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CONOSCENZE SPECIFICHE E TECNICHE PRODUTTIVE
(settore zootecnico)
INTRODUZIONE, GENETICA E TEMATICHE DELLA RIPRODUZIONE
Elementi conoscitivi di base e terminologia,
La genetica è la scienza che studia i geni, l'ereditarietà e la variabilità genetica
degli organismi. Il campo di studio della genetica si focalizza dunque sulla
comprensione dei meccanismi alla base di questi fenomeni degli organismi, noti
sin dall'antichità, assieme alla embriologia ,ma non spiegati fino al XIX secolo,
grazie ai lavori pionieristici di Gregor Mendel, considerato per questo il padre
della genetica. Egli infatti per primo, pur non sapendo dell'esistenza dei
cromosomi e della meiosi, attribuì ai 'caratteri' ereditati in modo indipendente
dai genitori, la proprietà di determinare il fenotipo dell'individuo.
In una visione moderna, l'informazione genetica degli organismi è contenuta
all'interno della struttura chimica delle molecole di DNA. I 'caratteri'
mendeliani dell'individuo corrispondono a sequenze di DNA, chiamate geni
presenti nel genoma in duplice copia (nel cromosoma ereditato dal padre e in
quello ereditato dalla madre). I geni infatti contengono l'informazione per
produrre molecole di RNA e proteine che permettono lo sviluppo e la
regolazione dei caratteri cui sono correlati. Le proteine vengono prodotte
attraverso la trascrizione del DNA a RNA, che a sua volta viene tradotto in
proteina dai ribosomi. Tale processo è noto come dogma centrale della biologia
molecolare. Alcuni geni sono trascritti in RNA ma non divengono proteine,
assolvendo a fondamentali funzioni biologiche.
La Riproduzione in biologia, è l'insieme dei meccanismi mediante i quali gli
esseri viventi provvedono alla conservazione della propria specie generando
nuovi individui simili a sé e che subentreranno al genitore, o ai genitori, nella
popolazione.
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La riproduzione asessuata, genera individui che mantengono, salvo mutazioni,
il patrimonio genetico dei genitori. È l'unica forma di riproduzione dei
procarioti, mentre negli eucarioti si affianca spesso alla riproduzione sessuata,
tranne che nei ciliati e in alcune piante ibride o poliploidi. È praticamente
assente negli animali superiori.
Alla base della riproduzione asessuale è l'assenza di fenomeni sessuali e di
ricombinazione genetica: le cellule che danno origine ai nuovi organismi si sono
infatti originate esclusivamente per divisione mitotica, con il mantenimento
invariato del corredo cromosomico (aploide o diploide) e senza alcun scambio
di geni fra cromosomi omologhi.
La riproduzione sessuata consiste nella generazione di un nuovo individuo il
cui nucleo deriva dalla fusione di due nuclei diversi, provenienti, di norma, da
due individui diversi; il genoma dell'individuo figlio è quindi diverso da quello
di entrambi i nuclei genitori.
Col termine razza, di uso zootecnico se riferito ai viventi, si intende un gruppo
animale appartenente ad una medesima specie, caratterizzato per la presenza di
caratteristiche ereditarie comuni che, in modo più o meno marcato, li
identificano come un sottoinsieme della specie differenziato da eventuali altri
gruppi cospecifici.
Esseri viventi di razze diverse possono, in quanto appartenenti alla stessa
specie, dare luogo ad incroci o ibridi con capacità riproduttive immutate. Il
termine corrispondente in agraria per il regno vegetale è cultivar e riguarda
anche in questo caso solo le piante coltivate.
La cultivar si identifica perciò in un particolare genotipo, isolato artificialmente
con la selezione massale o la selezione individuale, i cui caratteri sono fissati e
ripetibili con la propagazione gamica per almeno per 3-4 generazioni.
