità produttive. In

Italia la specie (B. bubalis) è allevata quasi esclusivamente in alcune regioni

(Campania e Lazio) ed ha una consistenza di circa 200.000 capi, di cui 90.000

bufale. La produzione lattea media è di circa kg 2.150, con un contenuto lipidico

dell’ 8,35% proteico del 4,74% ed una resa in formaggio fresco (mozzarella) del

12,5%. Il peso corporeo è di kg 800 nei tori e 500 nelle bufale. Il ritmo di

accrescimento è di kg/d 0,9, la resa alla macellazione di circa il 50%.

25

CARATTERISTICHE DEI BUFALINI

In Italia la zone di maggior diffusione del bufalo è la Campania (province di

Caserta e Salerno) dove è concentrato l'80% del patrimonio nazionale. La

domanda di latte bufalino per la produzione di formaggi (mozzarella e provola

affumicata) è in costante ascesa e il latte di bufala non è soggetto a limitazioni o

quote di produzione previste invece dalla CE per il latte bovino, la cui

produzione è eccedentaria nella Comunità.

DIFFERENZE TRA BUFALO E BOVINO

Bufali e bovini sono simili per quanto riguarda l'aspetto generale e il carattere

scheletrico delle 13 paia di coste. Appaiono però più tozzi e con il tronco più

largo e alto. A differenza dei bovini, non hanno giogaia nella parte inferiore del

collo, presentano la fronte convessa e diversa forma delle corna. Nei tori i

testicoli sono aderenti al ventre e non pendenti.

Pelo scarso e pelle (quasi nuda) più spessa e coriacea di quella del bovino, più

ricca di ghiandole sebacee (pelle untuosa al tatto) e limitate ghiandole

sudoripare. Per questa ultima particolarità i bufali si proteggono dalla calura

guazzando nell'acqua e coprendosi di fango.

La colorazione della pelle è nera con tendenza al rossiccio o grigio ardesia (più

chiara sul ventre). Gli zoccoli sono appiattiti e allargati alla base, facilitando

l'avanzamento nei terreni paludosi. Animale più intelligente del bovino,

risponde al proprio nome. Ha la stessa formula dentaria del bovino, ma

un'evoluzione più lenta.

Diverso il numero di cromosomi:

- il numero dei cromosomi nei bufali è 48 per la specie selvatica asiatica - 52 per

la specie selvatica africana;

- il numero dei cromosomi della specie bovina è 60.

Meno spiccato il dimorfismo sessuale. Il maschio, in genere più tozzo e con il

tronco più largo e più alto, raggiunge un peso di 7-8 quintali; le femmine

mediamente i 5 quintali, con eccezioni di 6-6,5.

26

La durata media della gravidanza è di 316 giorni (da 312 a 321 giorni) e l'età

media al primo parto si aggira sui 36-38 mesi. I bufalotti alla nascita pesano

mediamente 38-39 kg (maschi) e 35-36 kg (femmine). Notevole durata della

carriera produttiva (fino a 18-20 anni e fino a 15 lattazioni).

LE RAZZE OVINE

Le razze ovine appartengono tutte alla specie Ovis aries e deriverebbero, per

evoluzione e/o selezione e/o incrocio e/o meticciamento, dai seguenti tre

progenitori comuni: Ovis ammon, che è l’Argali allevato nelle regioni centrali

dell’Asia; Ovis musimon, che è il muflone europeo, ancora presente in Sardegna

e in Corsica; Ovis vignei, che è l’ovino della steppa delle regioni caspiche.

Esse vengono classificate in funzione, principalmente, della loro attitudine

produttiva prevalente e, subordinatamente, della regione geografica di

provenienza in: razze da latte o a prevalente attitudine alla produzione del latte

e razze da carne o a prevalente attitudine alla produzione della carne e/o della

lana; entrambe a loro volta sono suddivise in razze italiane e razze estere.

LE RAZZE DA LATTE

Le razze da latte, diffuse prevalentemente nelle regioni circummediterranee

europee ed asiatiche (Israele) e in Oceania (Nuova Zelanda), sono allevate

prevalentemente con sistemi semiestensivi basati, sotto l'aspetto alimentare, sul

pascolamento. Esse sono caratterizzate da:

· impalcatura scheletrica leggera;

· vello grossolano;

· taglia (cm 70÷80 negli arieti e 65÷70 nelle pecore) e mole (kg 60÷80 e 45÷55,

rispettivamente) generalmente medie;

· testa piccola normalmente acorne, con profilo leggermente montonino ed

orecchie medie; collo sottile e quasi sempre privo di vello;

27

· tronco allungato e cilindrico con linea dorso-lombare quasi orizzontale;

petto e torace stretti e ventre voluminoso; groppa inclinata, natica e coscia

vuote;

· mammella grande e sviluppata, con emimammelle poco differenziate;

capezzoli verticali e regolari; testicoli ampi e molto discesi;

· coda lunga e magra;

· elevata attitudine alla produzione del latte, quasi sempre scarsa attitudine

alla produzione della carne e scarsissima a quella della lana.

LE RAZZE ITALIANE

Le razze italiane che possono essere correttamente considerate razze.

specializzate da latte sono soltanto cinque (Sarda, Comisana, Massese, Valle del

Belice e Delle Langhe), anche se, ufficialmente ma impropriamente, vengono

considerate tali anche altre tre razze (Pinzirita, Leccese e Altamurana).

La razza Sarda. Razza autoctona della Sardegna, è la più importante e più

diffusa razza da latte Italiana.

E’ caratterizzata da: impalcatura scheletrica leggera ma solida; vello bianco

(raramente compare il colore recessivo nero o marrone), aperto e costituito da

bioccoli appuntiti con filamenti lunghi e midollati; testa leggera e piccola,

allungata e distinta, acorne (raramente compare il carattere presenza di corna

soprattutto nei maschi, grazie alla selezione operata contro tale carattere

recessivo), con profilo quasi rettilineo ed orecchie grandi e laterali; collo

allungato e sottile; tronco rettilineo, con profilo dorso-lombare quasi orizzontale

(leggermente insellato al dorso); torace e petto stretti ma profondi, con spalle

solide soprattutto nei maschi; groppa leggermente spiovente e ventre ampio e

voluminoso; arti solidi e robusti con unghioni ben distinti ed appiombi regolari;

Mammella molto sviluppata, larga e attaccata alta, con emimammelle non

distinte e capezzoli piccoli e diretti verticalmente, adatti alla mungitura

meccanica (vengono ormai scartate le mammelle globose, con capezzoli laterali

e diretti in avanti); testicoli grandi, lunghi e pendenti; coda lunga e lanosa;

28

taglia (cm 70 negli arieti e 65 nelle pecore) e mole (kg 65 e 45, rispettivamente)

piccole, anche se attualmente tali pesi tendono ad aumentare per effetto sia

della selezione che del migliore regime alimentare.

La produzione lattea (l 120±30 in 100 d nelle primipare, 190±40 nelle

secondipare e 210±50 nelle pluripare in 180 d) ed i contenuti lipidico (6,7%) e

proteico (5,8%) non sono elevati in assoluto, ma, considerate le difficili

condizioni di allevamento, sono da ritenersi buoni.

La produzione della carne è scarsa (kg 3,5÷4 nei maschi e 3÷3,5 nelle femmine,

alla nascita; 18÷20 e 15÷17, rispettivamente, a 90 d), con resa alla macellazione

bassa (55÷58% negli agnelli, alla romana), ma di ottima qualità e molto

apprezzata dal consumatore soprattutto nei periodi natalizio e pasquale.

La produzione della lana è di modesta entità (kg 1,8÷2 negli arieti e 1,2÷1,5 nelle

pecore) e di pessima qualità.

La precocità è buona (primo parto a 15 mesi) e la prolificità variabile.

La razza Comisana. E’, per consistenza numerica (700.000 capi, di cui 520.000

pecore) e per diffusione territoriale (Sicilia, Italia meridionale e centrale), la

seconda razza italiana da latte; è originaria di Comiso (RG), da cui prende il

nome. E’ caratterizzata da: taglia (cm 80 negli arieti,e 70 nelle pecore) e mole (kg

80 e 50, rispettivamente) medie; vello bianco, aperto, con bioccoli conici; testa

fine, allungata e leggera di colore rosso o marrone; torace e petto stretti, ma

profondi; groppa inclinata e coda molto lunga; mammella allungata.

La produzione lattea è di l 100±30 in 100 d nelle primipare, 160 ± 60 nelle

secondipare e 170±50 nelle pluripare in 180 d, con un contenuto lipidico del

6,5% e proteico del 5,2%. L'attitudine alla produzione della carne è mediocre (il

peso alla nascita è di kg 3,5÷4 nei maschi e 3÷3,5 nelle femmine; quello a 90 d di

kg 20÷22 e 15÷18,rispettivamente). L’età al primo parto è di 15÷16 mesi, la

prolificità del 150%; la produzione della lana, di qualità grossolana, è di kg 2,5

negli arieti ed 1,5 nelle pecore.

La razza Delle Langhe, originaria delle Langhe (Piemonte) ed allevata in piccoli

allevamenti semibradi quasi esclusivamente in Piemonte e Liguria, è una razza

29

di scarsissima consistenza (10.000 capi) ed è ormai avviata a diventare reliquia.

E’ caratterizzata da: taglia grande (cm 85 negli arieti e 75 nelle pecore) e mole

elevata (kg 90 e 70, rispettivamente); vello bianco, aperto, con bioccoli ondulati;

testa montonina acorne, con orecchie lunghe, grandi e cadenti. La produzione

lattea è di l 85 ± 40 nelle primipare in 100 d, 120 ± 60 nelle secondipare e 140 ±

70 nelle pluripare in 180 d, con contenuto lipidico del 6,5% e proteico del 5,5.%.

LE RAZZE ESTERE.

Sono principalmente le razze: Frisona, Awassi, Churra, Manchega, Lacaune,

Prealpina, Corsa.

La razza Frisona, originaria della Frisia, è la più importante razza da latte

estera; è allevata in purezza oppure per insanguare altre razze da latte allo

scopo di aumentarne sia la produzione lattea che quella carnea. E’ caratterizzata

da: taglia (cm 85÷90 negli arieti e 80÷85 nelle pecore) e mole (kg 90 e 70,

rispettivamente) molto elevate; impalcatura scheletrica solida; testa grande e

acorne, con profilo montonino accentuato; vello bianco merinizzato a bioccoli

compatti; tronco cilindrico allungato, con buon sviluppo dei diametri

trasversali; coda corta e sottile; mammella ben sviluppata, con capezzoli piccoli

e di buona mungibilità meccanica, ma di difficile mungibilità manuale.

La produzione lattea è molto elevata (kg 400÷500 nelle pluripare, in 280 d), con

un buon contenuto lipidico (6%) e proteico (4,5%). La produzione della carne è

buona (peso alla nascita kg 4,5÷5 nei maschi e 3,5÷4 nelle femmine; a 90 d kg 22

e 18, rispettivamente), con rese alla macellazione del 60% alla romana e del 54%

in carcassa. La produzione della lana, di media qualità, è di kg 3 negli arieti e 2

nelle pecore. La precocità è elevata. E’ una razza molto produttiva, che richiede

però condizioni ambientali, sia climatiche che pedologiche che alimentari,

molto buone e presenta qualche difficoltà al parto (distocie del 5÷10%) anche

per l’elevato peso alla nascita degli agnelli.

30

LE RAZZE SPECIALIZZATE DA CARNE

Esse, qualunque sia la loro attitudine alla produzione della lana, sono

caratterizzate da: impalcatura scheletrica molto solida, ma non grossolana;

grande mole (kg 100÷120 negli arieti, 70÷80 nelle pecore), non sempre associata

a grande taglia (spesso infatti sono molto atterrate); grande sviluppo dei

diametri trasversali e delle masse muscolari, soprattutto del treno posteriore

(groppa, coscia e natiche molto rotonde); testa piccola, larga e montonina, più

frequentemente acorne, con orecchie piccole e orizzontali; collo corto e

muscoloso; tronco cilindrico e allungato, con linea dorso-lombare orizzontale;

petto e torace molto sviluppati; spalla, dorso, lombi e groppa molto larghi e

muscolosi; addome retratto; arti corti, robusti e verticali; mammella piccola e

rotondeggiante e testicoli grossi.

Queste razze presentano ritmi di accrescimento elevati (200÷300 g/d sino ai tre

mesi), ottime rese alla macellazione (60÷65% in carcassa), con prevalenza di

tagli pregiati; grande tenerezza e sapidità delle carni e spesso anche alta

prolificità (150÷180%). Esse sono classificate, a seconda della provenienza

geografica, in razze: italiane, francesi, britanniche e germaniche.

Le razze italiane ufficialmente considerate da carne in effetti non lo sono in

quanto prive generalmente delle caratteristiche tipiche degli animali da carne:

sono infatti di grande taglia, ma non sempre di grande mole, e vengono

utilizzate per produrre carne soprattutto per mezzo dell’incrocio industriale con

razze estere specializzate da carne. Esse sono le razze: Appenninica, Barbaresca,

Bergamasca, Biellese, Laticauda, Fabrianese e Merinizzata italiana.

La razza Appenninica, autoctona dell’Umbria. La produzione della carne è

media (alla nascita, kg 3,5÷4 nei maschi e 3÷3,5 nelle femmine; a 90 d, kg 22÷25

e 20÷22, rispettivamente). La produzione della lana, molto grossolana, è di kg

2,5 e 1,5, nei due sessi. La razza ha ottima attitudine materna, buona rusticità e

buon ritmo di accrescimento che la rendono adatta a produrre: in purezza,

l’agnello pesante da latte; in incrocio, l’agnellone leggero. La prolificità è bassa

(130%).

31

La razza Laticauda, originata dalla razza nord-africana Barbaresca per incrocio

con la razza Appenninica e successivo meticciamento, è allevata in Campania in

piccoli greggi ed ha consistenza ridotta (40.000 capi). E’ caratterizzata da:

impalcatura scheletrica robusta; taglia grande (cm 80 negli arieti e 70 nelle

pecore) e mole media (kg 95 e 70, rispettivamente); vello bianco con bioccoli

prismatici; testa pesante, montonina e acorne, con orecchie grandi rivolte in

basso; tronco lungo e largo, con linea dorso-lombare rettilinea; torace ampio e

profondo, groppa larga e spiovente ed arti solidi.

La attitudine alla produzione della carne è buona (alla nascita, kg 4÷5 nei

maschi e 3,5÷4 nelle femmine; a 90 d, kg 25 e 22, rispettivamente, con buona

resa alla macellazione).

La produzione della lana, di qualità grossolana, è di kg 3 e 2. La razza ha buona

attitudine materna, grande precocità (primo parto a 12 mesi) ed elevata

prolificità (180%). E’ particolarmente adatta per l’incrocio industriale.

Le razze francesi sono fra le migliori del mondo per mole, resa alla

macellazione, qualità della carcassa e delle carni. Esse sono in genere derivate

da razze locali merinizzate e successivamente incrociate con razze da carne

inglesi. Le principali sono le razze: Ile de France e Berrichon du Chèr.

La razza Ile de France.E' la più importante razza da carne francese, ha una

consistenza di circa 500.000 capi ed è utilizzata in purezza per la produzione

dell'agnello da latte (kg 12÷15), dell'agnellone precoce (kg 30÷35) e

dell'agnellone pesante (kg 40÷50), ma soprattutto come razza incrociante

nell'incrocio industriale con razze da latte e rustiche. E' caratterizzata da:

impalcatura scheletrica solida; taglia non elevata (cm 78 negli arieti e 70 nelle

pecore), ma mole elevata (kg 120 e 80, rispettivamente); vello bianco a bioccoli

chiusi ricoprente tutto il corpo, ad eccezione degli arti e della faccia; testa larga

acorne, con profilo rettilineo e orecchie grandi; collo corto e tozzo; tronco

ampio, lungo e largo; petto e torace larghi e profondi; dorso lungo e largo;

groppa lunga e orizzontale; coscia muscolosa e sviluppata; ventre retratto; arti

regolari e robusti.

32

La produzione della carne è caratterizzata da: peso alla nascita elevato (kg 4÷5

nei maschi e 3÷4 nelle femmine), ritmo di accrescimento prolungato (g/d

280÷300 nei maschi e 220÷250 nelle femmine, nei primi 3 mesi), resa alla

macellazione molto elevata (65%), con tagli e qualità eccezionali.

La produzione della lana è di kg 5,5 nei maschi e 4 nelle femmine, di buona

qualità (25μ). La razza presenta precocità medi a (15÷18 m al 1° parto), buona

prolificità (150%), discreta attitudine materna e facilità di parto; essendo però

molto delicata e poco resistente alle alte temperature ed alle sue variazioni

repentine, ha difficoltà di adattamento, soprattutto negli allevamenti

semiestensivi, nel periodo di monta, è particolarmente adatta all'incrocio

industriale con le razze da latte per la produzione sia dell'agnello pesante da

latte che dell'agnellone precoce.

Le razze inglesi sono caratterizzate da mole grande e taglia elevata e da lana di

buona qualità. Le principali sono le razze: Suffolk, Dorsetdown, Southdown.

La razza Suffolk, originaria della contea di Norfolk (UK) e derivata dall'incrocio

fra le due razze inglesi Norfolk e Southdown, è diffusa in Inghilterra ed in

Australia.

E' caratterizzata da: ossatura robusta e corpo cilindrico; testa e arti neri; vello

bianco compatto; taglia e mole elevate (cm 80 negli arieti e 74 nelle pecore e kg

120 e 90, rispettivamente).

La produzione della carne è buona, sia per ritmo di accrescimento, che per resa

alla macellazione, che per qualità della carcassa.

La produzione della lana è media (kg 3 e 2,5) e di buona qualità. E' utilizzata

per l'incrocio industriale.

La razza Dorsetdown, originaria della contea di Dorset e derivata dall'incrocio

fra le razze Dorset e Southdown, è diffusa in Gran Bretagna, Francia, Sud

America e Australia. E' caratterizzata da: mole media (kg 80 negli arieti e 50

nelle pecore); vello bianco con bioccoli serrati; testa acorne marrone.

E' una razza precoce, prolifica e con buona attitudine materna.

33

La razza Southdown, originaria del Sussex e considerata la più antica razza da

carne inglese, è caratterizzata da: mole grande (kg 100 negli arieti e 90 nelle

pecore); impalcatura scheletrica leggera, con tronco ampio; vello bianco o grigio

e testa nera acorne; notevole precocità somatica e buone fertilità e prolificità.

LE RAZZE CAPRINE

Le razze caprine (Capra hircus) deriverebbero — per selezione e/o

meticciamento — principalmente dai seguenti tre progenitori:

C. aegagrus, il Bezoar asiatico, ridotto ormai alle zone montuose dell'Asia

minore; C. prisca, la capra carpatica e balcanica, ormai estinta; C. falconeri, il

markor del kashmir.

Esse vengono classificate in razze: alpine o europee, di origine alpina oppure

pirenaica, tipo Saanen, Alpina, Toggenburg; asiatiche, di origine centroasiatica,

tipo Angora e Kashmir; mediterranee o africane, tipo Maltese, Siriana, Nubiana

ed Egiziana.

Poichè in questa specie non esistono razze a prevalente attitudine alla

produzione della carne, le razze sono classificate in: razze specializzate,

ovviamente per la produzione del latte; razze rustiche che non hanno

specializzazione produttiva; e, infine, razze da pelo o fibra.

LE RAZZE SPECIALIZZATE

Le razze specializzate da latte sono caratterizzate da: impalcatura scheletrica

solida, ma leggera; conformazione somatica di tipo lattifero; testa leggera con o

senza corna e tettole; tronco trapezoidale allungato, con groppa inclinata, ventre

voluminoso e mammella sviluppata; arti solidi.

Le principali sono le razze: Saanen, Alpina, Toggenburg, Appenzel, Poitevine,

Granadina, Maltese, Girgentana, Ionica e Siriana.

La razza Saanen, appartenente al gruppo alpino ed originaria della Svizzera, è

diffusa in tutto il mondo ed è la più importante razza specializzata; in Italia ha

34

una consistenza di 40.000 capi ed è allevata in allevamenti di tipo intensivo

soprattutto nelle regioni settentrionali.

E' caratterizzata da: mantello bianco rosato a pelo corto; testa piccola spesso

acorne e collo robusto; profilo dorsolombare orizzontale; torace ampio e

addome sviluppato; taglia grande (cm 85 nei becchi e 75 nelle capre) e mole

grossa (kg 90 e 60, rispettivamente). L’attitudine alla produzione del latte è

elevata: l 300 nelle primipare in 150 d, 500 nelle secondipare, 600 nelle pluripare

in 210 d, con contenuto lipidico del 3% e proteico del 2,5%. La produzione della

carne è rappresentata dal capretto da latte macellato a 45 d di età; il peso alla

nascita è di kg 4÷4,5 nei maschi e 3,5÷4 nelle femmine, quello a 90 d, di 20 e 17,

rispettivamente. La razza è molto precoce (1° parto a 13 mesi) e prolifica (160%)

ed è adatta agli allevamenti semintensivi e soprattutto intensivi delle regioni

settentrionali.

La razza Alpina, in Italia ufficialmente denominata Camosciata delle Alpi ed

appartenente anch'essa al gruppo alpino, è diffusa in tutto il mondo ed è

allevata in allevamenti intensivi e semintensivi; in Italia ha una consistenza di

40.000 capi. E' caratterizzata da: mantello a pelo raso castano scuro con

caratteristica riga mulina marrone; taglia media (cm 85 nei becchi e 75 nelle

capre) e mole grande (kg 100 e 70, rispettivamente); testa leggera, generalmente

con corna nel maschio e senza nella femmina; torace ed addome ampi, groppa

inclinata. La produzione lattea è elevata (l 250 nelle primipare in 150 d; 450 nelle

secondipare, 550 nelle pluripare in 210 d), con contenuto lipidico del 3,5% e

proteico del 3%. La produzione della carne è media (kg 3,5÷3,8 nei maschi e

2,5÷3,2 nelle femmine, alla nascita; kg 18 e 15, a 90 d). La razza ha elevata

precocità (1° parto a 12 mesi) e buona prolificità (160%); è meno produttiva

della Saanen, ma leggermente più rustica.

35

LE PRINCIPALI RAZZE DEI RUMINANTI

Razza Frisona

Razza Bruna

Razza Jersey

Razza Guernsey

Razza Ayrshire

Razza Pezzata Rossa

36

Razza Piemontese

Razza Chianina

Razza Marchigiana

Razza Romagnola

Razza Charolaise

Razza Limousine

Razza Shorthorn

37

Razza Hereford

Razza Aberdeen – Angus

Razza Maremmana

Razza Podolica

Razza Modicana

Razza Bruno - Sarda

Razza Normanna

38

Razza Blu Belga

Razza Santa Gertrudis

Razza Brahman

Specie Bufalina

Razza Sarda

Razza Comisana

Razza Massese

39

Razza Valle del Belice

Razza Frisona

Razza Pinzirita

Razza Laticauda

Razza Appenninica

Razza Bergamasca

40

Razza Fabrianese

Gestione degli eventi riproduttivi nel gruppo di animali

LA TECNICA DELLA RIPRODUZIONE

La tecnica riproduttiva — che è funzione della specie e della razza

(specializzata oppure rustica), dell’attitudine e indirizzo produttivo (latte

oppure carne), del tipo di allevamento (estensivo oppure intensivo) — è

ovviamente legata al sesso maschile. Preliminarmente occorre pertanto

considerarne il regime igienico-sanitario, il regime alimentare ed il regime

sessuale del riproduttore.

Il regime igienico-sanitario. Il redo destinato alla riproduzione deve essere

sempre mantenuto, in qualunque specie e razza ed in qualsiasi tipo di

allevamento, in stabulazione libera (box oppure recinto individuale o collettivo)

affinchè, potendo muoversi a suo piacimento, ne risulti favorito lo sviluppo

scheletrico e muscolare e la sanità; l’ambiente deve pertanto essere asciutto,

soleggiato e provvisto di ricovero sia notturno che per le ore più calde estive e

più fredde invernali.

Il regime alimentare deve essere costantemente equilibrato sotto tutti gli aspetti

(energetico, proteico, minerale, vitaminico e fibroso): non deve cioè presentare

né carenze, che provocherebbero una riduzione del ritmo di accrescimento e di

conseguenza un rallentamento nel raggiungimento della pubertà, né eccedenze,

che favorirebbero un ingrassamento, sempre dannoso in tutti gli animali

destinati alla riproduzione; deve pertanto essere evitata la somministrazione di

foraggi troppo voluminosi e/o fibrosi quali i fieni scadenti e/o gli insilati

ingombranti, che provocherebbero uno sviluppo eccessivo dell’addome con

conseguente appesantimento dell’animale; deve invece essere praticata quella

di fieni ottimi e di concentrati fibrosi (quali avena e orzo) e con proprietà

41

rinfrescanti (quali crusche e panelli di lino). Le esigenze nutritive dei

riproduttori sono riportate per le varie specie ed attitudine produttiva nelle

relative tabelle di razionamento.

Il regime sessuale.

Sebbene nei maschi destinati alla riproduzione l’istinto genesico si manifesti

abbastanza precocemente, ovviamente ad età variabile con la specie e la razza

(normalmente al raggiungimento del 30% del peso corporeo adulto tipico della

razza) anche se la produzione di sperma è spesso quantitativamente scarsa e

qualitativamente scadente, l’utilizzazione dei riproduttori non inizia

normalmente prima del raggiungimento del 50% del peso corporeo adulto,

prosegue con intensità crescente sino al raggiungimento della piena maturità

sessuale, ossia intorno ai 2 anni nei bovini rustici, 2,5 in quelli da latte, 3 in

quelli specializzate da carne, 1,5 negli ovini da latte e 1,25 nei caprini.

Oltre tale età, che corrisponde all’incirca al conseguimento del 60¸65% del peso

corporeo adulto nelle rispettive specie e/o razze, i riproduttori raggiungono la

completa maturità sessuale e possono di conseguenza essere utilizzati appieno.

Ovviamente fra i diversi riproduttori esistono sempre differenze individuali di

cui occorre tener conto nel programmare gli accoppiamenti: l’attività

riproduttiva deve essere sempre intervallata da brevi periodi di riposo, onde

evitare un eccessivo impiego del riproduttore che può ripercuotersi

negativamente sulla bontà del seme (riduzione della quantità di eiaculato per

salto, riduzione della concentrazione nemaspermica del liquido seminale,

minore mobilità, motilità e vitalità dei nemaspermi); lunghi intervalli di riposo

sono però inutili in quanto la spermatogenesi richiede globalmente circa 2 mesi

e la durata delle vitalità dei nemaspermi nell’epididimo non supera anch’essa i

2 mesi circa, periodo oltre il quale essi degenerano perdendo la capacità

fecondante e vengono quindi riassorbiti nell’epididimo.

La inseminazione può essere naturale oppure strumentale.

42

L’INSEMINAZIONE NATURALE

L’inseminazione, che è la deposizione dello sperma prodotto dal maschio nelle

vie genitali femminili (in genere la vagina oppure l’utero, a seconda del tipo di

inseminazione) allo scopo di ottenere la fecondazione, può avvenire

naturalmente — inseminazione naturale IN — con il coito o accoppiamento

naturale tramite il salto o monta oppure strumentalmente in cui è l’uomo

(inseminatore abilitato) che, con apposita strumentazione, depone lo sperma,

dopo averlo prelevatodal maschio, nella vagina o nella cervice della femmina in

calore — inseminazione strumentale IS detta anche, ma impropriamente,

inseminazione artificiale IA e fecondazione artificiale FA.

La legge disciplina la pratica della monta, che può essere attuata con

riproduttore della stessa o di diversa razza dalla femmina, purchè però abilitato

a tale esercizio (dotato cioè di caratteristiche somatiche e funzionali rispondenti

ad uno standard di razza prefissato da una apposita commissione di esperti),

anche se tale norma è quasi sempre ignorata o disattesa, soprattutto per gli

allevamenti bradi di razze rustiche e per quelli delle piccole specie.

La monta, a seconda del tipo di allevamento, dell’indirizzo produttivo e

soprattutto del ciclo estrale femminile, può essere: libera oppure semilibera o

controllata.

La monta libera è praticata sempre nell’allevamento bovino da carne

completamente (razze rustiche) o prevalentemente (razze specializzate)

estensivo ed in quello ovino e caprino semiestensivo da latte, in cui il

riproduttore, all’inizio della stagione riproduttiva (primavera e/o autunno),

viene imbrancato con le femmine della mandria bovina o del gregge ovino

oppure caprino. Le riproduttrici, essendo a poliestro stagionale, possono

presentare calori soltanto in tale stagione (inizio primavera per le bovine, fine

primavera per le ovine e le caprine pluripare; inizio autunno per quelle

primipare): in tutti i casi, ai fini dell’ottenimento di una buona fertilità (almeno

l’80-85%), il rapporto riproduttivo fra i sessi deve essere adeguato: 1:20÷40 nei

bovini; 1:40÷50 negli ovini; 1:50÷60 nei caprini.

43

Spesso, allo scopo di consentire una migliore e più efficace utilizzazione dei

riproduttori e soprattutto quando gli estri sono molto concentrati, questi

rimangono imbrancati soltanto durante il dì e separati durante la notte, come

nel caso dei bovini, oppure, al contrario, come nel caso degli ovini e dei caprini,

l’imbrancamento è soltanto notturno al rientro del gregge in ovile oppure in

caprile.

Nella monta libera è sempre il maschio ad individuare la femmina in calore ed a

coprirla tempestivamente in modo da assicurarne la fecondazione e quindi la

continuità riproduttiva dell’allevamento.

La monta controllata è invece praticata quasi esclusivamente nell’allevamento

intensivo bovino da latte, in cui, grazie al costante controllo della mandria

almeno in corrispondenza delle due mungiture giornaliere ed all’addensamento

degli animali in stalla, è possibile la tempestiva individuazione dei calori e

quindi del momento più opportuno per praticare l’inseminazione ed ottenere di

conseguenza la fecondazione. In questo caso il vaccaro, individuata la femmina

in calore, la conduce nel recinto riservato al toro (mai deve avvenire il contrario,

per ovvi motivi di sicurezza) oppure in un apposito travaglio (che è una

struttura di contenimento temporaneo della vacca) ove avviene la monta:

normalmente il toro compie due salti, in quanto le due eiaculazioni consecutive

hanno nel complesso una superiore concentrazione nemaspermica (1 miliardo

di nemaspermi per cc, ossia 5 miliardi per eiaculato).

L’INSEMINAZIONE STRUMENTALE

L’inseminazione strumentale IS — detta impropriamente anche inseminazione

artificiale IA e ancor più impropriamente fecondazione artificiale FA — è stata

praticata per la prima volta sulla specie canina nel 1779 Attualmente essa è

praticata ampiamente in tutto il mondo zootecnicamente progredito,

soprattutto sulle razze da latte, per i vantaggi di natura igienico-sanitaria,

genetica ed economica che la sua applicazione comporta.

44

Sotto l’aspetto sanitario, essa ha il vantaggio di impedire la trasmissione e la

diffusione delle malattie coitali, quali la tricomoniasi e le vibriosi (con lo sperma

possono essere invece trasmesse la tubercolosi, la brucellosi, la leptospirosi, la

salmonellosi, la micoplasmosi, la clamidiosi e l’afta).

Sotto l’aspetto genetico, rappresenta il più efficace sistema di valutazione dei

riproduttori, la cui validità dipende soprattutto dal numero di figlie testate, e

soprattutto di conservazione del materiale seminale, talvolta per una durata

anche superiore a quella della vita stessa del riproduttore da cui proviene.

Ovviamente la grande diffusione del seme di pochi riproduttori testati

positivamente in moltissimi allevamenti comporta, nel lungo periodo, un

considerevole aumento dell’inincrocio o consanguineità di cui occorre evitare

tempestivamente le conseguenze negative con la predisposizione di appropriati

piani di accoppiamento.

Sotto l’aspetto economico, è rilevante il risparmio conseguito con l’utilizzazione

dello sperma in IS, anziché del riproduttore in IN: da ciascun eiaculato, che in

IN costituisce un’unica dose, in IS invece, grazie alla diluizione talvolta molto

spinta (1:10÷1:30) ed alla ripartizione in mini porzioni (1:100÷1:200), ciascun

eiaculato può originare anche migliaia di dosi.

Le fasi della inseminazione strumentale sono le seguenti cinque: raccolta,

valutazione, diluizione, conservazione e utilizzazione.

La raccolta del seme. Consiste nel suo prelievo dal maschio che lo produce con

la eiaculazione e che può essere praticata con quattro modalità: per prelievo

vaginale, per massaggio vescicolare, per elettrostimolazione e con metodo

parafisiologico.

Il prelievo vaginale, che ormai ha importanza soltanto storica in quanto è stato

il primo metodo praticato per mettere a punto la tecnica inseminatoria, consiste

nella raccolta del seme dalla vagina della femmina in cui il maschio lo ha

deposto con il coito; presentando grandi difficoltà pratiche.

Il massaggio delle vescicole seminali è adottato soltanto con i riproduttori

incapaci di saltare per difficoltà di impennata e/o di erezione: l’operatore, con

45

un opportuno massaggio sulle vescicole seminali praticato manualmente per

via rettale, provoca l’eiaculazione; l’eiaculato ha però in genere una bassa

concentrazione nemaspermica ed è spesso inquinato a causa del suo

versamento nel prepuzio dovuto alla parziale protrusione del pene per mancata

o incompleta erezione.

L’elettrostimolazione è praticata anche essa con riproduttori che presentano

difficoltà di monta; l’eiaculazione è stimolata artificialmente con scariche

elettriche a basso voltaggio (3÷4 V) e ad alto amperaggio (40÷50 A) praticate con

l’inserzione di due elettrodi, uno nel retto e l’altro all’altezza della 4ª vertebra

lombare: il volume dell’eiaculato e la concentrazione nemaspermica sono

sempre inferiori al normale, anche se il liquido spermatico è pulito, grazie alla

normale protrusione.

Il metodo parafisilogico è quello più adottato in tutte le specie e più diffuso in

condizioni fisiologiche normali; il riproduttore è condotto, o meglio, senza

essere trasferito dal suo box o recinto, è messo in presenza di una femmina della

specie non necessariamente in calore oppure di un manichino simulante la

femmina, su cui, una volta addestrato, si impenna, salta ed eiacula; l’operatore,

all’atto della eiaculazione, devia la verga o pene in un’apposito contenitore

cilindrico (vagina artificiale), a doppia parete con intercapedine contenente

acqua tiepida (40÷45 °C) che simula la temperatura vaginale; l’eiaculato è

raccolto in una propaggine della vagina artificiale ed è sottoposto

immediatamente a valutazione.

Allo scopo di ottenere un eiaculato più denso, normalmente è praticata una

doppia eiaculazione.

La valutazione del seme.

Deve essere effettuata immediatamente dopo la raccolta e consiste in due tipi di

analisi: la prima macroscopica, la seconda microscopica.

L’analisi macroscopica rileva il volume dell’eiaculato ed il suo aspetto (densità,

colorazione e motilità). Il volume varia con la specie (5÷8 cc in quelle grosse e

1÷1,5 in quelle piccole), oltrechè, ma in minor misura, con lo stato nutrizionale e

46

sanitario, con l’età e il regime sessuale (frequenza dei prelievi) del riproduttore.

Il colore deve essere biancastro opaco con densità elevata che è indice di

maggiore concentrazione nemaspermica, ed esente da liquidi estranei (sangue,

pus, urina).

L’analisi microscopica rileva: la vitalità dei nemaspermi, dei quali almeno l’80%

devono essere vitali, motili e mobili, cioè dotati di moto ondoso o browniano,

conformati correttamente nelle diverse parti (testa, corpo e coda); la densità o

numero di nemaspermi per cc o ml, che deve essere intorno a 0,8¸1,0 miliardi

nelle grosse specie e 4¸5 nelle piccole.

Per una valutazione più efficace vengono praticati anche test di decolorazione

(capacità di riduzione dell’ossigeno) e di densità ottica (misurazione

dell’intensità di assorbimento luminoso) che sono entrambi correlati con la

vitalità dei nemaspermi.

La diluizione del seme. Consiste nella dispersione dello sperma in un

opportuno mestruo diluitorio che ha la funzione di conservarne, anche per

anni, la capacità fecondante, oltrechè ovviamente quella di innalzare il numero

di femmine inseminabili proficuamente con un solo eiaculato. I mestrui devono

quindi essere, otrechè ricchi di sostanze nutritive (in particolare energetiche,

minerali e vitaminiche), anche capaci di inibire lo sviluppo dei batteri

(addizione di antibiotici, in particolare di neomicina), di proteggere gli

spermatozoi nel congelamento e di mantenere costante il pH: attualmente quelli

più impiegati sono a base di latte e di tuorlo d’uovo (addizionati di glicerina,

acido citrico, glucosio e fruttosio).

Il rapporto di diluizione varia: con la concentrazione nemaspermica, con la

motilità e vitalità dei nemaspermi e con il numero minimo per dose che è

indispensabile alla riuscita della inseminazione.

A titolo di esempio: da un toro che eiaculi 5 cc di sperma, con concentrazione di

1,2 miliardi di nemaspermi per cc (6 miliardi di nemaspermi per eiaculato) ed

ogni dose debba contenere almeno 40 milioni di nemaspermi affinché

l’inseminazione abbia successo, possono essere prodotte anche 150 dosi.

47

La conservazione del seme.

Il seme può essere conservato nei seguenti modi:

· a temperatura ambientale di 16÷18 °C; in tal caso però esso deve essere

utilizzato immediatamente dopo il prelievo, ossia entro le 6 h;

· a temperatura di refrigerazione, ossia a 3÷5 °C; in tal caso deve essere

utilizzato entro 1 w;

· a temperatura di liquefazione dell’azoto (-196 °C); in tal caso può essere

conservato anche per molti anni ed utilizzato proficuamente anche dopo

diversi anni dalla morte del riproduttore che lo ha prodotto; tale

temperatura deve però essere raggiunta gradualmente e

progressivamente, grazie alla diluizione in un’apposito mestruo

contenente glicerina, onde evitare la cristallizzazione dei nemaspermi

sottoposti al freddo, e antibiotici, onde preservare lo sperma da infezioni.

La confezione può essere in fiale, in pagliette e in pellette:

· la prima, in fiale di vetro, del volume di 1 cc per dose, è ormai in disuso;

· la seconda, in pagliette (sottili tubi di plastica della L di 8÷10 cm e del Ø

di 2 mm) è quella più diffusa e contiene 0,50÷0,25 cc per dose ed 8÷10

milioni di nemaspermi; è chiusa alle estremità con un tappo di cotone

imbevuto di alcool polivinilico e deve riportare l’indicazione del

riproduttore che ha prodotto il seme e del centro IS che lo ha

confezionato;

· la terza, in pasticche, del volume di 0,1÷0,2 cc, è conservata direttamente

nell’azoto liquido senza involucro, ma contiene un disco di

identificazione del seme (riproduttore e centro IS).

Le diverse confezioni (fiale, pagliette, pasticche) vengono conservate, immerse

in azoto liquido, in appositi contenitori (bidoni) trasportabili in azienda e

ricaricabili continuamente.

La utilizzazione del seme. È realizzata per mezzo della inseminazione, che

consiste nella deposizione manuale del seme, che può essere fresco oppure

48

congelato, nell’apposito organo genitale della femmina, la quale deve essere

necessariamente in estro.

L’inseminazione è praticata con una siringa, detta comunemente pistoletta,

contenente la dose da depositare nell’organo prescelto. Questo, a seconda della

specie e quindi delle dimensioni, della penetrabilità e della individuabilità delle

vie genitali, può essere: la parte iniziale oppure profonda della vagina in

prossimità della cervice (inseminazione vaginale); il tratto cervicale dell’utero

(inseminazione cervicale); il corpo dell’utero (inseminazione uterina o

transcervicale) purchè però le pliche cervicali consentano il passaggio, senza

lacerazioni, della siringa; infine le tube ovariche (inseminazione tubarica) se

praticata per via laparoscopica.

Il tipo di inseminazione dipende anche dalla modalità con cui il seme è stato

conservato: seme fresco, se conservato alla temperatura ambiente di 15÷16 °C e

utilizzato entro le 5÷6 dal prelievo; seme refrigerato, se conservato alla

temperatura di refrigerazione di 3÷5 °C e utilizzato entro 1 settimana; seme

congelato, se conservato anche per anni alla temperatura di liquefazione dell’N

(-196 °C) e utilizzato anche dopo molti anni e a distanza.

Con quest’ultimo tipo di conservazione, che è ormai quello più diffuso in

quanto consente una conservazione temporale lunghissima e la utilizzazione a

distanza, è necessario, immediatamente prima dell’impiego, lo scongelamento

graduale della dose in acqua tiepida sino a temperatura corporea per garantire

la perfetta conservazione della vitalità dello sperma.

La tecnica della IS, qualora non correttamente programmata (predisposizione di

un opportuno piano degli accoppiamenti) oppure non bene attuata, costituisce

un’arma a doppio taglio: infatti, se da un lato essa offre il vantaggio di poter

valutare molto più accuratamente i riproduttori (grazie al maggior numero di

figlie e/o di mezze sorelle ottenibili dallo stesso riproduttore) ed al contempo di

poterne utilizzarne il seme su più vasta scala, dall’altro lato può anche essere

responsabile indiretta, soprattutto su popolazioni ristrette, di un aumento

notevole della consanguineità, aggravata dall’utilizzazione troppo frequente

49

degli stessi riproduttori negli stessi allevamenti, e dalla diffusione di caratteri

indesiderati, soprattutto recessivi, di cui questi sono portatori, non

sufficientemente valutati o accertati durante la prova di discendenza.

LE FASI DELLA RIPRODUZIONE

Le fasi della riproduzione, ovviamente tutte connesse con il sesso femminile,

sono: la inseminazione, la fecondazione, la gravidanza ed il parto.

L’INSEMINAZIONE

È la prima delle 4 fasi e può essere, come s’è detto, naturale oppure

strumentale.

Nel primo tipo è il riproduttore prescelto stesso — imbrancato durante la

stagione riproduttiva nella mandria bovina o bufalina oppure nel gregge ovino

o caprino, come nel caso degli allevamenti estensivi o semiestensivi le cui

femmine sono a poliestro stagionale; oppure tenuto in un apposito recinto nel

quale vengono introdotte per tutto l’anno le femmine a poliestro annuale

continuo che via via vanno in calore, come nell’allevamento intesivo o

semintensivo bovino o bufalino da latte — che determina il momento più

opportuno per l’inseminazione, coprendo la femmina una o più volte in

coincidenza del calore e deponendovi in vagina il proprio seme: la percentuale

di attecchimento normalmente è abbastanza elevata (> 80%).

Nel secondo tipo è invece l’inseminatore, che, accertata tempestivamente la

comparsa del calore nella femmina, la insemina deponendo, in vagina oppure

in cervice oppure in utero oppure in tuba a seconda della specie, il seme fresco

oppure congelato, dopo averlo gradualmente scongelato.

Nell’inseminazione naturale incontrollata degli allevamenti bovini estensivi e di

quelli ovini e caprini semiestensivi occorre: adottare un corretto rapporto

riproduttivo fra i sessi, affinchè la concentrazione nemaspermica di ciascun

eiaculato non scenda al di sotto del limite minimo per la specie a causa del

numero eccessivo di salti che il riproduttore è costretto a compiere per poter

50

coprire in breve periodo (2÷3 w negli ovini e nei caprini e 2÷3 m nei bovini)

tutto il gregge o la mandria ad esso assegnato; garantire al riproduttore brevi

intervalli di riposo sessuale (1 w ogni 2÷3 w di attività); preparare

adeguatamente il riproduttore con un opportuno regime alimentare almeno 2

mesi prima del suo impiego, allo scopo di consentire lo svolgimento di tutta la

spermatogenesi in condizioni ottimali; non immettere nel branco un numero

pari di riproduttori, onde ridurne la rivalità sessuale che si manifesta sempre

per la supremazia nell’accoppiamento e che spesso comporta la cessazione del

calore nella femmina prima che sia stato praticato proficuamente il salto.