Per Formaggio si intende l'intera parte vegetativa di una pianta destinata, anche
dopo alcune trasformazioni, ad alimentare il bestiame. Frutti e semi rientrano
nel foraggio se sono raccolti insieme alla parte vegetativa, altrimenti se raccolti
a parte sono considerati CONCENTRATI. Le specie vegetali che vengono
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utilizzate per la produzione di foraggio sono definite piante foraggere o colture
foraggere.
Colture foraggere normalmente ricche in proteine sono le leguminose, mentre le
graminacee risultano più ricche di carboidrati semplici, il che le rende
particolarmente idonee all'insilamento.
Il Genotipo è la costituzione genetica di un organismo, ovvero l'insieme dei geni
presenti nel suo genoma. I prodotti di tali geni interagiscono tra loro
determinando tutte le caratteristiche dell'intero organismo. L'insieme dei
caratteri osservabili viene chiamato FENOTIPO Quindi il genotipo rappresenta
la possibilità del realizzarsi di una particolare caratteristica fenotipica; lo
sviluppo di questo potenziale dipende dalle interazioni tra geni, da influenze
ambientali e da eventi casuali che si verificano durante lo sviluppo.
Il fenotipo è l'insieme delle caratteristiche influenzate dal genotipo, che è
l'insieme dei geni dell'individuo; quest'ultimo termine indica, a seconda delle
accezioni, la totalità dei geni presenti nel genoma o dei geni coinvolti nella
determinazione di un singolo tratto fenotipico. La determinazione genica del
fenotipo avviene attraverso la presenza di uno dei diversi possibili alleli che
l'individuo porta per un determinato gene, oppure, più comunemente per una
serie di geni.
Tuttavia il fenotipo è determinato soltanto in parte dal genotipo e i fattori
ambientali possono avere una maggiore o minore influenza a seconda dei casi,
spesso tale da rendere imprevedibile il fenotipo anche conoscendo il genotipo,
se non si conoscono le condizioni ambientali.
Caratteristiche degli animali: origine, possibilità di intervento e di indirizzo,
fattori che condizionano il miglioramento genetico
Il miglioramento genetico (MG) degli animali zootecnici è la tecnica che
consente l'aumento delle prestazioni produttive e riproduttive degli allevamenti
attraverso la valutazione e la conseguente scelta (selezione) dei riproduttori;
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esso, pertanto, può essere considerato una delle tecniche di produzione a
disposizione dell'allevatore al pari dell'alimentazione, della mungitura, della
riproduzione, dell'allevamento dei giovani e della stabulazione.
Il MG in zootecnica si occupa quasi esclusivamente di caratteri di interesse
economico (produzione di latte, contenuto lipidico del latte, ritmo di
accrescimento nei giovani, indice di conversione alimentare, numero di uova
deposte, spessore del lardo dorsale nei suini, ecc..) che sono espressi in unità di
misura (cioè in kg, cm, numero) e sono comunemente indicati come caratteri
metrici. Il valore osservato nel caso che il carattere sia misurato in un singolo
individuo è il valore fenotipico dell'individuo (P) e, se i fenotipi dei caratteri
metrici si distribuiscono con continuità (cioè con incrementi differenziali) nel
campo di variabilità, il carattere è detto quantitativo.
Nel caso in cui una parte del fenotipo (per il momento non importa quanta)
possa essere trasmessa alla discendenza, il carattere in esame ha un
determinismo genetico: la branca della genetica che si occupa di questi caratteri
è la genetica quantitativa (quantitative genetics).
Il MG dei caratteri di interesse zootecnico si compie in quattro tappe: a) la scelta
degli obiettivi della selezione; b) lo studio e la descrizione della popolazione
oggetto di selezione; c) la valutazione genetica dei riproduttori; d) scelta dei
criteri del miglioramento.
La scelta degli obiettivi della selezione deve essere la più precisa possibile (ad
esempio per la produzione del latte: la quantità prodotta per lattazione, il
contenuto lipidico, il contenuto proteico; per la produzione della carne: i ritmi
di accrescimento, gli indici di conversione alimentare, la qualità della carne),
perché deve essere ben chiaro dove si vuole arrivare, e limitata perché la ricerca
del miglioramento di molti caratteri provoca la riduzione del guadagno
ottenibile per ciascuno di essi (non è possibile, o almeno è molto difficile,
individuare animali portatori del migliore genotipo per diversi caratteri;
giocoforza dovranno essere scelti animali con un genotipo complesso buono per
tutti i caratteri, ma probabilmente non eccellente per ciascuno di essi).
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Le valutazioni in tal senso non possono che essere di tipo economico: il
guadagno produttivo ottenibile con il MG nell'intera popolazione (cioè il
progresso genetico atteso dR) deve contribuire all'aumento del reddito in
maniera superiore, o al limite uguale, ai costi sostenuti per la sua realizzazione.
Ciò significa che devono verificarsi tre condizioni: 1) che il carattere selezionato
abbia un buon prezzo di mercato (ad es. non è pensabile selezionare la razza
ovina Sarda per la produzione della lana data il basso prezzo del prodotto)
oppure contribuisca significativamente all'aumento del fatturato aziendale (ad
es. il miglioramento della riproducibilità influenza positivamente la produzione
anche negli allevamenti da latte); 2) che gli incrementi ottenibili (dR) siano di
una certa entità; 3) che il sistema di miglioramento sia compatibile con il
contesto tecnico-culturale delle imprese a cui esso è destinato (ad es. non è
sempre vantaggioso applicare ad una specie sistemi di miglioramento che
hanno dato buoni risultati in un'altra, come nel caso degli ovini da latte in cui
l’adozione degli schemi utilizzati nei bovini con buon esito non ha fornito i
risultati sperati).
Esempio : Nella selezione della razza bovina Frisona Italiana l'organizzazione
del miglioramento è basata sul cosiddetti schema convenzionale che prevede
l'impiego massiccio dell'inseminazione artificiale, la valutazione dei tori tramite
la prova di progenie (cioè con l'impiego delle informazioni fenotipiche delle
figlie), la selezione di un numero relativamente ristretto di madri di tori. Il
valore riproduttivo dei tori è generalmente molto attendibile, ma è ottenuto a
scapito di un lungo tempo di attesa per l'ottenimento dell'indice (elevato
intervallo fra le generazioni). Da qualche tempo a questa parte gli allevatori di
Frisona Italiana utilizzano sempre più frequentemente come riproduttori i
cosiddetti "tori giovani“ per i quali non sono ancora disponibili indici genetici
attendibili, ma che possono creare un progresso genetico tanto più elevato (o
tanto più basso) quanto maggiore è l'incertezza degli indici genetici che si
possiedono.
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GLI STRUMENTI DELLA SELEZIONE
La stima del valore riproduttivo (VR) degli animali scelti (selezionati) quali
genitori della generazione successiva si basa sui fenotipi degli animali stessi e
dei loro parenti. La base per effettuare tale stima, perciò, è la raccolta
sistematica delle produzioni (controlli funzionali), degli eventi (nascite, morti) e
dei rapporti di parentela fra gli animali interessati alla selezione.
LA RACCOLTA DEI DATI FENOTIPICI
La raccolta di tutte le informazioni di base utilizzate per la selezione è affidata,
in Italia (ma analoghe strutture sono presenti anche all'estero), alle associazioni
degli allevatori, poste sotto il controllo del Ministero per le Risorse Agricole (e
per questo compito finanziate dallo Stato) per il carattere di pubblica utilità del
MG, riunite nell'Associazione Italiana Allevatori (AIA) con sede in Roma.
Gli allevatori di ciascuna specie sono organizzati autonomamente in
associazioni (ad es. associazione nazionale suini ANAS) che possono essere
suddivise per razza, come nei bovini (Associazione Frisona Italiana ANAFI,
Associazione Nazionale Allevatori della Razza Bruna ANARB, Associazione
Allevatori Razza Bovina Piemontese ANABORAPI) oppure essere
interspecifiche, come per gli ovini ed i caprini (Associazione Nazionale della
Pastorizia ASSONAPA).