Nell’inseminazione strumentale degli allevamenti intensivi da latte ed in quelli

semintensivi sincronizzati degli ovini e dei caprini da latte occorre il rispetto

delle tre seguenti norme: accertamento della bontà del seme, corretta manualità

dell’intervento inseminatorio e tempestività dell’inseminazione.

La bontà del seme è compendiata dalla concentrazione e dalla vitalità dei

nemaspermi (almeno l’80% devono essere vivi, vitali e regolari); la corretta

manualità di intervento è legata alla bravura dell’inseminatore, che deve

deporre il seme nel luogo opportuno senza provocare lacerazioni all’organo

interessato, soprattutto nel caso di inseminazione transcervicale ovina; la

tempestività di intervento è l’osservanza puntuale del momento più opportuno

per l’inseminazione, normalmente alla fine dell’estro, ossia 12÷6 ore prima del

momento ottimale di fecondazione, la quale avviene, a livello tubarico, durante

il metaestro, ossia 6 ore dopo la deiescenza del follicolo e quando gli

spermatozoi hanno acquisito la piena capacità fecondante con la risalita dalla

vagina o dalla cervice alla tuba in 6÷12 h dall’inseminazione.

Tale momento è individuale negli animali a poliestro continuo, che presentano i

calori gradualmente; è invece collettivo in animali a poliestro stagionale ma

sincronizzati appunto per poter praticare la IS su tutto il gregge

contemporaneamente.

51

LA FECONDAZIONE

È l’incontro dello spermatozoo con l’ovulo entrambi maturi ed avviene, di

norma, nel terzo superiore della tuba ovarica omologa, corrispondente cioè a

quella dell’ovaio che ha maturato il follicolo nel ciclo estrale; affinchè però ciò si

verifichi è indispensabile una certa sfasatura temporale fra l’inseminazione e

l’ovulazione: la prima cioè deve essere praticata all’incirca con 12 h di anticipo

sulla seconda, in quanto gli spermatozoi, per risalire dal luogo di deposizione a

quello di fecondazione attraverso le vie genitali (utero, corni e tube), impiegano

circa 18 ore, che è il tempo mediamente necessario affinchè, grazie alla presenza

delle sostanze uterine secrete dalle cellule secernenti del miometrio e spinti

verso l’alto dalle cellule vibratili del miometrio e della tuba, essi possano

capacitarsi (acquisire cioè la piena capacità fecondativa, ossia passare dallo

stadio di nemaspermi a quello di spermatozoi completamente maturi) e

raggiungere l’ovulo maturo nel momento opportuno; nel contempo l’ovulo, per

discendere dal follicolo scoppiato sino al luogo di fecondazione e per

capacitarsi, impiega all’incirca 6 h. L’incontro deve quindi avvenire

preferibilmente quando i due gameti sono al massimo della loro capacità

fecondante, che coincide con la 18ª h per lo spermatozoo e con la 6ª per l’ovulo.

Ovviamente esistono differenze fra le diverse specie, ma in genere il momento

ottimale di inseminazione coincide con la seconda metà dell’estro, l’ovulazione

con la prima metà del metaestro e la fecondazione avviene durante quest’ultima

fase. Di tutti i milioni di spermatozoi presenti in una dose (oppure in un

eiaculato) soltanto poche migliaia raggiungono la tuba e di questi soltanto uno,

o al massimo due in caso di biovulazione, feconda l’ovulo femminile dando

origine allo zigote diploide che successivamente evolverà prima in embrione e

poi in feto.

L’ovulo, che in tutte le specie ha dimensione di molto superiore (almeno 4

volte) a quella dello spermatozoo ed è circondato da un ammasso di cellule

somatiche (cumulo ooforo), una volta disceso nel terzo superiore della salpinge,

viene raggiunto da un elevato numero di spermatozoi che si dispongono

52

ortogonalmente alla sua superficie. È indispensabile che tale numero sia molto

elevato per creare la concentrazione enzimatica acrosomiale minima necessaria

alla fecondazione, anche se è uno soltanto lo spermatozoo che, penetrato nel

cumulo ooforo e superate le due membrane ovulari (vitellina e pellucida),

raggiunge il citoplasma in cui avviene la fusione dei due pronuclei aploidi —

maschile e femminile — in un unico zigote diploide dando così inizio alla

gravidanza e determinando nel contempo il sesso dell’embrione. Questo sarà

maschile se l’incontro casuale dell’unico eterocromosoma femminile X sarà

avvenuto con l’eterocromosoma maschile Y, sarà invece femminile se l’incontro

sarà avvenuto con l’eterocromosoma maschile X

LA GRAVIDANZA

La gravidanza o gestazione è la fase che inizia con la fecondazione e termina

fisiologicamente con il parto: talvolta essa è interrotta dall’aborto (precoce

oppure a termine) che, quando avviene inizialmente (primi 15÷30 d), passa

inosservato, a causa del riassorbimento embrionale dello zigote che la

maschera.

Lo zigote, che appena formatosi inizia la sua moltiplicazione cellulare mitotica,

permane per circa 1ª w nella tuba allo stadio di morula (16÷32 cellule), indi

nella 2ª w, già allo stadio di blastula, discende nell’utero in cui si impianta

stabilmente intorno alla 4ª w e differenzia i suoi tessuti embrionali (ecto, meso

ed endoderma) che daranno origine sia ai tessuti che agli invogli o annessi

fetali. Esso trae nutrimento nel primo periodo dal citoplasma ovulare, nel

secondo periodo dai fluidi uterini (latte uterino).

Con la formazione e lo sviluppo delle tre membrane extraembrionali

(dall’esterno verso l’interno: corion, allantoide e amnios), che iniziano la loro

differenziazione già dopo la 2ª w e la terminano entro la 4ª w, l’embrione prima

ed il feto successivamente è immerso completamente in un liquido (liquido

amniotico, che al parto costituirà le seconde acque) contenuto nella membrana

più interna o amnios, la quale è circondata a sua volta da un liquido più esterno

53

(liquido corion-allantoideo, che al parto costuituirà le prime acque) contenuto

nelle 2 membrane più esterne (allantoide e corion), la cui reciproca saldatura

avviene molto precocemente.

Queste membrane, venendo a contatto con l’endometrio uterino, sviluppano, in

corrispondenza delle caruncole uterine, i cotiledoni fetali che saldandosi con le

caruncole stesse formano la placenta la quale consente l’ancoramento, lo

sviluppo e la nutrizione dell’embrione con l’utero. Entro il primo mese,

dall’embrione si diparte un sistema vascolare arterio-venoso (cordone

ombelicale) che, attravversando l’amnios ed il corion-allantoide, si capillarizza

nei cotiledoni, i quali, per mezzo di villi (villi coriali) affondano nelle caruncole

uterine, da cui assorbono le sostanze nutritive materne necessarie allo sviluppo

del feto e scaricano i prodotti catabolici fetali; il complesso dei placentomi

(insieme di unità cotiledonari fetali e di caruncola uterina) costituisce la

placenta che è l’organo di scambio fra madre e feto per tutta la gravidanza.

Nei ruminanti la placentazione è di tipo cotiledonare (i villi sono presenti

soltanto nei cotiledoni) e non diffusa in tutto il corion come nei monogastrici:

non potendosi realizzare, a causa di diversi strati di tessuto frapposti, alcuno

scambio di molecole molto grosse fra madre e feto, in queste specie non avviene

il travaso delle macromolecole anticorpali g-globuliniche, le quali avrebbero

conferito al feto l’immunità passiva nel primo periodo di vita; pertanto,

immediatamente dopo la nascita, è indispensabile la somministrazione del

colostro, in attesa che il neonato produca autonomamente i propri anticorpi

(immunità attiva).

La durata della gravidanza (intervallo fra il concepimento, in pratica,

l’inseminazione feconda, e il parto) dipende dalla specie, dalla razza, dal sesso,

dalla successione dei parti, dalla gemellarità, dalla stagione del parto; essa

influenza il peso alla nascita del feto ed è mediamente di 285±15 d nelle specie

grosse e di 150±7 in quelle piccole.

La diagnosi di gravidanza

54

Nelle femmine comunque (naturalmente oppure strumentalmente) inseminate

è indispensabile, ai fini dell’economicità dell’allevamento, accertare il più

precocemente possibile l’esito della inseminazione.

La diagnosi può essere eseguita per tre vie: ormonale, ginecologica ed

ecografica.

La diagnosi ormonale è basata sulla determinazione del contenuto ematico

oppure latteo del progesterone, il cui livello è sempre al di sotto di una soglia

limite (< 9 ng nei bovini, < 4 ng negli ovini) nelle femmine vuote e sempre al di

sopra (> ng 11 e ng 6, rispettivamente) nelle femmine gravide.

Il livello è decisamente inferiore al valore soglia: la femmina è quasi certamente

vuota o per mancata fecondazione oppure per riassorbimento embrionale

precoce (diagnosi negativa);

Il livello è decisamente superiore al valore soglia: la femmina è quasi

certamente gravida (diagnosi positiva) e di conseguenza non deve presentare il

calore successivo, altrimenti occorre procedere a visita ginecologica per

accertare la causa di tale comportamento anomalo.

Il livello è compreso fra i due valori soglia: la femmina può essere vuota oppure

gravida (diagnosi incerta o dubbia).

La diagnosi ginecologica è basata sullo stato di ingrossamento del corno uterino

omologo all’ovaio che ha ovulato e che quindi presenta il corpo luteo gravidico;

essa è eseguita dal veterinario ginecologo con una delicata palpazione manuale

per via rettale alla 5ª÷6ª w nelle nullipare oppure alla 7ª÷8ª w nelle pluripare;

anche se questo tipo di diagnosi è quello più preciso per rilevare con certezza lo

stato di gravidanza dell’animale, esso è di fatto praticato soltanto nelle specie

grosse (bovina e bufalina), a causa della impossibilità pratica di riuscire ad

inserire, senza provocare traumi, la mano nel retto delle specie piccole (ovina e

caprina).

La diagnosi ecografica è basata sull’impiego di apparecchiature ad ultrasuoni

(ecografi), capaci di rilevare la presenza dell’embrione già nel 1° mese di

gravidanza con lo stato di ingrossamento dell’arteria uterina. Essa, per difficoltà

55

pratiche, è limitata alle piccole specie. In tutti i casi la visita ginecologica si

rende sempre necessaria per accertare le cause dell’eventuale mancata

fecondazione (inseminazione infeconda) allo scopo di porre rimedio alla

infecondità femminile (presenza di corpo luteo non gravidico persistente, cisti

ovarica, squilibrato rapporto alimentare Ca/P, carenza o eccesso alimentare

energetico e/o proteico, metriti uterine).

La diagnosi di gravidanza può infine, ma molto tardivamente per cui è quasi

inutilizzata, essere praticata: con il ballottamento (nel 4° mese nelle specie

grosse e nel 3° in quelle piccole), che consiste nell’osservare il battito del fianco

destro, dopo aver fatto correre la femmina presunta gravida; oppure con il

contraccolpo fetale, che consiste nel premere con il pugno il fianco destro della

femmina ritenuta gravida per sentire la presenza del feto.

IL PARTO

Il parto, ultima fase del processo riproduttivo, è la conclusione fisiologica della

gravidanza e consiste nella espulsione del feto e degli invogli fetali dal corpo

materno, attraverso le vie genitali esterne (vagina e vulva).

La femmina gravida, pervenuta alla fine della gravidanza, si prepara

gradualmente al parto, modificando innanzitutto il suo equilibrio ormonale: la

placenta riduce la secrezione di progesterone e inizia quella degli estrogeni, che

a loro volta stimolano il miometrio uterino a secernere prostaglandine; tutti

questi ormoni, coadiuvati anche dalla secrezione adenocorticotropica del feto,

stimolano la secrezione ipotalamica neuroipofisaria di ossitocina che a sua volta

favorisce la contrazione del miometrio e conseguentemente l’espulsione del

feto, il quale, giunto al suo massimo sviluppo, preme fisicamente sugli organi

genitali.

Il parto consta delle tre fasi consecutive seguenti: la fase preparatoria o

prodromica; la fase espulsiva del feto; la fase secondativa o espulsiva della

placenta.

56

La fase preparatoria, che può incominciare anche qualche settimana prima del

parto vero e proprio ma in genere non dura più di qualche giorno, consiste

essenzialmente: nel rilassamento dei legami pelvici sacro-ischiatici (corde),

provocato dall’azione degli estrogeni che determinano anche un allargamento

del bacino per favorire il passaggio del feto attraverso il canale del parto; nella

tumefazione della vulva, da cui scola un liquido filamentoso che è dovuto allo

scioglimento del tappo mucoso cervicale formatosi all’inizio della gravidanza

per proteggere l’utero dall’ingresso di agenti patogeni; nel rigonfiamento

edematoso della mammella, provocato dagli estrogeni; nell’irrequietezza

comportamentale della gestante (inappetenza, movimenti continui, mugugni e

muggiti oppure belati); nella contrazione del miometrio e nella dilatazione della

cervice, provocate dall’azione dell’ossitocina, coadiuvata dalla relaxina ovarica

e dagli estrogeni uterini e placentari.

La fase espulsiva del feto — che inizia con le doglie o premiti, prima distanziate

e leggere e via via più frequenti ed intense, dovute alle contrazioni del

miometrio sotto l’effetto ossitocinico — consiste: nella lacerazione dell’invoglio

fetale esterno (il corion – allantoide), che libera il liquido corionallantoideo

(prime acque), il quale fuoriesce dalla vulva; nel passaggio del feto dall’utero al

canale del parto; nella espulsione del corion-allantoide; nella lacerazione

dell’invoglio fetale interno amnios e nella fuoriuscita del liquido amniotico

(seconde acque); nell’espulsione dell’amnios; infine nella espulsione del feto,

che, sotto l’effetto delle contrazioni muscolari diaframmatiche e addominali,

raggiunge pienamente il canale del parto, lacerando il cordone ombelicale che

lo tiene ancora legato alla placenta ed all’utero e quindi interrompendo

qualsiasi legame nutrizionale e respiratorio con la madre. Questa ultima fase

deve essere la più breve possibile per evitare l’asfissia del nascituro, il quale

deve passare rapidamente (entro 1÷2 m’) dalla respirazione fetale per via

ombelicale a quella polmonare per via buccale e nasale: se il parto è normale

(eutocico), ciò avviene naturalmente; se invece il parto è difficile (distocico) per

qualsiasi causa (eccessivo sviluppo del feto ed in particolare dei suoi diametri

57

trasversali — fronte, petto e groppa —, ristrettezza del canale del parto,

anormale presentazione del feto), occorre intervenire immediatamente per

facilitare la espulsione del feto (trazione verso il basso degli arti, aggiustamento

della posizione del feto, taglio cesario nei casi estremi) e per evitare danni sia a

questo che alla madre. Tale fase non dovrebbe protrarsi per oltre 2 ore nelle

piccole specie e 4 nelle grandi.

La fase espulsiva della placenta o secondamento, che deve avvenire entro le

10÷12h dall’espulsione del feto, conclude il parto: talvolta però la placenta,

soprattutto nei parti distocici, resta attaccata, tramite i cotiledoni, alla mucosa

uterina (ritenzione placentare), provocandone danni gravissimi con la sua

putrefazione (metriti) che si ripercuotono negativamente su tutta la funzionalità

riproduttiva (ipofecondità, sterilità); in questi casi si deve ricorrere al distacco

manuale della placenta dai cotiledoni, a trattamenti farmacologici antibiotici e

all’immissione di capsule secondative nell’utero ancora beante immediatamente

dopo l’espulsione del feto. La facilità di parto, che è legata alla specie (le grosse

presentano più difficoltà delle piccole), alla razza (quelle rustiche e da latte

partoriscono più facilmente di quelle da carne specializzate), al sesso, alla

gemellarità, allo sviluppo somatico del nascituro, all’alimentazione della

gestante a fine gravidanza, è soprattutto funzione della presentazione del feto al

parto.

La presentazione del feto, che è la posizione che questo assume nell’utero al

momento della sua espulsione, può essere normale oppure anormale.

La prima — in cui il feto, che sino al giorno precedente il parto era in posizione

diretta (la testa rivolta verso la testa della madre), con un movimento di

inversione di 180°C si orienta verso il canale del parto posizionando la testa fra

gli arti anteriori distesi (presentazione anteriore) — è la posizione più frequente

e più facile; a volte però il feto non compie l’inversione ma si presenta con il

posteriore verso il canale del parto (presentazione posteriore) per cui fuoriesce

con gli arti posteriori.

58

La seconda può presentare diverse forme e gradi di anormalità, generalmente

caratterizzate da maggiore difficoltà o addirittura da impossibilità di parto

naturale, per cui è indispensabile il ricorso al taglio cesario o addirittura alle

fetotomia.

Fra le presentazioni anteriori, in cui il rivoltamento del feto non è avvenuto

perfettamente, ci sono quelle: della testa rivolta verso il basso oppure piegata

lateralmente o posteriormente; degli arti anteriori ripiegati al ginocchio oppure

alla spalla; degli arti posteriori rivolti in avanti. Fra le presentazioni posteriori,

in cui il rivoltamento del feto non è avvenuto affatto, c’è quella degli arti

posteriori piegati al garretto oppure alla coscia. Infine la presentazione più

difficile, che è quella dorsale anziché ventrale, che a sua volta può essere

anteriore oppure posteriore oppure intermedia.

Il parto può essere distocico anche quando è ritardato oppure il feto è troppo

grosso rispetto al canale del parto, come avviene spesso soprattutto nelle

primipare e nelle femmine inseminate da riproduttore che genera figli troppo

pesanti o sproporzionati, quali ad esempio i bovini da carne a coscia doppia.

La ripresa del ciclo riproduttivo.

Nel puerperio, che è la fase immediatamente successiva (18÷20 d) al parto, la

femmina che ha partorito non presenta di norma alcuna attività sessuale

(anestro puerperale): le ovaie non maturano follicoli, né di conseguenza

producono ovuli per almeno un ciclo sessuale nelle razze a poliestro continuo,

ovviamente anche per diversi mesi in quelle a poliestro stagionale; l’utero,

grazie all’azione costante della ossitocina ipofisaria, subisce un’evoluzione

profonda che prelude e prepara alla riacquisizione della sua funzione

fisiologica, ossia ad una nuova gravidanza; questo processo naturale però può

essere ritardato, a volte eccessivamente, nel caso di parti non regolari (distocia,

ritenzione placentare, prolasso uterino e/o vaginale, infezioni puerperali).

Il primo calore dopo il parto normalmente ricompare: fra 40÷45 d, ossia ad una

distanza pari alla durata di 2 cicli estrali, nelle vacche da latte che sono a

poliestro annuale continuo; fra 2,5÷3,5 m in quelle da carne che sono a poliestro

59

stagionale; intorno ai 2 m nelle specie ovina e caprina che sono a poliestro

stagionale prolungato.

L’intervallo parto – primo calore è però in genere più lungo, talvolta

eccessivamente, nel caso soprattutto delle alte produttrici, per il maggior

dispendio energetico della lattazione, e nelle femmine allattanti, per la presenza

del redo soprattutto quando questo segue la madre per tutto il giorno.

La prima inseminazione è effettuata già al primo calore (40÷45 d) nelle vacche

da latte (un tempo era consigliata al secondo calore manifesto, ossia dopo 60÷65

d), entro 3 mesi in quelle da carne e soltanto nella successiva stagione

riproduttiva nelle due specie piccole.

La ritenzione placentare, il prolasso uterino e/o vaginale e le infezioni

puerperali debbono essere curate tempestivamente per evitare disturbi

temporanei, o peggio permanenti, alla funzione riproduttiva.

LA MISURAZIONE DELL’EFFICIENZA RIPRODUTTIVA

L’efficienza riproduttiva, che ovviamente è il presupposto fondamentale di una

buona riproducibilità, è misurata con diversi parametri, la cui importanza e

validità varia però con la specie, con l’indirizzo produttivo e con il tipo di

allevamento. I principali sono: la fertilità, la prolificità, la fecondità; la

sopravvivenza, la mortalità e la abortività; l’intervallo interparto ed il periodo

di servizio; la percentuale di femmine che presentano il calore entro un

determinato periodo dal parto, nonché la percentuale di attecchimento o di non

ritorno in calore delle femmine inseminate; l’età al primo concepimento oppure

al primo parto; l’età all’ultimo concepimento oppure all’ultimo parto; la durata

della carriera riproduttiva ed il numero di nati per carriera; la quota annuale di

rimonta e/o di eliminazione.

La fertilità è la percentuale delle femmine che partorisce — in una determinata

stagione (fertilità stagionale) oppure durante tutto l’anno (fertilità annuale) —

rispetto a quelle in età riproduttiva presenti nell’allevamento; essa è quindi

calcolata al netto delle inseminazioni rimaste infeconde, ossia non seguite da

60

gravidanza e da parto, e degli aventuali aborti embrionali e/o fetali. La fertilità

assume grande importanza nelle specie e/o razze caratterizzate da poliestro

stagionale (bovini estensivi da carne specializzati oppure rustici e ovini e

caprini semiestensivi da latte) nelle quali l’accoppiamento, se non avviene nella

stagione propizia (in genere la primavera nelle prime e l’autunno nelle

seconde), subisce un ritardo di almeno sei mesi, talvolta di un anno, ossia sino

alla nuova stagione riproduttiva, con conseguente perdita dell’unico prodotto

ottenibile che è il redo.

La fertilità dipende, oltrechè dalla razza allevata, soprattutto dalle tecniche di

allevamento ed in particolare di alimentazione nella stagione dei calori, dal

rapporto riproduttivo fra i sessi, dalla preparazione del maschio inseminatore

nei 2 mesi precedenti l’accoppiamento e infine dal governo dei riproduttori

durante la stagione di monta. È calcolata come percentuale ed è considerata

ottima quando supera il 90%, buona fra l’80÷90%, scarsa al di sotto dell’80%.

Nei bovini, a causa della elevata durata della gestazione (285±15 d) e della

presenza di una sola stagione riproduttiva all’anno (in genere primaverile, più

raramente autunnale), la fertilità stagionale si identifica con quella annuale.

Negli ovini e nei caprini, grazie alla brevità della gestazione (150±7 d) ed alla

presenza di 2 stagioni riproduttive all’anno (autunnale e primaverile), invece

deve essere tenuta distinta la fertilità stagionale (in genere autunnale) da quella

annuale (autunnale + primaverile); le femmine, per qualsiasi motivo rimaste

vuote in primavera, ripresentano i calori in autunno e quindi partoriscono,

anziché in autunno quale è la norma, in primavera; pertanto, anche se la fertilità

autunnale non supera l’80÷85%, quella primaverile (pari al 90% delle femmine

rimaste vuote nell’autunno) compensa quasi del tutto le fallanze autunnali,

raggiungendo nel complesso il 95÷98%; ovviamente però è il valore autunnale

quello che ha maggiore rilevanza economica, grazie alla maggiore durata della

lattazione delle femmine che partoriscono in autunno.

Nelle razze bovine allevate in condizioni ambientali (climatiche, pedologiche e

alimentari) particolarmente difficili spesso la fertilità non supera il 65% e

61

talvolta scende al 50% (in quest’ultimo caso le vacche partoriscono infatti ad

anni alterni).

La prolificità, che è il numero di nati per parto, assume rilevanza soltanto nelle

specie tendenzialmente multipare (bipare come la ovina oppure tripare come la

caprina) ma è un evento eccezionale, e neppure auspicato, nelle specie

normalmente unipare (bovina e bufalina) in cui raramente supera il 3÷4%; essa

dipende soprattutto dall’alimentazione praticata in prossimità (da almeno 2

mesi prima) della stagione dei calori, ossia all’inizio della ovogenesi, in cui,

anziché una ovulazione singola per ciclo, avviene una ovulazione duplice

(biparità) oppure triplice (triparità), evento abbastanza frequente,

rispettivamente, nelle specie ovina e caprina.

La fecondità, che è il numero di nati per femmina in età riproduttiva presente

nell’allevamento ed è data dal prodotto della fertilità per la prolificità.

La sopravvivenza è la percentuale di animali che, rispetto a quelli allevati in un

determinato anno, sopravvive ad una determinata età.

La mortalità, che è il complemento della vitalità, è invece la percentuale degli

animali morti rispetto a quelli allevati. La morbilità è la percentuale di animali

che contraggono malattie, le quali, potendo evolvere positivamente con la

completa guarigione, non comportano la loro eliminazione.

L’abortività è la percentuale di aborti accertati sui nati.

L’interparto è l’intervallo temporale che intercorre fra un parto e quello

immediatamente successivo e, sotto l’aspetto riproduttivo, è costituito da due

componenti: il periodo di servizio e la durata di gravidanza.

Il primo è il tempo che intercorre fra il parto e l’inizio della gravidanza

successiva, che in pratica è calcolata dall’inseminazione feconda; la seconda è

misurata dall’inseminazione feconda al relativo parto. Poiché la durata della

gravidanza è una caratteristica intrinseca della specie ed, in misura minore,

della razza e presenta una scarsa variabilità e comunque non modificabile (se

non con l’anticipazione del parto di qualche giorno) dall’allevatore, la

variabilità, talvolta eccessivamente elevata, che l’interparto può presentare è

62

dovuta quasi esclusivamente al periodo di servizio; è infatti soltanto su questa

componente che l’allevatore può agire riducendola o tentando di ridurla al

minimo fisiologico. La femmina, dopo il parto, presenta un anestro (anestro

puerperale o da parto o da lattazione) che dura in genere pressappoco quanto la

lunghezza di un ciclo estrale normal e dopo il quale essa riprende di norma la

attività riproduttiva presentando il calore nel ciclo successivo (42±6 d nelle

specie grosse, 36±6 nelle piccole).

Nei bovini da latte si deve praticare la monta oppure l’inseminazione

strumentale alla comparsa di questo primo calore, onde poter contenere

l’interparto entro i 12 mesi, tenuto conto che non sempre la prima

inseminazione risultam feconda e che in alcuni soggetti sono necessarie anche 2

o più inseminazioni per ottenere la gravidanza. Nei bovini da carne

(specializzati oppure rustici), in cui l’inseminazione è di norma naturale, è il

toro, a suo tempo imbrancato nella mandria, che individua i calori delle

femmine già partorite e provvede alla loro tempestiva inseminazione,

garantendo in tal modo l’inizio della nuova gravidanza entro la stagione

riproduttiva.

Nelle specie ovina e caprina invece si evita accuratamente la monta o

l’inseminazione al primo calore, che normalmente si verifica in autunno dopo la

separazione del redo, ossia dopo 40÷60 d dal parto, e si rimanda alla successiva

stagione riproduttiva che cade nella primavera seguente, allo scopo di

concentrare in autunno la stagione dei parti per tutte le pluripare; qualora

invece si tenda ad ottenere tre parti ogni 2 anni (intensificazione dei cicli

riproduttivi, con un parto ogni 8 mesi), la monta oppure l’inseminazione

strumentale è praticata intorno ai 60÷90 d dal parto.

Il valore dell’interparto costituisce un’ottima stima dell’efficienza riproduttiva

dell’allevamento, ma soltanto a condizione che: la specie considerata sia a

poliestro annuale continuo (in pratica soltanto i bovini da latte e i bovini da

carne specializzati allevati in condizioni intensive); le femmine

dell’allevamento, pur nella loro variabilità individuale, presentino la

63

ricomparsa del ciclo estrale e vengano fecondate entro una determinata

distanza dal parto.

L’età al 1° parto (oppure al 1° concepimento) è l’età a cui una femmina

partorisce (oppure inizia la gravidanza) per la prima volta: in genere si dà

maggiore importanza al primo parametro piuttosto che al secondo, in quanto

non sempre la gravidanza si conclude con il suo esito fisiologico che è il parto.

Sebbene l’età puberale, che è funzione della specie, della razza e della tecnica di

allevamento, in particolare alimentare, inizi abbastanza precocemente, la prima

inseminazione (naturale oppure strumentale) è praticata di norma soltanto

dopo che l’animale ha raggiunto il 60÷70% del suo peso corporeo adulto

(talvolta si valuta l’altezza o statura raggiunta dall’animale, in quanto di più

immediata rilevazione): 380÷420 kg nelle manze da latte; 450÷480 in quelle

specializzate da carne, 240÷300 in quelle rustiche; 300÷350 nelle manze bufaline;

27÷30 nelle agnelle e nelle caprette.

In pratica quindi, sia per la 1ª inseminazione che per il 1° parto, conta, più che

l’età, il peso corporeo che la femmina deve aver raggiunto per poter essere

inseminata per la prima volta: un ritardo consistente di questa età comporta, a

parità di durata di carriera e di longevità dell’animale, una minor durata della

carriera riproduttiva e quindi produttiva; un anticipo eccessivo per contro può

provocare un arresto dello sviluppo dell’animale, talvolta irreversibile per cui

questo rimane sempre sotto taglia, una maggiore difficoltà di parto ed una

minore produzione per carriera ed a volte una ridotta fertilità successiva ed una

minore longevità.

L’età all’ultimo parto (oppure all’ultimo concepimento), analogamente al

parametro precedente, è funzione della specie, della razza, della tecnica di

allevamento e soprattutto dell’indirizzo produttivo; essa è l’età a cui l’animale

partorisce (o inizia la gravidanza) per l’ultima volta, ossia prima della

macellazione o comunque della eliminazione dall’allevamento.

Essa oscilla mediamente fra anni: 6÷8 nei bovini da latte, 7÷9 in quelli

specializzati da carne, 10÷12 in quelli rustici e nella specie bufalina; 5÷7 negli

64

ovini e 6÷8 nei caprini. Spesso l’allevatore anticipa oppure posticipa la

eliminazione degli animali dall’allevamento per considerazioni economiche più

che zootecniche.

La durata della carriera riproduttiva è l’intervallo temporale fra l’inizio del

primo e la fine dell’ultimo concepimento (primo salto fecondo-ultimo parto) ed

è legata, oltrechè alla precocità ed alla longevità della specie e/o della razza,

alla intensività di sfruttamento dell’allevamento e quindi al suo indirizzo

produttivo; tale intervallo è ovviamente tanto maggiore quanto più

anticipatamente avviene il primo salto e più posticipatamente l’ultimo parto:

però il primo trova un limite fisiologico nello sviluppo dell’animale ed il

secondo nella sua longevità produttiva. Essa quindi varia con la specie, la razza

e l’attitudine produttiva.

Il numero di nati per carriera riproduttiva è il rapporto fra la durata della

carriera riproduttiva e l’intervallo interparto ed è quindi direttamente

proporzionale alla prima e inversamente al secondo. I suoi valori sono

mediamente fra: 3÷4 nei bovini da latte, 4÷5 nei bovini specializzati da carne,

6÷7 nei bovini rustici e nei bufalini, 4÷5 negli ovini e 5÷6 nei caprini. A questo

parametro è legata strettamente la quota di rimonta, che infatti ne costituisce

l’inverso.

La quota annuale di rimonta, è uno dei principali parametri di valutazione

dell’efficienza riproduttiva dell’allevamento; essa è la quantità di animali che

tutti gli anni l’allevatore deve necessariamente destinare all’allevamento per

sostituire quelli che via via vengono eliminati per una qualsiasi causa

(mortalità, invecchiamento, scarsa produttività, ipofecondità, scelta

imprenditoriale dell’allevatore). Tale quota dipende dalla longevità e precocità

delle specie e della razza, dalla scelta imprenditoriale dell’allevatore. La quota

di rimonta non può essere inferiore ad un certo limite (quota obbligatoria) per

non pregiudicare la sopravvivenza dell’allevamento, può essere ampiamente

superata (quota facoltativa) per diversa scelta imprenditoriale dell’allevatore.

65

La quota annuale di eliminazione è la percentuale di animali che mediamente

ogni anno sono eliminati dall’allevamento perché giunti a fine carriera

produttiva o comunque ritenuti non più idonei a proseguirla: essa è sempre

mediamente inferiore a quella di rimonta in quanto al netto della mortalità

degli animali, e costituisce anch’essa un parametro molto efficace della

efficienza riproduttiva e produttiva dell’allevamento.

L’ESALTAZIONE DELL’EFFICIENZA RIPRODUTTIVA

Se l’efficienza riproduttiva è, per qualsiasi ragione, scarsa o comunque

economicamente insoddisfacente, occorre provvedere all’adozione di tecniche

che la innalzino o che almeno la regolarizzino. Queste sono rappresentate

principalmente da: la destagionalizzazione e la sincronizzazione degli estri; la

superovulazione, l’induzione di parti plurimi e il trasferimento embrionario;

l’induzione anticipata del parto; la predeterminazione del sesso; la

fecondazione degli ovuli e la coltivazione degli embrioni in vitro; la

congelazione e la duplicazione degli embrioni; la clonazione.

La destagionalizzazione degli estri o calori. È la tecnica di induzione dei calori

in una stagione dell’anno diversa da quella riproduttiva naturale (normalmente

la primavera nei bovini rustici e l’autunno negli ovini e nei caprini), allo scopo

di ottenere i parti in periodi ritenuti più opportuni e/o più convenienti

dall’allevatore. Essa interessa ovviamente soltanto le specie a poliestro

marcatamente stagionale e non quelle a poliestro annuale continuo. Il risultato

può essere conseguito per tre vie: alimentare, ormonale e tecnica.

La destagionalizzazione per via alimentare può essere ottenuta con il

miglioramento, tanto quantitativo quanto qualitativo, dell’alimentazione

durante tutto l’anno ed in particolare nei periodi di anestro naturale, che

coincide con l’autunno nella specie bovina rustica e con la primavera nelle

specie ovina e caprina. Grazie a ciò infatti, soprattutto come conseguenza del

miglioramento dei pascoli e della diffusione dei prati autunno-invernali: le due

specie piccole, che, essendo a fotoperiodo decrescente, originariamente

66

presentavano la stagione riproduttiva in autunno e conseguentemente quella

puerperale ad inizio primavera, sono diventante entrambe a stagione

riproduttiva primaverile e puerperale autunnale.

Attualmente, per indurre i calori fuori stagione o anche per anticiparne di

qualche settimana la comparsa, è praticata la tecnica della sferzata alimentare

(flushing), che di fatto consiste nel sottoporre gli animali, di norma in lattazione

avanzata particolarmente nelle razze ovine da latte, ad un alternanza di

restrizione e di forzatura alimentare per provocare l’estro: la tecnica risponde

abbastanza bene nelle razze da carne, che, essendo già in fase di asciutta, non

subiscono alcun calo produttivo per la restrizione, ma non è applicabile, se non

soltanto parzialmente (ossia limitatamente alla sola fase di forzatura) nelle

razze da latte le quali, essendo ancora in fase di lattazione anche se abbastanza

avanzata per lo meno nelle pluripare, potrebbero subire, proprio a causa della

restrizione alimentare, un calo produttivo irreversibile.

La destagionalizzazione per via ormonale consiste nel trattamento degli animali

con prodotti sintetici di tipo progestinico o progestageno (l’impiego del

progesterone naturale ha costi troppo elevati) applicati alle femmine o per via

vaginale mediante spugnette di poliuretano oppure per via auricolare mediante

pasticche, entrambe contenenti opportune dosi di progestageno , la cui azione

residua è quella di provocare l’estro negli animali precedentemente trattati.

L’impiego delle prostaglandine non è invece assolutamente efficace su animali

anestrali, cioè fuori ciclo.

La destagionalizzazione per via tecnica consiste nello sfruttamento del cosi

detto “effetto maschio” (ariete oppure becco) sulle femmine. Perché però la

tecnica sia efficace, occorre immettere im riproduttori nel gregge femminile

dopo averli tenuti fisicamente separati e lontani per un certo periodo (almeno 1

mese), affinchè le femmine siano stimolate olfattivamente dalla loro presenza

nel gregge alla predisposizione al calore entro qualche settimana.

La sincronizzazione degli estri o calori. È la tecnica con la quale i calori o estri

vengono indotti, attraverso opportuni trattamenti ormonali, su tutte le femmine

67

del gregge o della mandria contemporaneamente o per lo meno entro la stessa

giornata: affinchè essa sia efficace occorre però che il gregge oppure la mandria

sia già in ciclo, abbia cioè superata la fase di anestro.

La superovulazione. È praticata con un trattamento ormonale a base di ormoni

follicolostimolanti FSH che hanno appunto la funzione di indurre, anziché

un’ovulazione singola quale normalmente si verifica nelle specie unipare,

un’ovulazione multipla per la contemporanea attivazione di entrambe le ovaie

o per la pluriovulazione di un follicolo di una singola ovaia. La finalità della

tecnica può essere duplice: indurre una gravidanza e quindi un parto plurimo

(preferibilmente bigemino o al massimo trigemino) nell’animale sottoposto a

trattamento ormonale, come nel caso delle piccole specie; oppure indurre una

multiovulazione (10÷12 ovuli che maturano contemporaneamente) utilizzabili

successivamente, dopo la loro fecondazione, per il trapianto degli embrioni su

altre femmine accettrici sincronizzate, come nella specie bovina.

Il trapianto degli embrioni o trasferimento embrionario.

È praticato, al momento, soltanto nella specie bovina per il suo elevato costo

(300 € per embrione trapiantato) e consiste nel prelievo di un rilevante numero

di embrioni (8÷12) da una femmina (donatrice), che sia stata precedentemente

sottoposta a trattamento superovulatorio e ad inseminazione strumentale, e nel

loro trasferimento nell’apparato genitale di altrettante femmine riceventi

(accettrici), precedentemente sottoposte a sincronizzazione estrale con la

femmina donatrice. Questa tecnica consente di ottenere dalla stessa vacca anche

10÷15 vitelli all’anno e quindi la possibilità di operare una intensa selezione

anche per via femminile, essendo praticata sempre su femmine donatrici di

livello produttivo eccezionale (> 100 q di latte per lattazione), ovviamente

fecondate con il seme di un unico toro anch’esso di altissimo valore genetico

La predeterminazione del sesso.

È la tecnica che consente di stabilire, anche con buona precisione, il sesso

(sessaggio) che deriverà dall’impiego di un determinato spermatozoo

68

(sessaggio spermatico) oppure che si è già realizzato in un determinato

embrione (sessaggio embrionale).

Il primo è ottenibile con la separazione fisica degli spermatozoi di un eiaculato

nelle due categorie che li compongono (portatori dell’eterocromosoma Y, da cui

deriveranno soltanto maschi; portatori dell’eterocromosoma X, da cui

deriveranno soltanto femmine), grazie al loro differente contenuto in DNA (3%

in più nei primi rispetto ai secondi), rilevabile con tecnica citofluorimetrica che

ha una precisione del 80÷95%.

Il secondo è anch’esso basato sul differente contenuto in DNA dei due tipi di

embrioni ed è rilevabile attraverso biopsia che ha una precisione ancora

superiore (97%).

Il sessaggio, nonostante i grandi vantaggi pratici che comporta — nascita di soli

maschi con gli animali destinati all’ingrassamento per la produzione carnea e di

sole femmine con quelli destinati alla mungitura per la produzione lattea, e

conseguente possibilità di aumentare, in entrambi i casi, il differenziale selettivo

grazie alla riduzione della quota destinata a produrre la rimonta — non ha

ancora trovato larga applicazione aziendale sia per l’alto costo, sia per la minor

vitalità dei nemaspermi e/o degli embrioni sottoposti al trattamento di

sessaggio.

NUTRIZIONE E ALIMENTAZIONE, GESTIONE DELLE RISORSE

FORAGGERE

Concetti fondamentali riguardanti la nutrizione degli animali di allevamento,

recenti risvolti applicativi

Il razionamento alimentare consiste essenzialmente nel calcolare — in

successione e per le diverse categorie di animali nelle loro differenti fasi e livelli

produttivi e nei vari periodi dell'anno — i seguenti 4 parametri:

· le esigenze nutritive degli animali;

· l'ingestione alimentare degli animali;

69

· la concentrazione nutritiva della razione;

· la formula della razione alimentare, sulla base del valore nutritivo degli

alimenti disponibili

Sistemi di alimentazione in riferimento alle diverse categorie animali e tipologie

aziendali

Le esigenze nutritive dei ruminanti variano, per ciascuna specie animale e per le

diverse categorie ed attitudini produttive, in funzione dei seguenti 7 fattori:

1. peso corporeo o, più precisamente, peso metabolico;

2. ritmo di accrescimento, limitatamente ai giovani in accrescimento;

3. ritmo di variazione ponderale (ingrassamento o dimagrimento), soprattutto

negli adulti;

4. livello produttivo, inteso nel duplice aspetto della quantità e della qualità

della produzione, limitatamente alle femmine in lattazione;

5. stadio riproduttivo, limitatamente alle femmine in gestazione avanzata

(ultimo terzo della gravidanza) ed ai maschi in attività riproduttiva (periodo di

monta);

6. attività motoria, limitatamente agli animali al pascolo e/o in stabulazione

libera;

7. dispendio energetico per termoregolazione, limitatamente ai climi torridi

oppure gelidi.

Tali esigenze possono essere classificate sotto 2 differenti aspetti: nutrizionale e

funzionale.

Sotto l'aspetto nutrizionale le esigenze sono le seguenti 8: 1. energetiche; 2.

proteiche, o più in generale azotate; 3. minerali; 4. vitaminiche; 5. idriche; 6. in

carboidrati strutturali (fibrose); 7. in carboidrati non strutturali; 8. lipidiche;

Sotto l'aspetto funzionale le esigenze sono le seguenti 6: 1. di mantenimento,

comprensive anche di quelle del normale movimento o deambulazione; 2. di

percorrenza, limitatamente agli animali in stabulazione libera e/o pascolanti; 3.

di variazione ponderale (ingrassamento o dimagrimento), comprensive —

70

limitatamente ai giovani però — anche di quelle di accrescimento; 4. di

produzione, intesa sia come quantità che come qualità, la quale è identificata di

fatto con il contenuto lipidico del latte; 5. di riproduzione (di gestazione per le

femmine e di monta per i maschi); 6. di termoregolazione.

Le esigenze energetiche possono essere espresse come:

· Unità foraggere tradizionali UF per tutte le specie, le attitudini e le categorie,

secondo lo standard italiano che, essendo però tecnicamente superato, è da

abbandonare;

· Unità foraggere differenziate per attitudine oppure per destinazione

produttiva degli animali (Unità foraggere latte UFL per animali da latte e simili

oppure Unità foraggere carne UFC per animali da carne e simili), secondo lo

standard francese, ormai in uso anche in Italia;

· Kg di Sostanza nutritiva digeribile SND o TDN (ormai poco usato anche in

USA);

· Mcal oppure MJ (1 MJ = 0,24 Mcal; 1 Mcal = 4,18 MJ) di Energia digeribile DE,

oppure di Energia metabolizzabile ME, oppure di Energia netta NE, oppure di

Energia netta differenziata secondo la funzione produttiva e le categorie

animali (di mantenimento NEM per animali in mantenimento; di accrescimento

e/o ingrasso NEG, per animali in accrescimento e/o ingrasso; di lattazione

NEL, per femmine in lattazione, in asciutta e/o in gravidanza), secondo lo

standard americano.

Le esigenze proteiche possono essere espresse come kg oppure g di:

· Proteina grezza CP (calcolata come N totale x 6,25);

· Proteina digeribile DP (calcolata come N digeribile x 6,25);

· Proteina digeribile intestinale PDI;

· Proteina degradabile nel rumine DIP e proteina non degradabile nel rumine

UIP (calcolate entrambe in equivalenti di proteina assorbibile AP);

· Proteina assorbibile AP, limitatamente alle femmine in lattazione.

Le esigenze minerali sono espresse come: g per i 7 macroelementi (Ca, Mg, K,

Na; P, S, Cl) e mg per i 9 microelementi (Mn, Fe, Cu, Co, Zn, Se, Mo; I, F).

71

Le esigenze vitaminiche (o provitaminiche) sono espresse in Unità

internazionali UI per le Vitamine A* e D** ed in mg per tutte le altre vitamine

(E, K; B1, B2, B3, B6, B12 etc) e per i caroteni (a, b, g).