Queste associazioni, attraverso i loro organi direttivi (normalmente le
commissioni tecniche centrali), decidono gli obiettivi e le modalità della
selezione, raccolgono le informazioni provenienti dagli allevamenti, calcolano il
valore riproduttivo degli individui candidati alla selezione, pubblicano i
risultati ed aggiornano i parametri della popolazione relativamente ai caratteri
oggetto della selezione. Esse sono normalmente fornite di un ufficio studi che
valuta, tra le altre cose, il progresso genetico ottenuto e che cura la
pubblicazione di notiziari o di riviste vere e proprie (ad es. l'ANAFI pubblica
Bianco e Nero, l'ASSONAPA pubblica l'Allevatore di Ovini e Caprini, ecc.).
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L'AIA è organizzata perifericamente attraverso le Associazioni Provinciali degli
Allevatori (APA) che sono strutturate al loro interno in sezioni di specie o di
razza in funzione delle principali specie e razze allevate nell'ambito territoriale
di propria competenza. Le APA, i cui organi direttivi sono eletti dagli allevatori
iscritti, curano la raccolta dei dati aziendali attraverso: a) i controlli funzionali,
per i dati produttivi; b) la registrazione degli eventi per i dati riproduttivi e
quelli relativi alla riforma (scarto) degli animali; c) la valutazione morfologica,
operata da esperti punteggiatori, alle età tipiche dell'animale; d) la trascrizione
delle parentele note e delle genealogie. Esse, inoltre, custodiscono il libro
genealogico in cui sono iscritti gli animali in selezione e dal quale è possibile
risalire agli ascendenti per ciascun animale presente,Libri Genealogici (o dei
cosiddetti Registri di Razza).
Le APA di quasi tutte le regioni italiane sono consorziate a costituire
l'Associazione Regionale Allevatori a cui, di norma, spetta il compito di
armonizzare le azioni svolte in sede provinciale con la politica agraria delle
Regioni alle quali, come è noto, è delegato il maggior onere degli interventi nel
settore agricolo. Molte ARA, sono dotate di un corpo di tecnici (Agronomi
Zootecnici) e di Medici Veterinari che fornisce un servizio di assistenza tecnica
alle aziende zootecniche( A.T.Z.)in base a precisi piani concordati in sede
regionale con gli Assessorati per l'Agricoltura.
LA DIVULGAZIONE DEL VALORE GENETICO DEI CANDIDATI ALLA
SELEZIONE
La divulgazione delle valutazioni genetiche,operata sui principi e con le
tecniche,avviene di solito semestralmente per opera delle varie organizzazioni
responsabili per la selezione. A titolo di esempio, e per la maggiore importanza
che questo settore riveste per l'economia italiana, esaminiamo il caso della
specie bovina e dell'indirizzo produttivo "Produzione del latte".
Le due più importanti razza bovine da latte allevate in Italia sono la Frisona
Italiana (FI) e la Bruna (RB); le loro associazioni di razza pubblicano le
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valutazioni genetiche per i tori in volumetti (Cosa Valgono per la FI e
Conoscere i Tori per la RB), completi di tutti i dati relativi ai caratteri oggetto di
selezione, delle statistiche della popolazione obiettivo e della scala di merito dei
tori, e per le vacche in quaderni comprendenti però soltanto le migliori vacche
dalle quali saranno selezionati i tori da impiegarsi per la inseminazione
artificiale (IA). Gli allevatori (ed i tecnici) hanno pertanto ogni 6 mesi una serie
di informazioni sul valore genetico degli animali selezionati (cioè scelti perché
risultati non peggioratori per la maggior parte dei caratteri considerati) che essi
possono utilizzare per pianificare il tipo di animali (cioè la genetica) desiderati
per la generazione successiva. Questa scelta è di fatto orientata da ragioni di
ordine economico (il costo della dose di seme, che dipende dal valore del
riproduttore e dalla disponibilità; l'attendibilità dell'indice), tecnico
(miglioramento di alcuni caratteri, come ad es. l'attacco anteriore della
mammella, la percentuale di grasso nel latte, ecc.) e genetico (livello di
consanguineità raggiunto nell'allevamento).