Le esigenze idriche variano in funzione principalmente della composizione

della razione (suo contenuto in s.s.), del clima (soprattutto temperatura e

umidità relativa), della specie animale e della fase produttiva; sono espresse in l

di acqua, ma il loro calcolo è in genere trascurato grazie alla disponibilità

aziendale di acqua di abbeveraggio normalmente superiore alle esigenze.

Le esigenze fibrose, non essendo esigenze quantitative vere e proprie ma

soltanto livelli di minimo della razione complessiva e quindi concentrazioni

fibrose, possono essere espresse come % di:

· Fibra grezza CF, fibra resistente alla degradazione sia acida che basica,

comprendente: teoricamente, tutti i carboidrati strutturali (principalmente

lignina, cutina, cellulosa, emicellulosa e pectina); praticamente, soprattutto

cellulosa;

· Fibra neutro-detersa NDF, fibra resistente alla degradazione neutra,

comprendente i costituenti fibrosi delle pareti cellulari (principalmente lignina,

cutina, cellulosa, emicellulosa ed eventuali minerali insolubili);

· Fibra acido-detersa ADF, fibra resistente alla degradazione acida,

comprendente principalmente lignina, cutina, cellulosa ed eventuali residui

insolubili di minerali, di pectine e di tannini;

· Lignina acido-detersa ADL, lignina resistente alla degradazione acida

comprendente principalmente lignina e cutina: la conoscenza di questo

parametro è utile però, più che ai fini del razionamento, per la determinazione

del valore energetico degli alimenti.

Per differenza fra NDF e ADF, si ottiene l'emicellulosa; fra ADF e ADL, la

cellulosa.

Le esigenze in carboidrati non strutturali NSC (zuccheri semplici ed

amido),possono essere espresse in % di:

· Amidi;

72

· Amidi + zuccheri semplici;

· NSC (Amidi + zuccheri semplici + pectine).

Le esigenze lipidiche, non essendo in alcun caso esigenze quantitative ma

soltanto livelli di massimo della razione complessiva, sono espresse in % di

lipidi della razione complessiva (oppure dei soli concentrati).

L'INGESTIONE ALIMENTARE

L'ingestione alimentare dei ruminanti — che è la quantità massima di sostanza

secca s.s. giornalmente mediamente ingeribile da un determinato animale varia

principalmente in funzione dei 4 fattori seguenti:

· animale (specie allevata, peso corporeo, stadio fisiologico, stato nutrizionale,

condizione sanitaria, tipo di produzione, livello produttivo, qualità della

produzione);

· alimentare (tipo, qualità e composizione della razione);

· gestionale (modalità di presentazione e di somministrazione della razione;

tipo di conduzione e di stabulazione dell'allevamento);

· climatico (temperatura, umidità, ventilazione).

Essa è sempre espressa in kg di sostanza secca per capo e per giorno

Il livello di ingestione LI, espresso in kg di s.s. ingeribile per q di peso corporeo

(ossia in % del peso) dell'animale, varia principalmente in funzione dei 3 fattori

seguenti:

· peso corporeo P, essendo correlato con il peso metabolico;

· livello produttivo L, negli animali in lattazione;

· ritmo di accrescimento A, negli animali giovani.

Elementi di conoscenza basilari per la formulazione di razioni alimentari

La concentrazione nutritiva di una razione — solitamente composta da più

alimenti, quali foraggi (erbe, insilati, fieni), sottoprodotti, concentrati ed

integrativi ed è denominata, concentrazione energetica, proteica, fibrosa, in

73

NSC, minerale, vitaminica e lipidica. Essa viene espressa con le stesse unità di

misura delle esigenze nutritive degli animali.

La concentrazione energetica può quindi essere espressa in:

· Unità foraggere tradizionali (UF/kg di s.s.), per tutte le specie, le attitudini e le

categorie;

· Unità foraggere differenziate per attitudine o destinazione produttiva degli

animali, ossia Unità foraggere latte (UFL/kg di s.s.) per gli animali da latte e

simili e Unità foraggere carne (UFC/kg di s.s.) per gli animali da carne e simili;

· Mcal oppure MJ di Energia (E/kg di s.s.) (digeribile DE, metabolizzabile ME,

netta NE, a sua volta differenziata per tipo di produzione: di mantenimento

NEM, di lattazione NEL, di accrescimento e/o ingrasso NEG), sopratutto per i

bovini da latte;

· kg di sostanza nutritiva digeribile (SND/kg di s.s.).

IL CALCOLO DELLA RAZIONE ALIMENTARE

Una volta determinate sia le esigenze nutritive degli animali — energetiche,

proteiche, fibrose, in NSC, minerali e vitaminiche, la concentrazione nutritiva

che la razione deve avere deriva dal rapporto fra le prime (esigenze) e la

seconda (ingestione).

Nel caso in cui la razione base, costituita normalmente da foraggi aziendali

(erbe pascolate o sfalciate e/o insilati e/o fieni e/o sottoprodotti fibrosi), abbia

una concentrazione nutritiva complessiva uguale a quella calcolata (rapporto

fra esegenze nutritive degli animali e loro ingestione alimentare), il problema è

risolto; cio però, nella pratica razionistica, si verifica molto raramente.

Nel caso in cui la concentrazione nutritiva della razione base sia addirittura

superiore a quella necessaria — anch'esso poco frequente nella pratica

razionistica, se non con animali in fase improduttiva e/o di livello produttivo

molto basso ed in presenza di alimenti di base ad elevato valore nutritivo — si

può avere, oltrechè uno spreco delle risorse alimentari, sia un ingrassamento,

talvolta indesiderabile, se l'eccedenza è esclusivamente energetica, sia persino

74

disturbi alimentari se l'eccedenza è anche proteica e/o minerale (chetosi,

tossicosi proteica, collasso puerperale, tetania da

erba etc).

Nel caso in cui la concentrazione nutritiva della razione base sia invece inferiore

a quella necessaria che è quello più frequente nella pratica razionistica —

occorre provvedere alla somministrazione aggiuntiva (integrazione) di alimenti

con valore nutritivo (energetico e/o proteico e/o minerale e/o vitaminico, a

seconda del tipo di carenza) più elevato di quello degli alimenti base, onde

colmare il relativo sbilancio. In questo caso bisogna distinguere il tipo di

carenza: se è energetica, essa va colmata stabilendo un corretto rapporto

concentrati/foraggi nella razione; se è proteica (e/o minerale e/o vitaminica),

innalzando opportunamente l'entità dell'integrazione proteica (e/o minerale

e/o vitaminica) sui concentrati, oppure, nel caso della tecnica Unifeed,

direttamente sulla razione complessiva; se è fibrosa, innalzando il contenuto

fibroso, tramite la somministrazione di foraggi più grossolani (paglie,

possibilmente trattate per migliorarne la digeribilità) e/o di concentrati fibrosi

(polpe di bietole, semi di cotone, etc).

L'integrazione proteica della razione deve essere praticata innalzando

opportunamente la concentrazione proteica dei concentrati (oppure

direttamente quella della razione complessiva nel caso dell'Unifeed) con la

parziale sostituzione di quelli energetici ( tipo mais, orzo, avena etc) con quelli

proteici (tipo farina di estrazione di semi oleaginosi, quali soia, arachide, colza

etc)

Carenza fibrosa. E' molto frequente sopratutto nelle razioni per animali in

lattazione ed è tanto più elevata quanto maggiore è il loro livello produttivo, a

causa della grande difficoltà di conciliare l'alto contenuto fibroso con l'alta

concentrazione energetica della razione stessa. L'integrazione fibrosa deve

essere praticata utilizzando foraggi fibrosi ma non scadenti (tipo fieni ottimi

e/o paglie trattate) oppure, a parziale sostituzione di questi, concentrati fibrosi

(tipo polpe di bietola e/o semi di cotone); qualora tale integrazione comporti

75

una eccessiva riduzione della concentrazione energetica, si può ricorrere alla

grassatura dei concentrati

IL RAZIONAMENTO ALIMENTARE DEI BOVINI DA LATTE

Il razionamento alimentare dei bovini da latte in allevamento presenta notevoli

difficoltà anche tecnico-applicative, a causa:

· per un verso, dell'elevato livello produttivo raggiunto da questi animali, il

quale comporta la necessità della somministrazione di razioni che globalmente

possiedano: sia un'alta concentrazione nutritiva, in particolare energetica e

proteica, allo scopo di sopperire alle elevate esigenze nutritive indispensabili

per sostenere elevate produzioni; sia un alto contenuto fibroso, allo scopo di

equilibrare la funzionalità digestiva, in particolare ruminale, per evitare

disturbi digestivi e/o metabolici, la cui ripercussione sanitaria e/o produttiva è

immediata;

· per l'altro verso, della opportunità tecnica e della convenienza economica di

utilizzare il più possibile alimenti aziendali, nutrizionalmente non sempre

ottimi ma in genere di costo inferiore rispetto a quelli extraziendali.

Esempio di razioni per vacche in lattazione nelle diverse fasi produttive e in

gravidanza Animale: Vacca secondipara del peso corporeo di q 7; percorrente

km/d 2,0; producente kg/d 45 nel 1° m, 60 nel 2°÷3° m, 48 nel 4°÷5° m, 36 nel

6°÷7° m, 24 nel 8°÷9° m, 12 nel 10° m di latte con contenuto lipidico del 3,5% ;

con variazioni ponderali negative (per dimagrimento) di kg/d 0,770 (g 110 per

q di peso corporeo) nei primi tre mesi di lattazione e positive per recupero di

kg/d 0,385 (g 55 per q di P) dal 5° al 10° mese; in gravidanza inoltrata (8°÷9°

mese) nel 11°÷12° mese.

Alimenti: Ottimo fieno di medica ed ottimo silomais ceroso, nel rapporto di

40:60% sulla ss per esigenze aziendali; farina di orzo e farina di estrazione di

soia 50, orientativamente nel rapporto di 80:20, integrati da sali minerali

orientativamente in quantità del 2% e contenenti il Ca ed il P al titolo del 22% e

del 19% rispettivamente (CaHPO4 )

76

LA SOMMINISTRAZIONE ALIMENTARE

La somministrazione degli alimenti consta sempre delle 3 fasi seguenti: la

scelta, la preparazione e la distribuzione.

La classificazione, ormai universalmente accettata, dei principali alimenti

comunemente impiegati nell'alimentazione animale, e dei ruminanti, li

suddivide nei 4 gruppi seguenti: foraggi, concentrati, sottoprodotti e

integratori.

I foraggi, grazie al contenuto fibroso ed in particolare cellulosico generalmente

abbastanza elevato, costituiscono sempre gli alimenti di base dei ruminanti; essi

sono a loro volta distinti: in graminacee, leguminose e altre famiglie; rispetto

alla forma di conservazione, in freschi, secchi e semi freschi o semi-secchi.

Le graminacee vengono raggruppate: rispetto all’epoca di semina, in essenze a

semina autunnale (quali orzo, avena, frumento, triticale e segale) oppure

primaverile (quali mais, sorgo e miglio), entrambe utilizzate interamente come

tali oppure destinate alla produzione di granella.

Le leguminose vengono raggruppate in essenze: poliennali (quali medica sativa,

trifoglio pratense,trifoglio ladino, sulla e lupinella) oppure annuali (quali

medica annuale, trifoglio incarnato, trifoglio alessandrino e trifoglio squarroso).

Le altre famiglie, la cui importanza foraggera è di molto inferiore alle due

precedenti, sono prevalentemente crucifere (cavolo, colza, ravizzone) e

composite (girasole).

I foraggi freschi o erbe sono caratterizzati da: contenuto idrico sempre elevato

(80÷85%) e conseguentemente contenuto in s.s. sempre basso (15÷20%), che li

rende molto appetibili e molto digeribili, ma nel contempo anche facilmente

fermentescibili e quindi non conservabili come tali; contenuto fibroso elevato in

cellulosa (22÷25%) e basso in lignina (3÷5%) che li rende molto degradabili e

quindi altamente digeribili; concentrazione proteica variabile con la specie

botanica (5÷10% nelle graminacee e 12÷15% nelle leguminose, sempre sulla s.s.).

Essi possono provenire da colture: stagionali o intercalari (erbai autunno-

77

invernali oppure primaverili-estivi), annuali (erbai o prati annuali) e poliennali

(prati se falciabili, prati-pascoli se in parte falciabili ed in parte pascolabili,

pascoli se esclusivamente pascolabili) e possono essere utilizzati direttamente

come tali oppure possono essere falciati e conservati in vario modo (con la

fienagione, attuata in 1 oppure in 2 tempi, per la produzione di fieno; con

l’insilamento, per la produzione di insilati, le cui caratteristiche sono variabili a

seconda del tipo di insilato).

I foraggi secchi o fieni sono caratterizzati da: contenuto idrico sempre molto

basso (mai > al 15%, possibilmente fra 12÷13%) e conseguentemente elevato in

ss (mai < all’85%), che li rende abbastanza appetibili e quindi ingeribili, purchè

di buona qualità, e lungamente conservabili; contenuo fibroso sempre elevato

(spesso a favore della lignina ed a danno della cellulosa) che stimola l’attività

ruminale; concentrazione proteica variabile con la specie botanica (5÷10 nelle

graminacee e 15÷20% nelle leguminose). Essi provengono di norma da colture

annuali o poliennali (prati e prati pascoli) ma anche intercalari (erbai autunno-

invernali) e, ovviamente, da essenze falciabili ed affienabili (graminacee e

leguminose foraggere a culmo o stelo sottile).

I foraggi semi-freschi(erba-silo) e semi-secchi (fieno-silo) o insilati sono

caratterizzati da:contenuto idrico variabile (60÷65% nell'erba-silo tipo silomais,

40÷50% nel fieno-silo tipo insilato di medica o di loglio) che li rende abbastanza

appetibili e quindi ingeribili ; concentrazione proteica variabile con la specie

botanica ed il tipo di insilato (6÷8% nell'erba-silo di mais e 13÷15% nel fieno-silo

di medica).

Essi provengono da colture intercalari (quali tutti i cereali autunno-vernini

oppure primaverili estivi),

annuali (logli, festuche e bromi) e poliennali (medica, logli, mazzolina, fienarola

etc.), con preferenza

per l'erba-silo con i cereali e per il fieno-silo con le leguminose.

I concentrati, che possono essere semplici se costituiti da 1 sola essenza (quali

cariossidi di graminacee e semi di leguminose) oppure composti se costituiti da

78

più essenze (quali le miscele di concentrati e/o di sottoprodotti industriali),

sono caratterizzati da: contenuto in s.s. sempre molto elevato (87÷89%) che li

rende molto conservabili, molto appetibili ed eccessivamente ingeribili e quindi

pericolosi se somministrati a volontà concentrazione energetica sempre molto;

concentrazione proteica variabile (8÷12% nei semi di cereali; 25÷30% nei semi di

leguminose; 40÷50% nelle farine di estrazione di semi oleaginosi); contenuto

fibroso in genere basso (2÷3%) nei concentrati energetici e proteici quali i semi

di graminacee e di leguminose, elevato (20÷25%) nei concentrati fibrosi di

alcuni sottoprodotti quali le polpe di bietole.

I sottoprodotti agro-industriali, essendo residui delle colture agricole e/o della

trasformazione industriale dei suoi prodotti, presentano caratteristiche molto

variabili, legate soprattutto sia al prodotto di origine che al tipo di lavorazione

subita, e possono essere assimilati: alcuni, a foraggi scadenti perchè molto

fibrosi, quali i residui vegetali delle colture cerealicole (stoppie di pascolo,

paglie di cereali, stocchi di mais) e dell'industria risicola (pula, lolla e

farinaccio); altri, invece, a concentrati veri e propri, quali i sottoprodotti

dell'industria molitoria ( crusca, cruschello, tritello e farinetta), olearia (panelli

oppure farine di estrazione di semi proteaginosi ed oleaginosi, quali le farine di

estrazione di soia, di arachide, di girasole, di cotone, di colza, di ravizzone, di

sesamo, di cocco), saccarifera (melasso, polpe di bietola, pastazzo di agrumi,

trebbie di birra e marcomele) e casearia (latte magro, siero di latte e scotta).

Gli integratori, che vengono miscelati in genere con i concentrati per equilibrare

la razione complessiva, sono distinti in: proteici, quali urea solida o

liquida,idrolizzati proteici, aminoacidi; minerali (carbonato e fosfati di calcio,

fosforiti, farine d'ossa, cloruro di sodio, oligominerali); vitaminici (premiscele

vitaminiche a base di vitamina A, D, E, etc.); auxinici, quali antibiotici,

probiotici, enzimi, ormoni, batteriostatici; additivi, quali antiossidanti,

aromatizzanti, pigmentanti, conservanti e leganti.

79

AMBIENTE E TIPOLOGIE DI ALLEVAMENTO

Criteri strutturali utili a garantire funzionalità produttiva, efficienza del lavoro

e benessere delle diverse categorie animali.

La scelta degli alimenti da somministrare ai ruminanti nei diversi periodi

dell'anno è funzione dei seguenti 3 fattori:

• categoria animale di destinazione: giovani (in allattamento, in svezzamento,

in ingrassamento) oppure adulti (in asciutta, in lattazione oppure in

gravidanza, per le femmine; in riposo oppure in attività riproduttiva, per i

maschi);

• continuità di disponibilità: provenienza aziendale (continua come nelle

aziende irrigue oppure discontinua come nelle aziende asciutte) oppure

possibilità di reperimento extraziendale con approvvigionamento continuo;

• costo (di produzione) oppure prezzo (di acquisto) dell'unità nutritiva (in

ordine di importanza: energetica, proteica, minerale e vitaminica)

dell'alimento.

LA PREPARAZIONE DEGLI ALIMENTI

La preparazione aziendale degli alimenti varia principalmente: con il tipo di

alimento (erba, fieno, insilato, concentrato, sottoprodotto, integratore) e con la

tecnica di somministrazione (al pascolo oppure in stalla; in mangiatoia oppure

in sala di mungitura; in associazione con altri alimenti oppure singolarmente,

collettivamente oppure individualmente; a volontà oppure razionatamente).

Le principali operazioni precedenti la somministrazione, quali la fienagione e

l’insilamento — sono le seguenti.

La falciatura, indispensabile per la raccolta di qualsiasi alimento foraggero che

non venga utilizzato esclusivamente con il pascolamento, è operazione

preliminare sia per la conservazione (fienagione e insilamento) che per la

somministrazione diretta dell’erba in ricovero. Essa deve essere eseguita: nel

momento più opportuno (il contenuto ottimale di ss deve essere compreso fra

80

12÷18%); con taglio ad altezza giusta (cm 3÷5), per limitare la presenza di terra

nella massa falciata; possibilmente con erba asciutta, per evitare fermentazioni

incontrollabili e immediate nella massa dell'erba.

La trinciatura, consistente nella riduzione degli steli o dei culmi alle dimensioni

comprese fra cm 2÷3 e 4÷5, è indispensabile, oltrechè per innalzare l’ingeribilità

dell’alimento, anche per facilitare la sua distribuzione in mangiatoia soprattutto

se questa è praticata, come nel caso dell’Unifeed, con carri miscelatori e

distributori.

La sfibratura, consistente nella lacerazione longitudinale degli steli per ridurre

la robustezza e la resistenza delle fibre lignocellulosiche, favorisce la ingeribilità

e la digeribilità dell’alimento.

La alcalinizzazione, che è il trattamento con alcali (NH4OH e NaOH) riservato

esclusivamente ai sottoprodotti fibrosi (quali paglie di cereali e stocchi di mais)

allo scopo di aumentarne la digeribilità grazie alla sua azione

lignocellulosolitica, è operazione poco diffusa a causa della difficoltà pratica sia

del corretto dosaggio degli ingredienti che della distribuzione della massa

trattata.

La macinazione o molitura, operazione riservata esclusivamente ai concentrati

(semi di graminacee e di leguminose) allo scopo di ridurre la dimensione dei

semi ed offrire, a parità di peso, una superiore e più facile superficie di attacco

da parte dei succhi digestivi, deve essere sempre molto grossolana (Ø di 2÷3

mm), in quanto una sfarinatura eccessiva può creare difficoltà ingestive (minore

appetibilità per polverulenza e ridotta prensibilità) e digestive (impasto del bolo

alimentare già a livello ruminale).

La pellettatura (o più esattamente, cubettatura oppure cilindratura) è praticata

allo scopo sia di rendere più prensibile e quindi più ingeribile il concentrato, sia

di facilitarne la somministrazione ed il trasporto anche in sala di mungitura: la

dimensione dei cilindretti varia in funzione della specie animale (cm 0,8÷1 di Ø

e 2÷3 di L per bovini e bufalini; cm 0,4÷0,6 di Ø e 1,0÷1,2 di L per ovini e

81

caprini); la loro consistenza deve essere sempre adeguata onde evitare sia lo

sbriciolamento che la durezza eccessiva.

La grassatura (aggiunta di grassi) e la vaporizzazione (trattamento termico

rapido con vapore), seguita dalla rullatura o schiacciatura oppure dalla

fioccatura, essendo operazioni generalmente exstraziendali.

La miscelazione, operazione praticata ormai diffusamente tanto sui foraggi

quanto sui concentrati allo scopo di amalgamare i differenti alimenti della

razione, è sempre utile, ma è indispensabile nella tecnica dell’Unifeed o piatto

unico, in cui i diversi alimenti (foraggi, concentrati, sottoprodotti ed integratori)

sono somministrati, opportunamente miscelati, contemporaneamente a tutti gli

animali quale razione base per soddisfare tutte le loro esigenze di

mantenimento e quelle di produzione comuni a tutti gli animali della mandria o

del gregge o comunque del gruppo.

LA DISTRIBUZIONE DEGLI ALIMENTI

La distribuzione alimentare — ad eccezione del pascolamento in cui gli animali

assumono l’erba direttamente in campo e quindi scelgono, entro determinati

limiti, le essenze botaniche e le parti anatomiche più appetibili, regolando

autonomamente anche la ingestione (kg/d di s.s. 2÷3 nei bovini in 3÷4 ore di

pascolamento; kg 1÷1,2 negli ovini in 6÷8 ore di pascolamento) è praticata di

norma nel ricovero (stalla, ovile o caprile) ed in particolare: in mangiatoia per

tutti gli alimenti, ma soprattutto per i foraggi (erbe e insilati) e per i

sottoprodotti; in rastrelliera, esclusivamente per il fieno; in sala di mungitura

oppure con gli autoalimentatori, per i concentrati.

La distribuzione dell’erba e/o dell’insilato è effettuata — congiuntamente

oppure separatamente, in uno in oppure due pasti giornalieri —

preferibilmente in successione ad un primo pasto mattutino a base di alimenti

fibrosi (fieno, sottoprodotti fibrosi, pellettati molto fibrosi) allo scopo di evitare

fermentazioni ruminali eccessivamente rapide in carenza di fibra e

possibilmente distanziate di qualche ora dalla mungitura successiva allo scopo

82

di evitare la trasmissione al latte di eventuali sapori e soprattutto di odori

sgradevoli dell’alimento (particolarmente dell’insilato): fra le ore 10÷12 nel caso

di una sola somministrazione; fra le ore 8÷10 e 16÷18 nel caso di due.

La distribuzione del fieno è praticata in mangiatoia oppure in rastrelliera: nel

primo caso, il fieno è distribuito, singolarmente e intero, al mattino per

garantire una sufficiente quantità di fibra anche per i pasti successivi (2÷3

kg/capo per le specie grosse; 0,5÷0,6 per quelle piccole) oppure, trinciato a 3÷5

cm di lunghezza per garantire la omogeneità di miscelazione, mescolato con

altri alimenti della razione in tutti i pasti della giornata; nel secondo caso è

messo a libera disposizione degli animali in rastrelliere, circolari oppure

rettangolari, sistemate nell’aria di esercizio (è opportuno che le sbarre della

rastrelliera non siano verticali ma inclinate di 30° per ridurre le perdite di fieno

provocate dagli animali nel movimento di pressione dell’alimento); negli

allevamenti completamente bradi (allevamento bovino rustico, allevamento

caprino rustico e allevamento ovino estensivo) il fieno è spesso distribuito sul

terreno in appezzamenti attigui al vaccile o all’ovile o al caprile.

La distribuzione dei sottoprodotti è praticata sempre in mangiatoia, in

associazione con altri alimenti oppure isolatamente, a seconda della tecnica di

preparazione e di distribuzione.

La distribuzione dei concentrati è praticata in mangiatoia, in sala di mungitura

oppure ancora per mezzo di autoalimentatori. Nel primo caso i concentrati, in

genere pellettati, sono di solito miscelati con gli altri alimenti a completamento

della razione base (che copre le esigenze di mantenimento e di produzione

lattea sino ai kg/d 10÷12 nei bovini, sino a l/d 1÷1,2 negli ovini e sino a l/d

1,5÷2 nei caprini, negli animali in lattazione; di mantenimento e di

accrescimento, negli animali in ingrassamento).

Nel secondo caso tutta o parte dell’integrazione alimentare alla razione di base

(oppure di mantenimento) è somministrata, agli animali in lattazione, in sala di

mungitura — ovviamente durante la mungitura, ossia almeno due: la quantità

83

massima somministrabile è quindi di 8÷10 kg/d nei bovini e 0,4÷0,8 kg/d negli

ovini e nei caprini.

Nel terzo caso, limitato però di fatto alle specie di grossa mole, i concentrati

sono distribuiti con autoalimentatori, che sono dei sili per concentrati situati

nella zona di esercizio del ricovero in grado di erogare quantità fisse (oppure

variabili) di alimento in funzione delle esigenze collettive (o individuali) degli

animali: quelli per i quali è prevista la distribuzione, ossia gli animali per i quali

è insufficiente la quantità già somministrata in mangiatoia e/o in sala di

mungitura, sono dotati di una medaglia elettronica di riconoscimento la quale,

con la sua presenza presso l’autoalimentatore, determina l’erogazione di

quantità fisse ed eguali per tutti i capi che ne sono dotati oppure variabili da

animale ad animale e specifica per ciascun animale in base al suo livello

produttivo. Gli autoalimentatori possono essere a controllo meccanico oppure

elettronico: i primi sono in grado di erogare, ovviamente soltanto agli animali

dotati di medaglia di riconoscimento, quantità prestabilite di mangime in orari

prestabiliti, ma in maniera indifferenziata per tutti gli animali; i secondi, allo

scopo di poter praticare il razionamento individuale, erogano quantità

giornaliere prestabilite in dosi orarie prestabilite individualmente a ciascun

singolo animale cui spetta la razione, con possibilità di recupero almeno

parziale della dose eventualmente non consumata interamente nel giorno

precedente e di erogazione di dose superiore, entro determinati limiti, alle

esigenze della giornata.

LA SOMMINISTRAZIONE AI BOVINI DA LATTE

La somministrazione degli alimenti ai bovini da latte è in gran parte imperniata

sull’impiego contemporaneo di foraggi — in genere di provenienza aziendale

per contenerne i costi, ma non sempre di alto valore nutritivo — che sono

consumati allo stato fresco (erbe) oppure semi-fresco (insilati) oppure secco

(fieni o addirittura alcuni prodotti complementari, quali stoppie e paglie), e di

concentrati, sempre di alto valore nutritivo e di provenienza aziendale quali le

84

granelle di cereali e/o di leguminose oppure extraziendale quali alcuni

sottoprodotti delle industrie saccarifera (polpe), molitoria (crusche), olearia

(farine di estrazione di semi proteaginosi) o altre (semi di cotone), tutti

distribuiti sempre in stalla, ad eccezione delle erbe e delle stoppie che possono

essere utilizzate anche con il pascolamento.

Il pascolamento, che nell’allevamento bovino da latte è una tecnica diffusa

quasi esclusivamente nelle regioni meridionali e negli allevamenti non

completamente stallini, è praticato, a seconda della stagione: prevalentemente

su erbai autunno-invernali asciutti, in autunno-inverno; su prati irrigui,

immediatamente prima (fine inverno) e/o immediatamente dopo (autunno) la

stagione irrigua; infine su stoppie di cereali da granella, riservate però in genere

alle vacche asciutte ed alle giovenche, in estate.A sua volta e indispensabile

l’integrazione alimentare da somministrare in stalla, in grado di soddisfare

completamente le esigenze nutritive degli animali.

Negli allevamenti più intensivi in cui per qualunque ragione,non possa essere

praticato, permanentemente oppure anche soltanto temporaneamente, il

pascolamento, l’erba deve essere distribuita, ovviamente previo sfalcio da

praticare immediatamente prima per evitare l’inizio della sua fermentazione, in

1 oppure in 2 pasti giornalieri (rispettivamente, intorno alle ore 10 oppure alle

ore 8 e 16) in quantità tale da poter essere ingerita, senza eccessivi residui in

mangiatoia (sino a 0,5÷6,0 kg di s.s. per q di peso corporeo, corrispondenti a

20÷40 kg di tq per capo).

In associazione oppure anche in sostituzione dei foraggi freschi, è praticata la

somministrazione degli insilati — prevalentemente silomais a maturazione

cerosa nelle aziende totalmente o parzialmente irrigue oppure erba-silo a

maturazione latteo-cerosa di graminacee da granella a semina autunnale

(frumento, orzo, avena, triticale) o di graminacee esclusivamente foraggere

(logli, festuche, mazzolina) o anche fieno-silo di leguminose foraggere (medica,

trifogli). La quantità somministrata è , per una vacca di 6÷7 q di peso corporeo a

6÷7 kg di s.s. ed a 15÷18 kg di tq di erba silo ed a 12÷15 di fieno-silo.

85

Allo scopo di innalzare la concentrazione fibrosa della razione complessiva, è

somministrato preferibilmente il fieno, alimento fibroso per eccellenza, di

leguminose o di graminacee o misto distribuito intero a volontà in rastrelliera

oppure in mangiatoia trinciato e miscelato con gli altri alimenti, in quantità

variabile a seconda delle disponibilità, fra i 2÷3 kg di tq al giorno per capo.

Infine è praticata la somministrazione di concentrati, molto spesso sotto forma

di cubettati o cilindrati o fioccati, e di sottoprodotti industriali di alto valore

nutritivo (crusche, polpe, trebbie e farine di estrazione di semi

oleoproteaginosi).

LA SOMMINISTRAZIONE AI BOVINI DA CARNE

La somministrazione alimentare ai bovini da carne è funzione sia della razza

allevata (specializzataoppure rustica) che del conseguente tipo di allevamento

praticato (intensivo e/o stallino oppure estensivo e/o brado).

L’allevamento specializzato può essere: completamente intensivo, in cui gli

animali, trascorrendo tutto l’anno e tutta la giornata in stabulazione, debbono

essere alimentati esclusivamente in stalla; oppure semintensivo, in cui gli

animali; facendo largo ricorso, almeno in alcune stagioni, al pascolamento,

devono ricevere in stalla soltanto l’integrazione alimentare al pascolo.

Nel primo caso (allevamento intesivo) l’alimentazione è basata sull’impiego

prevalente degli insilati (silomais nelle aziende almeno parzialmente irrigue;

insilati di graminacee autunnali, da granella oppure esclusivamente foraggere,

in quelle prevalentemente asciutte) con un’integrazione di fieno (3÷5 kg/d x

capo), soprattutto per innalzare il contenuto fibroso della razione, e di

concentrati distribuiti in genere in mangiatoia assieme all’insilato con il sistema

del pasto unico (unifeed) sia alle vacche in lattazione (sino a 4÷6 mesi dal

parto), che a quelle in asciutta (7÷9 mesi dal parto), che a quelle in gravidanza

inoltrata (10÷12 mesi dal parto o 7°÷9° di gravidanza), sia alle giovenche e

talvolta anche alle manze; ai vitelli/e in allattamento, oltre al latte poppato

direttamente dalla madre sino al 4°÷6° mese di età, può essere somministrato, in

86

particolare negli ultimi 2 mesi (5°÷6° di età) del concentrato in ragione di kg/d

1 per q di peso corporeo, allo scopo principale di innalzare il loro ritmo di

accrescimento e secondario di addestramento al consumo di alimenti solidi, in

preparazione.

Nel secondo caso (allevamento semintensivo), l’utilizzazione dell’erba, che è

realizzata direttamente attraverso il pascolamento (praticato per almeno 7÷8

mesi all’anno e per almeno 10÷12 ore/d), oppure con la sua distribuzione in

mangiatoia, in seguito a sfalcio, in almeno 2 pasti giornalieri, costituisce la fonte

alimentare preminente; la sua integrazione è costituita di norma dalla

somministrazione di fieno e/o di concentrati in ragione di non più di 0,5 kg/q

al giorno. Empiricamente si calcola che in un’intera giornata al pascolo gli

animali da carne possano ingerire sino all’1,2÷1,5% del proprio peso corporeo,

corrispondente, in animali di 7÷8 q, a 10÷12 kg di s.s. ed a 70÷80 kg di tq al

15÷16% di s.s..

Nel caso invece dei bovini rustici, nei quali l’allevamento è necessariamente

estensivo e quindi completamente brado, il pascolamento (erbaceo e/o

arbustivo) costituisce per gran parte dell’anno (8÷10 mesi) l’unica fonte

alimentare; l’integrazione è costituita, ma solo per 2÷4 mesi all’anno

(gravidanza inoltrata e primissimi mesi di lattazione), in genere da fieno,

distribuito raramente in rastrelliera e più frequentemente in campo, in misura

di 3÷5 kg/d a seconda della mole dell’animale (1% del peso corporeo) nei mesi

tardo autunnali e invernali nelle zone altimetricamente elevate, nei mesi tardo-

estivi e autunnali in quelle costiere. Allo scopo di ridurre l’anestro da parto, e

quindi di innalzare la fertilità della mandria, è spesso praticata l’integrazione

con concentrati, in genere granelle di leguminose distribuite in campo, per i

primi 2 mesi dal parto in ragione di 2 kg/d, corrispondenti complessivamente a

120 kg per vacca allattante.

Talvolta nell’allevamento bovino da carne sono impiegati, in sostituzione totale

o parziale del fieno come alimento fibroso, la paglia di cereali, le polpe di

bietola o altri sottoprodotti industriali di minor costo.

87

Il problema della esatta determinazione dell’energia ingerita con il

pascolamento nell’allevamento bovino da carne ha importanza molto minore

che in quello da latte, in quanto il livello produttivo deglianimali è molto più

basso, la loro resistenza a periodi anche prolungati di sottoalimentazione è

maggiore e quindi la corrispondenza fra le esigenze animali e la disponibilità

alimentare può essere molto approssimativa e limitata soltanto ai periodi della

gravidanza inoltrata e dell’allattamento (al massimo quindi 6÷8 mesi all’anno).

LA SOMMINISTRAZIONE AI VITELLONI

La somministrazione alimentare ai vitelloni in ingrassamento dipende

strettamente dall’organizzazione della struttura di ingrassamento: se l’azienda è

totalmente o prevalentemente irrigua, la coltura predominante, talvolta l’unica,

è quella del mais, che è utilizzato in parte come insilato a maturazione cerosa

(70÷80%) ed in parte come granella (20÷30%), in quanto costituisce l’alimento di

base più economico nell’ingrassamento; se invece l’azienda è totalmente o quasi

asciutta, la coltura predominante non può che essere una graminacea autunno-

invernale, da granella oppure esclusivamente foraggera, che è utilizzata in parte

come fieno (20%), in parte come granella (50÷60%) e talvolta anche come

insilato (20%) a maturazione latteo-cerosa; in entrambi i casi, i concentrati sono

in genere parzialmente costituiti da farine di estrazione di semi di soia, per

innalzare il contenuto proteico della razione complessiva, e da alimenti fibrosi

(tipo polpe di bietole), per innalzarne il contenuto fibroso, oltrechè ovviamente

dall’integrazione minerale e/o vitaminica. Alle colture di graminacee sono

spesso associate, le leguminose foraggere (tipo medica e trifogli) destinate in

genere alla fienaggione e da granella destinate alla produzione di concentrati

proteici aziendali.

L’ingrassamento con fieno e concentrati, in genere molto più costoso (almeno +

20%) di quello con insilato e concentrati, determina però una produzione carnea

qualitativamente migliore, grazie alla maggiore compattezza e consistenza

muscolare, alla colorazione più intensa ed al migliore sapore; tali caratteristiche

88

non sempre però sono giustamente apprezzate, e conseguentemente

remunerate con un prezzo di vendita superiore, dal consumatore medio.

Quando l’alimento di base è il mais (aziende irrigue), il silomais è distribuito a

volontà, in quantità di 4,5÷6 kg di tq per q di peso corporeo, associato al

concentrato, in quantità di 0,5÷1 kg sempre per q di peso; questo è talvolta

parzialmente fibroso (polpe di bietola), soprattutto in carenza di fieno nella

razione.

Quando invece l’alimento di base è il fieno (aziende asciutte), questo è

somministrato a volontà (il consumo è di circa kg 1 per q di peso corporeo),

associato a concentrato, a seconda del livello nutritivo della razione e quindi del

piano alimentare, che ovviamente è legato al ritmo di ingrassamento ed all’età e

al peso di macellazione dei vitelli, entrambi funzione sia del tipo etnico (razze

da carne oppure meticci di razze rustiche o da latte) che della provenienza di

allevamento (ristalli di provenienza brada oppure da allevamenti intensivi), che

del sesso (maschi oppure femmine) degli animali.

LA SOMMINISTRAZIONE AI BUFALINI

La somministrazione alimentare ai bufalini non differisce sostanzialmente da

quella ai bovini da latte, salvo che per le differenti esigenze nutritive della

specie, cui consegue in genere un maggiore impiego di alimenti fibrosi ed una

minore utilizzazione di alimenti concentrati, distribuiti quasi sempre in stalla

per il ricorso molto meno frequente al pascolamento.

LA SOMMINISTRAZIONE AGLI OVINI DA LATTE

La somministrazione alimentare agli ovini da latte è strettamente legata al

livello di intensività dell’allevamento: allevamento intensivo in aziende

prevalentemente irrigue con distribuzione degli alimenti quasi esclusivamente

in ovile per gran parte dell’anno, ed in cui il pascolamento, qualora sia attuato,

rappresenta una pratica limitata a poche ore al giorno (non oltre 3÷4) e soltanto

89

ad alcuni periodi dell’anno (in genere inverno e primavera); oppure

allevamento semintesivo in aziende prevalentemente asciuttte con utilizzazione

diretta delle produzioni foraggere per mezzo del pascolamento, praticato per

gran parte dell’anno (almeno 9÷10 mesi) e per buona parte del dì (almeno 7÷8

ore).

Nel primo caso (allevamento intensivo) — in cui le colture aziendali principali

sono le graminacee, da granelle e foraggere, autunno-invernali, intercalate con

graminacee e/o leguminose estive, in avvicendamento colturale con

leguminose prative poliennali, nonché le graminacee primaverili estive da

granella e/o da insilato — le erbe sfalciate sono distribuite in mangiatoia in

almeno 2 pasti giornalieri ,gli insilati (erbe-silo di graminacee e fieni-silo di

leguminose, entrambi di essenze autunnali, in associazione con erbe-silo di

graminacee primaverili-estive) in 1 oppure in 2 pasti giornalieri dopo le 2

mungiture giornaliere; i concentrati in sala di mungitura due volte al giorno. Il

fieno è somministrato in rastrelliera (di forma circolare, se esso è confezionato

in rotoballe; di forma lineare, se confezionato in presse parallelepipede) a

volontà); sempre più frequentemente il concentrato è utilizzato sottoforma

cubettata o meglio cilindrata: il consumo di erba di medica disidratata si sta

diffondendo ed espandendo sempre più.

Nel secondo caso (allevamento semintensivo in aziende prevalentemente

asciutte), l’alimentazione è invece basata principalmente sull’utilizzazione

diretta dell’erba per mezzo del pascolamento, che infatti costituisce la

principale fonte di approvvigionamento alimentare delle pecore e che viene

esercitato: in inverno, a causa della brevità del dì, per non oltre 7÷8 h/d, ma

ancora compatibili con 2 pasti giornalieri; in primavera per 10÷12 ore,

teoricamente compatibili anche con 3 pasti giornalieri, che però di fatto si

riducono spesso a 2 soltanto, a causa della elevata temperatura (25÷30 °C) e

della lunga insolazione (15 ore di illuminazione al solstizio) le quali nella

primavera inoltrata costringono gli animali al pomeriggio nelle ore più calde

(9÷17) e quindi ad un riposo ingestivo forzato.

90

Con tre pasti giornalieri le pecore in lattazione possono ingerire al pascolo

anche il 2,5÷3% del proprio peso corporeo (corrispondente a 10÷12 kg di erba

ottima): in tali condizioni, la somministrazione di fieno in rastrelliera e di

concentrati in mangiatoia e/o in sala di mungitura costituiscono

un’integrazione alimentare al pascolo.

LA SOMMINISTRAZIONE AGLI OVINI DA CARNE

La somministrazione alimentare agli ovini da carne è funzione anch’essa

dell’intensività dell’allevamento che può essere: completamente stallino e senza

ricorso al pascolamento, ma con impiego di alimenti di basso costo, soprattutto

sottoprodotti delle industrie molitoria (crusca e granelle di scarto), saccarifera

(polpe di bietola ed altri simili quali melasso, borlande etc), olearia (sanse),

agrumaria (pastazzi); oppure completamente estensivo, con ricorso sistematico

al pascolamento per almeno 9÷10 mesi all’anno, anche su stoppie di cereali da

granella o su pascoli scadenti collinari purchè non arbustivi.

Nel primo caso (allevamento completamente stallino), la distribuzione degli

alimenti è praticata sempre in ovile a gruppi di animali differenziati fra loro

soltanto: per fase fisiologica (lattazione e/o allattamento, asciutta, gravidanza

inoltrata) qualora sia attuata l’intensificazione dei cicli riproduttivi (1,5 parti

all’anno); oppure per stagione dell’anno, qualora il ciclo riproduttivo sia

stagionale, con 1 parto all’anno e con la stagione dei parti concentrata

generalmente in autunno. Gli agnelli, che seguono le madri sino allo

svezzamento (1,5÷2 mesi), hanno un consumo di concentrati ridotto;

successivamente sono separati ed ingrassati con miscele di fieno (20%) e

concentrati (80%) distribuite in genere a volontà sino ai 3÷4 mesi, età in cui

vengono macellati.

Nel secondo caso (allevamento completamente brado), il pascolamento, che è

praticato per tutta la giornata, rappresenta la fonte alimentare quasi esclusiva

almeno per le pecore in asciutta ed in gravidanza, in quanto l’integrazione

alimentare con concentrati e/o sottoprodotti è praticata soltanto nelle ultime 2

91

w di gravidanza e nel periodo di allattamento (2 m). Il costo di alimentazione di

questo tipo di allevamento deve essere ridotto al minimo per la sua bassa

redditività e remuneratività dei pur scarsi capitali investitivi.

LA SOMMINISTRAZIONE AI CAPRINI

Anche nell’allevamento caprino la somministrazione alimentare è legata alla

intensività di allevamento ed alla razza che le è strettamente connessa.

Nel primo caso (allevamento intensivo), la somministrazione alimentare è

praticata esclusivamente in caprile, nel quale il gregge, suddiviso i gruppi

separati.

I gruppi sono costituiti in funzione del livello produttivo degli animali,

similmente ai bovini da latte.

Alle capre in lattazione è distribuita una razione base, in grado di soddisfare le

esigenze di mantenimento e quelle di produzione, costituita da erba sfalciata

e/o da insilato di mais o di altre graminacee e leguminose autunnali e/o da

concentrati; il fieno, in rotopresse contenute in rastrelliere circolari sistemate al

centro del box oppure in presse parallelepipede contenute in rastrelliere lineari

sistemate ai bordi del box,; i concentrati, in genere pellettati, sono distribuiti in

parte in mangiatoia assieme ai foraggi, sono somministrati anche sottoprodotti

energetico-fibrosi (polpe di bietola) oppure energeticoproteici (farine di

estrazione di semi proteoleaginosi) oppure altri sottoprodotti di minor valore

nutritivo ma di basso costo.

Alle capre asciutte ed in gravidanza inoltrata sono invece somministrati in

genere soltanto fieno o altro alimento fibroso (1 kg/d capo) e concentrati

Alle caprette da rimonta (da 2,5÷3 mesi di età sino al primo parto a 13÷15 mesi)

la somministrazione alimentare è prevalentemente basata sul fieno e sui

concentrati.

Ai capretti/e in allattamento raramente è somministrato il latte materno ma più

frequentemente un adeguato succedaneo a volontà.

92

Ai becchi, mantenuti per gran parte dell’anno separati dalle capre e imbrancati

soltanto nella stagione riproduttiva oppure nel gruppo fresco di parto, è

somministrato sempre il fieno come alimento di base ed il concentrato ad

integrazione delle esigenze energetiche e/o proteiche. In questo tipo di

allevamenti, che spesso sono “senza terra” (non dotati cioè di superfici

aziendali coltivabili), raramente può essere attuato il pascolamento, anche per

difficoltà organizzative pratiche.

Nel secondo caso (allevamento semintensivo), la somministrazione alimentare è

basata sia sul pascolamento, sia sulla distribuzione degli alimenti in caprile ad

integrazione delle esigenze nutritive non soddisfatte dal pascolo. Il

pascolamento è praticato per tutto l’anno, o almeno per i 10 mesi della fase di

lattazione, la quale, data la stagionalità abbastanza accentuata dei calori, è

concentrata per tutto il gregge da ottobre-novembre a luglio-agosto (ad

eccezione delle primipare, che invece partoriscono a dicembre-febbraio).

Esso è esercitato, di norma sui prati annuali di graminacee e di leguminose in

autunno-inverno, di leguminose in primavera, di stoppie di cereali in estate.

La quantità di fieno non supera in genere 0,5÷0,8 kg/d nei periodi del suo

massimo consumo (asciutta e gravidanza inoltrata); quella di concentrati, che

sono distribuiti in parte in mangiatoia) ed in parte in sala di mungitura al

momento della mungitura.

Nel terzo caso (allevamento estensivo), la somministrazione alimentare è

ottenuta quasi esclusivamente con il pascolamento (che raramente è soltanto

erbaceo, ma più frequentemente è arbustivo e talvolta addirittura soltanto

arboreo); esso è praticato ininterrotamente per tutto l’anno e spesso per tutto il

giorno: un percorso pascolativo talvolta di diversi chilometri al giorno è

indispensabile affinchè le capre riescano a procurarsi una quantità di alimenti

che garantisca la loro sopravvivenza in alcune stagioni ed il mantenimento di

un pur minimo livello produttivo durante la lattazione. L’integrazione

alimentare al pascolo, consiste nella distribuzione di 0,4÷0,5 kg/d di

concentrato e/o di altrettanto fieno, al momento del rientro delle capre in

93

caprile per l’allattamento dei capretti che vi sono stati rinchiusi sin dalla nascita.

Questa integrazione alimentare non supera di norma i 3÷4 mesi (l’ultimo di

gravidanza ed i primi 2÷3 di lattazione, ossia poco dopo lo svezzamento o la

macellazione dei capretti.

I DISORDINI ALIMENTARI DEI RUMINANTI

I disordini alimentari, dovuti a squilibrio quanti-qualitativo dei componenti

della razione rispetto alle esigenze nutritive degli animali e/o alla loro

somministrazione non adeguatamente frazionata, possono provocare disturbi

di vario tipo e di diversa entità; tra essi i principali sono: digestivi;

digestivometabolici; metabolici; secretori; riproduttivi; locomotori.

I DISTURBI DIGESTIVI

I disturbi digestivi, essendo legati prevalentemente all'andamento delle

fermentazioni ruminali, essi sono rappresentati principalmente da: timpanismo

ruminale, indigestione acuta e dislocazione abomasale.

Il timpanismo ruminale è caratterizzato da un'abnorme distensione

(particolarmente evidente sul fianco sinistro) delle pareti ruminali per eccessivo

accumulo di gas di fermentazione (principalmente CO2 e CH4) che non

riescono ad essere eliminati regolarmente con l'eruttazione a causa di:

ostruzione meccanica dell'esofago, per abbassamento della sua parte terminale

sotto il livello del contenuto ruminale; riduzione della motilità delle pareti del

rumine, per alterazione del suo equilibrio fisiologico acido-basico; inibizione

della normale peristalsi ruminale, per azione di sostanze inibenti ingerite con

l'alimento oppure formatesi durante la digestione (saponine).

Il timpanismo è favorito principalmente da: grado di predisposizione

individuale; tipo di alimentazione, in quanto i foraggi freschi e teneri (in

particolare modo le leguminose, quali medica e trifoglio, soprattutto se

pascolati oppure sfalciati e somministrati umidi e a digiuno) essendo ricchi di

carboidrati facilmente fermentescibili e poveri di fibra, favoriscono la

94

formazione, a livello ruminale, di grandi quantità di schiume, la cui azione

dannosa è ulteriormente accentuata dalla scarsa insalivazione provocata da tali

alimenti; tipo di microbismo ruminale che, a seconda dell'indirizzo

fermentativo prevalente, può determinare un timpanismo di tipo gassoso, in cui

i gas si accumulano al di sopra del contenuto ruminale, oppure schiumoso, in

cui i gas vengono invece trattenuti all'interno; quest'ultimo è il tipo più

frequente e più dannoso.

Le forme sotto cui può presentarsi sono: subacuta, dovuta in genere ad elevato

consumo di concentrati e di leguminose fresche; acuta, caratterizzata da

respirazione affannosa e da defecazioni frequenti, che può provocare, se non

curata tempestivamente, anche la morte; cronica, che determina una distensione

permanente del rumine.

La prevenzione è basata principalmente su: parziale sostituzione dei foraggi

freschi, soprattutto le erbe di leguminose, con foraggi secchi a più elevato

contenuto in fibra (fieni); mescolanza delle leguminose con le graminacee;

adattamento graduale dell'animale al consumo di elevate quantità di foraggi

freschi; pascolamento oppure distribuzione dei foraggi freschi non umidi e ad

animali non digiuni (ad es., inizio del pascolamento nella tarda mattinata e

dopo una foraggiata contenente fieno e/o paglia); somministrazione di sostanze

tensioattive che , abbassando la tensione superficiale dei liquidi ruminali,

inibiscono la formazione di schiume; impiego di antibiotici che inibiscono

l'attività fermentativa di alcuni batteri ruminali e la conseguente produzione di

gas.

La terapia consiste principalmente: con la forma subacuta, nella

somministrazione di oli minerali e/o vegetali e di grassi animali ad elevata

azione antischiumogena (ad es. siliconi, attraverso sonda esofagea) e/o di

sostanze minerali alcaline (NaHCO3) capaci di restaurare rapidamente

l'equilibrio acido-basico del rumine; con la forma acuta, nell'impiego della

sonda esofagea oppure, nei casi più gravi, del trequarti, evitando sempre la

eliminazione dei gas in maniera repentina.

95

L'indigestione acuta è caratterizzata da una eccessiva riduzione del pH

ruminale anche al disotto di 4 (acidosi ruminale) a causa di un anormale

aumento degli acidi organici, particolarmente dell'acido lattico, provocato da

una alterazione della microflora ruminale in conseguenza dell'ingestione di

alimenti eccessivamente ricchi di amido e di carboidrati facilmente

fermentescibili e poveri di fibra, quali sono principalmente i concentrati; ciò

determina una consistenza eccessivamente acquosa del contenuto ruminale e di

conseguenza un suo ristagno eccessivo. Le forme leggere possono comportare

una riduzione dell'ingestione alimentare e della produzione lattea, un aumento

degli aborti e/o dei parti prematuri associati a ritenzione placentare; le forme

gravi possono provocare, se non curate tempestivamente, ruminite e/o

gastroenterite associate a dismetabolie gravi. La prevenzione è basata sulla

riduzione degli alimenti eccessivamente ricchi di carboidrati fermentescibili e

poveri di fibra ossia dei concentrati e sull'adattamento graduale dell'animale al

loro consumo. La cura consiste: con le forme leggere, nella somministrazione di

sostanze alcaline capaci di restaurare rapidamente l'equilibrio acido-basico del

rumine (ad es. NaHCO3 allo 0,5÷1,5% sulla miscela di concentrato) e/o di oli

minerali ad azione antischiumogena (ad es. siliconi); con la forma acuta, nella

puntura del rumine.

La dislocazione dell'abomaso è caratterizzata da un'eccessiva dilatazione

dell'abomaso, il quale per effetto di un abnorme aumento di gas e/o di liquidi

(AGV) causato (soprattutto negli animali meno giovani e nei mesi inverno-

primaverili e subito dopo il parto) da un repentino aumento della

concentrazione della dieta nel primissimo periodo (1° mese) di lattazione —

subisce una dislocazione a destra oppure, più frequentemente, a sinistra a

seconda del prevalere delle produzioni, rispettivamente, di liquidi o di gas (gli

AGV, se presenti nell'abomaso, ne inibiscono la motilità). Essa è causata

principalmente dall'impiego di dosi troppo elevate di concentrati e troppo

povere di fibra strutturata durante la fase di asciutta. La prevenzione consiste

nell'impiego di dosi non elevate di concentrati; la cura invece nella sistemazione

96

permanente dell'abomaso attraverso intervento chirurgico che comporta però,

oltre all'elevato costo, una temporanea riduzione produttiva; ciò nonostante, nel

caso della dislocazione a sinistra, si ottengono esiti positivi in circa il 90% dei

casi.

I DISTURBI DIGESTIVO-METABOLICI

I disturbi digestivo-metabolici agiscono sia a livello digestivo con la

modificazione del pH ruminale, sia a livello metabolico con l'alterazione del

ricambio; essi sono principalmente: la tossicosi proteica e la tossicosi ureica.

La tossicosi proteica è caratterizzata da una deamidazione ruminale delle

proteine in eccedenza oppure con composizione aminoacidica squilibrata

rispetto alle esigenze alimentari quanti-qualitative dell'animale, per cui la

componente non azotata della molecola proteica originaria viene fermentata

sino ad AGV con basso rendimento energetico, oppure completamente

catabolizzata fino ad acqua e CO2 con elevato dispendio energetico, oppure

ancora trasformata in corpi chetonici o chetogenici; la componente azotata, che

viene degradata sino ad NH3 con innalzamento del pH ruminale sino a valori

di 7,5÷8,5, determina un’alcalosi ruminale con dannosa alterazione

dell'equilibrio glucochetonico del sangue, la quale limita la motilità delle pareti

ruminali, inibisce la normale attività fermentativa dei batteri amilolitici e

cellulosolitici con ristagno alimentare nel rumine e favorisce infine un

assorbimento eccessivo di NH3; questa, non potendo essere tempestivamente

trasformata in urea nel fegato e successivamente eliminata rapidamente con

l'urina, si accumula nel sangue determinando intossicazioni e turbe metaboliche

minerali (iperammoniemia e ipomagnesiemia). Questa tossicosi, sia che si

manifesti in forma eclatante — disoressia, ruvidità del pelame, indurimento

della cute, mucosità fecale — provoca sempre una riduzione della produzione

lattea e/o un'alterazione del processo riproduttivo (ipofertilità da

iperprotidicità). La prevenzione consiste nella somministrazione di razioni a

giusto contenuto protidico; la cura nella somministrazione di sostanze

97

acidificanti oppure nella riduzione tempestiva della concentrazione proteica

della razione.

La tossicosi ureica è una particolare tossicosi proteica causata da un eccesso di

NPN sottoforma di urea che si manifesta rapidamente (entro 30÷60 h)

dall'ingestione della dose tossica con segni caratteristici quali ansia e respiro

affannoso, barcollamento e scalciamento laterale, abbondante salivazione e

tetania muscolare, ed altrettanto rapidamente (24÷48 h) evolve positivamente

con la guarigione oppure negativamente con la morte.

La prevenzione consiste:

· nel non superare la dose massima tollerabile, che è di 14 g/d di NPN

(corrispondente a 30 g/d di urea) per q di peso corporeo

· nell'adattamento graduale dell'animale all'uso dell'urea in almeno 1÷3 w

prima di raggiungere la dose massima compatibile;

· nella somministrazione dell'urea con alimenti ricchi di carboidrati e ad

animali non digiuni ed in buone condizioni nutrizionali.

La cura consiste: nella tempestiva somministrazione di sostanze acidificanti (es.

1÷2 lt/capo grosso di aceto) e nella immediata sospensione della razione

contenente urea.

I DISTURBI METABOLICI

Le principali dismetabolie legate a disordini alimentari di tipo glucidico,

lipidico, proteico, oppure minerale capaci di alterare il normale equilibrio

energetico o minerale del metabolismo dell'animale sono: la chetosi, la

ipolipogalattopoiesi, il collasso puerperale e la tetania da erba.

La chetosi o acetosi è caratterizzata da un'alterazione del normale rapporto

gluco-chetonico (acetone, acetoacetato, idrossibutirrato) del sangue per

riduzione del primo (ipoglicemia) e/o, aumento contemporaneo dei secondi

(iperchetonemia), i quali determinano acidosi ematica (acidosi metabolica) per

riduzione dei sali di Na e/o di K con cui si combinano per essere eliminati

attraverso le urine (chetonuria). Essa è dovuta ad una delle cause seguenti:

98

carenza ormonale nell'animale; carenze vitaminiche (soprattutto di A e di B12)

e/o minerali (soprattutto di P, di Co e di I) nella razione; squilibrio alimentare

fra sostanze non chetogeniche (glucosio ed acidi acetico e propionico) e

sostanze chetogeniche (acido butirrico, che è precursore dell'acido

bidrossibutirrico, soprattutto in insilati mal riusciti); carenze energetiche nella

razione, per cui l'animale deve sopperire ai propri fabbisogni mobilizzando i

grassi di deposito con formazione epatica di corpi chetonici; indirizzo

fermentativo ruminale di tipo prevalentemente butirrico anzichè acetico e/o

propionico; eccesso alimentare proteico con produzione di corpi chetonici dalla

parte non azotata delle proteine originarie; difetto di fibra e/o eccesso di

concentrati, con conseguente squilibrio fra AGV ruminali. La chetosi, la cui

azione può essere diretta (riduzione della produzione lattea e della fertilità)

oppure indiretta (aumento di mastiti, di nefriti e di ritenzione placentare), può

presentarsi in forma clinica evidente (inappetenza, affanno, salivazione

eccessiva, disidratazione e dimagrimento) oppure subclinica (senza segni

appariscenti) e colpisce particolarmente le femmine fra la 2ª÷3ª w prima del

parto ed il 3°÷4° mese dopo il parto, con un'incidenza massima nelle pluripare

alla 3ª w di lattazione.

La diagnosi è basata sul contenuto di corpi chetonici, espressi in equivalente

acetonico, nel latte, nel sangue e nelle urine.

La cura, qualora non sopravvenga la guarigione spontanea, che nei casi meno

gravi si verifica al 3°÷4° mese di lattazione, in corrispondenza del

pareggiamento fra esigenze e ingestione — è basata sul trattamento endovena,

alla dose di 1 cc/kg di peso corporeo, di gluconato di Ca + cortisone + Kal 50%;

sul trattamento con glicole propilenico + propionato di Na.

La Ipolipogalattopoiesi (produzione di latte con contenuto lipidico

eccessivamente basso) è dovuta ad uno squilibrio fra i vari AGV ruminali per

alterazione del rapporto acidi acetico + butirrico/acido propionico ed è causata

principalmente da razioni che nel complesso sono: carenti di fibra, la quale

favorisce la produzione dell'acido acetico precursore assieme all'acido butirrico

99

degli acidi grassi dei lipidi del latte; eccedenti di carboidrati fermentescibili, i

quali favoriscono invece la produzione di acido propionico, precursore del

glucosio del sangue e del lattosio del latte; contenenti oli e/o grassi costituiti da

acidi grassi insaturi (ad es. olio di fegato di merluzzo); contenenti concentrati

troppo finemente pellettati o macinati, che indirizzano la fermentazione

ruminale verso una maggiore produzione di acido propionico. La cura consiste

nella integrazione della razione con NaHCO3 o di KHCO3 che, tamponando

l'acidità ruminale insorta, ripristina il giusto rapporto fra i tre AGV (60÷70% di

acetico, 20÷25% di propionico e 5÷10% di butirrico). La prevenzione consiste:

nella riduzione dei concentrati; nell'aumento del fieno e/o dei foraggi fibrosi

nella eliminazione degli oli e/o grassi insaturi dalla razione; nella sostituzione

dei pellettati troppo sottili con altri più grossolani.

La febbre o collasso puerperale è' dovuta ad una alterazione dell'equilibrio

minerale (particolarmente del Ca, del P e talvolta anche del Mg) nel sangue che

si manifesta entro la prima w dal parto, preferenzialmente in pluripare di

elevata produzione, con sonnolenza, barcollamento, intorpidimento,

prostrazione, paresi, coma e morte. Essa è causata da un abbassamento del

contenuto in Ca (100÷150 ppm) nel sangue (ipocalcemia) e talvolta del P e del

Mg per effetto: di un errato rapporto Ca/P e/o Ca/Mg, che riduce

l'assorbimento intestinale del Ca e/o del P anche quando il Ca si trova in

quantità sufficiente nella razione; di uno squilibrio ormonale fra

paracalcitonina, la cui secrezione aumenta in condizioni di ipocalcemia

favorendo la mobilitazione delle riserve scheletriche a favore del sangue, e

calcitonina, la cui secrezione aumenta invece in condizioni di ipercalcemia

favorendo la fissazione scheletrica del Ca ematico in eccesso.Il collasso

interviene quando l'eccessiva riduzione della calcemia, dovuta

all'ingrossamento del feto a fine gravidanza e all'elevata produzione lattea

all'inizio della lattazione, non viene immediatamente superata con il ripristino

del normale tasso calcemico per via alimentare e/o ormonale.

100

La cura consiste: in un trattamento endovena di gluconato di calcio per 2÷3 w.

La prevenzione è basata: sull'impiego orale di dosi massicce di vit. D (5÷6

milioni di UI x q di peso) per 5 d consecutivi nella settimana precedente il parto,

che però, oltre al pericolo di una eccessiva calcificazione dei tessuti molli, è di

difficile attuazione per la difficoltà di stabilire la data precisa del parto;

sull'impiego durante l'asciutta di razioni con rapporto Ca/P molto stretto, che

favorisce la mobilizzazione scheletrica del Ca, ossia di razioni a base di

graminacee (in cui il rapporto Ca: P è 1:2÷1:3) oppure, se a base di leguminose

(in cui il rapporto Ca: P è 5:1÷6:1), con integrazione fosfatica di prodotti

minerali privi di Ca, quali ad es. il NaH2PO4.

La Tetania da erba è dovuta ad un'alterazione dell'equilibrio minerale

(particolarmente del K e del Mg e spesso anche del Ca) nel sangue che si

manifesta, preferenzialmente in primavera in animali di alta produzione

alimentati su prati teneri, con inappetenza, nervosismo, convulsioni, tetania,

coma e morte. Essa è causata da una riduzione del contenuto ematico di Mg

(ipomagnesiemia), che può passare da 25 a 5 ppm, e spesso anche di Ca

(ipocalcemia), che può passare da 100 a 50 ppm, e da un parallelo aumento del

contenuto di K (iperpotassiemia.

I DISTURBI SECRETORI

I principali disturbi secretori sono l'edema mammario e la mastite, entrambe

favorite da disordini alimentari quali: l'alterazione dell'equilibrio acido-basico

del sangue, il cui valore normale deve essere compreso fra pH 7÷7,8; 4.5.5.

I DISTURBI RIPRODUTTIVI

I principali disturbi riproduttivi, la cui insorgenza può essere favorita da

disordini alimentari, sono: la ipofertilità; il prolasso uterino e la ritenzione

placentare.

La ipofertilità, riduzione talvolta permanente dell'efficienza riproduttiva per

eccessivo allungamento dell'anestro puerperale e conseguentemente del

periodo di servizio e dell'interparto, è dovuta prevalentemente a cause

101

genetiche e/o di allevamento ed è favorita da errori alimentari quali: eccessiva

concentrazione energetica della razione nell'ultimo periodo di gravidanza (che

provoca una eccessiva adipopoiesi sia epatica che ovarica) oppure sua carenza

nel primo periodo di lattazione (che provoca una eccessiva mobilizzazione delle

riserve adipose epatiche con frequente allungamento dell'anestro puerperale);

carenza fibrosa (NDF < 30÷32%); eccedenza proteica, soprattutto di proteine

ruminodegradabili che innalzano il livello ruminale di NH3 ed epatico di urea;

carenze mineral (soprattutto di P, di I e di Se) e vitaminiche (bcarotene e Vit A,

Vit D e Vit E, soprattutto se associata a carenza di Se); eccesso di fitoestrogeni e

di tossine (aflatossine, zearalenone ed ocratossine in insilati mal conservati).

La ritenzione placentare, che è il mancato distacco entro le 48 h dal parto della

placenta dall'utero (secondamento) causato a sua volta da quello degli invogli

fetali dalla placenta, può essere provocata da carenze alimentari quali, in

particolare, carenza di Vit A, di Vit E e di Se nella razione soprattutto in animali

anatomicamente mal conformati (controinclinazione della linea dorso-lombare).

Il prolasso uterino, che è l'estroflessione dell'utero dopo il parto, può essere

favorito da carenze alimentari, quali quella di Zn, Vit A e C, nonchè da eccesso

proteico, soprattutto successivamente a parti molto difficili.

I DISTURBI LOCOMOTORI

I disturbi locomotori favoriti da errori alimentari sono principalmente la

zoppia, la cui insorgenza può essere favorita da eccesso proteico e/o da carenza

di Zn nella razione. I disordini alimentari sinora descritti con particolare

riferimento alla specie bovina da latte possono colpire indistintamente tutte e 4

le specie ruminanti in produzione zootecnica, anche se taluni sono più frequenti

in alcune specie rispetto ad altre soprattutto a causa del differente sistema

alimentare, in particolare il livello nutritivo, praticato nelle diverse specie.

102

LE TECNICHE DI ALLEVAMENTO

L'allevamento dei ruminanti, pur essendo praticato con modalità differenti a

seconda dell'indirizzo produttivo prevalente (latte oppure carne) e del

conseguente tipo di organizzazione aziendale (intensivo e prevalentemente

stallino oppure estensivo e con largo ricorso al pascolamento), è però

caratterizzato sempre dalle seguenti fasi: cure neonatali e periodo colostrale,

allattamento, svezzamento, ingrassamento, allevamento della rimonta,

riproduzione in purezza ed in incrocio,

pascolamento, stabulazione; dalle modalità della loro attuazione dipende sia la

conduzione dell'allevamento che la gestione dell'azienda zootecnica.

LE CURE NEONATALI E LA FASE COLOSTRALE

L'animale appena nato (neonato) ha bisogno delle prime cure, dette appunto

neonatali, che consistono essenzialmente: nella ripulitura dall'eventuale liquido

amniotico accumulatosi nella bocca e/o nelle narici durante l'ultima fase fetale,

da eseguirsi a mano posizionando, se necessario, il neonato verticalmente e con

la testa rivolta verso il basso; nell'asciugamento del corpo, sempre bagnato da

liquido amniotico, con della paglia asciutta e pulita o meglio con uno straccio

assorbente; nella predisposizione di abbondante lettiera in uno stallo apposito,

riparato dalle correnti d'aria e con temperatura dell'ambiente intorno ai 20÷22

°C; nella somministrazione, entro le prime ore di vita, del colostro,

possibilmente materno oppure di stalla oppure, in subordine, artificiale; nella

separazione immediata del neonato dalla madre, ovviamente soltanto in caso di

allattamento artificiale, onde evitare sia l'instaurazione di legami affettivi fra

madre e figlio.

Il colostro è la prima secrezione mammaria, che incomincia normalmente già

prima del parto. Esso, nell'alimentazione del neonato, svolge le tre funzioni

seguenti: alimentare, lassativa e immunitaria.

103

La funzione alimentare è dovuta al suo alto contenuto in principi nutritivi che,

variabile con la specie e la razza, è mediamente quello riportato nel prospetto

seguente.

La funzione lassativa è dovuta alla presenza di alcune sostanze minerali (in

particolare Mg) che esercitano la loro azione sull'intestino del neonato,

liberandolo dal meconio, che è l'insieme delle feci e dei prodotti catabolici

accumulativisi durante la vita intrauterina o fetale.

La funzione immunitaria è quella più importante ed è data dalla presenza di

immunoglobuline specifiche (gglobuline) nel colostro materno, le quali nelle

prime ore di vita del neonato sono assorbite come tali direttamente

dall'intestino, senza cioè essere digerite a livello gastrico: l'assorbimento è molto

elevato e rapido nell'animale giovanissimo (entro le prime 6 ore di vita), si

riduce progressivamente già dal primo giorno e cessa entro le 36÷48 h, in

quanto anche le globuline, seguendo, dopo il secondo giorno, la sorte di tutte le

altre proteine, sono digerite a livello gastrico. La indispensabilità del colostro

nell'alimentazione iniziale dei ruminanti è dovuta alla impermeabilità della loro

placenta, al contrario di altre specie, agli anticorpi materni: l'immunità passiva,

non acquisibile dal neonato durante la vita fetale, deve pertanto essere

trasmessa dal colostro, possibilmente materno, in attesa che il giovane realizzi

direttamente quella attiva. La concentrazione immunoglobulinica del colostro è

massima nei primi 2 giorni dal parto, nelle femmine pluripare ed in quelle nelle

quali la durata dell'asciutta sia stata di circa 2 mesi; l'assorbimento diretto delle

gglobuline per via intestinale sotto forma di macromolecole proteiche è dovuto

alla scarsa produzione abomasale di enzimi proteolitici e di acido cloridrico ed

alla grande permeabilità della mucosa intestinale nei primi giorni e soprattutto

nelle prime ore di vita del neonato.

La somministrazione del colostro è praticata: nel caso dell'allattamento naturale

in cui il neonato poppa il latte materno per tutto il periodo dell'allattamento, a

volontà e per diverse volte al giorno (3÷4 nelle specie bovina e bufalina, 5÷6 in

quella ovina e 2 in quella caprina), a seconda che il neonato segua la madre

104

(bovini, bufalini e ovini) oppure no (caprini); nel caso dell'allattamento

artificiale, in cui il latte materno è in genere sostituito dal succedaneo, per

mezzo di biberon per almeno 3 volte al giorno ed in quantità del 4÷5% del peso

corporeo dell'animale per volta ,corrispondenti a 4÷6 l/d, per vitelli e bufalini;

0,15÷0,20 l per somministrazione, corrispondenti a 0,4÷0,6 l/d, per agnelli e

capretti). Qualora non si disponga, per qualunque causa (morte della madre al

parto oppure assenza o ritardo della secrezione lattea), di colostro materno, si

deve ricorrere: preferibilmente, a colostro di femmine dell'allevamento (che

deve essere prelevato, immediatamente dopo il parto, da animali di buona

produzione e conservato, surgelato, in azienda anche per 3÷4 mesi), in quanto

provviste di anticorpi specifici contro le più diffuse infezioni dell'allevamento;

oppure a colostro artificiale che viene preparato con latte, tuorlo d'uovo e

antibiotici e conservato refrigerato in azienda; un trattamento termico

opportuno (alta oppure bassa temperatura) potrebbe risolvere i problemi legati

alla trasmissione lattogena di malattie parassitarie (ascaridiosi).

Lo scolostramento, che consiste nella soppressione della somministrazione del

colostro e nel passaggio alla somministrazione del latte (naturale oppure

artificiale), è forzatamente sempre graduale nell'allattamento naturale, ma deve

esserlo anche nell'allattamento artificiale: la somministrazione di solo latte deve

avvenire soltanto dopo il 3°÷4° giorno di età. Poichè in questa fase, nonostante

l'immunità passiva conferita dal colostro, il neonato è particolarmente sensibile

alle infezioni neonatali (enterotossiemia, setticemia e colibacillosi), queste

devono essere prevenute tempestivamente con la vaccinazione materna a base

di vaccini stabulogeni e/o con la vaccinazione del neonato a base di vaccini

specifici e con la somministrazione, in dosi massicce, di vitamine A, D, E.

L'ALLATTAMENTO

Ricevute le prime cure neonatali e superata la fase colostrale, il neonato deve

essere allattato, per un periodo più o meno lungo (almeno 2÷3 m nelle specie

bovina e bufalina e almeno 5÷6 w nelle specie ovina e caprina), esclusivamente

105

o quasi esclusivamente con latte (che può essere quello materno o comunque

della stessa specie) oppure con un suo succedaneo, per la sua incapacità a

digerire e quindi ad utilizzare proficuamente, almeno in questa prima fase della

vita, alimenti diversi dal latte: sino al completo svezzamento infatti anche i

ruminanti hanno un comportamento alimentare molto simile a quello dei

monogastrici; l'unico stomaco funzionante è di fatto quello vero, l'abomaso, il

cui volume costituisce il 70% dell'intero apparato gastrico (il complesso rumine-

reticolo e l'omaso costituiscono il restante 30%) ed in cui, attraverso il

meccanismo di chiusura della doccia esofagea che collega direttamente

l'esofago con l'abomaso senza la intermediazione di passaggio nei prestomaci, il

latte poppato perviene direttamente dalla bocca;

Fra le proteine: la caseina, che ne costituisce il componente principale (82÷83%

sulla proteina vera ), subisce nell'abomaso la coagulazione immediata ad opera

dell'HCl contenuto nel succo gastrico e la prima digestione ad opera

principalmente e inizialmente della rennina o chimosina, proteasi specifica della

caseina.

L'allattamento può essere naturale oppure artificiale.

L'ALLATTAMENTO NATURALE

L'allattamento naturale consiste nella utilizzazione, che può essere totale o

anche soltanto parziale, del latte prodotto dalla madre durante tutta o parte

della lattazione da parte dell'allevo direttamente per mezzo della poppata; esso

è praticato negli allevamenti estensivi delle razze rustiche e/o da carne di tutte

e 4 le specie (lo svezzamento coincide spesso con la fine della lattazione) e nelle

razze da latte di livello produttivo e tecnico non elevato delle specie ovina e

caprina.

Gli allevi poppano, per tutto il periodo di allattamento, il latte materno

seguendo le madri al pascolo per l'intera giornata (come nel caso dei bovini

rustici e/o da carne e degli ovini da latte) oppure soltanto durante la notte (in

quanto restano confinati di giorno) oppure ancora per due volte al giorno (al

106

mattino ed alla sera al rientro delle madri nel caprile, come nel caso dei caprini

allevati estensivamente).

La fase di allattamento si può protrarre per tutta la durata della lattazione (in tal

caso la produzione lattea non ha funzione economica diretta, ma è soltanto una

produzione fisiologica finalizzata alla produzione della carne e all'allevamento

della rimonta, come nel caso delle razze rustiche e/o da carne di tutte le specie)

oppure per la parte iniziale della lattazione (in tal caso l'animale viene

macellato oppure svezzato quando ha raggiunto un peso ritenuto idoneo ed il

latte è munto sino all'asciugamento dell'animale, come nel caso delle razze

ovine e caprine da latte e delle razze bovine di basso livello produttivo e/o

tecnico).

Durante questa fase il ritmo di accrescimento dell'allevo dipende, oltrechè dalle

sue potenzialità di crescita, soprattutto dalla quantità e dalla qualità (contenuti

lipidico e protidico) del latte materno e dalla sua disponibilità durante la

giornata (numero di poppate giornaliere).

L'ALLATTAMENTO ARTIFICIALE

L'allattamento artificiale può essere attuato sia con latte naturale che con un suo

succedaneo.

Nel primo caso, il latte materno o comunque della specie viene somministrato

razionatamente al secchio per 2÷3 volte al dì; è quanto avviene normalmente

con animali di basso livello produttivo e in allevamenti di scadente livello

tecnico oppure con allevi rimasti orfani, oppure ancora con eccedenze

produttive (bovini da latte di alto livello produttivo, con quote latte

insufficienti).

Nel secondo caso, in sostituzione del latte materno o della specie, viene

somministrato un succedaneo (sostitutivo) che deve rimpiazzare

adeguatamente il latte materno o della specie;

107

I SUCCEDANEI DEL LATTE.

I succedanei del latte sono alimenti in grado di sostituire completamente il latte

naturale, materno oppure della specie, durante tutta la fase di allattamento e

derivano, in genere, da sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia, ricostituiti

in alcuni loro componenti per poter appunto sostituire il latte; essi debbono

avere, per esserne conveniente l'impiego, un prezzo, riferito al succedaneo

ricostituito, di molto inferiore (<40%) a quello del latte naturale, il quale

pertanto, anzichè essere usato nell'alimentazione dell'allevo, è impiegato,

ovviamente previa mungitura, nell'alimentazione umana). I succedanei

fisicamente si presentano sotto forma di farine lattee, che devono essere molto

solubili per poter essere rinvenute in acqua al momento del loro impiego, e

sono costituiti fondamentalmente: per il 60÷75% da latte magro in polvere, che è

il residuo della lavorazione del burro; per il 5÷10% da siero di latte, che è il

residuo della lavorazione del formaggio ; per il 15÷25% da grassi animali,

derivati in genere dai residui della lavorazione delle carni.

Il latte magro in polvere è il residuo della sgrassatura del latte per la

produzione del burro. La sua qualità può essere valutata in base: al contenuto

in lisina utilizzabile rispetto a quello in lisina totale, che non deve essere

inferiore all' 80% al contenuto in caseina, che non deve essere inferiore al

2,5÷3% della s.s.; al tempo di coagulazione, alla solubilità e all'acidità. A causa

del suo elevato costo di produzione, il latte magro in polvere è purtroppo

spesso sostituito, almeno parzialmente, con prodotti alternativi (i cosiddetti

"latti senza latte"), il cui contenuto proteico però, essendo diverso dalla caseina

contenuta nel latte, può ridurne la digeribilità.

Nella scelta del succedaneo occorre quindi tener conto della fonte proteica

impiegata; questa può essere: la farina di soia, la farina di pesce, il siero di latte.

La farina di soia, per poter essere utilizzata senza inconvenienti come

integratore proteico del succedaneo del latte, deve essere preventivamente

disidratata, integrata con metionina e, per disattivarne i fattori antipepsinici ed

emoagglutinanti in essa contenuti, sottoposta a trattamento termico di tostatura

108

oppure chimico (farina fiore di soia),. Il siero di latte è il residuo della

coagulazione del latte per la produzione del formaggio ed è usato

prevalentemente nell'alimentazione suina ed in quella bovina adulta; esso può

essere impiegato anche in sostituzione, purchè però soltanto parziale, del latte

magro.

LA SOMMINISTRAZIONE DEL SUCCEDANEO.

Essa è praticata con modalità e tecniche variabili con la specie e la sua

destinazione produttiva (allevamento oppure ingrassamento); i parametri

principali da considerare sono: la concentrazione, la quantità, la temperatura di

erogazione, la modalità di distribuzione.

La concentrazione o diluizione del succedaneo è la quantità, sempre espressa in

peso (kg), di succedaneo da disciogliere nell'unità di volume (l) oppure di peso

(kg) di acqua; per vitelli è del 10÷14%, per bufalini del 12÷14%, per agnelli del

20÷24%, per capretti del 15÷18%, a seconda della destinazione produttiva

(svezzamento oppure ingrassamento); concentrazioni inferiori non

soddisferebbero appieno le esigenze nutritive dell'animale, con ripercussioni

negative sul suo stato di salute e sul suo ritmo di accrescimento; concentrazioni

superiori potrebbero provocare ingrassamento non desiderato, associato per

giunta a complicazioni digestive e a costi più elevati.

La quantità da erogare,;essa è mediamente:

· nella specie bovina: giornalmente, del 10÷12% del peso corporeo del vitello,

corrispondente a 4÷12 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,5÷1,5 kg/d di farina

lattea;

· nella specie bufalina: giornalmente, del 8÷10% del peso corporeo del vitello,

corrispondente a 4÷10 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,4÷1,2 kg/d di farina

lattea;

· nella specie ovina: giornalmente, del 10÷12% del peso corporeo dell'agnello,

corrispondente a 0,4÷ 1,2 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,08÷ 0,24 kg/d di

farina lattea;

109

· nella specie caprina: giornalmente, del 12÷14% del peso corporeo del capretto,

corrispondente a 0,5÷1,5 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,075÷0,25 kg /d di

farina lattea.

La temperatura di erogazione può essere quella di refrigerazione del

succedaneo ricostituito (3÷4°C), quella corporea dell'animale (36÷38°C), quella

ambientale dell'allevamento (18÷20°C). Il primo sistema, adottato un tempo

soprattutto con le specie ovina e caprina, poichè necessita di un sistema di

refrigerazione in grado di mantenere il succedaneo ricostituito alla temperatura

di 3÷4 °C che è quella massima per evitare fermentazione e sviluppo batterico

nella massa e quindi disturbi intestinali gravi agli animali — non è più adottato.

LO SVEZZAMENTO

Lo svezzamento è la fase di transizione dell'animale giovane dall'alimentazione

lattea a quella con foraggi (erba, insilato, fieno) e concentrati, che può anche

coincidere con la separazione del figlio dalla madre (come nell'allevamento

estensivo) ma non necessariamente (come in quello intensivo, in cui questa

avviene con lo scolostramento o addirittura alla nascita).

Esso può essere praticato: gradualmente, quando la fase di passaggio

dall'alimentazione esclusivamente lattea (naturale o artificiale) a quella

esclusivamente solida (fieno e concentrati oppure erba oppure ancora insilati,

concentrati e fieno) è graduale; oppure bruscamente, quando tale fase di

passaggio e quindi di adattamento dell'animale è ridotta al minimo o

addirittura soppressa.

Lo svezzamento, comunque venga praticato, comporta sempre un

rallentamento (talvolta un arresto o addirittura una inversione) del ritmo di

accrescimento, con conseguente arresto oppure calo ponderale dell'animale; per

ridurre al minimo questo aspetto negativo occorre quindi attuare lo

svezzamento secondo opportune norme e tecniche.

Nell'allevamento estensivo (bovini rustici e da carne, ovini da latte di basso

livello produttivo ed ovini da carne) l'allevo durante la fase di allattamento

110

segue la madre al pascolo per tutta la giornata o per parte di essa ma, raggiunta

una determinata età (4÷8 m nei bovini, 6÷8 w negli ovini da latte e 10÷12 w in

quelli da carne), è separato e svezzato automaticamente a causa

dell'asciugamento della madre (bovini rustici e da carne) oppure per la

destinazione di tutto il latte prodotto alla mungitura (ovini da latte): in

entrambe le specie l'allevo viene svezzato gradualmente, in quanto

l'alimentazione solida, attuata quasi esclusivamente con erba, incomincia molto

precocemente (3÷4 m nei bovini, 3÷4 w negli ovini); normalmente le femmine

destinate alla rimonta hanno una fase, sia di allattamento che di svezzamento,

leggermente più lunga.

Nell'allevamento intensivo (bovini da latte, bovini da carne, bufalini, ovini da

latte di buon livello produttivo, caprini da latte) lo svezzamento è praticato

quasi sempre gradualmente, grazie alla somministrazione di soli concentrati o

di concentrati e fieno anche durante la fase di allattamento. Lo svezzamento

deve essere attuato in ciascuna specie ad età e pesi peculiari della razza; nella

pratica però conta, più che l'età, il peso corporeo che l'animale deve avere

raggiunto all'atto dello svezzamento; tale peso è quantificato normalmente in

almeno 2,5÷3 volte il peso alla nascita: kg 100 nei bovini da latte (80÷100 nelle

femmine e 100÷120 nei maschi), kg 200 nei bovini da carne (180÷200 nelle

femmine e 200÷220 nei maschi), kg 150 nei bovini rustici (120÷150 nelle

femmine e 150÷180 nei maschi), kg 80 nei bufalini (70÷80 nelle femmine e 80÷90

nei maschi), kg 10 negli ovini da latte (9÷10 nelle femmine e 10÷11 nei maschi),

kg 15 negli ovini da carne (14÷15 nelle femmine e 15÷16 nei maschi); kg 10 nei

caprini (8÷10 nelle femmine e 10÷12 nei maschi).

Durante lo svezzamento l'animale deve passare, più o meno gradualmente,

dalla fase di monogastrico funzionale (lattante), in cui l'unico stomaco

funzionante è quello vero (abomaso), alla fase di poligastrico funzionale

(ruminante), in cui gli stomaci funzionanti sono tutti e quattro (rumine-reticolo,

omaso ed abomaso); questo passaggio, dovendo essere il più graduale possibile

111

e quindi senza brusche variazioni, presuppone lo sviluppo progressivo dei

prestomaci associato alla riduzione relativa dell'abomaso.

L'apparato gastrico dei ruminanti è mediamente costituito in volume: nella

prima settimana di età, per il 70÷80% dall'abomaso, per il 15÷20% dall'omaso e

soltanto per l‘ 8÷10% dal complesso rumine-reticolo (corrispondente

globalmente a l 3 nella specie bovina e bufalina ed a l 0,3 nella specie ovina e

caprina); dopo lo svezzamento, per il 70÷80% dal ruminereticolo, per il 20%

dall'omaso e soltanto per il 10% dall'abomaso. Questo apparato, che nel suo

complesso passa da 7÷8 l/q di peso corporeo dell'animale nel neonato a 20÷25

l/q nell'adulto, subisce quindi, oltrechè un aumento dimensionale rilevante,

anche e soprattutto una modificazione relativa dei suoi componenti (lo sviluppo

relativo dei prestomaci e quello dell'abomaso si invertono con l'età e con il

cambiamento di alimentazione).

Lo sviluppo e la funzionalità dei prestomaci dipendono soprattutto dagli

alimenti usati, i quali vanno messi a libera disposizione dell'animale e debbono

possedere un'elevata concentrazione energetica (1÷0.9 UFL/kg di s.s.), proteica

(20÷22% di PDI) e soprattutto fibrosa (32÷35% di NDF) per garantire la

graduale funzionalità del rumine e la salvaguardia dell'apparato digerente da

turbe digestive.

Nell'allevamento bovino da latte di buon livello tecnico la fase di svezzamento

inizia molto presto, normalmente dopo la seconda settimana di età, con la

somministrazione di fieno di ottima qualità (possibilmente di medica o di logli)

in rastrelliera individuale o di gruppo (a seconda che i vitelli siano allevati in

box singoli oppure di gruppo) e di concentrato in mangiatoia (costituito

prevalentemente di farine di orzo, di mais, di estrazione di soia, dallo stesso

succedaneo del latte adoperato contemporaneamente per l'allattamento e da

integratori minerali e vitaminici) messi a disposizione, entrambi a volontà, in

posizione facilmente accessibile al vitello.

Dopo la 4÷5ª w, quando l'animale è già in grado di assumere gli alimenti solidi

anche se in modeste quantità (100÷200 g/d), deve aver inizio, per stimolare

112

ulteriormente la capacità e la funzionalità ruminali, la riduzione del latte, la cui

entità deve passare dai 10÷12 l/d della 4÷5ª w a zero nella 10a w con un calo

graduale di circa 2 l/d per w, mentre l'ingestione di fieno e di concentrati deve

crescere dai g/d 200÷250 iniziali sino ai kg/d 1,8÷2 alla fine dello svezzamento

che si completa intorno ai 2,5÷3 m di età.

Sotto l'aspetto tecnico, il vitello è considerato svezzato se a tale età il suo livello

di ingestione, fra fieno e concentrati, non è < al 2% del peso corporeo (kg/d

0,2÷0,3 di fieno e kg 1,8÷1,7 di concentrati al peso corporeo di kg 100 ed all'età

di 2,5 m, grazie ad un ritmo medio di accrescimento che deve essere stato di

kg/d 0,7÷0,8).