Se si prende in esame il volumetto Conoscere i Tori del luglio 1995, alla pagina
69 è pubblicata la scheda riassuntiva della valutazione genetica del toro DAL e
vediamo subito che il seme è importato dalla Germania, che è nato il 1° marzo
del 1980, che è stato pubblicato la prima volta nel 1992, che è un miglioratore
per il latte di 156 kg, del grasso di 12 kg (+0,10%),
delle proteine di 12 kg (+0,13%), dell'indice totale economico di +499 che lo
colloca fra il miglior 12% della popolazione (rank), che è stato provato su 213
figlie distribuite in 193 allevamenti (163 figlie effettive), che l'attendibilità è del
94%.
Vediamo ancora che la produzione media delle figlie, espressa in equivalente
vacca adulta (EVM), è stata di 6211 kg con il 3,96% di grasso ed è riportata
anche l'età media al parto.
La prima informazione importante è il metodo di calcolo degli Indici Genetici
Tori (IGT) : quelli per la produzione e per la morfologia sono stati elaborati con
il BLUP-ANIMAL MODEL (BLUP = best linear unbiased prediction cioè il
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Migliore Preditore Lineare non Distorto) mentre quelli per l'attitudine alla
mungitura sono stati elaborati con l'algoritmo BLUP-SIRE MODEL.
L'ITE,( Indice Tecnico Economico), tiene conto non solo delle produzioni e della
morfologia, ma anche del tipo di variante genetica della k-caseina posseduta dal
toro (questa frazione caseinica è infatti connessa con le proprietà casearie del
latte: tipo AA bassa attitudine alla caseificazione, tipo AB media attitudine, tipo
BB alta attitudine) .
I RAPPORTI FRA FENOTIPO, GENOTIPO ED AMBIENTE
Lo studio di un carattere quantitativo in una popolazione animale si basa sulla
misurazione dei valori fenotipici e sulla stima di quanta parte della variabilità
osservata è di origine genetica e perciò può essere trasmessa alla generazione
successiva. Innanzitutto occorre che il valore fenotipico del carattere misurato
sia ripartito nelle due componenti attribuibili all'azione del genotipo ed a quella
dell'ambiente.
Il genotipo è quel particolare assortimento di geni posseduto da un determinato
individuo e l'ambiente è l'insieme di circostanze non-genetiche in grado di
influenzare l'espressione del carattere. Le due componenti, allora, possono
essere associate additivamente nel senso che l'espressione fenotipica è la somma
del genotipo e delle deviazioni casuali che l'ambiente esercita sul carattere in
esame;
INFLUENZA DEI FATTORI AMBIENTALI
Nel caso della vacca da latte, le principali deviazioni ambientali
sono:
a) l'età al parto;
b) la stagione di parto;
c) i giorni di asciutta;
d) l'intervallo parto concepimento;
e) la durata della lattazione;
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f) il numero di mungiture.
La produzione di latte cresce al crescere dell'ordine di parto (primipare,
secondipare, terzipare, ecc..) fino ad arrivare al massimo in bovine di 5 anni di
età che è ritenuta l'età di riferimento (età adulta).
La produzione è maggiore per le bovine che partoriscono a fine inverno e che
incontrano la primavera nella fase iniziale della curva di lattazione in quanto,
nella bella stagione, si ha un effetto sinergico positivo del clima e del
fotoperiodo che si ripercuotono sul quadro ormonale e su quello
comportamentale degli animali.