Nell'allevamento bovino da carne, sia esso praticato estensivamente con grande

ricorso al pascolamento oppure intensivamente in ambiente confinato, lo

svezzamento è attuato a pesi ed età più elevati di quelli dei bovini da latte m

quasi sempre gradualmente, in quanto il vitello utilizza tutto il latte prodotto

dalla madre per tutta la lattazione (4÷6 m), non essendo conveniente sottoporre

questa a mungitura sistematica per la sua scarsa attitudine lattifera (8÷10 kg/d

di produzione lattea massima e 4÷6 m di durata massima della lattazione,

corrispondenti ad una produzione totale per lattazione di l 800÷1200, quantità

peraltro più che sufficiente ad allevare un vitello da destinare successivamente

al ristallo per l'ingrassamento oppure all'allevamento per la rimonta); il vitello,

quando la produzione lattea materna diventa insufficiente (per contemporaneo

calo produttivo della curva di lattazione e per innalzamento delle sue esigenze

nutritive), è costretto ad alimentarsi prevalentemente con erba nell'allevamento

brado e con insilati e concentrati nell'allevamento intensivo.

Sotto l'aspetto tecnico, il vitello è considerato svezzato se a tale età il suo livello

di ingestione è del 2÷2,2%, il suo peso corporeo è di kg 220 a 6 mesi di età ed il

suo ritmo di accrescimento è stato mediamente di almeno 1 kg/d.

Nell'allevamento bufalino, destinato esclusivamente alla produzione lattea, lo

svezzamento, sia naturale che artificiale, è praticato gradualmente a m 3÷4

113

d'età, al peso di kg 80÷90 con tecniche simili a quelle dell'allevamento bovino da

latte di modesto livello tecnico.

Nell'allevamento ovino da latte lo svezzamento varia con il tipo di conduzione:

in quello semiestensivo, in cui è praticato sempre l'allattamento naturale, esso

incomincia alla 5÷6 w (età sino alla quale l'agnello segue la madre al pascolo,

poppandone tutto il latte), si protrae per 2÷3 w (in cui l'agnello segue la madre

al pascolo soltanto durante il dì ed è separato da essa durante la notte, in cui

riceve un'integrazione alimentare di fieno e concentrati) e termina alla 8ª w al

peso di kg 10÷12; in quello semintensivo, in cui è praticato spesso l'allattamento

artificiale, esso dura mediamente 2 w (5ª e 6ª), nelle quali la riduzione del

succedaneo disponibile e la utilizzazione del fieno e dei concentrati sono

graduali (svezzamento graduale) oppure la sospensione del succedaneo e la

somministrazione di alimenti solidi è praticata bruscamente alla 5ª w

(svezzamento brusco). Sotto l'aspetto tecnico, è preferibile lo svezzamento

graduale, da attuare in almeno 1 w di transizione dall'alimentazione

esclusivamente lattea a quella esclusivamente solida.

Nell'allevamento ovino da carne, in cui il ricorso al pascolamento è preminente,

l'agnello segue la madre al pascolo, ricevendo spesso una integrazione

soprattutto a base di concentrati sino ai 60÷75 d di età, indi è separato da essa e,

di norma, ingrassato per la produzione della carne e infine macellato.

Nell'allevamento caprino, lo svezzamento varia con il tipo di conduzione: in

quello estensivo il capretto, tenuto al chiuso ed allattato dalla madre sino alla 6a

w due oppure una sola volta al giorno a seconda dell'organizzazione aziendale,

è svezzato in 2 m con la somministrazione graduale di concentrati; in quello

intensivo il capretto è invece allattato con un succedaneo del latte sino alla 4ª÷5ª

w e successivamente svezzato, di norma gradualmente in 2 w, all'età di 2 m ed

al peso di kg 10÷12. Dopo lo svezzamento i giovani vengono destinati: in

piccola parte (12÷25% nei bovini, 10% nei bufalini, 25% negli ovini, 18% nei

caprini) all'allevamento per la rimonta, che è costituita in prevalenza da

femmine per effetto del loro superiore rapporto riproduttivo fra sessi; in gran

114

parte (l'eccedenza della rimonta) all'ingrassamento per la produzione della

carne anche con i soggetti di razze da latte e/o rustiche.

L'INGRASSAMENTO

L'ingrassamento è la tecnica con cui gli animali eccedenti la rimonta o giunti,

per qualsiasi causa, a fine carriera riproduttiva e/o produttiva o comunque non

più atti all'allevamento vengono messi in condizioni nutrizionali adatte per la

macellazione, ovviamente dopo aver raggiunto un peso ed uno stato corporeo

adeguati. L'ingrassamento può quindi essere attuato su animali giovanissimi

appena nati (ingrassamento latteo, per la produzione di lattoni a carne bianca)

oppure su animali giovani ma già svezzati (ingrassamento di vitelloni, bufalotti,

agnelloni e caprettoni) oppure ancora su animali adulti (ingrassamento di

animali a fine carriera oppure da scarto).

L'INGRASSAMENTO LATTEO

L'ingrassamento latteo degli animali giovanissimi è praticato con latte

(normalmente artificiale per il suo minor costo, ma talvolta anche naturale)

somministrato sempre a volontà allo scopo di esaltare al massimo la capacità di

accrescimento dell'animale e di anticiparne il più possibile l'età di macellazione.

La tecnica di produzione consiste essenzialmente nella somministrazione di

quantità superiori, in pratica con distribuzione quasi a volontà (12÷15%,

anziché 10÷12% del peso corporeo al giorno), di un succedaneo più energetico

(contenuto lipidico 25÷30%, anzichè 20%) e più proteico (contenuto proteico

24%, anzichè 20%) di quello di allevamento ed a concentrazione superiore in

modo che risultino superiori sia il livello di ingestione (1,5% anzichè 1%), sia il

ritmo di accrescimento (kg 1,2 anzichè 0,8 nei vitelli; g 300 anzichè 200 negli

agnelli; g 200 anzichè 150 nei capretti) ed il peso alla macellazione dell'animale

(q 1,8÷2,0 nei vitelli, kg 12÷15 negli agnelli e kg 10÷12 nei capretti).

Poichè però le carni ottenute da questi animali devono, per poter essere

giustamente apprezzate dal consumatore e quindi adeguatamente retribuite dal

115

mercato, avere gusto e colore particolari, i succedanei impiegati non devono

alterarne le caratteristiche fondamentali; esse devono quindi essere molto

proteiche e ricche di aminoacidi indispensabili, poco grasse ma ben dotate di

grassi insaturi e/o a catena corta, molto digeribili, bianche per scarsità di Fe,

adatte per tutte le categorie di consumatori ed infine molto versatili nell'uso

culinario. Questi animali sono purtroppo particolarmente predisposti, sia per il

tipo di alimentazione che costituisce pur sempre una forzatura nutrizionale, sia

per la ristrettezza degli spazi e la relativa concentrazione in cui essi vengono

mantenuti, a malattie soprattutto digestive — meteorismo, provocato da

anomala fermentazione ruminale per caduta di latte dalla doccia esofagea;

costipazione intestinale, provocata spesso da concentrazione eccessiva del

succedaneo; diarrea.

Nell'allevamento bovino l'ingrassamento incomincia subito dopo lo

scolostramento (ad 1 w di età, come nel caso dell'ingrassamento aziendale)

oppure anche più tardi (dopo 1 m, come nel caso dei vitelli importati). Esso è

attuato prevalentemente con razze da latte (Frisona e Bruna) ma anche con

razze da carne (Piemontese) e loro derivati, soprattutto se di sesso maschile, e

viene protratto per circa 5 mesi sino a pesi elevati (da kg 150÷180 a 220÷250)

grazie ai buoni ritmi di accrescimento (da g/d 800÷1000 a 1200÷1400)

realizzabili con la forzatura alimentare. Nell'allevamento ovino l’ingrassamento

incomincia dopo lo scolostramento (1÷2 d) ed è protratto, per 6÷8 w, sino a pesi

di kg 10÷12 nelle femmine e di 14÷16 nei maschi, soprattutto se meticci.

Nell'allevamento caprino incomincia dopo lo scolostramento ed è protratto per

6÷8 w sino a pesi di 12÷14 kg.

L'INGRASSAMENTO DEI GIOVANI GIÀ SVEZZATI

L'ingrassamento dei giovani già svezzati (vitellone , bufalotto, agnellone e

caprettone) varia con il tipo di animale (specie, razza, sesso ed età) e con il tipo

di allevamento (intensivo da latte o da carne oppure estensivo rustico o da

carne).

116

Nell'allevamento estensivo gli animali da ingrasso (ristalli) iniziano la fase di

ingrassamento in età giovanile avanzata, in quanto lo svezzamento coincide con

l'asciugamento materno (6÷8 mesi nei bovini rustici, 4÷6 mesi nei bovini da

carne, 2,5÷3 mesi negli ovini da carne o simili): poichè però i giovani

provenienti da questo tipo di allevamento, quasi sempre indenni da malattie

infettive sia virali che batteriche, sono di solito massivamente parassitati

(soprattutto strongilosi gastro-intestinali e broncopolmonari, teniasi e

distomatosi epatiche), la prima operazione che l'allevatore deve eseguire, ancor

prima di iniziare l'ingrassamento, è un esame parassitologico per diagnosticare

il tipo di parassita ed il conseguente trattamento farmacologico;

successivamente gli animali debbono essere riuniti in gruppi omogenei per

sesso, tipo genetico, peso corporeo e, possibilmente, anche per età e

provenienza, allo scopo di poter praticare tecniche di ingrassamento (livelli

nutritivi, piani alimentari, durata d'ingrassamento) adeguate a ciascun gruppo.

Nell'allevamento intensivo invece gli animali da ingrasso iniziano la fase di

ingrassamento in età più giovanile, in quanto l'allattamento è di norma

artificiale e lo svezzamento è di conseguenza precoce (2,5÷3 m nei bovini da

latte e nei bufalini, 3÷4 m nei bovini da carne, 4÷6 w negli ovini da latte e nei

caprini); gli animali provenienti da questo tipo di allevamento sono spesso

mantenuti per qualche periodo (2÷3 mesi, i bovini e i bufalini; 2÷3 w, gli ovini

ed i caprini) nella stessa struttura di svezzamento, indi sono trasferiti (a 5÷6 m i

bovini ed i bufalini, a 8÷10 w gli ovini ed i caprini) in apposite strutture di

ingrassamento del tutto simili o uguali a quelle per gli animali provenienti

dall'allevamento estensivo.

La durata dell'ingrassamento, e quindi l'età ed il peso alla macellazione,

variano: con il sesso (i maschi, per la loro maggiore capacità di accrescimento

sia come ritmo che come persistenza, possono essere macellati ad un'età

superiore a quella delle femmine), con il tipo genetico (le razze da carne, i loro

meticci, le razze da latte e le razze rustiche maturano in ordine temporalmente

decrescente); con la provenienza (gli animali bradi maturano dopo quelli

117

stallini) e con il piano alimentare (piani sempre alti comportano ingrassamento

spinto, non sempre desiderabile, e indici di conversione più elevati; piani

sempre moderati comportano accrescimenti bassi, carni magre e tempi lunghi;

piani discontinui, alto-moderato o moderato-alto, sono spesso i più indicati per

contemperare ritmi di accrescimento sostenuti, buone conversioni, giusto

ingrassamento e tempi modesti).

L'ALLEVAMENTO DELLA RIMONTA

L'allevamento aziendale della rimonta è indispensabile negli allevamenti che

producono in proprio i giovani animali (maschi e/o femmine) per la

riproduzione.

La sua entità — Quota di rimonta — viene espressa come percentuale di

animali che ogni anno debbono essere allevati per la riproduzione e che hanno

la funzione di sostituire gradualmente quelli che vengono eliminati

dall'allevamento perchè giunti a fine carriera oppure per malattia oppure

ancora per altre cause.

La quota di rimonta è variabile con la specie, con la razza e con il tipo di

allevamento e dipende essenzialmente dal numero medio di nati per carriera

produttiva oppure riproduttiva,

La quota di rimonta obbligatoria, cioè la percentuale minima di animali da

allevare ogni anno per mantenere costante la consistenza numerica

dell'allevamento; l'allevatore non può quindi scendere al di sotto di tale limite,

ma può superarlo, qualora decida, per qualsiasi ragione tecnica e/o economica,

di allevare annualmente una quota superiore, che costituisce quindi la quota di

rimonta facoltativa. Ovviamente la quota di rimonta maschile è di molto

inferiore a quella femminile sia per il diverso rapporto riproduttivo fra i sessi

(1:20÷40 nei bovini rustici; 1:50÷100 nei bovini da latte; 1:20÷30 nei bufalini;

1:40÷60 negli ovini; 1:60÷80 nei caprini, in caso ovviamente di adozione della

inseminazione naturale) sia per la diversa durata della carriera riproduttiva nei

due sessi (sempre superiore nelle femmine rispetto ai maschi).

118

Gli aspetti più importanti da tenere in considerazione sono l'alimentazione, la

riproduzione e la conduzione dell'allevamento.

L'alimentazione deve essere basata sull'impiego di alimenti: sufficientemente

fibrosi, in quanto lo sviluppo dell'apparato digerente, ed in particolare del

rumine e della sua flora cellulosolitica indispensabile per la funzionalità

dell'organo, è strettamente legato alla concentrazione fibrosa della razione;

sufficientemente energetici (0,7÷0,8 UFL/kg di s.s.), in quanto una carenza

energetica, che spesso si accompagna ad una fibrosità eccessiva, può ridurre il

ritmo di accrescimento e l'armonico sviluppo del giovane (ritardo nella

comparsa del primo calore e quindi dell'età al primo parto, sviluppo corporeo

ridotto e quindi animale sotto peso), così come una eccedenza energetica, che

spesso si accompagna ad un uso eccessivo di concentrati e/o di insilati, può

provocare un ingrassamento non voluto e dannoso all'animale, che può avere

ripercussioni negative sulla carriera riproduttiva ed in particolare sulla

funzionalità ovarica (deposito eccessivo di grasso, difficoltà di parto);

giustamente proteici (18÷20% di proteina grezza CP), in quanto soprattutto la

carenza proteica comporta riduzione del ritmo di accrescimento (il giovane

animale per crescere adeguatamente ha bisogno di concentrazioni proteiche

tanto più elevate quanto più scadente è il foraggio e minore è l'apporto di

concentrato). In pratica, gli animali costituenti la rimonta dovrebbero essere

suddivisi, dallo svezzamento al 1° parto, in tre gruppi, possibilmente omogenei

per peso corporeo e per età, nel modo seguente:

· per i bovini ed i bufalini: manzette da 3 a 6 mesi, da alimentare

prevalentemente con fieno e concentrati; manze da 6 a 18 mesi, con fieno,

insilati e concentrati; giovenche da 18 mesi sino al 1° parto (27±3 mesi) con

fieno, insilati e concentrati;

· per gli ovini e i caprini: agnelle/caprette da 1,5÷2 mesi sino a 3÷4 mesi, con

fieno e concentrati; agnelle/caprette da 3 a 10 mesi, con pascolo e concentrati;

agnelle/caprette da 10 mesi sino al 1° parto (15±1 mesi) con fieno, pascolo e

concentrati.

119

Il concentrato dovrebbe apportare il 60÷65% dell'energia totale della razione

nella prima categoria, il 45÷50% nella seconda ed il 20÷25% nella terza; l'insilato

dovrebbe essere somministrato soltanto alla seconda e alla terza categoria, in

quantità non superiore ai kg 6÷8 alle manze ed a kg 0,5÷0,7 alle agnelle e alle

caprette; il fieno a tutte le categorie.

L'efficienza riproduttiva è legata soprattutto all'età alla prima inseminazione e

quindi al 1° parto: sebbene il primo calore si manifesti abbastanza presto (10±2

m nei bovini da latte, 12±3 in quelli da carne, 8±2 in quelli rustici; 15±3 nei

bufalini; 7±1 negli ovini da latte; 6±1 nei caprini), è consigliabile praticare la 1ª

inseminazione non prima che l'animale abbia raggiunto una determinata età

(15÷18 m nei bovini da latte, 21÷24 m in quelli da carne, 24÷27 m in quelli

rustici; 30÷33 m nei bufalini, 10÷12 m negli ovini, 8÷10 m nei caprini) o meglio

ancora un determinato peso corporeo (60÷70% di quello adulto tipico della

specie e della razza) oppure ancora una determinata statura che è la misura più

facilmente rilevabile. Un forte anticipo del primo parto comporta quasi sempre:

una minore produzione nella 1a lattazione, spesso senza possibilità di recupero

in quelle successive; una maggiore difficoltà di parto, associata ad una più

frequente ritenzione placentare; un arresto dello sviluppo corporeo, senza

possibilità di recupero successivo. Un ritardo determina invece un minor

numero di nati per carriera riproduttiva ed un maggior costo di allevamento

della rimonta.

La corretta conduzione della rimonta è imperniata molto sull'allevamento degli

animali all'aperto, il cui ricovero va limitato possibilmente alle stagioni estreme

(inverno ed estate), alla notte e/o alle giornate molto calde, grazie all'effetto

benefico che il movimento spontaneo (ginnastica funzionale) e soprattutto il

pascolamento esercitano su tutti gli animali ed in specie su quelli in

accrescimento.

120

IL PASCOLAMENTO

Il pascolamento è l'utilizzazione diretta (brucamento) dell'erba, qualunque sia la

sua provenienza: pascoliva, se da pascoli naturali non sfalciabili; prativa, se da

prati, naturali o artificiali, sfalciabili; coltivata, se da erbai annuali o stagionali.

Esso, rispetto ad altre forme di utilizzazione dell'erba (insilamento, fienagione

e disidratazione), offre vantaggi economici, produttivi ed igienico-sanitari.

I vantaggi economici sono legati alla riduzione sia dei costi di produzione,

grazie all'utilizzazione diretta dell'erba anzichè alla sua somministrazione in

stalla o in ovile, sia delle perdite per sfalciatura e/o conservazione (20÷25% vs

30÷35% sulla sostanza secca e 20÷30% vs 35÷40% sul valore nutritivo). I

vantaggi produttivi sono legati alla composizione dell'erba che è in genere di

più alto valore nutritivo (0,7÷0,9 UFL/kg), di più elevata digeribilità (75÷80%),

di maggior contenuto proteico (15÷25% di CP) e vitaminico. I vantaggi igienico-

sanitari sono legati al movimento degli animali all'aria aperta, che si ripercuote

positivamente tanto sulla funzione produttiva quanto e soprattutto su quella

riproduttiva.

I principi del pascolamento razionale si basano sulle esigenze sia della pianta

che dell'animale: per quanto riguarda le prime, la pianta al momento del

pascolamento deve aver raggiunto uno stadio vegetativo che le consenta di

riprendere, immediatamente dopo la recisione , il proprio accrescimento, grazie

all'accumulo nelle radici di sufficienti sostanze di riserva in grado di sopperire

temporaneamente alla mancata sintesi produttiva causata dall'asportazione

della parte aerea; per quanto riguarda le seconde, l'animale appetisce l'erba

quanto più essa è giovane, ingerendone quantità differenti in funzione dello

stadio vegetativo.

Sotto l'aspetto qualitativo, l'erba è tanto più appetibile e digeribile quanto più

essa è giovane e tenera, ossia nella fase iniziale dell'accrescimento; sotto

l'aspetto quantitativo, la sua produzione (in q/ha di s.s.) è massima nello stadio

di maturità, ossia alla fine della fase di accrescimento;

121

I PARAMETRI DEL PASCOLAMENTO RAZIONALE

I parametri del pascolamento razionale, che discendono dall'osservanza dei

principi suesposti, sono: il momento ottimale di pascolamento, il periodo

ottimale di riposo ed il tempo ottimale di permanenza (di soggiorno e/o di

occupazione) degli animali.

Il momento ottimale di pascolamento è il momento migliore per immettere gli

animali al pascolo e dipende dall'evoluzione quantitativa e qualitativa dell'erba,

rilevabili: la prima, con l'andamento della curva di crescita e/o di ricrescita

dell'erba, espressa normalmente in q/ha di sostanza secca; la seconda, con

l'andamento della curva di evoluzione dell'erba, espressa in UFL o UFC/kg di

s.s., in pratica quando l'altezza media dell'erba ha raggiunto i cm 15÷18 nel

pascolamento bovino e bufalino e i cm 12÷15 in quello ovino e caprino (oltre

tale limite il calpestio eccessivo riduce l'utilizzazione della massa erbacea

disponibile).Con la transizione dalla fase vegetativa a quella riproduttiva,

nell'erba aumenta il contenuto in s.s. ed in fibra ma diminuisce la sua

concentrazione energetica e proteica e quindi la sua ingeribilità e digeribilità.

Il periodo ottimale di riposo, che è la durata minima che deve intercorrere fra la

fine del pascolamento precedente e l'inizio di quello successivo, deve essere tale

da consentire all'erba pascolata di raggiungere nuovamente l'altezza di

pascolamento; esso dipende dalla stagione (è più lungo in autunno che in

primavera) e dal suo andamento (piovosità e distribuzione pluviometrica,

temperatura giornaliera media e soprattutto minima, ventosità e illuminazione),

nonchè dalla rapidità di ricaccio dell'essenza vegetale .Tale periodo oscilla

mediamente: fra 18÷20 d in primavera; 12÷15 d in estate, ovviamente in irriguo;

30÷35 d in autunno; 45÷50 d in inverno, purchè in zone altimetriche non

elevate.

Il tempo ottimale di permanenza degli animali è la durata ottimale di

pascolamento in giorni e può essere riferito alla permanenza di ciascun gruppo

(tempo di soggiorno) oppure alla permanenza complessiva dei diversi gruppi

(tempo di occupazione).

122

Poichè però gli animali compiono sempre una scelta sia fra le diverse essenze

vegetali che fra le loro differenti parti anatomiche, nel primo giorno vengono

ingerite le parti migliori (foglie), nel quarto invece quelle peggiori (steli): ciò ha

ripercussioni negative sull'andamento produttivo degli animali soprattutto in

quelli in lattazione, nei quali la risposta produttiva alla variazione alimentare è

immediata; per evitare ciò, si ricorre alla suddivisione della mandria o del

gregge in almeno 2 gruppi (animali in lattazione e animali in asciutta oppure

animali di maggiore livello produttivo e animali di minor livello produttivo) da

immettere nel pascolo rispettivamente nei primi 2 giorni e nei secondi 2 giorni

del turno, in modo che il gruppo più esigente utilizzi l'erba migliore non ancora

pascolata e quello meno esigente l'erba già pascolata dal gruppo precedente; in

tal modo è rispettato un tempo di soggiorno di 2 d ed un tempo di occupazione

di 4 d.

Sotto l’aspetto della protezione sanitaria degli animali è sempre preferibile

praticare il pascolamento, in particolare nelle stagioni intermedie (fine autunno

e inizio primavera), nelle ore centrali dellagiornata, allo scopo di ridurre

l’ingestione delle larve presenti nell’erba umida della notte e/o del mattino

(strongilosi) e di evitare il rallentamento dei processi digestivi che favoriscono

l’insorgenza di tossicosi (gastroenterotossiemia

LA STABULAZIONE

La stabulazione è il ricovero in appositi locali e/o il contenimento con apposite

attrezzature degli animali in produzione zootecnica. Essa, a seconda

dell'aspetto considerato, può essere distinta:

rispetto alla durata, in: permanente o continua, quando gli animali vivono per

tutto l'anno nei ricoveri, ovviamente escluse le ore di pascolamento

(normalmente 3÷4 nei bovini da latte, 6÷8 nei bovini da carne, negli ovini da

latte e nei caprini) qualora questo venga praticato continuativamente per tutto

l'anno (come nel sistema semiestensivo) oppure saltuariamente per alcune

stagioni (come nel sistema semintensivo); temporanea o discontinua, quando gli

123

animali sono mantenuti nei ricoveri soltanto in alcune stagioni (normalmente

d'inverno e/o d'estate); · rispetto alla libertà di movimento degli animali, in:

fissa, quando gli animali sono mantenuti legati nella posta o rinchiusi in un

recinto — individuale o collettivo — molto stretto; libera, quando gli animali

sono liberi di muoversi a proprio piacimento nel ricovero. La stabulazione è

quindi, di fatto, limitata soltanto agli allevamenti stallini e semistallini,.

La stabulazione quindi comporta inevitabilmente la necessità della presenza di

fabbricati aziendali, i quali, in funzione della loro destinazione, vengono distinti

fondamentalmente in: locali per il ricovero degli animali, denominati stalle per i

bovini ed i bufalini, ovili per gli ovini e caprili per i caprini, tettoie per tutte le

specie quando essi risultano aperti almeno su un lato; locali di servizio degli

animali (sala di attesa, sala di mungitura, sala di raccolta e di refrigerazione del

latte e sala di servizio del personale, per gli allevamenti da latte; sala di parto,

sala di isolamento degli animali ed infermeria, per tutti gli allevamenti); locali

di conservazione degli alimenti (fienili o tettoie per il fieno, sili per gli insilati,

magazzini per i concentrati, pagliai per la paglia); strutture accessorie: quali

corridoi di transito, di guida, di pesatura e di contenimento degli animali;

concimaie per la raccolta e/o la fermentazione dei residui (deiezioni solide o

feci, deiezioni liquide o urine, paglia e/o lettiera, acqua di lavaggio degli

impianti) e recinzioni più o meno ampie per l'allevamento dei giovani.

I LOCALI PER IL RICOVERO DEGLI ANIMALI

LE CARATTERISTICHE GENERALI

I locali per il ricovero degli animali, qualunque sia la loro destinazione

produttiva (latte, carne, duplice), la categoria e la fase produttiva (giovani in

allattamento, in svezzamento, in ingrassamento oppure in allevamento;

femmine in produzione — in mungitura o in allattamento — oppure in asciutta;

maschi in attività oppure in riposo riproduttivo), debbono ottemperare sempre

ai tre seguenti requisiti fondamentali: igienicità dell'ambiente; efficienza di

conduzione dell’allevamento, economicità di gestione dell'azienda.

124

L’igienicità dell'ambiente. Per garantire la sanità degli animali, l'igiene dei

locali, soprattutto se la stabulazione è fissa e/o permanente, deve essere sempre

molto curata; gli elementi principali da considerare per realizzare l'igienicità

sono: la ubicazione, l'esposizione, la termoregolazione, la ventilazione, la

umidificazione e la illuminazione dei locali.

La ubicazione, che è sempre fortemente condizionata dalle caratteristiche

orografiche dell'azienda (conformazione planimetrica, giacitura ed esposizione

dei terreni), deve essere realizzata in zona asciutta, ventilata, soleggiata,

pianeggiante, con possibilità di esecuzione di ampie recinzioni attigue per i

giovani ed in posizione baricentrica rispetto alle attività aziendali.

L'orientamento o esposizione, che è condizionata dalla posizione geografica

dell'azienda (latitudine, altitudine, direzione dei venti dominanti, insolazione) e

dal tipo di allevamento (specie allevata ed indirizzo produttivo), è normalmente

quello Nord - Sud, talvolta con rotazione di 10÷20 gradi verso E per aumentare

l'insolazione nei periodi freddi oppure verso O per ridurla in quelli caldi, nelle

zone di pianura; quello Est - Ovest con il lato aperto verso Sud per favorire

l'insolazione, nelle zone collinari.

La termoregolazione è indispensabile per mantenere, per quanto possibile,

l'ambiente entro intervalli termici vicini a quelli ottimali per la specie e la

categoria allevate (°C 12±6 per vacche in lattazione, 15±5 per vitelloni, 18±2 per

vitelli in allattamento; 10±5 per pecore, 18±2 per agnelli; 15±5 per capre, 20±2

per capretti). Essa può essere realizzata: all'interno dei locali, oltrechè con la

coibentazione delle sue parti (tetto, pareti, pavimento), con il riscaldamento

invernale ed il raffreddamento estivo a mezzo di pompe di calore; all'esterno

dei locali, con pareti protettive oppure con l'ombreggiamento, rispettivamente.

La ventilazione è indispensabile per garantire un adeguato ricambio dell'aria

(almeno 3÷4 ricambi completi ogni ora) e per evitare l'accumulo: della anidride

carbonica CO2, prodotta dalla respirazione degli animali e dalla fermentazione

delle loro feci e della loro lettiera; dell'ammoniaca NH3, prodotta dalla

fermentazione delle urine; dell'acido solfidrico H2S proveniente dalla

125

fermentazione della lettiera;. Tale ricambio può essere ottenuto, oltrechè

direttamente con la ventilazione, con l'impiego di finestrature sulle pareti.

La umidificazione oppure l’essiccazione dell'aria sono indispensabili per

regolare l'umidità relativa dell'ambiente, il cui valore ottimale è del 60÷80 % ed

il cui livello minimo è del 45÷40 %. Essa è praticata, più che con l'impiego di

umidificatori oppure di essiccatori che sono sempre molto costosi, adottando

accorgimenti costruttivi e/o espositivi che facilitino il ricambio dell'aria e

l'insolazione e limitino l'accumulo di umidità e soprattutto il suo

condensamento negli strati alti e la successiva precipitazione in quelli bassi.

La illuminazione, che, salvo rari casi, è praticata artificialmente soltanto di

notte, è garantita da una buona esposizione e da una opportuna disposizione

dei vari fabbricati; queste devono consentire una luminosità naturale più

intensa e lunga possibile allo scopo di favorire tutte le attività dell'animale

(maggiore livello di ingestione, maggiore sintesi vitaminica, deambulazione più

frequente etc.).

La efficienza di conduzione dell’allevamento è legata principalmente alla

efficienza della manodopera nel governo degli animali: la movimentazione di

questi, qualunque sia la loro libertà di movimento e quindi il tipo di

stabulazione, deve poter essere attuata sempre facilmente, comodamente, senza

perturbazioni etologiche per essi e con il minimo dispendio di manodopera;

pertanto i percorsi degli animali devono essere minimi, abitudinari e ripetitivi.

La economicità di gestione dell’azienda è legata al costo di costruzione e di

gestione dei fabbricati, alla durata del loro ammortamento tecnico ed alle spese

di gestione dell'allevamento. Essa è in genere stimata come costo unitario per

capo allevato e/o per kg di prodotto..

Le strutture minime

Le strutture dei ricoveri, qualunque sia la loro tipologia costruttiva ed i

materiali impiegati, sono sempre costituite da: Pavimento, Pareti, Tetto,

Attrezzature.

126

Il Pavimento può essere eseguito in calcestruzzo (continuo oppure fessurato

con sottostante fossa di raccolta delle deiezioni) oppure in metallo (grigliato,

per giovani in ingrassamento) oppure in legno (gabbie per giovani in

allattamento) oppure in paglia su battuto in terra (stabulazione libera); esso

deve essere sempre isolato termicamente ed igroscopicamente, possedere una

pendenza non < al 3% per garantire lo smaltimento delle urine e non > al 5% e

possibilmente rugoso, per evitare lo scivolamento degli animali.

Le Pareti, eseguite normalmente in blocchetti forati di calcestruzzo poroso a

tamponamento degli spazi fra i pilastri generalmente metallici, devono essere

sempre provviste di finestre apribili per l'arieggiamento, la cui superficie

rispetto a quella del pavimento non deve essere inferiore ad 1/15; la il ricambio

di questa deve essere garantito almeno 3 ÷ 4 volte per ora.

Il Tetto, che può essere eseguito in tegole, in lamiera o in fibrocemento, deve

garantire comunque un sufficiente isolamento termico (ad esempio con

l'impiego, soprattutto nelle strutture chiuse, di isolanti quali polistirolo estruso,

poliuretano espanso, lana di vetro) ed evitare la possibilità di condensamento e

di ricaduta dell'umidità ambientale.

Le Attrezzature, che ovviamente dipendono dal tipo di stabulazione, sono: le

rastrelliere (normalmente in ferro zincato) fisse oppure mobili e le tazze di

abbeveraggio, che devono essere sempre presenti; i battifianchi e le catene di

contenimento, necessari soltanto nella stabulazione fissa.

Le aree o zone dei ricoveri

Le aree o zone di suddivisione dei ricoveri, qualunque sia il tipo di stabulazione

(permanente oppure temporanea) e la sua modalità (fissa oppure libera) sono le

seguenti 3: area di riposo o di decubito, area di alimentazione, area di esercizio

o di passeggio. Queste tre aree sono nettamente distinte e separate anche

fisicamente nella stabulazione libera, non sempre distinte in quella fissa.

La area di riposo o di decubito è l'area in cui gli animali riposano (i ruminanti

dormono per circa 6 h/d, ruminano per circa 12 h/d ed ingeriscono alimenti

127

per circa 6 h/d) e/o ruminano e quindi stanno sdraiati, normalmente sul fianco

destro, in posizione di decubito. Essa deve essere sana, confortevole sia per

temperatura che per umidità che per aerazione e con pavimento morbido.

L'area di alimentazione è l'area in cui agli animali è somministrata la razione ed

in cui essi trascorrono circa 1/4 della giornata ed emettono circa 2/3 delle feci:

nella stabulazione fissa è attigua ma non separata dall'area di riposo, in quella

libera è in genere sistemata ortogonalmente o parallelamente all'area di riposo

da cui è però sempre nettamente distinta.

La area di esercizio o di passeggio è l'area in cui l'animale circola liberamente ed

a suo piacimento durante tutto il giorno ed in cui permane per 6÷12 h/d.

I RICOVERI PER I BOVINI

I ricoveri per bovini, denominati genericamente stalle (o più propriamente

tettoie se aperte almeno su un lato) sono condizionati sia dall'indirizzo

produttivo dell'allevamento (latte oppure carne) che dalla categoria produttiva

degli animali (giovani destinati all'allevamento oppure all'ingrassamento;

vacche per la produzione lattea oppure per quella carnea).

I ricoveri per i giovani

I ricoveri per i giovani in allattamento oppure in svezzamento, qualunque ne

sia la destinazione produttiva (allevamento per la rimonta oppure

ingrassamento per la macellazione) sono caratterizzati: negli allevamenti da

latte, da box singoli normalmente in legno, sistemati all'aperto o sotto tettoia,

dove devono essere provviste di zona di passeggio e di lettiera abbondante

nella zona di riposo e mantenute a temperatura ed umidità più costanti

possibili (rispettivamente, 18±2°C e 65±10%); · negli allevamenti da carne, da

box collettivi, attigui oppure interni alla stalla delle madri, per tutta la durata

dell'allattamento (5÷6 mesi).

I ricoveri per i giovani in allevamento sono caratterizzati da box multipli per

20÷40 capi in tettoie spaziose (1 mq/q di peso corporeo), munite di zona di

128

passeggio molto ampia (recinti di 10÷20 mq/capo) in cui i vitelli, separati per

sesso, restano dai 3÷4 oppure dai 6÷8 mesi sino alla età della riproduzione.

I ricoveri per le vacche da carne I ricoveri per le vacche da carne sono legati al

tipo di allevamento (stallino oppure semistallino) ed al tipo di stabulazione

(libera oppure fissa): poichè però di fatto è diffusa soltanto la stabulazione

libera in qualsiasi tipo di allevamento, le stalle devono disporre di una zona di

riposo, di una zona di alimentazione e di una zona di passeggio comprende

anche lo spazio necessario ai vitelli nel periodo di allattamento alla madre che

dura 4÷6 mesi);

I ricoveri per le vacche da latte

Nell'allevamento bovino da latte — praticato ormai esclusivamente con il

sistema intensivo senza ricorso al pascolamento e, limitatamente alle regioni

meridionali, con il sistema semintensivo con ricorso al pascolamento soltanto

nelle stagioni di maggior produzione foraggera — la stabulazione, che è sempre

permanente, può essere fissa oppure libera.

La stabulazione fissa, praticata in aziende collinari di modeste dimensioni (< 30

vacche) e di basso livello tecnico e produttivo, è attuata con stalle chiuse in cui

la zona di riposo è formata da poste di m 2 x 1 separate individualmente da

battifianchi, la zona di alimentazione è attigua a quella di riposo e la zona di

passeggio è distaccata dalla prima: gli animali sono normalmente disposti su 2

file (testa a testa, con 1 corsia di alimentazione centrale e 2 corsie di servizio

laterali; oppure groppa a groppa, con 1 corsia di servizio centrale e 2 di

alimentazione laterali) ove rimangono per almeno 16÷18 h/d legati con catena

alla rastrelliera e da cui vengono condotti alla zona di passeggio ad orario

stabilito. La superficie di riposo è di 2 mq/capo, il fronte mangiatoia di 1

m/capo, la superficie di passeggio è di 6÷8 mq/capo.

La stabulazione libera, che, rispetto a quella fissa, garantisce una migliore sanità

animale (affezioni mammarie e podali meno gravi) ed una maggiore

produttività (carriera produttiva più lunga e fecondità superiore) in quanto le

129

vacche sono libere di muoversi durante tutto il giorno a loro piacimento, è

caratterizzata dalla presenza delle 3 zone di riposo, di alimentazione e di

passeggio normalmente ben delimitate e fisicamente distinte.

L'area o zona di riposo può essere individuale (a cuccetta) oppure collettiva (a

lettiera permanente):

• le cuccette — delle dimensioni minime di m 2,20 x 1,15 (2,5 mq/capo) e

di m 2,60 x 1,35 (3,5 mq/capo) a seconda che il peso corporeo degli animali sia

di 5 oppure 7 q (0,5 mq/q), separate fra loro per evitare agli animali reciproci

disturbi e disposte in doppia fila in numero non > a 30 per fila per evitare

un'eccessiva densità — sono quotidianamente rifornite di paglia (1 kg/d) per la

lettiera;

• la lettiera permanente, per il cui buon mantenimento sono invece

necessari, a seconda del clima ed in particolare della piovosità invernale, 3÷4 kg

x capo/d di paglia, ha una superficie unitaria, a seconda del peso corporeo

degli animali, di 4÷6 mq con pendenza del pavimento fra 3÷5%.

• L'area o zona di alimentazione, che è sempre preferibile tenere separata

anche fisicamente dalle altre 2 aree, è disposta in genere ortogonalmente a

quella di riposo, in posizione leggermente rilevata, coperta con strutture leggere

e formata da una corsia centrale di distribuzione meccanizzata degli alimenti

(4÷5 m di larghezza) e da 2 mangiatoie laterali (m 1,6÷1,8 di larghezza) con

rastrelliera autocatturante di lunghezza proporzionale alla consistenza

dell'allevamento

• L'area di passeggio, la cui superficie è normalmente doppia di quella di

riposo (8÷12 mq/capo) deve essere aperta, libera, ben esposta, ventilata,

facilmente ripulibile dalle deiezioni e dotata di cumuli in terra per una migliore

ventilazione estiva degli animali. Essa è realizzata con pavimento in parte in

battuto di cemento ed in parte in battuto di terra.

• La asportazione del letame (lettiera + feci + urine fermentati), la cui

produzione annuale complessiva si aggira mediamente intorno alle 10÷12 volte

il peso corporeo degli animali nella stabulazione fissa e intorno alle 8÷10 volte

130

in quella libera deve essere eseguita almeno settimanalmente nella prima e

almeno trimestralmente nella seconda (comunque quando lo strato raggiunge

l'altezza di cm 10÷15 e di cm 40÷50, rispettivamente). Le deiezioni, che

giornalmente sono pari mediamente all' 1% del peso corporeo, vengono emesse

per il 65% nella zona di alimentazione.

I LOCALI DI SERVIZIO PER GLI ANIMALI

Il tipo e l'entità dei locali di servizio variano in funzione dell'attitudine

produttiva degli animali: per quelli da carne sono infatti sufficienti soltanto la

sala di parto, la sala di isolamento e l'infermeria; per quelli da latte, oltre ai

precedenti, sono invece indispensabili tutti quelli per la mungitura (sale di

attesa e di mungitura degli animali, di refrigerazione del latte e di servizio del

personale).

La sala di parto è formata da box individuali per i bovini ed i bufalini e da box

collettivi per gli ovini ed i caprini; la dimensione del box è di mq 8÷10 per capo

nel primo caso, di mq 50÷60 per 50 capi nel secondo caso.

La sala di isolamento, che è particolarmente importante negli allevamenti che

praticano il ristallo o l'ingrassamento dei vitelli scolostrati, deve poter contenere

per almeno 5÷10 d gli animali da ingrassare.

L'infermeria è indispensabile soprattutto per gli allevamenti a stabulazione

permanente, in cui maggiore è il pericolo di contagio e di diffusione delle

malattie sociali.

La sala di attesa, antistante quella di mungitura, deve essere proporzionata alla

consistenza dei gruppi in mungitura (mq/capo 2 per bovini e bufalini e 0,5 per

ovini e caprini).

La sala di mungitura, da eseguire sempre con materiale lavabile sia nel

pavimento che nelle pareti (grès o ceramica), deve essere proporzionata alla

consistenza dell'allevamento: 1 posto ogni 10÷12 animali in mungitura.

131

La sala di raccolta e di refrigerazione del latte è formata da contenitori (tanks)

che devono contenere tutto il latte delle 24 h se il conferimento è quotidiano

oppure delle 48 h se il conferimento avviene ogni 2 giorni.

La sala di servizio del personale è un'ambiente di pochi mq (6÷8) per il

personale di stalla.

I LOCALI DI CONSERVAZIONE DEGLI ALIMENTI

Sono costituiti principalmente dal fienile, dal silo, dal magazzino e talvota dai

locali di preparazione degli alimenti.

Il fienile — eseguito normalmente con strutture molto economiche tipo tettoie

con pilastri in ferro zincato o in alluminio, con pareti in blocchetti soltanto sino

all'altezza di m 1,5÷2, con pavimento in calcestruzzo e con tetto in lamiera —

deve contenere il fieno necessario all'allevamento da una primavera a quella

successiva (che è di fatto l'unica stagione di produzione di esso). Nel suo

dimensionamento occorre tener conto che l'altezza massima del fienile non deve

superare di norma i m 4÷5,

Il silo — eseguito con strutture economiche formate da pareti in calcestruzzo

dell'altezza di m 2,5÷3 e con pavimento anch'esso in calcestruzzo nei sili

orizzontali oppure da cilindri metallici del diametro di m 5÷6 e dell'altezza di m

8÷10 in quelli verticali — deve essere dimensionato tenendo conto che

l'insilamento può avvenire per non oltre 4÷6 mesi all'anno (l'allevamento deve

quindi essere autonomo per 8÷6 mesi

Il magazzino, eseguito in muratura oppure in sili metallici, deve contenere le

granelle e/o i concentrati e/o i pellettati,

LE STRUTTURE ACCESSORIE

Sono costituite dai corridoi, dalle concimaie e dalle recinzioni.

I corridoi, necessari per il transito e lo spostamento degli animali oppure per la

cattura, il contenimento e la pesatura di essi, sono in genere in calcestruzzo

132

oppure in sbarre metalliche e devono consentire il passaggio di 1 o pochi

animali per volta.

Le concimaie, la cui distanza dagli altri fabbricati non deve essere inferiore ai m

25, devono essere impermeabilizzate per evitare la dispersione dei liquidi; la

quantità di letame prodotto, fra lettiera, feci, urina e acqua di lavaggio, varia

con il tipo di produzione del letame: 10÷20 volte il peso corporeo degli animali

negli allevamenti di bovini tenuti in stabulazione fissa e permanente, 3÷4 volte

negli allevamenti di ovini e caprini tenuti in stabulazione libera e con

sistematico ricorso al pascolamento.

Le recinzioni, attigue ai ricoveri, devono essere molto ampie (almeno 50÷100

mq/capo nei bovini, 10÷20 mq/capo negli ovini e nei caprini).

LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO

La conduzione dell’allevamento consiste essenzialmente nell’organizzazione e

nella gestione degli animali, la cui suddivisione in gruppi è indispensabile nelle

differenti fasi produttive e/o riproduttive e nei diversi periodi e/o stagioni

dell’anno. Questa suddivisione comporta sempre la costituzione di gruppi, che,

oltre a dover essere mantenuti separati anche fisicamente almeno in determinati

periodi, siano anche il più possibile omogenei al loro interno per la caratteristica

differenziale principale: ad esempio, il sesso (maschi vs femmine); l’età (giovani

ancora improduttivi vs adulti già in produzione); la destinazione produttiva

(giovani in allevamento vs giovani in ingrassamento); la funzione produttiva

(femmine in asciutta e/o in gravidanza inoltrata vs femmine in lattazione e/o

in allattamento; maschi in attività riproduttiva vs maschi in riposo

riproduttivo); il livello produttivo (femmine ad alta produzione vs femmine a

bassa produzione; maschi a rapido accrescimento vs maschi a lento

accrescimento), lo stadio produttivo (femmine ad inizio lattazione vs femmine

in lattazione avanzata).

133

LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO BOVINO DA LATTE

La conduzione dell’allevamento bovino da latte, rispetto a quella degli altri

allevamenti, presenta: da un lato, una maggiore complessità, per il maggior

numero di gruppi che costantemente lo compongono e che è dovuto sia al più

elevato livello produttivo degli animali della specie che al più avanzato livello

tecnico delle aziende bovine da latte; dall’altro, una accentuata uniformità nelle

diverse stagioni, grazie soprattutto alla poliestralità continua delle vacche da

latte, che comporta una distribuzione dei calori e delle gravidanze e,

conseguentemente, dei parti e delle lattazioni quasi uniforme durante tutto

l’anno;

Qualunque sia la consistenza patrimoniale e l’organizzazione aziendale di

questo tipo di allevamento, la mandria è sempre composta, per tutto l’anno, dai

seguenti gruppi:

· gruppo delle vacche in lattazione che, quando la dimensione aziendale lo

consente, può essere a sua volta suddiviso, nei seguenti sottogruppi;

a) vacche fresche di parto: da 1 settimana sino ad un mese dal parto;

b) vacche ad inizio lattazione (2°÷3° mese) sino al 90° giorno dal parto;

c) vacche a metà lattazione (4°÷6° mese) sino al 180° giorno dal parto;

d) vacche a fine lattazione (7°÷10° mese) dal 180° giorno dal parto sino

all’asciugamento;

· gruppo delle vacche in asciutta e delle giovenche prossime al parto (8°÷9°

mese di gravidanza);

· gruppo delle manzette e delle manze non ancora inseminate: talvolta questo

gruppo è ulteriormente suddiviso in 2 sottogruppi (manzette e manze) per

meglio regolarne l’alimentazione;

· gruppo delle vitelle (femmine al di sotto dei 6 mesi di età) da rimonta;

· gruppo degli animali eccedenti la rimonta in ingrassamento, ovviamente

qualora l’ingrasso venga praticato in azienda: talvolta esso è suddiviso in 2 o

più sottogruppi, in funzione sempre del sesso (maschi vs femmine) o anche del

134

tipo genetico (puri vs meticci) o dell’età e del peso corporeo (sino a 2 q, oltre i 2

q).

La suddivisione delle vacche in lattazione in più sottogruppi è indispensabile

comunque per mantenere distinti fra loro animali di differente livello

produttivo giornaliero ai fini della corretta alimentazione: infatti animali con

differente distanza dal parto hanno ovviamente produzioni giornaliere

differenti, che sono prima crescenti (sino a 4÷6 w), poi costanti (2°÷3° mese) e

successivamente via via decrescenti, inizialmente con ritmo lento (4°÷6° mese) e

successivamente con ritmo più accentuato (7°÷10° mese), sino all’asciugamento.

In tutti i casi agli animali in lattazione viene somministrata una razione

alimentare di base (in grado di soddisfare le esigenze di mantenimento e quelle

di produzione sino a 10 kg/d di latte) cui si aggiunge (in mangiatoia oppure in

sala di mungitura oppure ancora con autoalimentatore) una integrazione

(individuale oppure di gruppo, a seconda del tipo di autoalimentatore)

differenziata in base alla distanza dal parto, che viene assunta come parametro

di stima della diversità di livello produttivo giornaliero fra animali aventi

identica anche se sfasata curva di lattazione. Nel caso in cui venga praticata la

inseminazione naturale, in associazione oppure in sostituzione della

inseminazione artificiale, deve essere comunque previsto un box singolo per

ciascun toro mantenuto in azienda.

LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO BOVINO DA CARNE

La conduzione dell’allevamento bovino da carne è funzione della razza allevata

(rustica oppure specializzata), del sistema di allevamento (estensivo oppure

intensivo) e dell’eventuale adozione della tecnica dell’incrocio industriale, la

quale è indispensabile soltanto nell’allevamento delle razze rustiche ma può

essere utile anche in quello delle razze specializzate.

Nell’allevamento estensivo — tipico e sempre caratterizzante delle razze

rustiche ma abbastanza frequente anche per quelle specializzate — la

utilizzazione del pascolo (soprattutto arbustivo nelle prime ed erbaceo nelle

135

seconde) come fonte alimentare principale e la sua integrazione

prevalentemente con fieno e/o concentrati soltanto in alcuni periodi dell’anno

(autunno e/o inverno, a seconda del livello altimetrico dell’azienda) ed in

alcune fasi produttive degli animali (vacche in gravidanza inoltrata e/o ad

inizio lattazione), nonché la totale assenza della mungitura, se non

limitatamente a qualche mese dopo il parto, comportano la organizzazione e la

suddivisione della mandria in gruppi, variabili per numero e consistenza con le

diverse fasi produttive che coincidono con le diverse stagioni dell’anno.

La mandria all’inizio dell’annata agraria, convenzionalemente fissata nel 1° di

ottobre, è normalmente costituita da 3 gruppi: il primo formato dalle vacche

asciutte, in gravidanza inoltrata nelle zone costiere ove i parti sono

prevalentemente autunnali oppure a metà gravidanza nelle zone montane ove i

parti sono prevalentemente primaverili; il secondo dalla rimonta, ossia dalle

manzette sotto l’anno d’età e dalle manze oltre l’anno; il terzo dai tori e dai

torelli. Essa permane tale sino alla fine dell’autunno in pianura e sino alla metà

della primavera in montagna, momento in cui i tori sono imbrancati con le

vacche già figliate o pronte al parto e con le manze in età riproduttiva (26÷27

mesi); il/i gruppo/i delle vitelle, delle manzette e delle manze non ancora in età

riproduttiva (al di sotto dei 24 mesi) deve essere accuratamente e rigorosamente

mantenuto separato dai tori per evitare il rischio di gravidanze indesiderate in

animali troppo giovani che comportano sempre maggiori probabilità di distocie

e/o di arresto dello sviluppo somatico delle giovenche.

I vitelli durante l’allattamento, che si protrae al massimo per 6÷8 mesi nelle

razze rustiche e per 4÷6 nelle razze specializzate, possono seguire le madri al

pascolo per tutto il giorno, oppure restare separati soltanto durante la notte,

oppure ancora, per favorire la ripresa immediata dell’attività riproduttiva delle

madri, per tutto il giorno, nel qual caso però si deve avere cura di allattare i

vitelli almeno 2 volte al giorno. Questi di norma si svezzano spontaneamente

all’asciugamento delle madri (giugno in pianura, settembre in montagna).

136

Nell’allevamento intensivo — basato sulla stabulazione permanente degli

animali e sull’impiego esclusivo di razze specializzate in aziende (asciutte o

parzialmente irrigue) di elevata produzione foraggera — la conduzione, a parte

quelli igienico sanitari, non pone particolari problemi. La mandria è sempre

costituita da almeno 2 gruppi: quello degli animali adulti e quello degli animali

giovani (rimonta).

Il gruppo degli adulti può, a sua volta, essere ulteriormente suddiviso in 2

sottogruppi:

• il sottogruppo delle vacche allattanti, i cui vitelli possono essere

imbrancati con la madre per tutto o soltanto per parte del giorno, ed in cui è

imbrancato il toro riproduttore se è praticata la inseminazione naturale (IN o

monta) oppure il toro saggiatore (maschio intero deferenctomizzato), per

l’accertamento tempestivo dei calori, se invece è praticata quella strumentale

(IS);

• il sottogruppo delle vacche asciutte in gravidanza accertata più o meno

avanzata, i cui singoli capi confluiscono, via via che partoriscono, in quello

precedente e dal quale provengono, via via che vanno in asciutta, le vacche in

gravidanza.

• Il gruppo dei giovani può essere anch’esso suddiviso in due sottogruppi:

quello delle vitelle svezzate e destinate alla rimonta (15÷18% delle vacche,

corrispondente al 30÷35% delle vitelle nate) e quello delle manze sino all’età del

primo salto o della prima inseminazione (18÷20 mesi).

• Il toro in questo tipo di allevamento, in cui i parti sono distribuiti

abbastanza uniformemente in tutte le stagioni grazie alla poliestralità quasi

continua delle vacche, resta sempre imbrancato con le vacche fresche di parto.

LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO OVINO DA LATTE

L’allevamento ovino da latte, essendo praticato di norma in aziende

semintensive o semiestensive contraddistinte comunque sempre da due

condizioni caratterizzanti — il ricorso sistematico al pascolamento per tutto o

137

per gran parte dell’anno e l’elevata concentrazione stagionale dei parti

(novembre–dicembre per le pluripare e febbraio-marzo per le primipare) —

comporta necessariamente la suddivisione e la successiva ricomposizione del

gregge in un numero di gruppi variabile con la stagione ma sempre in funzione

dello stadio riproduttivo e quindi produttivo degli Animali.

Il gregge alla fine dell’annata precedente (30 settembre) è normalmente

costituito da un unico gruppo formato dalle tre categorie seguenti:

1) pecore asciutte, che si trovano in parte in gravidanza inoltrata, in quanto

inseminate e regolarmente rimaste gravide entro il mese di giugno; in parte a

metà gravidanza, in quanto rimaste gravide soltanto a fine luglio oppure

addirittura nella 1ª quindicina di agosto; in parte ad inizio gravidanza, in

quanto rimaste gravide soltanto in settembre; in parte addirittura ancora vuote,

in quanto, pur essendo state inseminate, non sono ancora rimaste gravide o

hanno abortito precocemente; nel complesso esse costituiscono mediamente

l’80% delle femmine del gregge ed ovviamente il 100% delle femmine adulte;

2) agnelle nate nell’autunno precedente (novembre–dicembre) e costituenti la

quota di rimonta (25% delle femmine adulte, corrispondente al 20% del gregge)

ad inizio gravidanza oppure ancora vuote;

3) arieti in attività riproduttiva

Esso, con l’inizio della nuova annata (1° ottobre), deve essere suddiviso, allo

scopo principale di poter alimentare separatamente i gruppi in funzione delle

loro differenti esigenze nutritive, in almeno 2 gruppi (il 1° costituito dalle

pecore in gravidanza inoltrata accertata, che quindi partoriranno entro

dicembre; il 2° dalle pecore ad inizio gravidanza o vuote, dalle agnelle e dagli

arieti),oppure in 3 gruppi (il 1° dalle pecore in gravidanza inoltrata; il 2° dalle

pecore gravide, ma che partoriranno dopo dicembre; il 3° dalle pecore vuote o

ad inizio gravidanza, dalle agnelle e dagli arieti).

Questo schema classico di conduzione dell’allevamento ovino da latte

tradizionale — imperniato cioè sulla stagionalità dei parti e quindi delle

produzioni e sulla utilizzazione delle risorse foraggere aziendali esclusivamente

138

tramite il pascolamento e conseguentemente sulla conduzione semiestensiva, o

al massimo semintensiva, dell’azienda — può subire però variazioni più o

meno rilevanti qualora si ricorra all’impiego di tecniche più avanzate di

allevamento, ormai in via di diffusione almeno nelle aziende migliori, quali: 1)

l’allattamento artificiale, 2) lo svezzamento precoce, 3) l’incrocio industriale, 4)

la produzione dell’agnellone, 5) la destagionalizzazione dei parti e

l’intensificazione dei cicli riproduttivi, 6) l’inseminazione artificiale e la

connessa sincronizzazione degli estri, 7) l’introduzione in azienda di colture

irrigue supplementari e la conseguente anticipazione dei parti e/o ritardo

dell’asciugamento, 8) l’adozione della stabulazione permanente.

L’allattamento artificiale degli agnelli comporta — a parte la necessità di

disporre in azienda oppure in strutture esterne di adeguati locali di

allattamento — la separazione degli agnelli dalla madre, anziché al momento

della macellazione (limitatamente alla quota eccedente la rimonta) o dello

svezzamento (limitatamente alla quota di rimonta), già al 2° - 3° d di vita e

conseguentemente l’inizio della mungitura delle pecore immediatamente dopo

il parto anziché dopo 25÷35 d.

Lo svezzamento precoce degli agnelli, che di fatto è strettamente connesso con

l’allattamento artificiale, comporta il passaggio degli agnelli dalla alimentazione

liquida (con latte o con suoi succedanei) a quella solida più anticipatamente

della norma (30 anziché 45 d).

L’inseminazione strumentale delle pecore, necessariamente associata alla

sincronizzazione degli estri per garantire una percentuale minima (50÷70%) di

attecchimento, comporta soltanto una maggiore concentrazione dei parti ed un

conseguente maggior impegno di sorveglianza del gregge.

L’incrocio industriale comporta la suddivisione del gruppo delle pecore in

mungitura in due sottogruppi di uguale consistenza (il primo, di maggior

livello produttivo, da destinare alla riproduzione in purezza con arieti da latte;

il secondo, di minor livello produttivo, da destinare alla riproduzione in

incrocio con arieti da carne), ma limitatamente al solo periodo riproduttivo

139

(giugno) e soltanto se è praticata la monta naturale. La produzione

dell’agnellone — necessariamente connessa con l’incrocio industriale, in quanto

con animali da latte in purezza non esiste né utilità tecnica né convenienza

economica a produrre l’agnellone — comporta soltanto la necessità della

disponibilità aziendale o extraziendale di idonei locali, che però possono essere

anche quelli di allattamento adeguatamente adattati all’ingrassamento.

TECNICHE PARTICOLARI

Strettamente connesso con il tipo di conduzione è l’impiego di alcune tecniche

particolari, quali la decornazione, la marchiatura, la tosatura, la caudotomia, la

toelettatura, la punteggiatura corporea e la rilevazione dei calori.

La decornazione, che consiste nella inibizione dello sviluppo delle corna sin

dalla nascita oppure nel loro taglio in età giovanile o adulta, è praticata in tutti

gli allevamenti di qualsiasi specie se mantenuti in stabulazione permanente,

allo scopo sia di ridurre l’aggressività degli animali, tanto nei confronti

dell’uomo quanto delle compagne, e quindi limitare i danni provocati dalle

reciproche testate o incornate, sia di facilitare la loro cattura ed il loro

contenimento nelle rastrelliere e, limitatamente alle razze da latte e duplici, in

sala di mungiutura. Essa viene attuata: negli animali giovani, con la

cauterizzazione del bottone corneo, a mezzo di un ferro rovente oppure di un

cavo elettrico oppure ancora di una matita caustica acida o basica, entro la

prima settimana di vita; negli animali adulti con il taglio, a mezzo di un

seghetto o di un filo metallico o di una sega elettrica, delle corna già sviluppate

e nella loro disinfezione con soda, allo scopo di prevenire eventuali pericolose

infezioni..

La marchiatura, che è l’apposizione di un marchio o semplicemente di un

tatuaggio in una parte specifica del corpo, è usata per l’identificazione

inequivocabile (sia aziendale o padronale, che comunale o provinciale)

dell’animale, ai fini dell’accertamento della proprietà (difesa contro l’abigeato) o

di uno specifico trattamento sanitario (antiparassitario, antimicrobico,

140

vaccinazione etc). Essa può essere praticata, a seconda della specie, in regioni

differenti del corpo dell’animale (groppa, coscia, natica, collo, evitando però

sempre di deprezzarne la pelle, oppure orecchio o grassella) e con modalità

differenti (marchiatura a fuoco e/o apposizione auricolare di targhetta

identificatoria numerata , impressione con azoto liquido, pinzatura indelebile).

La segnatura, pratica ormai caduta in disuso, consisteva invece nella fenditura,

perpendicolarmente o traversalmente o obbliquamente all’asse maggiore, e/o

nell’asportazione di una piccola parte di uno o di entrambi i lobi auricolari.*

La tosatura consiste nella rimozione, annuale oppure semestrale, della lana, allo

scopo di favorire la dispersione del calore corporeo e quindi la

termoregolazione dell’animale durante la stagione calda; essa ovviamente è

praticata soltanto nella specie ovina e, limitatamente alle razze da pelo, in

quella caprina.

La caudotomia consiste nel taglio, fra la 4ª e la 5ª vertebra caudale, della coda,

allo scopo di mantenere sempre pulita dalle feci la parte posteriore dell’animale

(in particolare cosce, natiche e pube) per facilitare, soprattutto nelle razze

lattifere, le operazioni di mungitura e di controllo della mammella. Essa è

praticata quasi esclusivamente nella specie ovina, nella quale la coda è molto

lunga (15-20 vertebre) e ricoperta di abbondante lana; è superflua in quella

caprina, nella quale è molto corta (4÷5 vertebre) e non ha bisogno di essere

amputata; è praticata molto raramente nelle specie bovina e bufalina, in quanto

la coda ha funzione difensiva e protettiva dai parassiti.

l’applicazione di un anello in plastica molto rigida fra la 4ª e la 5ª vertebra

caudale, il quale, interrompendo la circolazione sanguigna della parte distale,

ne provoca la necrosi e la conseguente caduta o distacco in maniera indolore e

incruenta.

La rilevazione dell’estro. La rilevazione tempestiva e puntuale dell’estro di

ciascun animale è un’operazione fondamentale ai fini della corretta

determinazione del momento ottimale di inseminazione (sia essa naturale

oppure strumentale) che, a sua volta, è condizione indispensabile perché

141

all’inseminazione consegua sempre la fecondazione e la gravidanza e quindi

una normale attività riproduttiva degli animali e dell’allevamento.

Nell’allevamento intensivo bovino da carne i calori sono in genere rilevati con

l’impiego di un toro saggiatore (maschio intero vasectomizzato) imbrancato

perennemente nella mandria e provvisto di un tampone (pezza fissata al torace)

imbevuto di sostanza vivamente colorata per marcare, con il salto, le femmine

che via vengono in calore dopo il parto.

Nell’allevamento bovino da latte il calore è rilevato — oltrechè con

l’osservazione operata direttamente dal vaccaro su ciascun animale al momento

della mungitura, ossia almeno 2 volte al giorno, soprattutto nel periodo del

servizio — con l’adozione del “podometro”, che è una fascia elettronizzata

applicata allo stinco, la quale misura e registra su un computer i movimenti

dell’animale e quindi stima la sua irrequietezza come indice

dell’approssimazione dell’estro.

Nell’allevamento ovino da latte il calore è accertato direttamente dall’ariete

inseminatore oppure dall’ariete saggiatore provvisto di tampone colorato.

La toelettatura consiste nella asportazione della parte eccedente, nella limatura

e ripulitura degli unghioni cresciuti oltre misura per mancanza di movimento

degli animali soprattutto nelle stalle a stabulazione fissa e/o permanente. È

praticata periodicamente sugli animali, catturati e contenuti in un travaglio, da

personale aziendale o extraziendale specializzato che esercita quindi la

funzione del maniscalco. Gli animali che più necessitano di tale operazione

sono i maschi nel periodo riproduttivo e quelli mantenuti per lungo tempo in

recinti chiusi.

La punteggiatura corporea consiste nell’attribuzione di un punteggio (da 1 a 5)

che misuri correttamente lo stato di ingrassamento (o di dimagrimento) di un

animale, in particolare delle femmine durante le diverse fasi della lattazione,

allo scopo di valutare sia la correttezza dell’alimentazione praticata sia lo stato

fisiologico-sanitario dell’animale. Premesso che il valore 1 è assegnato ad

animali molto magri, 2 ad animali magri, 3 ad animali in forma, 4 ad animali

142

grassi e 5 ad animali obesi, questi valori variano durante la lattazione a causa

della deposizione oppure del consumo di riserve corporee, dovuti

rispettivamente alla superiorità dell’ingestione alimentare sulle esigenze

nutritive, in particolare energetiche (seconda parte della lattazione) oppure

delle esigenze sull’ingestione (prima parte della lattazione).

Il sistema di valutazione delle condizioni corporee dell’animale (BCS) si basa

sull’osservazione e sulla valutazione di alcuni tasti dell’animale quali: 1)

l’angolosità laterale del bacino (triangolo: tuberosità iliaca ® articolazione

coxofemorale ® tuberosità ischiatica); 2) la linearità dei legamenti sacro-iliaci e

sacro-ischiatici (depressi, coperti oppure grassi); 3) le tuberosità iliache ed

ischiatiche (copertura muscolare e depositi adiposi); 4) la rilevanza delle apofisi

spinose e trasverse delle vertebre lombari (depressione fra i processi, copetura

muscolare, depositi adiposi).

Il valore ottimale dovrebbe oscillare: intorno a 3,5 al parto, 3 all’inizio della

lattazione e 3,5 all’asciugamento, nelle vacche in lattazione; intorno a 3 al salto,

3,5 al parto e 2,5 allo svezzamento nelle pecore in lattazione.

È bene quindi che il punteggio corporeo si mantenga di fatto fra 2,5 e 3,5, non

essendo opportuno che un animale da latte ingrassi oltre 4 (fine lattazione), nè

dimagrisca al di sotto di 2 (picco di lattazione).

LA GESTIONE DELL’ALLEVAMENTO ZOOTECNICO

La gestione dell’allevamento zootecnico consiste principalmente nella

predisposizione di un piano colturale aziendale finalizzato al soddisfacimento

delle esigenze alimentari degli animali e nella gestione economica dell’attività

produttiva complessiva. Essa è pertanto funzione: dell’indirizzo produttivo

dell’impresa zootecnica (latte oppure carne), della specie allevata (bovina o

bufalina oppure ovina o caprina), del tipo di allevamento (esclusivamente

zootecnico oppure misto; specializzato oppure promiscuo; estensivo e

prevalentemente brado oppure intensivo e prevalentemente stallino), del livello

produttivo (alto, medio, basso) e soprattutto del regime idrico aziendale

143

(totalmente o prevalentemente asciutto oppure totalmente o prevalentemente

irriguo).

È inoltre da tenere sempre ben presente che tutte le scelte gestionali tecniche

debbono essere totalmente subordinate a quelle economiche.

Il piano colturale aziendale, che l’imprenditore deve accuratamente predisporre

di anno in anno, è legato strettamente al regime idrico dell’azienda ed al

conseguente tipo di allevamento ed indirizzo produttivo con questo

compatibile. Le aziende zootecniche in cui vengono allevati i ruminanti possono

essere ricondotte ai seguenti 3 tipi principali:

· Aziende asciutte pascolive, con pascoli prevalentemente arbustivi e/o

arborei, talvolta dotate di modeste superfici (4÷5%) coltivabili asciutte oppure

irrigue;

· Aziende asciutte prevalentemente coltivabili (> 80%), talvolta dotate di

superfici irrigue(5÷6%);

· Aziende totalmente o prevalentemente irrigue.

AZIENDE ASCIUTTE PASCOLIVE

Nelle aziende pascolive — in cui l’unica, o comunque predominante, coltura

praticata è il pascolo, che raramente è soltanto erbaceo ma più spesso è

soprattutto arbustivo o addirittura arboreo — il solo tipo di allevamento

compatibile è ovviamente quello estensivo e brado, limitato pertanto

all’impiego delle sole razze in grado di adattarvisi, cioè quelle rustiche sia della

specie caprina che di quella bovina

Nell’allevamento bovino rustico — in cui, oltre alla riproduzione in purezza di

una parte dellefattrici (30%) allo scopo di garantire la produzione della rimonta

e quindi la continuità dell’allevamento rustico, è attuata anche la riproduzione

in incrocio con razze da carne della restante parte delle fattrici (70%) allo scopo

di migliorare la produzione della carne e quindi di valorizzare l’allevamento

stesso — l’integrazione alimentare al pascolo è praticata, per almeno 2 mesi e

per non più di 4 mesi: generalmente soltanto con fieno, somministrato in

144

quantità limitata (3÷5 kg/d per 60÷120 d/y, corrispondente ad un consumo

annuale di 3÷6 q/capo produttivo), appena sufficiente a garantire la

sopravvivenza degli animali nel periodo critico autunnale o invernale; oppure

anche con concentrati negli ultimi giorni di gravidanza e nei primi di lattazione,

allo scopo di favorire la ripresa riproduttiva immediatamente dopo il parto. In

questo tipo di allevamento la produzione foraggera pascoliva non supera

mediamente i 20÷30 q/ha di s.s. (della quale però in tutto l’anno è utilizzabile di

fatto soltanto il 70%); il fabbisogno integrativo complessivo oscilla mediamente

intorno ai 2 q di fieno e 2 di concentrato, i quali debbono necessariamente essere

reperiti con il ricorso all’acquisto axtraziendale a costi sempre molto elevati,

talvolta economicamente proibitivi soprattutto nel caso del fieno, oppure

all’approvvigionamento interno a costi più contenuti, qualora l’azienda

disponga di superfici coltivabili (arabili), irrigue o asciutte.

AZIENDE ASCIUTTE PREVALENTEMENTE COLTIVABILI

Nelle aziende asciutte prevalentemente coltivabili (arabili), in cui le colture

predominanti sono rappresentate dalle foraggere prative a semina autunno-

invernale e/o dai cereali da granella a raccolta tardo-primaverile, il tipo di

allevamento praticato è quello semiestensivo oppure semintensivo, a seconda

dell’importanza che il pascolamento vi assume come forma di utilizzazione

diretta dell’erba prodotta, nonché della entità e della costanza della

integrazione alimentare al pascolo.

Le specie zootecniche allevate, sono in genere costituite da bovini da carne di

razze specializzate e/o da ovini prevalentemente da latte e talvolta da caprini

di razze di medio livello produttivo.

Nell’allevamento bovino specializzato da carne — in cui può essere praticato

anche l’incrocio industriale con altra razza da carne per esaltare ulteriormente

la capacità produttiva della razza allevata, ma in cui in genere viene praticata

soltanto la riproduzione in purezza — l’alimentazione è basata quasi

esclusivamente sulle produzioni aziendali di erba di provenienza dai prati

145

annuali di graminacce singole o consociate (loglio, avena, orzo) e/o poliennali

(medica, festuche, sulla) utilizzati direttamente con il pascolamento per gran

parte dell’anno (autunno-inverno-estate) e parzialmente destinati alla sfalcio

primaverile per la produzione di fieno e/o di insilati (in tal caso il

pascolamento non si protrae oltre febbraio). Essa è completata con

l’utilizzazione delle granelle di cereali raccolte a fine primavera dopo un

pascolamento non spinto praticato in inverno (in tal caso il pascolamento non si

protrae oltre gennaio).

La produzione di tali colture è intorno agli 80 q/ha di s.s. per i prati annuali e di

60 q/ha per quelli poliennali (di cui di norma la metà viene utilizzata come erba

direttamente con il pascolamento e la metà come fieno oppure come insilato con

lo sfalcio primaverile) e di 30 q/ha di granella per i cereali, anch’essi a volte

pascolati in inverno. Poichè la loro utilizzazione annuale non supera l’80 ÷85% e

l’ingestione alimentare dei bovini da carne (il cui peso medio delle vacche

adulte è di q 6÷7) è intorno al 2,5%, il carico mantenibile oscilla fra 1÷1,5 vacche

adulte, compresa la relativa quota biennale di rimonta (manze + giovenche, pari

al 30% delle adulte). La presenza in tale allevamento di appezzamenti

supplementari irrigui, in genere in misura non superiore al 5÷10% della

superficie coltivabile, oltre che innalzare il carico unitario complessivo, rende

più uniforme e continua la crescita dei vitelli in allattamento materno.

AZIENDE PREVALENTEMENTE O TOTALMENTE IRRIGUE

Nelle aziende prevalentemente o totalmente irrigue — caratterizzate sempre da

terreni a giacitura piana o pianeggiante, di elevata fertilità agronomica, di

sufficiente dimensione territoriale (almeno 20÷30 ha), di elevato valore

fondiario anche per i consistenti investimenti — la redditività, dovendo essere

molto elevata per garantire un’adeguata remunerazione di questi, consente di

praticare esclusivamente tipi di allevamento capaci di fornire alti redditi unitari

e aziendali; ciò comporta la necessità di ricorrere ai seguenti tipi di allevamento:

l’allevamento bovino o bufalino da latte, l’allevamento ovino e/o caprino

146

intensivo, l’allevamento bovino da carne limitatamente alla fase di

ingrassamento.

Nell’allevamento bovino da latte — in cui i parti, e di conseguenza le lattazioni,

si espletano quasi uniformemente durante tutto l’anno, grazie alle continuità

del ciclo riproduttivo femminile dovuto alla poliestralità annuale continua delle

vacche ¾ l’alimentazione, allo scopo di evitare sbalzi nutrizionali che avrebbero

ripercussioni negative immediate sia sulla riproduzione che sulla produzione,

deve essere necessariamente abbastanza costante e uniforme nelle diverse

stagioni dell’anno. Ciò comporta la necessità di un approvvigionamento

alimentare, in particolare foraggero, continuo sia sotto l’aspetto quantitativo che

qualitativo: la disponibilità di acqua per l’irrigazione di tutta o di parte

dell’azienda è in grado di garantire, con sufficiente sicurezza, tale

approvvigionamento anche per il periodo invernale,

L’ordinamento colturale di queste aziende deve pertanto prevedere un

accumulo di disponibilità foraggere nel periodo irriguo (da marzo-aprile sino a

settembre-ottobre, a seconda dell’andamento meteorico, soprattutto

pluviometrico, primaverile) da utilizzare durante tutto l’anno ed in particolare

nel semestre autunno-invernale.

Le colture più diffuse sono quindi: i cereali a semina autunnale ed a raccolta

tardo-primaverile (quali frumento, orzo, avena, triticale), utilizzati soprattutto

per la produzione di granella (con raccolta a maturazione fisiologica) oppure

per l’insilamento (con raccolta a maturazione latteo-cerosa) ed, almeno per

alcuni periodi, anche come erbe (pascolate oppure sfalciate); le graminacee

esclusivamente foraggere (quali logli, bromi, festuche, fienarola), utilizzate

come erbe (pascolate e/o sfalciate) oppure destinate alla fienaggione e/o

all’insilamento (erba-silo); le leguminose foraggere (quali mediche, trifogli

annuali e poliennali, sulla), impiegate soprattutto nel periodo primaverile-

estivo come erbe oppure destinate alla produzione di fieni e/o di insilati (fieno-

silo); i cereali a semina primaverile (quali mais e sorgo), utilizzati, oltrechè per

la produzione di granella, soprattutto per l’insilamento (il mais ceroso

147

costituisce uno degli alimenti base più importanti nell’alimentazione delle

vacche in lattazione); ed infine, ma in minor misura, le leguminose da granella

(quali fava, favino, pisello) ed altre essenze proteaginose e/o oleaginose (soia,

arachide, colza, girasole, cotone) di cui sono utilizzati soprattutto i

sottoprodotti, ossia i residui derivati dall’estrazione dell’olio (panelli e farine di

estrazione), come integratori proteici dei concentrati energetici e/o fibrosi.

La coltivazione di essenze autunnali asciutte (in semina pura o in

consociazione, soprattutto fra graminacee e leguminose) e di essenze

primaverili irrigue garantiscono quindi un approvvigionamento alimentare

quasi continuo, indispensabile al regolare svolgimento della lattazione e quindi

della produzione lattea durante tutto l’anno..

Nell’ipotesi, ad esempio, di aziende ad indirizzo esclusivamente zootecnico

specializzato da latte imperneate quindi sulla coltivazione di erbai stagionali a

semina tardo estiva o autunnale in successione con erbai primaverili-estivi

(oppure estivi, nel caso di colture cerealicole) e di prati poliennali in

avvicendamento contiunuo con i primi:

· i prati poliennali (in genere di leguminose quali medica e sulla, ma anche di

graminacee quali logli e festuche) occupano mediamente il 30¸40% della SAU

aziendale con produzioni unitarie, espresse in s.s., oscillanti intorno ai 150¸180

q, che per il 25¸30% vengono consumate fresche (con pascolamento e/o con

sfalcio) e per il restante 75¸70% vengono affienate oppure insilate (erba-silo con

le graminacee e fieno-silo con le leguminose);

· gli erbai autunno-invernali, in genere formati da essenze di graminacee (quali

logli, avena e orzo) e/o di leguminose (quali trifogli) spesso consociate fra loro,

occupano il restante 60¸70% della SAU, con produzioni di 60¸80 q, consumati in

genere per metà come erbe (pascolamento e/o sfalcio) e per metà con la

fienagione oppure con l’insilamento; qualora l’indirizzo produttivo sia

cerealicolo-zootecnico, metà di tale superficie (30¸35% della SAU aziendale) è

invece destinata alla produzione di granella (in genere frumento duro) di cui

ovviamente è utilizzata soltanto la paglia e le stoppie (20¸30q/ha); in entrambi i

148

casi però il restante 60¸70% della SAU è coltivata ad erbai primaverili-estivi per

la produzione di insilato e di granella nelle aziende specializzate (mais con

semina ad aprile) e di erbai (sorgo con semina a giugno) per il consumo diretto

(sfalcio e/o pascolamento) nelle aziende miste.

In tali allevamenti il foraggiamento deve essere continuo e uniforme, in quanto

le vacche in lattazione mal sopportano brusche variazioni di alimentazione, per

cui la somministrazione delle diverse categorie di alimenti (erba, insilato, fieno,

concentrati e/o sottoprodotti) deve essere praticata durante tutto l’anno e la

eventuale sostituzione di una categoria con un’altra deve avvenire sempre

gradualmente, onde evitare turbe alimentari che avrebbero una ripercussione

dannosa immediata, talvolta irreversibile, sulla produzione lattea giornaliera.

LE PRINCIPALI TIPOLOGIE DI ALLEVAMENTO

I vari tipi di allevamento praticati nei diversi ambienti possono essere ricondotti

ai seguenti tre: allevamenti estensivi, allevamenti intensivi, allevamenti

semintesivi o semiestensivi.

GLI ALLEVAMENTI ESTENSIVI

Gli allevamenti estensivi sono sempre localizzati in aziende di dimensioni

fisiche anche elevate (almeno 100¸200 ha, talvolta anche 500¸600 ha) ubicate in

zone altimetricamente montane o collinari (>500¸600 m slm) oppure, se costiere

o di pianura, orograficamente montagnose; in queste la fertilità è generalmente

bassa a causa sia delle caratteristiche climatiche, in particolare pluviometriche

che sono sempre molto variabili e ad andamento annuale aleatorio, sia delle

caratteristiche pedologiche (terreni con profili superficiali, spesso con roccia

affiorante e con pendenze elevatissime), sia delle conseguenti caratteristiche

floristiche (essenze erbacee e/o arbustive solitamente di scarso valore

pabulare).

Le produzioni foraggere — quasi sempre di scarsa entità (20¸30 q/ha di s.s.), di

scadente qualità (0,5¸0,6 UFL/kg di s.s.) e distribuite, a causa della siccità

149

primaverile-estiva nelle zone costiere oppure delle basse temperature autunno-

invernali nelle zone montane, irregolarmente nelle diverse stagioni dell’anno

(25¸30% in autunno, 70¸75% in primavera) — sono utilizzate direttamente con il

pascolamento.

Gli investimenti fondiari, a causa della bassissima redditività di queste aziende,

sono sempre molto modesti, talvolta addirittura inesistenti, e consistono

essenzialmente: in recinzioni fisse (in muratura o in rete metallica) di

suddivisione dell’azienda in appezzamenti di superficie ampia (25¸50 ha), allo

scopo di garantire una sia pur minima rotazione nella utilizzazione dei pascoli

o delle essenze arbustive e/o arboree; in strutture del centro aziendale molto

economiche, per il soggiorno del personale (casa appoggio per gli addetti), per

il ricovero notturno degli animali (tettoie aperte), per il deposito degli alimenti

(fienile e/o magazzino); in abbeveratoi (fissi o in prefabbricati trasferibili)

collocati generalmente nei punti di confluenza di due o più appezzamenti; in

recinti per il raduno, la cattura ed il contenimento degli animali (vaccili in

pietrame e caprili in rete metallica), a fini del controllo anagrafico e/o sanitario

del bestiame.

Le specie allevate, rappresentate sempre esclusivamente da razze rustiche, sono

generalmente quella bovina, quella caprina e molto raramente, se non negli

appezzamenti migliori di fondovalle, quella ovina.

GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI

Gli allevamenti intensivi sono sempre localizzati in aziende di dimensioni

anche non elevate ,da almeno 20¸25 sino ad 80¸100 ha, ubicati in zone piane o

pianeggianti anche se altimetricamente talvolta collinari, nelle quali la

potenzialità produttiva è generalmente molto elevata grazie alla naturale

fertilità pedoagronomica dei terreni, che sono profondi, e idraulicamente

sistemati e soprattutto alla presenza dell’irrigazione che è estesa di norma a

tutta o a gran parte della superficie.

150

Le produzioni foraggere — di grande entità (q/ha di s.s. 60¸80 in asciutto e

150¸180 in irriguo) e di elevato valore nutritivo (0,8¸1,00 UFL/kg di s.s.) e

distribuite, grazie alle miti temperature autunno392 invernali ed alla irrigazione

primaverile-estiva, abbastanza uniformemente nelle diverse stagioni dell’anno

(40¸50% in autunno-inverno e 50¸60% in primavera-estate) — sono utilizzate

soltanto parzialmente con il pascolamento, che è praticato soprattutto sulle

colture asciutte autunno-invernali, in quanto quelle irrigue sono destinate di

norma allo sfalcio per la somministrazione come tali in stalla o per

l’essiccazione (fienagione) o semiessicazione (insilamento) oppure alla mietitura

per la produzione di granella che è utilizzata in azienda oppure venduta.

Gli investimenti fondiari, grazie alla elevata redditività di queste aziende, sono

sempre cospicui, a volte elevatissimi, e consistono essenzialmente: in strutture

per l’abitazione del personale aziendale (casa colonica, talvolta di tipo

signorile), per il ricovero permanente degli animali (stalle, ovili, caprili), per la

conservazione degli alimenti (fienile, pagliaio, silo, magazzino, deposito di

macchine e/o officina meccanica), per l’esercizio degli animali (sala di

mungitura nelle aziende da latte, infermeria e sala parto) oltre alle recinzioni

per il trasferimento e la deambulazione degli animali.

Le specie allevate, rappresentate sempre esclusivamente da razze specializzate

da latte e/o da carne di elevatissima attitudine produttiva, possono appartenere

ad una o più delle quattro specie di maggiore interesse zootecnico. Le razze

bovine: sono quelle specializzate da latte (Frisona e Bruna) per la produzione

prevalente di latte, riprodotte, generalmente in IS, soltanto in purezza oppure

anche in incrocio industriale con razze da carne; quelle specializzate da carne

(italiane o francesi) per la produzione esclusiva della carne; i vitelli, puri o

mettici di entrambe, in ingrassamento aziendale; infine esclusivamente i vitelli,

puri e meticci, provenienti sia dall’allevamento brado che da quello stallino

extraziendale, per il ristallo e l’ingrassamento. La specie bufalina, in presenza di

aree umide o paludose da valorizzare, per la produzione quasi esclusiva di latte

industriale.

151

Le razze ovine sono: quelle specializzate da latte (Frisona, Sarda e Comisana)

oppure quelle specializzate da carne (generalmente francesi). Le razze caprine

sono quelle specializzate da latte (principalmente Saanen e Alpina). In questo

tipo di allevamenti pertanto la produzione lorda vendibile proviene

prevalentemente dal latte (dal 60÷70% all’80÷90%, a seconda della

specializzazione produttiva della azienda e del livello produttivo degli animali)

e secondariamente della carne oppure esclusivamente da quest’ultima.

GLI ALLEVAMENTI SEMIESTENSIVI O SEMINTENSIVI

Gli allevamenti intermedi fra quelli estensivi e quelli intensivi sono detti, a

secondo del grado di intensività, allevamenti semiestensivi oppure

semintensivi; essi sono di norma localizzati in aziende di dimensioni fisiche

variabili, nelle quali però almeno in 50% della superficie totale, generalmente

ubicate in zone di pianura oppure di collina (300÷400 slm), nelle quali la fertilità

è media, grazie alle discrete caratteristiche pedo-climatiche e floristiche; sono

talvolta dotate di appezzamenti supplementari irrigui (da 2÷3% a 5÷10% della

superficie) che garantiscono la produzione di scorte foraggere sufficienti per il

periodo autunno invernale

Le produzioni foraggiere sono medie (40÷60 q/ha di ss) e di buona qualità

(0,7÷0,8 UFL/kg di s.s.) distribuite prevalentemente in autunno-inverno grazie

soprattutto alla presenza di essenze foraggiere a ciclo inverno-primaverile

coltivate in avvicendamento discontinuo su parte della superficie aziendale;

sono utilizzate in gran parte direttamente con il pascolamento oppure destinate

allo sfalcio per la produzione di fieno e/o di insilati primaverili.

Gli investimenti fondiari consistono in genere: in recinzioni e in punti di

abbeveraggio, in strutture di ricovero di animali (tettoie aperte, per tutte le

specie) con i loro annessi (fienile magazzino ed officina) e, nel caso di

allevamenti da latte, in sale di mungitura o almeno di mungitoi talvolta mobili.

Le specie allevate sono rappresentate sempre: da razze specializzate da carne,

per quanto riguarda la specie bovina e ovina; da razze da latte, ma di non

152

elevato livello produttivo, per quanto riguarda le specie ovina e caprina. Spesso

in questo tipo di aziende è praticato l’allevamento promiscuo (ovini e bovini

oppure ovini e caprini, in successione altimetrica) e la coltivazione di cereali

soprattutto da granella in avvicendamento con le colture esclusivamente

foraggere, i primi destinati alla vendita (orzo, avena, frumento duro), le seconde

alla utilizzazione alimentare aziendale.

Opportunità offerte da una corretta gestione dell’alpeggio

L'alpeggio è l'attività agro-zootecnica che si svolge nelle malghe di montagna

durante i mesi estivi. Con il termine malga si fa riferimento all'insieme dei

fattori produttivi fissi e mobili in cui avviene la transumanza: terreni, fabbricati,

attrezzature, animali, lavorazione del latte prodotto.

L'alpeggio, che si svolge tra un'altitudine minima di 600 m s.l.m. e una massima

di 2500-2700, inizia con la monticazione, cioè la salita sull'alpe, che avviene tra

la fine di maggio e la metà di giugno e termina con la demonticazione, cioè la

ridiscesa in pianura che avviene a fine settembre.

Per quel che riguarda le necessità animali, per l'intera durata dell'alpeggio

occorrono 1,5-2 ettari per ogni bovino mentre un solo ettaro riesce a nutrire dai

4 ai 6 ovini.

L'alpeggio ben fatto porta notevoli vantaggi agli animali da un punto di vista

alimentare (maggiore valore nutritivo che si riflette sia sulla salute che sulla

qualità dei prodotti zootecnici), da quello dell'attività fisica (sviluppo della

muscolatura, aumento dell'attività circolatoria, respiratoria e della capacità

polmonare dovuta alla rarefazione dell'aria e al maggiore sforzo fisico) e da

fattori ambientali (qualità dell'aria respirata e aumento delle radiazioni attive

con benefici influssi su cute, pelo, attività ghiandolare e metabolismo).

Allevamento di tipo biologico: possibilità attuali e prospettive

L'allevamento biologico deve garantire il benessere degli animali.

153

L'allevamento biologico deve garantire uno stretto legame con la terra.

L'alimentazione animale deve essere sostanzialmente da agricoltura biologica e

per almeno il 50% di provenienza aziendale.

L'allevamento biologico ricopre un notevole importanza in agricoltura

biologica, per l'apporto di sostanza organica ed elementi nutritivi utili per le

colture. Il carico del bestiame deve essere comunque commisurato alla

superficie aziendale e/o comprensoriale per far sì che sia gestito in modo

adeguato lo spandimento delle deiezioni. In termini numerici il limite è di 170

kg N/ha/anno e per le varie specie allevate è definito il numero massimo di

capi ad ettaro.