I giorni di asciutta influenzano positivamente la produzione, fino al 60° giorno
al di là del quale non si hanno miglioramenti: ciò è dovuto alla necessità della
mammella di ricostituire il tessuto secretivo da una lattazione alla successiva ed
alle esigenze della vacca di orientare il metabolismo di fine gestazione verso la
nutrizione del feto.
L'intervallo parto-concepimento influenza la produzione nel senso che se è
eccessivamente breve questa è depressa.
Il numero di mungiture, infine, influenza la produzione in quanto
l'introduzione di una terza mungitura provoca incrementi di circa il 20% e
quella di una quarta ulteriori incrementi del 10% (negli ovini non è stato
osservato, con gli attuali livelli produttivi, nessun miglioramento rispetto alle
due mungiture). La riduzione delle mungiture giornaliere da 2 ad 1, invece,
limita la produzione nelle due specie.
Applicazioni pratiche nell'allevamento, uso di documenti e informazioni
specifiche
LE RAZZE
Il sottordine dei Ruminanti (ordine Artiodattili, superordine Euteri o Placentati,
sottoclasse Terii, classe Mammiferi) è caratterizzato da:
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· Apparato buccale privo di incisivi superiori (sostituiti funzionalmente da un
cercine calloso) e di canini e dotato di 20 denti negli animali giovani (8
incisivi: 2 picozzi, 2 primi mediani, 2 secondi mediani, 2 cantoni; 12
premolari: 3 per mascella e per lato, da latte e di 32 denti negli animali
adulti (8 incisivi, 12 premolari, 12 molari, da adulto;
· Apparato gastrico formato da 4 cavità, di cui 3 prestomaci (rumine, reticolo
ed omaso) ed 1 stomaco vero (abomaso), tutti completamente funzionanti
soltanto dopo lo svezzamento;
· Apparato scheletrico con colonna vertebrale formata da 43÷51 vertebre (7
cervicali, 13 dorsali o toraciche, 6÷7 lombari, 5÷4 sacrali, 12÷20 caudali o
coccigee), con costato formato da 13 costole (8 sternali o fisse e 5 asternali o
semifisse), con testa provvista di corna in entrambi i sessi oppure in uno
soltanto oppure in nessuno, con piede formato da 4 dita corneificate (2
unghioni e 2 unghielli);
· Apparato tegumentale con cute ricoperta da dense formazioni pilifere, di
vario colore e lunghezza (mantello), talvolta di tipo particolare (vello);
· Apparato mammario suddiviso in unità funzionali autonome: 4 quarti
(bovini e bufalini) oppure 2 emimammelle (ovini e caprini).
Le principali specie ruminanti di interesse zootecnico, tutte appartenenti alla
famiglia dei Bovidi o Cavicorni, sono le specie Bovina, Bufalina, Ovina e
Caprina.
La prima è rappresentata dai 2 gruppi, ormai considerati intraspecifici perchè
illimitatamente interfecondi, dei bovini taurini (Bos taurus) e dei bovini gibbosi
o zebù (Bos indicus); è diffusa in tutto il mondo ed in particolare nei paesi
economicamente più avanzati; è allevata per la produzione del latte e/o della
carne, del lavoro limitatamente ai paesi sottosviluppati ed alle aree non
meccanizzabili, del pellame e del letame.
La seconda (Bubalus bubalis) è diffusa prevalentemente nelle regioni tropicali
ed è allevata per la produzione del latte, che in Italia è destinato, grazie al suo
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elevato contenuto lipidico e proteico, alla caseificazione per l'ottenimento di
prodotti particolari (mozzarella).
La terza (Ovis aries) è diffusa in tutto il mondo ed è allevata per la produzione
della lana e della carne nei paesi e nelle regioni ad allevamento estensivo, per la
produzione del latte e della carne prevalentemente nei paesi temperati circum-
mediterranei.
La quarta (Capra hircus) è diffusa in tutto il mondo ed è allevata per la
produzione del latte e della carne e, limitatamente ad alcune regioni, per la
produzione del pelame e del pellame.
LE RAZZE BOVINE
Le razze bovine taurine attualmente allevate nel mondo deriverebbero tutte —
per evoluzione e/o selezione e/o incrocio e/o meticciamento e/o mutazione —
dai 4÷5 ceppi seguenti, ormai estinti, a loro volta provenienti da un progenitore
ancestrale comune (Leptobos indicus) vissuto in epoca pliocenica (oltre 2
milioni di anni fa):
· Bos primigenius (l'antico Uro selvaggio, presente in Europa sino alla metà
del 1600), di grande mole, con mantello rossiccio alla nascita e grigio a
maturità, dotato di corna grandi a sezione circolare, a forma di semiluna nel
maschio e di lira nella femmina, ritenuto il progenitore o capostipite
principale di tutte le razze macrocere, sia celtiche che podoliche;
· Bos longifrons, con testa allungata e corna corte a sezione ellittica, diffuso
nella regione alpina, ritenuto il capostipite principale della razza bruna
alpina e delle razze normanne;
· Bos frontosus, a fronte larga e a corna corte orizzontali, ritenuto il
capostipite principale delle razze pezzato-rosse dell'Europa continentale;
· Bos brachiceros, a faccia larga ma corta ed a corna corte, ritenuto il
capostipite principale delle razze locali svizzere ed austriache;
· Bos akeratos, acorne, la cui esistenza come ceppo autonomo è però dubbia,
ritenuto il capostipite principale delle razze acorni.
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Le razze bovine zebuine attualmente allevate nel mondo deriverebbero tutte da
un unico progenitore comune, ormai estinto, che era il Bos namadicus.
La specie Bos taurus si accoppia con la specie Bos indicus, generando individui
illimitatamente interfecondi che hanno dato origine alle razze tauro-indiche (ad
es, la razza Santa Gertrudis), particolarmente resistenti ai climi tropicali; si
accoppia con il genere Bison, originando animali poco fecondi, chiamati Cattali;
ma non si accoppia, per amissia, con la specie Bubalus bubalis.
LE RAZZE DA LATTE
Le razze da latte possono essere: specializzate per la produzione del latte, in cui
la produzione della carne costituisce un'attitudine sempre secondaria, anche se
talvolta importante; oppure a duplice attitudine, in cui le due produzioni
contribuiscono alla formazione della produzione lorda vendibile in parti quasi
uguali.
LE RAZZE SPECIALIZZATE
Le razze specializzate — numericamente ed economicamente preponderanti
sulle duplici, soprattutto sono contraddistinte, qualunque sia il loro livello
produttivo, dalle seguenti caratteristiche morfo-funzionali generali:
• mole elevata e taglia alta;
• impalcatura scheletrica solida, ma non grossolana;
• testa lunga e leggera a profilo rettilineo, con bocca ampia che è indice di
elevata capacità di prensione degli alimenti, con narici larghe che è indice di
buona capacità respiratoria, con corna piccole e sincipite rilevato;
• Collo sottile, lungo e profondo;
• tronco allungato con linea dorso-lombo-sacrale orizzontale;
• torace ampio, lungo e profondo, con costole distanziate che è indice di buona
capacità respiratoria;
• addome molto sviluppato che è indice di elevata capacità digestiva;
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• groppa ampia, robusta ed inclinata posteriormente che è indice di facilità di
parto;
• arti solidi e asciutti, con garretti robusti, stinchi lunghi e pastoie corte;
• mammella molto sviluppata ed elastica, attaccata alta, con vene addominali e
mammarie tortuose e ramificate e capezzoli uguali, verticali ed elastici;
• testicoli discesi e lunghi, con scroto elastico.
Le principali di queste razze allevate in Italia sono le razze: Frisona, Bruna e,
localmente, Modenese, Reggiana, Rendena e Burlina. All'estero sono presenti
anche le razze: Jersey, Guernsey ed Ayrshire.