Gli animali presenti all'inizio della conversione dell'allevamento e i prodotti da

loro ottenuti, saranno considerati biologici dopo aver completato il periodo di

conversione che varia da specie e tipologia produttiva. Gli animali che nascono

e sono allevati in aziende biologiche sono considerati biologici.

In caso di prima costituzione di un allevamento, possono essere inseriti giovani

mammiferi non biologici, allevati in modo biologico subito dopo lo

svezzamento.

A fini riproduttivi, possono essere inseriti, nel corso degli anni, animali allevati

in modo non biologico, questi dovranno poi completare il periodo di

conversione.

In caso dell'insorgere di malattie, queste vanno trattate immediatamente per

evitare sofferenze agli animali.

Gestione delle deiezioni nell’allevamento

Le deiezioni (escrementi) degli animali da allevamento (suini, bovini e pollame

vario), possono essere utilizzate facilmente per la produzione di biogas. Il

biogas prodotto, a sua volta può essere utilizzato in motori azionanti gruppi

elettrogeni, per produrre energia elettrica, oppure in delle caldaie, per generare

energia termica (riscaldamento), o ancora meglio in cogeneratori, per la

154

produzione combinata dei due tipi di energia. Ma la produzione di biogas da

deiezioni animali assume un secondo ordine di importanza, per il fatto che

contribuisce allo smaltimento degli escrementi animali, che , a differenza del

pensiero comune, non possono essere utilizzati come concime. Le deiezioni

liquide e semi liquide del bestiame contengono, infatti, alti livelli di fosforo e

azoto che, se riversati nell'ambiente,potrebbero creare grossi problemi alle falde

acquifere, ai corsi d'acqua e all'ambiente. Per cui il ricorso a impianti di

produzione di biogas, diventa doppiamente conveniente, vista la possibilità di

“vendere energia” elettrica, tramite il meccanismo dei certificati verdi e visti i

benefici ambientali derivanti dal recupero delle deiezioni animali.

FATTORI TECNICI CONDIZIONANTI LA QUALITÀ DELLE PRODUZIONI:

SETTORE BOVINI E SETTORE BUFALINO

LE PRODUZIONI

Le produzioni economicamente rilevanti delle 4 specie ruminanti allevate in

Italia sono: la produzione di latte, la produzione di carne e le produzioni

minori.

LA PRODUZIONE DI LATTE

Il latte, che per tutti i mammiferi è l'alimento indispensabile durante la fase

giovanile di allevamento (allattamento), nelle 4 specie ruminanti è soprattutto il

prodotto ottenuto dalla mungitura ¾ che deve essere completa ed ininterrota ¾

di una femmina in buono stato di salute ed in fase non colostrale (legalmente da

dopo il 15° giorno dal parto, in pratica da dopo il 5° giorno); esso è utilizzato

per l'alimentazione umana sia direttamente come latte alimentare (intero

oppure parzialmente scremato, in genere previo trattamento termico) o come

latte dietetico (per particolari categorie di consumatori), sia dopo fermentazione

(latti fermentati), sia infine dopo trasformazione industriale (burro, formaggio,

155

ricotta) con recupero quasi sempre dei sottoprodotti (latte magro, siero e scotta)

per l'alimentazione animale.

La sua composizione, caratteristica della specie e della razza e variabile in

funzione di diversi fattori (genetici, climatici, fisiologici, tecnici, alimentari e

igienico-sanitari).

Il contenuto in residuo secco (sostanza secca del latte) è molto variabile,

sopratutto per effetto della elevata variabilità del suo principale componente

che è il contenuto lipidico, il quale può appunto presentare variazioni molto

ampie; il contenuto in residuo magro, che è costituito dalla differenza tra il

contenuto in residuo secco ed il contenuto lipidico, è invece abbastanza stabile;

il contenuto proteico è meno variabile di quello lipidico e costituisce la

principale causa di variazione del contenuto in residuo magro; il contenuto

lattosico ed il contenuto minerale sono le componenti meno variabili.

Il latte contiene inoltre enzimi, composti aromatici, cellule somatiche; ma può

contenere anche microrganismi e, talvolta, sostanze inibenti e inquinanti.

LE FASI DELLA PRODUZIONE.

La produzione del latte, si realizza in quattro fasi tre attive (sintesi, secrezione

ed eiezione) ed una passiva (rimozione) ed è influenzata da diversi fattori i

quali agiscono, oltrechè sulla quantità, anche sulla qualità e conseguentemente

sul suo valore commerciale.

La sintesi del latte. La sintesi del latte, regolata dall'ormone galattogeno

adenoipofisario prolattina PRL o luteotropina LTH, avviene principalmente

nelle cellule epiteliali degli alveoli, le quali sono cellule specifiche capaci di

sintetizzare i vari componenti del latte dopo averne captato i precursori dal

plasma sanguigno (è necessario un ciclaggio di moltissimi lt di sangue, da 400 a

600 nei bovini, per produrre 1 kg di latte); gli alveoli sono raggruppati in lobuli,

riuniti, a loro volta, in lobi che sboccano nei dotti galattofori, i quali si versano

nella cisterna del latte. La sintesi dei vari costituenti avviene con modalità

differenti.

156

La sintesi lipidica. I lipidi, contenuti nel latte sotto forma di emulsione

(particelle liquide, sospese nel latte, di diametro variabile con la specie da μm

3,8 a 4,4) e formati principalmente da trigliceridi degli acidi oleico, stearico,

palmitico e butirrico, derivano: per sintesi mammaria dagli acidi acetico e b-

idrossibutirrico, che provengono dal rumine come acidi grassi volatili AGV e

pervengono alla mammella attraverso la corrente sanguigna; oppure per

inclusione diretta degli acidi grassi ad elevato peso molecolare ( palmitico C16,

stearico C18 ) veicolati dal sangue (lipoproteine oppure acidi grassi liberi

NEFA).

La sintesi protidica. I protidi, contenuti nel latte sotto forma di sospensione

colloidale (particelle solide piccolissime sospese nel latte) e formati

principalmente da caseine, sieroproteine (globuline e albumine) e composti

minori, costituiscono mediamente il 95% delle sostanze azotate totali del latte

SAT (N x 6,38) e derivano dagli aminoacidi liberi, dalle globuline e dalle

albumine ematici: per provenienza diretta, come nel caso delle latto-albumine,

di alcune latto-globuline e delle g-globuline colostrali; per trasformazione

mammaria degli aminoacidi ematici, come nel caso delle caseine e delle b-

lattoglobuline. La sintesi delle diverse frazioni proteiche (as1, as2, b, k-caseine;

a, b-lattoalbumine; a,b,g-globuline) è sotto controllo genetico.

L'azoto non proteico NPN (quasi il 5% delle SAT), per circa il 50% costituito da

urea, deriva invece da prodotti del catabolismo mammario oppure proviene

direttamente da analoghi prodotti ematici.

La sintesi lattosica. Il lattosio, contenuto nel latte sotto forma di soluzione

(particelle solide disciolte nel latte) e formato da glucosio+galattosio, deriva

dalla sintesi enzimatica mammaria del galattosio con il glucosio, che è di

provenienza ematica ed in gran parte originato dall'acido propionico ruminale.

La sua concentrazione è poco variabile ed ¾ assieme ai cloruri, al Na ed al K ¾ è

responsabile della pressione osmotica del latte.

157

La sintesi minerale e vitaminica. Tanto i sali minerali quanto le vitamine

provengono direttamente dal sangue; nella mammella subiscono soltanto una

variazione di concentrazione.

La secrezione del latte. La secrezione del latte consiste nel riversamento ¾ dalle

cellule secretrici al lume dell'alveolo ¾ dei composti di neosintesi mammaria

(lipidi, caseine e b lattoglobuline, glucidi) e delle altre sostanze emunte dal

sangue (sieroproteine ematiche, minerali, vitamine, NPN). Il suo ritmo, da cui

dipende sia l'entità che la composizione della produzione giornaliera, pur

essendo una caratteristica strettamente individuale (il numero delle cellule

secernenti e l'efficienza secretiva di ciascuna di esse sono specifiche

dell'animale), è legato anche allo stato di replezione mammaria, il quale

aumenta con la secrezione stessa, sicchè questa non ne risente sino alla 9÷10ª h

dopo la mungitura, ma si riduce progressivamente dopo tale limite sino a

cessare del tutto intorno alla 36ª h.

La eiezione del latte. La eiezione del latte, regolata dall'ormone ipotalamico

neuroipofisario ossitocina OH o MH, consiste nello svuotamento degli alveoli

per caduta progressiva del latte nei dotti alveolari, nei dotti galattofori e nella

cisterna della mammella: al momento della mungitura o della poppata infatti

soltanto il 40% del latte prodotto è già contenuto nei dotti e nella cisterna (latte

cisternale), il 60% è ancora trattenuto negli alveoli (latte alveolare) dai quali è

appunto rimosso dalla ossitocina, la cui azione è istantanea (45÷60 sec) ed il cui

effetto è di breve durata (2÷8 m');

La scarica ossitocinica è provocata da uno stimolo neurormonale che può essere

indotto anche da sollecitazioni esterne quali la poppata (o semplicemente la

presenza o addirittura la sola vista) del figlio e/o la mungitura con le

operazioni ad essa normalmente connesse (lavaggio e massaggio della

mammella, attacco dei gruppi di mungitura, rumore della pompa del vuoto in

sala di mungitura, somministrazione dei concentrati etc.). (Le due fasi della

secrezione e della eiezione possono essere raggruppate nella fase della

emissione).

158

La rimozione del latte. La rimozione del latte dalla mammella, indispensabile

oltre che ai fini produttivi anche per la salvaguardia della sanità dell'organo,

può avvenire secondo due modalità: per estrazione naturale mediante suzione o

poppata del redo o allevo; per raccolta artificiale mediante mungitura manuale

oppure meccanica; talvolta le due modalità, come nel caso dell'allattamento

naturale materno, si susseguono o addirittura si sovrappongono nel corso della

stessa lattazione.

Il latte presente nella mammella non è mai ceduto completamente nè con la

poppata nè, tantomeno, con la mungitura: una parte di esso, variabile

individualmente ma aggirantesi intorno al 10÷20% del latte totale, è trattenuto

nella mammella (latte residuale o di ritenzione fisiologica) e può essere estratto

sperimentalmente soltanto con iniezione endovena di ossitocina.

La velocita' di rimozione del latte, da cui dipende la rapidità di mungitura e

quindi la sua durata e di conseguenza il numero di animali munti per addetto

per h, è legata sia a fattori intrinseci all'animale (livello produttivo e quantità di

latte prodotto, diametro del dotto papillare ed elasticità dello sfintere,

tranquillità e temperamento dell'animale), sia a fattori estrinseci (livello del

vuoto, rapporto di pulsazione e frequenza di pulsazione dell'impianto di

mungitura).

Gli ormoni surrenici (adrenalina e noradrenalina), esercitando effetto limitante

o addirittura inibente sulla eiezione del latte, possono causare anche l'arresto

della sua rimozione, per cui occorre evitare qualsiasi azione che possa

provocare spavento o eccitazione o turbamento all'animale immediatamente

prima e/o durante le operazioni di mungitura.

Poichè nelle razze lattifere la produzione lattea è sempre — grazie all’azione di

selezione e miglioramento genetico operato da secoli, nonché alle migliori

condizioni ambientali e alimentari in cui è praticato attualmente l’allevamento

animale — largamente eccedente rispetto a quella necessaria al soddisfacimento

delle esigenze nutritive del redo (produzione fisiologica), essa è diversamente

159

utilizzata, a seconda della specie allevata, nell'industria lattiero-casearia, i cui

sottoprodotti sono spesso destinati all'alimentazione animale.

Nelle specie bovina e bufalina sino a qualche decennio fa ¾ e talvolta ancora

oggi, soprattutto in allevamenti semintensivi di basso livello tecnico e con

animali di modeste produzioni ¾ almeno parte della produzione (5÷10 l/d per

un periodo 3÷4 mesi) era utilizzata per l'allevamento del vitello (mediante

allattamento con latte materno poppato direttamente oppure somministrato

razionatamente al secchio); attualmente invece tutto il latte prodotto è, in

genere, munto ed il vitello è alimentato con succedanei del latte, il cui costo è di

molto inferiore (30÷40%) al prezzo di vendita del latte.

LA MUNGITURA MECCANICA

La mungitura, che in una azienda da latte impegna assieme alla preparazione e

distribuzione degli alimenti gran parte del tempo (mediamente il 50÷70%) del

personale, deve essere eseguita secondo tempi, modalità e tecniche adeguate, in

quanto da questi dipendono, oltre che la qualità e la quantità di latte prodotto,

soprattutto il suo costo di produzione e quindi l'economicità dell'allevamento.

Essa deve comunque essere praticata mediamente: in 6÷8 m' (non meno di 4÷6,

per evitare l'incompleta rimozione del latte; non più di 8÷10 per evitare

l'eccessivo affaticamento ed i conseguenti effetti negativi sulla mammella) nelle

specie bovina e bufalina; in 1,5÷2 m' (non meno di 1 e non più di 2) nelle specie

ovina e caprina.

Gli elementi principali da prendere in considerazione per la corretta

applicazione della tecnica della mungitura meccanica e per la valutazione

dell'efficienza dell'impianto sono: le fasi della mungitura, le parti dell'impianto,

i parametri di funzionamento ed il sistema di mungitura.

Le fasi della mungitura meccanica. Le fasi della mungitura meccanica sono

normalment costituite dal lavaggio e/o massaggio della mammella, dal

controllo del latte, dalla mungitura vera e propria, dal ripasso e stacco dei

160

gruppi di mungitura, dalla disinfezione della mammella e dei gruppi di

mungitura.

Il lavaggio e il massaggio della mammella. Il lavaggio, spesso eseguito male o

addirittura omesso come solitamente avviene nelle specie ovina e caprina, è

indispensabile per ripulire la mammella, ed in particolare i capezzoli, dalla

sporcizia accumulatavisi principalmente con il decubito dell'animale in stalla o

in ovile e per prevenire eventuali masteopatie provocate da germi patogeni

aderenti alla mammella; esso è praticato di norma con acqua tiepida, a mano

(tecnica che però può facilitare il contagio manuale da un animale all'altro)

oppure meccanicamente con spruzzatori sistemati nella posta di mungitura

oppure ancora automaticamente nella sala di accesso a quella di mungitura

come negli impianti più moderni. Il massaggio, non strettamente indispensabile

ma utile ai fini della facilitazione della cessione del latte e quindi dell'aumento

della velocità di mungitura anche per l'effetto stimolante che ha sulla scarica

ossitocinica, é praticato al momento dell'attacco del gruppo di mungitura alla

mammella. Le due operazioni richiedono nel complesso un tempo di

esecuzione che mediamente oscilla fra 15÷30 sec/capo nei bovini e nei bufalini e

5÷10 sec/capo negli ovini e nei caprini.

Il controllo del latte. Questa operazione, spesso trascurata o male eseguita per

incuria, è della massima importanza pratica ai fini dell'accertamento

dell'igienicità del latte e della sanità della mammella; essa consiste nel controllo

operato direttamente dal mungitore, all'atto dell'attacco del gruppo di

mungitura, di poche gocce di latte provenienti dai singoli capezzoli dei diversi

animali, oppure in sistemi di controllo automatici basati sulla rilevante

presenza di cellule somatiche o di grumi indicanti un'infezione batterica nel

latte: l'animale infetto, o anche semplicemente sospetto, deve essere munto

separatamente, curato e tenuto sotto controllo per evitare sia la propagazione

dell'infezione ad altri animali, sia ulteriori danni allo stesso animale.

L'operazione dura mediamente 20÷30 sec/capo nei bovini e nei bufalini e 5÷10

negli ovini e nei caprini.

161

La mungitura vera e propria. E' la fase che va dall'attacco, che è sempre

manuale, allo stacco, che può essere manuale o automatico, del gruppo; la sua

durata dipende dalla velocità di cessione del latte, che è legata sia alle

caratteristiche anatomo-fisiologiche della mammella sia a quelle meccaniche

dell'impianto di mungitura, ed oscilla mediamente fra 6÷8 min/capo nei bovini

e nei bufalini e 1,2÷1,5 negli ovini e nei caprini. L'operazione deve essere

eseguita a fondo per garantire sia la massima produzione giornaliera che il più

alto contenuto lipidico del latte.

Il ripasso di mungitura e lo stacco del gruppo. Il ripasso, che consente di

estrarre dalla mammella quella parte di latte non rimosso nella fase precedente,

può essere manuale oppure meccanico; esso è spesso trascurato nella specie

bovina per accelerare la velocità di mungitura, in quanto l'operazione dura

mediamente 20÷60 sec/capo; ma non può esserlo in quella ovina soprattutto

nelle razze caratterizzate da lentezza di cessione del latte. Lo stacco del gruppo

può essere manuale, come nei vecchi impianti, oppure automatico come in

quelli più recenti; in tutti i casi però deve essere tempestivo, in quanto la

permanenza del gruppo in funzione oltre un certo limite dopo la

cessazionedella rimozione del latte può provocare gravi danni alla sanità della

mammella, soprattutto in impianti di vecchio tipo caratterizzati da livello di

vuoto spinto e da rapporto di pulsazione elevato.

La disinfezione della mammella e dei gruppi di mungitura. Alla fine della

mungitura di ciascun animale dovrebbero essere disinfettati sia la mammella

che i gruppi di mungitura, questi ultimi per poter essere riutilizzati

immediatamente: la disinfezione della mammella è praticata abbastanza

frequentemente nelle specie bovina e bufalina, molto raramente in quelle ovina

e caprina; la disinfezione dei gruppi, ormai automatizzata nelle specie bovina e

bufalina, è invece praticata soltanto alla fine della mungitura di tutto il gregge

assieme al lavaggio dell'impianto nelle specie ovina e caprina. Per la

disinfezione sono usati prodotti del commercio in soluzione, in genere a base di

I e di HCl.

162

Le parti dell'impianto di mungitura meccanica. Qualsiasi impianto di

mungitura è composto sempre da una pompa del vuoto, da un collettore del

latte, da un pulsatore, da uno o più gruppi di mungitura e da un sistema di

refrigerazione del latte.

La pompa del vuoto. La pompa del vuoto deve essere capace di creare attorno

ai capezzoli una depressione tale da facilitare l'apertura del loro dotto papillare

e quindi la caduta del latte dalla cisterna all'esterno.

Il pulsatore. Il pulsatore, con l'azione di una opportuna valvola, deve

interrompere sistematicamente la depressione creata dalla pompa attorno al

capezzolo e ricrearla immediatamente dopo, secondo una alternanza prefissata

fra le due fasi sia per frequenza che per durata.

Il collettore del latte. Il collettore deve convogliare il latte munto verso un

recipiente di raccolta e/o di refrigerazione con un percorso possibilmente

breve, rettilineo e ad altezza non superiore a quella della mammella.

Il gruppo di mungitura. Il gruppo di mungitura è formato da un complesso di 4

prendi capezzoli per i bovini e i bufalini e di 2 per gli ovini e i caprini, provvisti

ciascun di guaina e manicotto, che viene usato ripetitivamente e variamente a

seconda del numero di animali in mungitura; negli impianti più moderni il

numero dei gruppi oscilla fra 5÷10 e 24÷48 nei bovini e nei bufalini, e fra 6÷12

ed 8÷16 negli ovini e nei caprini.

Il sistema di refrigerazione del latte. Il sistema di refrigerazione è costituito da

un contenitore di varia capienza, proporzionato alla produzione giornaliera

massima, e da un refrigeratore capace di abbassare, entro 1÷2 h, la temperatura

del latte a 4÷5 °C e di mantenervela per almeno 12÷24 h; tale temperatura è

sufficiente a inibire lo sviluppo batterico senza danneggiare la qualità del latte.

I parametri di funzionamento dell'impianto. Il funzionamento di un impianto è

legato principalmente ai seguenti tre fattori: il livello del vuoto, la frequenza di

pulsazione ed il rapporto di pulsazione.

Il livello del vuoto. Il livello del vuoto, dato dalla depressione creata attorno ai

capezzoli dall'azione della pompa e misurato in mm di Hg oppure in Pascal,

163

dovrebbe oscillare per tutte le specie intorno ai 340÷380 mm di Hg

(corrispondenti a 45÷50 kP): un suo innalzamento favorisce la velocità di

efflusso del latte, ma può danneggiare, se eccessivo, i capezzoli; un suo

abbassamento preserva la mammella dall'affaticamento, ma può ridurre la

velocità di efflusso e, al limite, interrompere la cessione del latte; un buon

impianto, oltrechè avere un livello del vuoto ottimale, deve soprattutto evitarne

gli sbalzi che sono molto dannosi alla mammella, la quale può tollerare, senza

gravi conseguenze, cadute o impennate di vuoto purchè minime (max ± 20÷30

mm) e di brevissima durata (max 2÷3 sec).

La frequenza di pulsazione. La frequenza di pulsazione, che è il numero di

pulsazioni per minuto, dovrebbe essere mediamente intorno a 60 per i bovini e i

bufalini, a 120 per gli ovini ed a 90 per i caprini, che è la frequenza ottimale di

stimoli fisiologici alla mammella nelle quattro specie; essa no influenza la

velocità di efflusso del latte ma riduce il tempo di stacco dei prendi capezzoli.

Il rapporto di pulsazione. Il rapporto di pulsazione, che è il rapporto fra la

durata dell'aspirazione (corrispondente al massaggio manuale), in cui il latte è

sollecitato ad effluire dal capezzolo, e quello del riposo, in cui il capezzolo è in

fase distensiva, è mediamente di 1:1 (50%) per i bovini ed i bufalini, di 1,5:1

(60%)per gli ovini e di 2:1 (66%) per i caprini; un innalzamento del tempo di

aspirazione innalza la velocità di efflusso e conseguentement riduce il tempo di

mungitura, ma può affaticare la mammella; un innalzamento del tempo di

riposo preserva invece più facilmente la mammella dall'affaticamento e

favorisce lo stacco automatico dei gruppi, ma rallenta la velocità di efflusso del

latte.

I sistemi di mungitura meccanica. A seconda del luogo in cui la mungitura è

praticata, gli impianti possono essere alla posta oppure in sala mungitura.

Gli impianti alla posta. Questi impianti, con i quali gli animali sono munti in

stalla o in ovile, sono ancora diffusi in allevamenti di piccole dimensioni (15÷20

bovini o bufalini e 60÷80 ovini o caprini), nei quali la sala di mungitura non

sarebbe conveniente, e di basso livello tecnico: generalmente sono impianti con

164

carrello mobile di mungitura oppure impianti a linea fissa sulla corsia di

stabulazione.

Le sale di mungitura. Esse variano soprattutto in funzione della dimensione

dell'allevamento e possono essere lineari oppure rotative.

Nelle sale lineari gli animali sono disposti in successione (sale a tandem)

oppure affiancati (sale a spina di pesce con inclinazione di circa 30° e sale a

pettine con inclinazione di 90°) ed il loro svincolo è anteriore o laterale. Quelle

attualmente più diffuse sono a spina oppure a pettine, di grandezza variabile

con la dimensione dell'allevamento: 3+3 sino a 50 capi, 5+5 sino a 80 capi, 10+10

sino a 150 capi, 16+16 oltre i 150 capi, per mandrie bovine e bufaline;

Nelle sale rotative gli animali, una volta raggiunta la posta di mungitura (a

spina oppure a pettine), sono trasportati su una giostra circolare ad una velocità

che consente tutte le operazioni di mungitura prima che la giostra abbia

compiuto una intera rotazione; attualmente le più diffuse sono quelle a 24

oppure a 48 poste, a seconda delle dimensioni dell'allevamento, rispettivamente

sino a 400 capi ed oltre i 400 capi. Esse sono di solito automatizzate con

congegni elettronici.

Le sale e gli impianti di mungitura, qualunque sia la dimensione ed il tipo,

debbono in ogni caso consentire: comodità di mungitura, che richiede un

dislivello fra pavimento e piano di mungitura di 80÷90 cm; facilità di dosaggio e

di somministrazione dei concentrati in funzione della massima velocità di

ingestione alimentare degli animali, possibilità di controllo e di misurazione

delle produzioni individuali per mezzo di recipienti trasparenti calibrati,

funzionanti anche come stabilizzatori del livello del vuoto Il corretto

dimensionamento ed il perfetto funzionamento dell'impianto sono

fondamentali per la sua efficienza di rendimento e quindi per la sua

economicità di gestione.

L'efficienza di rendimento dell'impianto è stimata dai seguenti parametri:

durata media di mungitura, orario di mungitura, numero di animali munti per

addetto e per h.

165

I FATTORI CHE INFLUENZANO LA PRODUZIONE

I fattori che influenzano la produzione lattea, sia sotto l'aspetto quantitativo che

qualitativo, sono di natura: genetica, climatica, fisiologica, tecnica, alimentare e

igienico-sanitaria.

I fattori genetici. L'attitudine alla produzione lattea è un tipico carattere

quantitativo, ad eredibilità bassa per quanto riguarda il suo aspetto quantitativo

(h² per la produzione = 0,2÷0,4) e medio-alta per quanto riguarda invece alcune

sue caratteristiche qualitative (h² per il contenuto lipidico = 0,4÷ 0,5; h² per il

contenuto proteico = 0,5÷0,6). Essa varia notevolmente con la specie (quella

bovina è più produttiva della bufalina, quella caprina della ovina); con la razza

(le razze da latte sono ovviamente più produttive di quelle da carne, anche se il

contenuto lipidico e protidico del loro latte è quasi sempre inferiore); col ceppo

(i ceppi americani delle razze bovine da latte sono più produttivi di quelli

europei); con l'individuo (in tutte le razze esiste una più o meno forte variabilità

produttiva quanti-qualitativa all'interno dello stesso allevamento che è dovuta a

differenze individuali).

I fattori climatici. Tra i fattori climatici quelli che giocano un ruolo importante

nella produzione lattea sono principalmente la temperatura, l'umidità e la

ventosità dell'ambiente.

La temperatura ottimale è compresa all'incirca fra i +5 e +15°C, intervallo che

costituisce la zona di neutralità termica; fra +5 e -5°C oppure fra +15 e +25°C la

produzione, pur non esplicandosi in condizioni ottimali, non ne risente, purchè

siano adottati accorgimenti opportuni (ventilazione negli ambienti caldi e

riparo dalle correnti negli ambienti freddi); fra -5 e -15°C oppure fra +25 e

+35°C la produzione si riduce, anche con l'adozione degli accorgimenti

opportuni; al di sotto di -15°C oppure al di sopra di +35°C la produzione può

essere seriamente compromessa, talvolta in maniera irreversibile, sopratutto se

tali temperature perdurano oltre un certo periodo (>24÷48 h) e se, per giunta,

sono associate ad umidità e ristagno d'aria oppure a secchezza e ventosità

166

eccessive e con elevate escursioni fra il dì e la notte. In tutti i casi sono più

dannosi gli eccessi che i difetti termici. In generale, rispetto alla specie, i bovini

e gli ovini sono i più resistenti alle temperature basse, i bufalini ed i caprini agli

eccessi termici; rispetto alla razza, quelle di mole maggiore resistono meglio alle

temperature basse, quelle di mole minore alle temperature elevate; rispetto alla

composizione del latte, le basse temperature comportano un innalzamento del

suo contenuto in residuo secco e in lipidi, le alte temperature invece un loro

abbassamento.

L'umidità relativa dell'aria ottimale è compresa all'incirca fra il 60% e il 70%; al

di sotto del 60% e al di sopra del 70% l'animale può risentirne, ma soltanto al di

sopra del 90% e al di sotto del 40% essa può provocare, soprattutto se

perdurante ed associata a ventosità eccessiva oppure ad assenza di ventilazione

ed a temperature eccessivamente alte o basse, una caduta irreversibile della

produzione. Fra le specie, quella più resistente è la bufalina, quella più sensibile

la caprina.

La ventosità, sopratutto se associata a temperatura molto bassa e/o ad elevata

secchezza dell'ambiente, come anche l'assenza di ventilazione, sopratutto se

associata a temperatura e/o umidità molto elevate, sono dannosi per la

produzione.

Le altre componenti climatiche (luce, pressione, etc.) hanno di per sè effetto

diretto trascurabile sulla produzione, ma possono avere effetto indiretto

rilevante per l'azione che esercitano sulla riproduzione (durata e intensità di

illuminazione).

I fattori fisiologici. I principali fattori fisiologici influenzanti la produzione

lattea sono: la mole, le condizioni generali, l'ordine di parto, la stagione di

parto, lo stadio di lattazione, l'interparto limitatamente alla specie bovina e

bufalina e la prolificità limitatamente alle specie ovina e caprina.

La mole. Le dimensioni corporee, in particolare la taglia o statura ed il volume o

mole, e quindi il peso corporeo dell'animale sono correlati positivamente, anche

se in maniera non strettissima, con la produzione lattea, principalmente per il

167

maggior sviluppo degli apparati digerente e mammario negli animali di grande

taglia (al di sopra di 6 q nei bovini, di 5 q nei bufalini, di 50 kg negli ovini e nei

caprini) rispetto a quelli di piccola taglia (al di sotto dei valori precedenti).

Le condizioni generali (nutrizionali, sanitarie e riproduttive). La produzione

dipende anche dallo stato nutrizionale con cui l'animale perviene al parto e

dalle condizioni sanitarie generali (assenza di malattie e di disturbi digestivi

e/o metabolici); essa decresce temporaneamente in concomitanza dei calori,

progressivamente ed irreversibilmente con il progredire della gravidanza (dal

6° mese nei bovini e nei bufalini, dal 3° mese negli ovini e nei caprini).

L'ordine di parto. La produzione aumenta con la successione dei parti, e quindi

con l'età dell'animale che le è strettamente legata, sino alla 5ª lattazione nei

bovini e nei bufalini e sino alla 4ª negli ovini e nei caprini; successivamente

decresce progressivamente sino alla fine della carriera.

Lo stadio di lattazione. La produzione giornaliera cresce dal parto sino alla

3ª÷6ª w di lattazione nei bovini e nei bufalini e sino alla 3ª÷4ª negli ovini e nei

caprini, momento in cui raggiunge l'apice (picco produttivo o di lattazione); si

mantiene quasi costante sino al 3°÷4° mese; indi decresce, prima lentamente

sino al 6°÷7° mese, successivamente in maniera più accentuata sino

all'asciugamento (inizio dell'8° mese di gravidanza nei bovini e nei bufalini, del

4° negli ovini e nei caprini).

La stagione di parto. Gli animali che partoriscono nel periodo autunno-

invernale hanno, rispetto a quelli che partoriscono nel periodo primaverile-

estivo, una produzione ed un contenuto lipidico del latte più elevati sia per le

più basse temperature invernali e per la migliore qualità dei foraggi di tale

periodo, sia per la coincidenza del picco produttivo con l'inverno, dello

svolgimento della lattazione con la primavera e dell'asciugamento con l'estate.

L'intervallo interparto. Il suo allungamento comporta inevitabilmente

l'allungamento, e quindi una maggiore produzione, della lattazione in corso

oltreché un effetto positivo su quella successiva, ma anche una riduzione, del

numero di lattazioni e quindi della produzione complessiva;

168

I fattori tecnici. Fra i fattori tecnici la mungitura è, dopo l'alimentazione, quella

che ha il maggior effetto sulla quantità e sulla qualità del latte; di essa hanno

rilevanza principalmente: il numero o frequenza delle mungiture giornaliere, la

intermungitura o distanza fra le mungiture e la completezza di mungitura.

La frequenza di mungitura. La produzione lattea aumenta con il numero delle

mungiture giornaliere;

L'intermungitura. Tenuto conto dello scarso innalzamento produttivo reale

conseguibile con un aumento della frequenza di mungitura, gli animali sono

munti di solito 2 volte al giorno: l'intervallo ottimale fra le due mungiture è di

12+12 h che però è difficilmente realizzabile nella pratica aziendale per ragioni

economico-organizzativo-sociali; un'intermungitura anche di 10+14 h non

modifica la produzione giornaliera complessiva;

La completezza di mungitura. L'incompleto svuotamento della mammella ha

effetto negativo, oltreché sulla quantità di latte prodotto giornalmente

(riduzione del 5÷10%), anche e soprattutto sulla sua composizione, in

particolare sul suo contenuto lipidico che, essendo il costituente più leggero, è

rimosso per ultimo e rimane quindi nella mammella in caso di mungitura

incompleta:ad esempio, in un latte medio col 3,5% di grasso sulla mungitura

completa, questo può variare dall'1,5% all'inizio sino al 5% alla fine della

mungitura.

I fattori igienico-sanitari. Lo stato sanitario dell'animale in generale e della

mammella in particolare (la cui patologia più diffusa nelle femmine lattifere è la

mastite, processo infiammatorio a carico di tale organo, che può costituire la

principale causa di eliminazione degli animali dall'allevamento) influenza sia la

quantità (riduzione o addirittura arresto della produzione) sia la qualità del

latte: modificazioni dell'aspetto (colore, odore, sapore) che lo rendono non

commerciabile e della attitudine casearia (riduzione del contenuto caseinico,

lattosico e minerale ed aumento di quello in sieroproteine, in azoto non

proteico, in cellule somatiche, in cloruri e dell'acidità; alterazione strutturale dei

lipidi e modificazione della composizione acidica).

169

Il contenuto lipidico è influenzato positivamente: dalla bassa produzione; dalle

basse temperature; dallo stadio di lattazione e dall'ordine di parto; dalla

completezza, frequenza e distanza di mungitura; dal tipo di razione alimentare

(concentrazione, dimensione e qualità della fibra; contenuto, qualità e momento

di somministrazione dei concentrati); dalle condizioni generali dell'animale

(stato sanitario e nutrizionale); oltrechè ovviamente dall'attitudine genetica

dell'individuo (h²@ 0,5).

Il contenuto proteico, molto meno influenzabile di quello lipidico, è legato al

tipo di razione , oltrechè all'attitudine genetica individuale

I contenuti lattosico e minerale subiscono variazioni praticamente insignificanti.

Il contenuto in cellule somatiche CCS — cellule di derivazione ematica

(leucociti e linfociti) e di sfaldamento dell'epitelio ghiandolare (cellule epitaliali)

che rivestono un ruolo fondamentale nei meccanismi di difesa attiva della

ghiandola mammaria contro la penetrazione degli agenti patogeni ambientali

esterni — è influenzato dallo stato sanitario della mammella, dal livello

produttivo dell'animale, dal tipo di alimentazione e dalla fase della lattazione.

Il contenuto microbico totale CMT — numero complessivo di microrganismi sia

utili (lattobacilli e lieviti) che dannosi al latte (Coliformi, Clostridi, Psicrotrofi) o

all'uomo (Brucella, Salmonella, Listeria) presenti nel latte già all'atto della

mungitura — è influenzato dallo stato sanitario della mammella, dall'igiene

dell'ambiente e dell'impianto di mungitura e dalla refrigerazione del latte in

azienda.

Il contenuto in sostanze inibenti — derivate da residui di fitofarmaci presenti

negli alimenti, di chemiofarmaci utilizzati nei trattamenti terapeutici agli

animali e di disinfettanti usati in stalla od in ovile è influenzato, oltrechè dal

tipo di farmaco impiegato, dalla specie animale e dalle tecniche di conduzione

dell'allevamento.

LA QUALITÀ DEL LATTE E LA SUA VALUTAZIONE COMMERCIALE

170

Il latte, qualunque sia la sua destinazione d'impiego (consumo diretto o

trasformazione industriale), per poter essere commercializzato, deve possedere,

già alla produzione in azienda, determinati requisiti igienico-sanitari e

fisiologico-qualitativi.

I primi sono legati alla sanità dell'animale in generale (indennità da malattie

infettive, sopratutto da quelle pericolose anche per la salute umana, quali

tubercolosi, brucellosi, salmonellosi e listeriosi) e della mammella in particolare

(dannose per la lavorazione e/o conservazione del latte e dei suoi derivati,

quali le masteopatie).

I secondi sono fondamentali nella determinazione della qualità del latte, la

quale può essere definita, in generale: con la sua composizione chimica

(contenuti lipidico, proteico, lattosico e minerale); con il suo contenuto

citologico (contenuto in cellule somatiche CCS e contenuto microbico totale

CMT); limitatamente ai latti destinati alla caseificazione con le sue

caratteristiche reologiche (tempo di coagulazione r, tempo di formazione del

coagulo K20, consistenza del coagulo A30) e casearie (resa alla trasformazione);

La sanità del latte. La sanità del latte è legata, oltrechè alla sanità

dell'allevamento (in particolare alla indennità da tubercolosi e da brucellosi),

soprattutto alla sanità della mammella, la cui principale affezione è la mastite,

che è uno stato infiammatorio dell'organo causato dalla penetrazione in esso,

attraverso il dotto papillare, di batteri patogeni,che provoca nel latte: aumento

dell'acido lattico a, spese del lattosio; aumento del N totale e delle proteine

sieriche (lattoalbumine e lattoglobuline) e parallela riduzione della caseina e

della sua coagulabilità, con conseguenze ovviamente negative sulla

caseificazione; aumento dei cloruri e del Ca, e conseguente innalzamento del

pH; riduzione del contenuto lipidico e del residuo magro.

Ciò comporta, oltrechè un deprezzamento qualitativo del latte ed un aumento

delle spese veterinarie, sopratutto una riduzione della produzione giornaliera e

per lattazione e nei casi estremi un accorciamento della carriera produttiva per

171

morte o eliminazione dell'animale colpito: l'incidenza economica del danno è

sempre elevata e può raggiungere il 10÷20% della PLV dell'allevamento.

La malattia si presenta con forme diverse (latente, subclinica, clinica, cronica) e

si manifesta con gradi diversi (subacuta, acuta e iperacuta). La sua insorgenza,

la sua diffusione e la sua intensità sono legate: a fattori genetici individuali

(resistenza), quali la conformazione anatomica della mammella (sopratutto

diametro del dotto papillare ed elasticità dello sfintere del capezzolo) e la

produttività dell'animale (livello produttivo e velocità di cessione del latte); a

condizioni igieniche generali, quali la pulizia della mammella e dell'ambiente,

la manutenzione dell'impianto di mungitura (lavaggio) e la sua conduzione

(livello del vuoto, rapporto di pulsazione); al tipo di alimentazione

(concentrazione proteica, concentrazione energetica, rapporto energia/proteina,

equilibrio acido-basico, somministrazione di erbe particolarmente ricche di

estrogeni come le leguminose);

La diagnosi è effettuata con: metodi fisico-meccanici (quali: palpazione della

mammella, che può rivelarne un aumento di volume e di temperatura;

osservazione dei primi schizzi di latte che ne rivela il colore e la consistenza) o

chimici (rilevazione del pH; determinazione del contenuto lipidico, in acido

lattico, in cloruri, in cellule somatiche e in microbi totali; test specifici, quali il

metodo californiano e wisconsiniano) e microbiologici (esami di laboratorio

specifici per l'individuazione dell'agente patogeno).

Gli agenti infettivi (esistono anche masteopatie non infettive che pero'

preludono a quelle infettive) sono prevalentemente Stafilococchi (S. aureus,

responsabile principale della mastite gangrenosa, di difficilissima eradicazione

in quanto si localizza in profondità ed è poco sensibile agli antibiotici; S.

epidermis), Streptococchi (S. agalactiae, dysgalactiae, uberis, fecalis, meno

dannosi degli stafilococchi ma pur sempre dannosi e presenti nella mammella),

Coliformi (Escherichia, Aerobacter, Pseudomonas, Clostridium,

Corinebacterium), gruppi non specifici delle mastiti (Micobatteri, Actinomiceti,

Micoplasmi, Muffe, Lieviti e Virus).

172

La prevenzione consiste principalmente: nell'eliminazione degli animali infetti

non curabili, nell'osservanza scrupolosa delle norme igieniche, sanitarie,

alimentari e di conduzione che ostacolano l'infezione e la diffusione della

malattia (pulizia e disinfezione dell'ambiente, dell'impianto di mungitura e

della mammella), nella somministrazione endomammaria di antibiotici specifici

all'asciugamento dell'animale, nella vaccinazione preventiva possibilmente con

vaccini specifici dell'allevamento (autovaccini).

La terapia consiste principalmente nell'isolamento degli animali colpiti e nella

macellazione di quelli incurabili, nell'asportazione chirurgica dei quarti o

dell'emimammella su animali di particolare valore produttivo, nel trattamento

antibiotico specifico in dosi massive sino a guarigione dell'animale e nel

controllo periodico sistematico dell'allevamento.

La valutazione commerciale del latte

Il pagamento del latte in base alla sua qualità impone quindi la fissazione del

prezzo in funzione delle caratteristiche merceologiche di maggiore rilevanza.

Ai fini della valutazione commerciale del latte devono quindi essere prese in

considerazione: la sanità dell'intero allevamento, dei singoli animali e della

mammella; il contenuto lipidico e proteico del latte; il contenuto in cellule

somatiche; il contenuto microbico totale; la presenza di sostanze estranee

(pesticidi, inquinanti, antibiotici), la refrigerazione del latte in azienda. La sanità

degli allevamenti è certificata con l'assenza dall'allevamento di animali affetti

da malattie infettive, dannose per la salute umana (tubercolosi e brucellosi) e

per la trasformazione e conservazione dei derivati del latte (salmonellosi e

mastite). Il contenuto lipidico e proteico, essendo responsabile della resa alla

caseificazione e della qualità dei formaggi, è particolarmente importante

sopratutto nei latti destinati alla caseificazione e costituiscono gli elementi

principali per la fissazione del prezzo base del latte. Il contenuto in cellule

somatiche ed il contenuto microbico totale non devono superare dei valori

soglia (200.000-500.000/cc e 500.000-1.000.000/cc rispettivamente per la specie

173

bovina ed ovina). La refrigerazione del latte in azienda, indispensabile per

contenere la moltiplicazione batterica e bloccare l'attività enzimatica che altera

le caratteristiche del latte durante il trasporto e/o la caseificazione e dei derivati

durante la maturazione e conservazione, deve essere attuata in tempi (2÷3 h) e

modi (3÷4°C) ben precisi.

LA PRODUZIONE DI CARNE

Mentre per l'attitudine alla produzione del latte esiste, come s'è visto in

precedenza, un parametro che la identifica e la definisce abbastanza

inequivocabilmente ¾ quantità di latte normalizzato Ln (latte con un

determinato contenuto lipidico, specifico per ciascuna specie) prodotto in una

lattazione di durata convenzionale (sempre 305 d per i bovini ed i bufalini;

variabile, in funzione della razza e della successione dei parti, per gli ovini ed i

caprini) da una lattifera adulta (quintipara per i bovini ed i bufalini, quartipara

per gli ovini ed i caprini) ¾ per l'attitudine alla produzione della carne, non

esistendo un parametro univoco di identificazione, si è costretti inevitabilmente

a fare riferimento ai diversi parametri che concorrono a definirne il carattere e

che correntemente vengono individuati nei seguenti 5:

• peso corporeo alla macellazione, indice di conversione alimentare, resa alla

macellazione,

• caratteristiche della carcassa e dei suoi tagli, qualità e composizione della

carne.

Sotto l'aspetto zootecnico, gli animali destinati alla produzione della carne:

· i giovani in accrescimento che eccedono la quota di rimonta dell'allevamento;

· gli adulti a fine carriera produttiva e/o riproduttiva che costituiscono la quota

di riformaobbligatoria;

· gli animali ¾ giovani o adulti ¾ ritenuti non idonei, per qualunque causa

(scarsa capacità produttiva, precario stato di salute, particolare scelta

imprenditoriale), a proseguire nella carriera produttiva e/o riproduttiva.

174

I giovani, prima della macellazione, vengono sottoposti ad ingrassamento:

questo è praticato esclusivamente (lattoni) o prevalentemente (mezzo-lattoni)

con il latte o con un suo succedaneo oppure, dopo lo svezzamento attuato più o

meno precocemente, con alimenti solidi che sono costituiti prevalentemente da

concentrati, insilati e/o fieni (vitelloni, bufalotti, agnelloni e caprettoni).

I primi (lattoni e mezzo-lattoni) qualora siano ingrassati con latte, che

generalmente é quello materno, sono macellati il più precocemente possibile e

quindi a pesi relativamente bassi, a causa della scarsa convenienza economica

dell'allevatore a destinare il latte prodotto in azienda alla trasformazione diretta

in carne (l'indice di conversione del latte in carne, variabile soprattutto con il

suo contenuto energetico e con la potenzialità di accrescimento dell'animale, è

notoriamente infatti molto elevato: kg 10÷12 nella specie bovina, 7÷8 in quella

bufalina, 5÷6 in quella ovina e 7÷8 in quella caprina): è la tecnica solitamente

adottata nella produzione degli agnelli e dei capretti tradizionali da latte e,

sebbene in misura sempre minore, nella produzione dei vitelli di razze rustiche,

sia puri che meticci, e di razze da latte di basso livello produttivo. Qualora

invece gli animali siano ingrassati, anziché con latte, con succedanei del latte (il

cui costo, per l'economicità del loro impiego, non deve superare il 30÷40% del

prezzo di vendita del latte), essi possono essere macellati ad età e pesi superiori

a quelli tradizionali, sfruttando in tal modo per intero la loro capacità di

accrescimento giovanile: è la tecnica adottata nella produzione degli agnelli e

dei capretti pesanti da latte, dei vitelli bovini di razze lattifere e dei vitelli

bufalini.

I secondi (vitelloni, bufalotti, agnelloni e caprettoni) sono invece animali che ¾

dopo essere stati inizialmente allattati con il latte o con un suo succedaneo,

successivamente svezzati più o meno precocemente e infine ingrassati con

alimenti solidi secondo piani alimentari adeguati ¾ vengono macellati ad età e

pesi tipici per le diverse specie e razze: è la tecnica adottata nella produzione

degli agnelloni e dei caprettoni (precoci, tradizionali e pesanti), dei vitelloni

(leggeri, semi-pesanti e pesanti) e dei bufalotti.

175

Gli adulti sono animali a fine carriera produttiva e/o riproduttiva (dopo

l'ultima lattazione, nel caso delle femmine; dopo l'ultima stagione o periodo di

monta, nel caso dei maschi) che vengono macellati dopo essere stati ingrassati o

comunque messi in carne per 1÷2 mesi.

In particolare, e con riferimento alle singole specie, queste categorie sono le

seguenti

· nella specie bovina: il vitello da latte ( tradizionale, leggero e pesante), il

vitellone (leggero, semipesante e pesante), l'adulto (vacca e toro; manza e

giovenca);

· nella specie bufalina: il vitello da latte, il bufalotto, l'adulto;

· nella specie ovina: l'agnello da latte (tradizionale e pesante), l'agnellone

(leggero, tradizionale e pesante), il castrato, l'adulto (pecora ed ariete);

· nella specie caprina: il capretto da latte (tradizionale e pesante), il caprettone,

l'adulto (capra e becco).

Il vitello tradizionale da latte è un vitello dell'età di mesi 5÷7 e del peso

corporeo di kg 180÷200, prevalentemente di sesso femminile; esso, più che un

vitello da latte vero e proprio, è un mezzolattone, in quanto ¾ provenendo

generalmente dall'allevamento estensivo di razze rustiche allevate in purezza o

incrociate con razze da carne oppure dall'allevamento semintensivo delle razze

da latte di basso livello produttivo oppure ancora dalle razze a duplice

attitudine ¾ è stato alimentato solitamente, oltre che con latte, con erba da

pascolo soprattutto nel primo caso e con concentrati soprattutto nel secondo

caso.

Il vitello leggero da latte, dell'età di mesi 4÷5 e del peso corporeo di kg 120÷150,

proveniente dall'allevamento intensivo delle razze specializzate da latte, è

ingrassato solitamente con un succedaneo del latte; questa produzione sta

perdendo via via importanza per l'orientamento dell'allevatore a produrre,

176

grazie alla sua maggiore convenienza economica, un animale più pesante che è

il vitellone.

Il vitello pesante da latte, dell'età di mesi 6÷8 e del peso corporeo di kg 250÷280,

è alimentato, oltre che con succedanei del latte, con farine e concentrati; la sua

produzione è ormai limitata ad un particolare mercato che é quello del sanato

(castrato) piemontese, prodotto quasi esclusivamente in Piemonte con la razza

omonima.

Il vitellone, che costituisce la produzione economicamente più importante e

quantitativamente più consistente della specie, è il giovane svezzato e

ingrassato sino a pesi ed età variabili, in funzione soprattutto della precocità

dell'animale e del tipo di prodotto richiesto dal mercato; esso solitamente é

distinto in: leggero, dell'età di mesi 10÷12 e del peso corporeo di kg 350÷420, in

genere proveniente da razze rustiche in purezza o in incrocio, da razze da latte

soprattutto se di sesso femminile e da razze da carne molto precoci; semi

pesante, dell'età di mesi 12÷15 e del peso corporeo di kg 450÷500, in genere

proveniente da meticci di razze rustiche soprattutto di sesso maschile, da

meticci di razze da latte e da razze a duplice attitudine; pesante, dell'età di oltre

mesi 15 e del peso corporeo superiore a kg 500, in genere proveniente da

meticci di razze da latte oppure da razze a duplice attitudine oppure ancora da

razze da carne in purezza.

L'adulto è costituito prevalentemente da vacche a fine carriera, di età e peso

corporeo molto variabili (rispettivamente anni 8÷12 e kg 400÷700); da tori

anch'essi a fine carriera (età 4÷6 anni e peso corporeo kg 600÷1500); da manze,

da giovenche e da giovani vacche di scarto.

Il vitello bufalino da latte ha un'età di mesi 4÷5 ed un peso corporeo di kg

80÷120; il bufalotto ha un'età di mesi 10÷12 ed un peso corporeo di kg 300÷350;

l'adulto a fine carriera (bufala e toro bufalino) dell'età di 10 e 6 anni e del peso

corporeo di 500÷600 e di 600÷1000 kg, rispettivamente.

L'agnello tradizionale da latte, il cui peso varia principalmente con la razza e

con le esigenze del suo particolare mercato, in Italia è prodotto a pesi sempre

177

più bassi e quasi esclusivamente con razze da latte (kg 8÷10 all'età di 25÷30 d

con razze da latte specializzate; kg 12÷15 all'età di 40÷45 d con razze da carne e

simili). L'agnello pesante da latte è ottenibile soltanto grazie alla tecnica

dall'allattamento artificiale che, per il costo alimentare contenuto, ne valorizza

la potenzialità dicrescita sino a d 45÷60 (kg 10÷12 con animali in purezza; kg

12÷15 con animali meticci). L'agnellone, ottenibile convenientemente soltanto

con le razze da carne o con i loro derivati a causa dell'incapacità delle razze da

latte di raggiungere precocemente pesi elevati, ha età e pesi di macellazione

differenti: leggero o precoce, dell'età di d 90÷100 e del peso corporeo di kg

25÷30, se svezzato ed ingrassato precocemente; tradizionale o semipesante,

dell'età di d 120÷135 e del peso corporeo di kg 35÷40; pesante, dell'età di mesi

5÷6 e del peso corporeo di kg 50÷60, scarsamente diffuso pero' in Italia. L'adulto

(pecora e ariete a fine carriera) ha un età rispettivamente di anni 5¸7 e 4¸5 ed un

peso corporeo di kg 40÷60 e 60÷90. Il castrato o montone, poco richiesto dal

mercato italiano, ha un età di mesi 8÷12 ed un peso corporeo di kg 70÷80.

Il capretto tradizionale da latte ha un età di d 40÷45 ed un peso corporeo di kg

8÷12. Il capretto pesante da latte, ottenibile economicamente soltanto grazie alla

tecnica dell'allattamento artificiale, ha un età di d 50÷60 ed un peso corporeo di

kg 12÷15. Il caprettone, dell'età di d 60÷70 e del peso corporeo di kg 18÷20, è

poco apprezzato però dal consumatore per il suo caratteristico odore ircino.

L'adulto (capra e becco) ha un età rispettivamente di anni 6¸8 e 4¸5 ed un peso

corporeo rispettivamente di kg 40÷60 e 60÷100.

Sotto l'aspetto commerciale, gli animali destinati alla produzione della carne

sono invece raggruppati nel modo seguente:

· nella specie bovina: bovino da latte, vitello al di sotto di kg 220 di peso morto,

alimentato con solo latte o suo succedaneo ed a carne bianca; bovino adulto,

animale svezzato comprendente una delle seguenti 5 categorie: A giovenca,

femmina che non ha mai partorito; E vitellone, maschio giovane intero; C

castrato; B toro, riproduttore oppure bue a fine carriera; D vacca, femmina che

ha partorito almeno una volta;

178

· nella specie bufalina: annutolo, sotto l'anno di età; adulto, oltre l'anno;

· nella specie ovina: agnello da latte, alimentato soltanto con latte o

succedaneo, suddiviso in due categorie (tradizionale < 7 kg; leggero 7¸13 kg di

peso morto); agnellone, giovane svezzato e ingrassato; adulto (pecora e ariete);

· nella specie caprina: capretto da latte, alimentato soltanto con latte o

succedaneo; caprettone, giovane svezzato e ingrassato; adulto (capra e becco).

IL PESO CORPOREO ALLA MACELLAZIONE

Il peso corporeo alla macellazione — che nella produzione della carne è per

l'allevatore il parametro tecnicamente più evidente ed economicamente più

rilevante — è funzione sia del peso alla nascita che dell'incremento ponderale

dalla nascita alla macellazione ed è influenzato, in entrambi i suoi componenti,

da fattori genetici, alimentari e tecnici.

Il peso dell'animale alla nascita dipende: dalla specie (kg 30¸50 nei bovini e nei

bufalini e 3¸5 negli ovini e nei caprini); dalla razza (generalmente le razze da

carne hanno pesi superiori a quelle da latte e queste a quelle rustiche); dal sesso

(i maschi superano le femmine mediamente del 10÷15%); dall'ordine di parto (i

figli di pluripare superano quelli delle primipare del 5÷10%); dal tipo di parto (i

singoli pesano più dei bigemini e questi più dei trigemini); dalla stagione di

parto (i nati nel semestre inverno-primaverile pesano più di quelli estivo-

autunnali); dalla durata della gravidanza della madre (una gestazione piu'

lunga comporta un piu' elevato peso alla nascita); dal tipo di alimentazione (in

particolare dal livello nutritivo della razione complessiva) della madre

nell'ultima fase della gravidanza (ultimo terzo); infatti il ritmo di accrescimento

prenatale, essendo molto basso sia nella fase embrionale che in quella fetale

iniziale e diventando consistente soltanto nella fase fetale finale (g/d 300¸400

nei bovini e nei bufalini e 40¸50 negli ovini e nei caprini), è ovviamente legato,

oltreché ad aspetti genetici (l'ereditabilità del carattere è infatti del 20÷30%),

sopratutto al livello nutritivo della razione materna nell'ultimo mese (ovini e

caprini) o negli ultimi 2 mesi (bovini e bufalini) di gravidanza, in particolare

179

alla quantità di concentrati somministrati. L'importanza economica di un alto

peso alla nascita è rilevante però soltanto se si considera l'elevata correlazione

che esiste, a parità di altre condizioni, fra il peso alla nascita e la frequenza delle

distocie, questo può diventare un fattore addirittura negativo, soprattutto in

alcune condizioni aziendali (allevamento di razze da carne o simili predisposte

naturalmente alle distocie; conduzione estensiva della mandria o del gregge;

carenza di assistenza al parto) nelle quali l'allevatore deve tendere ad ottenere

invece animali, oltreché ben conformati, di modesto peso alla nascita, anche se

quelli più pesanti sono più vitali ed hanno ritmi di accrescimento superiori.

L'incremento ponderale o aumento del peso corporeo dalla nascita alla

macellazione è il risultato congiunto di due fenomeni fisiologici fra loro

inscindibili ma che si realizzano con una sfasatura temporale: l'aumento delle

dimensioni corporee dell'animale (accrescimento dimensionale somatico) e la

variazione di forma, di struttura e di composizione degli organi dell'animale

(accrescimento differenziale strutturale o sviluppo); tanto l'uno quanto l'altro

trovano la loro espressione sintetica e la loro misurazione quantitativa nel ritmo

di accrescimento.

Il fenomeno dell'accrescimento ¾ che inizia con la fecondazione e termina, di

fatto, con il raggiungimento dell'età adulta (5÷6 anni nei bovini e nei bufalini,

4÷5 negli ovini e nei caprini), attraversando la fase prenatale o uterina (vita

embrionale e vita fetale) e quella post-natale (vita produttiva) ¾ è caratterizzato:

inizialmente, dalla prevalenza della componente dimensionale somatica, cui è

legata la crescita delle tre parti del corpo dell'animale (in successione temporale,

tessuto osseo e cartilagineo, tessuto muscolare e tessuto adiposo);

successivamente, dalla prevalenza della componente strutturale, cui è legata la

differenziazione percentuale degli organi e la diversificazione della

composizione dei tessuti (contenuto idrico, lipidico, proteico e minerale).

L'incremento ponderale complessivo che ne deriva è funzione sia del ritmo di

accrescimento che dell'età di macellazione.

180

Il ritmo di accrescimento ¾ come s'è detto, espressione sintetica e misura

quantitativa del fenomeno dell'accrescimento ¾ può essere espresso sia in

valore assoluto come kg (per le specie bovina e bufalina) o g (per le specie ovina

e caprina) di incremento ponderale giornaliero, sia in valore relativo come kg (o

g ) di incremento giornaliero per q (o kg) di peso corporeo dell'animale:

Il ritmo di accrescimento purtroppo subisce sempre un rallentamento, a volte

eccessivo, durante la fase dello svezzamento (fase di passaggio dalla

alimentazione lattea a quella solida e non necessariamente di separazione del

giovane dalla madre) e quando le condizioni sanitarie ed alimentari

dell'animale non sono perfette; esso però può essere recuperato, almeno

parzialmente (accrescimento compensativo), qualora ad un periodo di

ipoalimentazione e/o di stress segua uno di ripristino ottimale delle condizioni

alimentari e/o sanitarie.

Il ritmo di accrescimento non è nè uguale nè costante, nello stesso animale, per i

diversi tessuti, organi ed apparati; questi presentano infatti un accrescimento

differenziale che è il responsabile della diversificazione strutturale dell'animale:

normalmente le ossa crescono più rapidamente ed anticipatamente dei muscoli

e questi dei depositi adiposi, con conseguente diversificazione temporale fra i

ritmi di sviluppo dei tessuti scheletrico, muscolare ed adiposo (accrescimento

ad onde).

Questa diversificazione di sviluppo fra tessuti, sempre presente in tutte le

specie e le razze, può essere più o meno accentuata in funzione della precocità

dell'animale, che é la sua capacità di raggiungere più o meno precocemente sia

le dimensioni somatiche (precocità somatica) che la struttura corporea

(precocità strutturale) dello stato adulto. A seconda della loro precocità, le razze

vengono classificate in: precoci (le razze rustiche e alcune razze da latte), medie

(alcune razze da latte e le razze a duplice attitudine), tardive (le razze da carne).

La precocità ha rilevante importanza pratica in quanto concorre a determinare

l'età ottimale di macellazione: ad esempio, bovini caratterizzati da prolungato

ritmo di accrescimento e da lentezza di maturazione strutturale debbono essere

181

necessariamente macellati a pesi molto elevati e debbono quindi essere destinati

alla produzione del vitellone pesante; bovini con caratteristiche opposte

debbono essere invece destinati alla produzione del vitellone leggero.

L'età di macellazione, responsabile anch'essa del peso alla macellazione, varia

in funzione del ritmo di accrescimento e quindi della precocità dell'animale (ad

esempio, le femmine debbono essere macellate prima dei maschi) e delle

particolari esigenze del mercato (alcuni mercati preferiscono gli animali leggeri

a quelli pesanti, altri gli animali da latte a quelli svezzati ed ingrassati). Talvolta

però l'allevatore è costretto, per ragioni tecniche o per particolari condizioni del

mercato, a macellare gli animali anticipatamente oppure posticipatamente

rispetto all'età tecnicamente ottimale.

L'INDICE DI CONVERSIONE ALIMENTARE

L'indice di conversione alimentare, che è il più importante parametro di stima

della convenienza economica di qualsiasi produzione zootecnica, è la quantità

di alimento (comunque espressa: kg di sostanza secca o, meglio, cal o J di

energia netta) mediamente consumata dall'animale per ogni kg di incremento

di peso corporeo; è normalmente espresso in UFL oppure in UFC/kg di

incremento.

Esso varia in funzione principalmente: della specie (le specie bovina e bufalina

hanno ovviamente indici più elevati delle specie ovina e caprina ; della razza (le

razze da carne hanno indici più bassi di quelle da latte e queste di quelle

rustiche, grazie al loro differente ritmo di accrescimento); del sesso (i maschi

hanno indici più bassi delle femmine, grazie alla loro maggiore capacità di

trasformazione alimentare); dell'età (gli animali giovani hanno ritmi di

accrescimento più elevati e conversioni alimentari più favorevoli di quelli meno

giovani o adulti); del peso corporeo (l'animale con l'avanzare dell'età e del peso

destina una quota alimentare progressivamente crescente al proprio

mantenimento); dello stato di ingrassamento; del piano alimentare; della

tecnica di ingrassamento (animali liberi ma mantenuti in recinti ristretti ed

182

alimentati razionalmente crescono più di altri mantenuti in condizioni opposte);

delle condizioni igienico-sanitarie generali

Il piano alimentare, può essere costante per tutto l'ingrassamento oppure

differenziato nel tempo. Il livello nutritivo, che è il rapporto fra l'energia totale

ingerita dall'animale e quella strettamente necessaria al suo mantenimento, è

considerato basso quando è inferiore a 1,5; moderato fra 1,5÷2; alto oltre 2;

talvolta è espresso empiricamente come quantità di concentrati somministrati

per q di peso corporeo dell'animale (kg/q 0,5 - 1,0 - 1,5, rispettivamente).

LA RESA ALLA MACELLAZIONE

La resa alla macellazione è il rapporto percentuale fra il peso morto (carcassa,

comunque preparata) ed il peso vivo (peso corporeo, comunque rilevato)

dell'animale macellato: R= PM/PVx100.

Poiché però sia il sistema di macellazione dell'animale che il tipo di

preparazione commerciale della sua carcassa variano in funzione della specie

animale, dell'età di macellazione ed anche delle consuetudini locali, esistono

espressioni diverse di questo rapporto che possono ingenerare qualche

confusione sulla corretta interpretazione del parametro, la cui esatta

valutazione è di fondamentale importanza per l'allevatore soprattutto ai fini

economici della fissazione del prezzo di vendita dell'animale; occorre pertanto

definire esattamente i due termini (denominatore e numeratore) del rapporto.

Il peso vivo può essere espresso come: peso lordo (peso dell'animale nelle

condizioni ordinarie dell'allevamento, ossia sazio e dissetato: in pratica, dopo il

pasto, la pascolata e l'abbeverata); peso stallato (peso dell'animale stallato,

mantenuto cioè a digiuno alimentare e idrico da almeno 12 ore; peso netto

(peso dell'animale privato di tutto il contenuto gastroenterico; tale peso

ovviamente non può essere determinato che a posteriori, ossia dopo la

macellazione, detraendo dal peso lordo oppure dal peso stallato il peso del

contenuto gastrointestinale residuo).

183

Il peso morto può essere espresso come: peso in carcassa (peso dell'animale

privato del sangue, della testa, della pelle, dei visceri ad eccezione dei reni e del

grasso perirenale, della coda, della parte distale degli arti e sezionato prima in

mezzene e poi in quarti;

Nella pratica commerciale per resa alla macellazione si intende di norma la resa

in carcassa, a digiuno, a freddo (resa commerciale); nella pratica sperimentale la

resa netta, in carcassa, a freddo (resa netta).

La resa alla macellazione è influenzata da fattori genetici, alimentari e tecnici.

I principali fattori genetici sono: la specie (la specie bovina ha di norma una resa

maggiore di quella bufalina e la specie ovina superiore a quella caprina, per la

superiore attitudine alla produzione della carne delle prime due specie rispetto

alle seconde); la razza (le razze specializzate per la produzione della carne

hanno una resa superiore a quelle a duplice attitudine, queste a quelle

specializzate da latte e queste ultime a quelle rustiche; i meticci derivati da

razze da carne hanno una resa intermedia fra la razza incrociante da carne e la

razza incrociata da latte oppure rustica); il sesso (il maschio ha una resa sempre

superiore alla femmina).

Il principale fattore alimentare è il piano alimentare adottato dato, come s'è

detto, dal susseguirsi dei livelli nutritivi praticati (moderato-alto, alto-

moderato, alto-alto) nelle varie fasi dell'ingrassamento: il livello alto comporta

maggiori rese.

I principali fattori tecnici sono: l'età ed il peso di macellazione (i giovani

rendono più degli adulti; i giovani da latte più di quelli svezzati ed ingrassati,

per il diverso sviluppo relativo dell'apparato digerente in generale e dei

prestomaci in particolare); lo stato di ingrassamento (la resa è superiore negli

animali finiti rispetto a quelli semifiniti; negli animali stabulati rispetto a quelli

bradi); le performances di macellazione (precisione, puntualità e professionalità

degli addetti alla macellazione); le condizioni generali degli animali (quelli

stressati dal trasporto e/o dall'affaticamento hanno rese inferiori a quelli

macellati in condizioni ottimali).

184

La macellazione consiste nello stordimento, nel dissanguamento, nella

scuoiatura, nella eviscerazione e nella sezionatura dell'animale in 2 mezzene o

in 4 quarti.

Lo stordimento (praticato normalmente nelle specie bovina e bufalina e talvolta

omesso negli adulti delle specie ovina e caprina) consiste nella frattura dei seni

frontali per mezzo di una pistola con proiettile captivo oppure nell'applicazione

di corrente elettrica a basso voltaggio e ad alto amperaggio in un apposito

locale del mattatoio.

Il dissanguamento, che segue immediatamente allo stordimento e alla

sistemazione dell'animale in posizione verticale, consiste nella iugulazione

(recisione dei grossi vasi — giugulari e carotidi — del collo) dell'animale (nei

capretti e negli agnelli da latte la iugulazione è praticata con l'animale in

posizione orizzontale e spesso, seppure illegalmente, anche senza precedente

stordimento).

La scuoiatura consiste nella asportazione della pelle, di solito previa

insufflazione di aria con un compressore per facilitarne il distacco dal corpo

dell'animale (questa operazione non è effettuata soltanto nei capretti da latte

che sono preparati sottopelle o alla caprettina).

La eviscerazione consiste nell'asportazione di tutti i visceri, ossia degli organi

sessuali maschili (pene e testicoli) nei maschi e femminili (apparato genitale

femminile e mammella con relativo grasso) nelle femmine, degli organi della

cavità toracica (esofago, cuore, polmoni e trachea), del diaframma, degli organi

della cavità addominale (rumine-reticolo, omaso, abomaso, intestino, fegato,

milza e pancreas, ad eccezione dei reni e delle capsule perirenali); nella

preparazione alla romana ed alla caprettina (agnelli e capretti da latte) non

vengono asportati nè i visceri prediaframmatici, né parte dell'intestino digiuno,

nè il peritoneo, utilizzati tradizionalmente dal consumatore nella preparazione

di pietanze speciali (cordula etc).

La sezionatura (inesistente nella preparazione alla caprettina e soltanto parziale

in quella alla romana) consiste nell'asportazione: della testa, con separazione fra

185

l'occipitale e l'atlante; della parte distale degli arti, tagliati quelli anteriori al

ginocchio (articolazione carpico-metacarpica) e quelli posteriori al garretto

(articolazione tarsico-metatarsica), della coda (vertebre caudali); nella

successiva suddivisione della carcassa così ottenuta prima in due mezzene

secondo il piano sagittale mediano e successivamente, normalmente dopo il

raffreddamento, in quattro quarti secondo un taglio variabile regionalmente ma

quasi sempre a pistola; i quarti anteriori comprendono quindi le regioni del

collo, del garrese, del petto, del costato, della spalla, del braccio, del gomito,

dell'avambraccio, del fianco e dell'addome; quelli posteriori le regioni del

dorso, del lombo, della groppa, della coscia, della natica e della gamba e

costituiscono i tagli migliori

Oltre ai quattro quarti, dagli animali macellati si ottiene il cosiddetto quinto

quarto, che è costituito dalle frattaglie edibili (testa con cervella e lingua; coda;

cuore, polmoni e diaframma; fegato, milza e pancreas; stomaci; midollo; timo)

ed i sottoprodotti della macellazione (sangue, pelle, grasso; corna, unghie e

crini; budella, vescica; ossa e carnicci vari) che sono utilizzati dalle varie

industrie di trasformazione.

LE CARATTERISTICHE DELLA CARCASSA E DEI SUOI TAGLI

La bontà di una carcassa è legata soprattutto alla quantità di masse muscolari e

di depositi adiposi in essa presente: la sua valutazione commerciale, non

sempre di facile effettuazione, non può quindi prescindere da una obbiettiva

quantificazione di questi elementi; allo scopo sono pertanto presi in

considerazione, anche su indicazione delle disposizioni comunitarie,

principalmente tre elementi: la conformazione, lo stato di ingrassamento o

adiposità, la resa in tagli pregiati.

La conformazione della carcassa, che è identificata con lo sviluppo del suo

profilo in generale e delle sue tre parti essenziali (coscia, schiena, spalla) in

particolare, è valutata, a livello comunitario, in 6 classi commerciali (SEUROP)

le cui caratteristiche sono le seguenti

186

- S (Superiore): Profilo superconvesso, sviluppo muscolare con doppia groppa,

coscia, schiena e spalla superconvesse e superspesse (riservata di fatto agli

animali eccezionali di razze da carne);

- E (Eccellente): Profilo molto convesso, sviluppo muscolare eccezionale, coscia

molto arrotondata, schiena larghissima e spessissima, spalla molto arrotondata;

- U (Ottima): Profilo convesso, sviluppo muscolare abbondante, coscia

arrotondata, schiena larga e spessa, spalla arrotondata;

- R (Buona): Profilo rettilineo, sviluppo muscolare buono, coscia sviluppata,

schiena spessa, spalla sviluppata;

- O (Media): Profilo leggermente concavo, sviluppo muscolare medio, coscia

mediamente sviluppata, schiena media, spalla quasi piatta;

- P (Mediocre): Profilo molto concavo, sviluppo muscolare ridotto, coscia poco

sviluppata, schiena stretta, spalla piatta.

Poiché ciascuna di queste 6 categorie può a sua volta essere suddivisa in 3

sottoclassi (1-; 1; 1+), possono aversi complessivamente 18 tipi di carcasse.

Le misurazioni vengono eseguite in parte sull'animale vivo al momento della

macellazione, in parte dopo la macellazione sulla carcassa refrigerata. Le prime

consistono nella rilevazione: dell'altezza al garrese, alla croce e del torace; della

lunghezza del tronco e della groppa; della larghezza della groppa e del torace;

della circonferenza del torace; dello spessore della pelle. Le seconde nella

rilevazione: della lunghezza della carcassa e della coscia, della profondità del

torace, della larghezza sia massima che minima della coscia.

Lo stato di ingrassamento o adiposità della carcassa, individuabile con la

quantità di grasso presente sia al suo esterno (arto posteriore, dorso, torace,

addome, arto anteriore) che costituisce il grasso di copertura, sia al suo interno

(bacino, rene, diaframma, costole, petto e apofisi dorsali) che costituisce il

grasso interno, è valutato in 5 classi (1, 2, 3, 4, 5) suddivisibili, a loro volta,

ciascuna in tre sottoclassi (-, 0, +) per complessivi 15 possibili tipi codificati dal

MAF (attualmente MIPAF) nel modo seguente:

187

1. ingrassamento molto scarso: copertura di grasso inesistente sia all'esterno che

all'interno;

2. ingrassamento scarso: copertura di grasso sottile con muscoli visibili;

3. ingrassamento medio: copertura dei muscoli toracici con lievi depositi al loro

interno;

4. ingrassamento buono: copertura abbondante dei muscoli toracici e discreta

degli altri ;

5. ingrassamento ottimo: copertura abbondante di tutti i muscoli con

infiltrazioni di grasso.

La resa in tagli o pezzature pregiate, in cui le mezzene ed i quarti sono

suddivisi anche se in maniera differente da regione a regione, hanno

grandissimo rilievo nella valutazione delle caratteristiche delle carcasse. Sotto

l'aspetto anatomico (Pezzatura anatomica), la carcassa è costituita dai tagli dei

quarti anteriori e da quelli dei quarti posteriori. I tagli del quarto anteriore (sino

all'ultima vertebra dorsale, seguendo il margine caudale dell'ultima costola)

sono rappresentati: dalla spalla (scapola, omero e muscoli annessi),

dall'avambraccio (radio-ulna, carpo e relativi muscoli), dal collo (vertebre

cervicali e relativi muscoli), dalla punta di petto e petto (sterno, parte inferiore

delle costole e muscoli annessi), dalla bistecca (vertebre dorsali, due terzi delle

costole e muscoli costali relativi, muscoli toracici). I tagli del quarto posteriore

(dalla prima vertebra lombare seguendo il margine superiore dell'ultima

costola) sono rappresentati: dal lombo (regione lombare e relativi muscoli),

dall'addome (muscoli addominali), dalla coscia (vertebre sacrali e prima

coccigea, bacino, femore, rotula e muscoli annessi), dalla gamba (tibia, fibula,

tarso e relativi muscoli).

Sotto l'aspetto commerciale (Pezzatura commerciale) le pezzature principali

sono:

• Spalla, sottospalla, petto, punta di petto, collo, costola, per i quarti anteriori;

• Filetto, arrosto, girello, fesa, noce, scamone, per i quarti posteriori.

188

Tutte le caratteristiche della carcassa sono funzione, oltre che del piano

alimentare e quindi dello stato di ingrassamento, soprattutto del tipo genetico

dell'animale (specie e razza, sesso ed età). Le razze da carne forniscono quarti

posteriori e quindi tagli pregiati (filetto, girello, arrosto) in quantità superiore

alle razze a duplice attitudine, queste alle razze da latte, queste ultime alle

rustiche: l'incidenza del quarto posteriore sulla mezzena infatti oscilla

mediamente fra 60÷40%, quella dei tagli di prima qualità su quelli totali fra

35÷15%. I maschi sono in genere superiori alle femmine e gli animali meno

giovani migliori di quelli più giovani.

LA QUALITÀ E LA COMPOSIZIONE DELLA CARNE

La carne è costituita dal muscolo, dal grasso e, per alcuni tagli, anche dalle ossa

e dai tendini: il muscolo, costituito prevalentemente di acqua (75÷80%), di

proteine (15÷20%) e di lipidi (2÷3%), è formato da tessuto muscolare (fibre

muscolari di varia lunghezza e spessore composte da numerosissime miofibrille

contrattili), da tessuto connettivo (dato prevalentemente dal collagene

responsabile principale della tenerezza della carne) e da tessuto adiposo

intramuscolare.

Essa deriva dalla evoluzione, dopo la morte dell'animale, dei suoi costituenti

principali ed in particolare del tessuto muscolare, la cui struttura e la cui

composizione subiscono una serie di processi di maturazione: modificazioni

fisiche, quali la rigidità cadaverica per il consumo dell'ATP; trasformazioni

biochimiche, quali l'idrolisi del glicogeno e la riduzione del pH, indispensabile

per la buona conservazione della carne; fenomeni di idrolisi e di ossidazione,

sia a carico delle proteine ed in particolare della mioglobina, sia a carico dei

lipidi intra e intermuscolari; calo ponderale per evaporazione, la cui entità

dipende dall'umidità, dalla temperatura e dalla ventilazione. La velocità di tali

processi dipende sopratutto dal tipo di muscolo, dall'età, dallo stato di

ingrassamento e dalla temperatura di refrigerazione.

189

La carne — che può essere consumata fresca (entro 5÷6 d, purchè conservata a T

di 5÷6°C), refrigerata (entro 15÷20 d, purchè conservata a T di 1¸2°C), congelata

(entro 6 mesi, purchè conservata a T di -18°C) e surgelata (congelamento rapido

in 4 h), oltrechè essiccata, insaccata, affumicata, salata e inscatolata — presenta

qualità organolettiche, composizione chimica e rese allo spolpo molto variabili

in funzione di diversi fattori (specie, razza, sesso, età e peso di macellazione;

piano alimentare e stato di ingrassamento; provenienza e tecnica di

allevamento; taglio commerciale e stato di maturazione o frollatura).

Le caratteristiche organolettiche della carne che interessano il consumatore e

che quindi concorrono a definirne il valore commerciale ossia il prezzo di

vendita sono principalmente: il colore, la tenerezza, il sapore e l'odore.

Il colore, essendo la caratteristica percepita più immediatamente dal

consumatore, costituisce il primo criterio di valutazione e quindi di giudizio sul

prezzo di vendita; esso varia in funzione: della specie (nella specie bufalina è

più scuro che in quella bovina; nella specie ovina più che in quella caprina),

della razza (nelle razze da carne è più chiaro che in quelle da latte e rustiche),

del sesso (nei maschi è più scuro che nelle femmine), dell'età di macellazione

(negli adulti è più scuro che nei giovani), del tipo di alimentazione (negli

animali svezzati è più scuro che in quelli a carne bianca), della distanza dalla

macellazione (schiarisce con il passare del tempo), del tipo di conservazione

(hanno effetto soprattutto la temperatura, l'umidità e la ventilazione), delle

condizioni di macellazione (gli stress provocano colore scuro). Alla sua

definizione concorrono sopratutto: l'intensità, la lucentezza o luminosità e la

persistenza o stabilità. L'intensità è data dalla quantità e dallo stato di

ossidazione di pigmento presente nella fibra muscolare, il quale è rappresentato

quasi esclusivamente dalla mioglobina — cromoproteina formata da globina

(gruppo proteico) e da Fe (gruppo prostetico) che conferisce il colore — in

quanto con il dissanguamento l'emoglobina si riduce a poco più del 10%; essa

può essere quantificata rilevando il contenuto in Fe mioglobinico della carne. La

luminosità è data dalla lucentezza ed è misurata con lo spettro-fotometro. La

190

persistenza, variabile con il muscolo, è la stabilità o resistenza del colore al

trattamento termico.

La tenerezza, che è la resistenza alla masticazione od al taglio, è funzione della

specie, della razza, del sesso, dell'età e peso di macellazione, nonchè dello stato

di ingrassamento dell'animale, ed è migliorabile, entro certi limiti, con le

modalità di macellazione e di raffreddamento, con la maturazione e la

frollatura; essa è legata, oltreché alle caratteristiche originarie (quantità e qualità

del tessuto connettivo e struttura delle miofibrille), anche alle modalità di

cottura (durata, temperatura e tipo di riscaldamento). Può essere valutata

soggettivamente con la masticazione o indirettamente con apposite analisi

dinamometriche.

Il sapore, che è dato dall'insieme delle sensazioni olfattive e gustative

all'assaggio, deriva dai corpi volatili o solubili presenti nella carne (composti

azotati, carboidrati e trigliceridi).

L'odore, che varia in funzione della specie, del sesso, dell'età e del tipo di

alimentazione, nonchè del tipo ed intensità di cottura, dovebbe essere fragrante

o, al massimo, leggermente acidulo.

La composizione chimica della carne viene determinata analiticamente su

porzioni di muscoli campione (ad esempio: lunghissimo dorsale,

semimembranoso, semitendinoso, lungo vasto etc): di solito sono rilevati il

valore calorico o energetico mediante bomba calorimetrica, il contenuto in

acqua (sia di costituzione che di ritenzione), in proteine ed eventualmente nei

diversi aminoacidi, in grasso ed eventualmente la serie acidica dei suoi acidi

grassi.

La resa allo spolpo è data dalla percentuale di muscolo, di grasso, di ossa +

tendini della carcassa e dipende principalmente dalla specie, dalla razza, dal

peso ed età di macellazione, dal piano alimentare e stato di ingrassamento

dell'animale.

LE PRODUZIONI MINORI

191

Le produzioni minori sono: la produzione di lana, limitatamente alla specie

ovina; la produzione di pelli; la produzione di letame, limitata quasi

esclusivamente alle specie bovina e bufalina.

LA PRODUZIONE DI LANA

La lana, che è la copertura pilifera della pelle della specie ovina ed il cui

costituente chimico fondamentale è la cheratina , è costituita dal vello (parte più

esterna e grossolana, composta prevalentemente da peli provenienti dai follicoli

primari) e dal sottovello (parte più interna e sottile, composta prevalentemente

da filamenti provenienti dai follicoli secondari). A seconda della prevalenza in

essa di questi due componenti, la lana è classificata, sotto l'aspetto

merceologicocommerciale nelle seguenti classi: tessile, intermedia, da

materasso.

I principali parametri che ne definiscono la qualità sono:

- la finezza o diametro della fibra, attualmente misurata elettronicamente su

tutto il bioccolo, che può variare da 10 a 50m;

- la lunghezza, misurata sul filamento disteso, che può variare da cm 5÷10 a

20÷30;

- la resistenza alla trazione, alla torsione ed alla flessione, particolarmente

importanti nell'industria tessile per la filatura;

- la increspatura e l'elasticità; la leggerezza e la morbidezza; la coibenza e la

conduttività; la lucentezza e la colorabilità; la omogeneità e la densità.

La qualità della lana è influenzata dal clima (T, U, L), dall'alimentazione

(concentrazione energetica e proteica della razione, presenza di aminoacidi

solforati) e dalla tosatura (frequenza e distanza di tosatura). Una produzione

pilifera — impropriamente considerata lana anche se costituita da fibre

lunghissime (sino a cm 25 di lunghezza) e sottilissime (intorno ai 15 μm di

diametro) — è quella fornita dalle razze Angora e Mongolica (che è

denominata, rispettivamente, Mohair e Kashmir) della specie caprina che viene

192

utilizzata, in tutto il mondo, per la preparazione di filati finissimi di

grandissimo valore commerciale.

LA PRODUZIONE DI PELLI

La pelle, la cui incidenza sul peso vivo dell'animale e sulla sua carcassa è

rispettivamente del 8÷10% e del 15÷20%, viene utilizzata quasi esclusivamente

nell'industria conciaria nella produzione del cuoio (sopratutto nella specie

bovina), per la fabbricazione di pelletterie (quali scarpe, borse etc.) e di tappeti

(sopratutto nella specie ovina e caprina) per l'arredamento. Il suo valore

commerciale è legato alla sua qualità, che viene identificata con la sua

grandezza e robustezza e soprattutto con la sua integrità.

LA PRODUZIONE DI LETAME

Il letame, che è l'insieme degli escrementi (feci e urine) dell'animale e della

paglia (lettiera) spesso fermentati, assume importanza economica, di fatto,

soltanto nella specie bovina, sia per la entità della produzione che per le sue

caratteristiche; esso è reimpiegato direttamente in azienda per la fertilizzazione

dei terreni oppure è utilizzato nell'industria floricola e serricola, soprattutto se

conservato alla stato solido. La sua qualità dipende dal suo contenuto in

sostanza secca e in elementi fertilizzanti (N, P, K) e dall'assenza di residui

inquinanti (detersivi, microbi, sostanze tossiche).

La quantità annualmente prodotta in una stalla (o in un ovile) dipende dalla

consistenza dell'allevamento, dalla ingestione alimentare degli animali, dalla

composizione e digeribilità degli alimenti, dalla quantità di paglia impiegata

come lettiera e dal sistema di conservazione della massa prodotta: ad esempio,

nei bovini, nell'ipotesi di un peso corporeo medio unitario di q 5 (3÷7), di un

livello di ingestione alimentare medio del 3% (2÷4), di una escrezione fecale del

30% (20÷40) della s.s. ingerita e di un contenuto idrico globale della massa

(acqua fecale + urine + acqua di rifiuto della stalla) dell'80% (70÷90), la quantità

193

annualmente prodotta (in 300 giorni di raccolta) è mediamente di q 67,5 (45÷90),

corrispondente a 13,5 q (9¸18) di sostanza secca per capo allevato.

Sale e impianti di mungitura

Sala lineare a tandem (2+2) Sala lineare a spina di pesce (5+5)

Sala lineare a tandem (2+2) Sala lineare a spina di pesce (5+5)

Sala lineare trasportata (12+12)

Sala a piattaforma mobile (18)

194

Tecniche ed accorgimenti per migliorare la qualità delle produzioni in

allevamento.

La mungitura è la pratica di stimolazione delle ghiandole mammarie della

femmina delle specie appartenenti alla classe dei mammiferi, atta a prolungare

la produzione di latte negli animali anche dopo lo svezzamento del piccolo. In

particolare, tale metodo viene applicato su animali, come le mucche, le capre, le

pecore e le asine, per ricavare latte, utile non solo per essere bevuto, ma anche

per la fabbricazione di formaggi. La mungitura può essere compiuta in due

modi: manualmente o meccanicamente: La mungitura a mano viene realizzata

massaggiando e tirando delicatamente verso il basso i capezzoli della femmina,

raccogliendo poi il latte dentro un secchio.

La mungitura meccanica viene invece progettata per l'estrazione del latte

sfruttando il vuoto d'aria. Gli aspiratori della macchina vengono applicati sui

capezzoli, dopodiché, alternando il vuoto alla normale pressione dell'aria,

raccolgono il latte senza danneggiare le mammelle.

Come gli uomini, i bovini devono avere un’alimentazione adatta ed equilibrata

per evitare problemi di salute, ritardi di crescita o disturbi vari. Per questo

motivo molto spesso gli allevatori si appoggiano ad alimentaristi per studiare e

somministrare ai loro animali un’alimentazione giusta ed equilibrata.

195

E’da sottolineare che, nell’ambito dell’allevamento, non parliamo di “dieta” ma

di “razione alimentare“.

Prima di entrare nei dettagli della razione, bisogna ricordare che i bovini sono

dei mammiferi appartenenti alla categoria dei ruminanti. Significa che hanno

tre prestomaci (rumine, reticolo e omaso) e uno stomaco (abomaso), come

d’altronde anche gli ovini e i bufali. Questa caratteristica gli permette di

digerire la cellulosa e quindi degradare ed utilizzare le fibre di cui l’uomo non

sarebbe in grado di nutrirsi. Si capisce quindi perché l’alimentazione dei bovini

si basa sui foraggi, alimenti ricchi di fibre e sfruttabili solo da loro. I foraggi più

utilizzati nell’alimentazione dei bovini sono l’erba, il fieno, la paglia, l’insilato

di mais o d’erba. In effetti i monogastrici (un solo stomaco) come il maiale o

l’uomo non sono in grado di degradare la cellulosa: le fibre ingerite non

producono nessun’energia.I ruminanti sono un anello chiave della catena

alimentare in quanto rappresentano il passaggio tra proteine vegetali e proteine

animali.

Infatti i bovini mangiano erba, foraggi e cereali e li trasformano in proteine

animali di alto valore biologico per l’anello successivo della catena alimentare,

l’uomo.

Una buona razione deve prevedere apporti sufficienti ed equilibrati di energia,

proteine, grassi, minerali e vitamine. Anche se i foraggi sono la base

dell’alimentazione dei bovini, spesso non sono sufficienti per coprire i

fabbisogni dell’animale quindi bisogna aggiungere:

Alimenti ricchi di Energia: quelli più energetici sono i cereali tra cui il mais, il

grano, l’orzo e le polpe di barbabietole ottenute dopo estrazione dello zucchero;

Alimenti ricchi di Proteine: le fonti principali di proteine, importanti per la

costituzione dei muscoli, sono la soia, il girasole e il pisello;

Grassi: se gli alimenti considerati fin’ora non contengono abbastanza grassi,

l’allevatore deve aggiungerne una piccola quantità nella razione;

Minerali e Vitamine: sono essenziali per tutti gli esseri viventi e quindi anche

per gli animali, vengono aggiunti per completare la razione.