La razza Frisona
La razza Frisona, in Italia chiamata anche Olandese e/o Pezzata nera e nei paesi
anglosassoni Holstein Friesian, è ufficialmente registrata in Italia come Frisona
italiana. Essa è la più importante razza bovina specializzata da latte del mondo
sia per consistenza numerica (quasi 50 milioni di capi).
La sua vasta diffusione è dovuta sia alla elevata produttività che alla grande
adattabilità alle diverse condizioni climatiche. E’ originaria della Frisia, regione
geografica a cavallo fra la Germania e l’Olanda, da cui prende il nome; il suo
mantello è normalmente pezzato nero, più raramente pezzato rosso (il rosso è
infatti carattere recessivo). Grazie alla sua diffusione in tutto il mondo essa si è
evoluta, nelle diverse aree di allevamento, dando origine ad entità subrazziali
(ceppi) con caratteristiche talvolta abbastanza diverse fra loro. I principali ceppi
attuali sono: fra gli americani, lo Statunitense ed il Canadese; fra gli europei,
l’Olandese, il Tedesco, l’Inglese, il Danese, lo Svedese, il Polacco, il Francese e
l’Italiano. Questi ultimi due derivano, di fatto, prevalentemente dal ceppo
americano (sia statunitense che canadese) che ha sostituito gradualmente quello
olandese. I ceppi europei sono, rispetto a quelli americani, morfologicamente
più omogenei (soprattutto nel mantello), ma di taglia e di livello produttivo
talvolta leggermente inferiori.
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La Frisona italiana è,il risultato della mescolanza dei ceppi statunitense e
canadese e, in minor misura, olandese. I primi capi frisoni furono importati in
Italia dall’Olanda nel 1870, inizialmente vennero importati nella pianura
padana; successivamente nelle zone di bonifica dell’Agro romano.Le regioni di
maggior diffusione sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna ed il Veneto che da
sole allevano quasi il 75% della razza. La Frisona italiana è caratterizzata da:
grande mole (kg 900÷1.300 nei tori e 550÷800 nelle vacche) e taglia elevata (cm
138÷155 e 127÷145, rispettivamente); tronco lungo, con masse muscolari
abbastanza sviluppate ma non troppo evidenti; buona conformazione
dell’apparato mammario.
La produzione lattea media delle vacche iscritte al L.G. nel 2000 è stata quella
riportata quì di seguito:
Produzioni per lattazione convenzionale di 305 giorni (dati AIA, 2000)
Categoria Latte kg Grasso % Proteine %
Primipare 7.958 3,53 3,23
Secondipare 8.613 3,53 3,22
Terzipare e oltre 8.601 3,56 3,16
Totale 8.373 3,54 3,20
La produzione della carne è discreta, con un peso alla nascita di kg 40÷45 nei
maschi e 35÷40 nelle femmine, un ritmo di accrescimento di kg/d 1,0÷1,1 e una
resa media alla macellazione del 54%.
Le caratteristiche riproduttive sono mediamente le seguenti: l'età al primo parto
è di 29 m; il periodo di servizio (intervallo parto-concepimento) è di 111 d;
l’incidenza degli aborti è dello 0,79%.
(L'associazione nazionale degli allevatori della razza è l'Anafi).
La razza Bruna
La razza Bruna, originaria della Svizzera centrale, è la seconda razza
specializzata da latte del mondo, sia per consistenza numerica (quasi 15 milioni
di capi) che per diffusione geografica. Essa ha avuto origine dall’azione selettiva
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operata nei monasteri della Svizzera, in particolare nell'Abbazia di Einsielden
del cantone di Schwyz, Attualmente è allevata, oltrechè in Svizzera, anche nel
resto dell’Europa, nelle Americhe ed in Africa. Anche questa razza presenta
diversi ceppi, tutti derivati per selezione da quello svizzero; tra quelli europei i
più importanti sono: lo svizzero, il tedesco, l’austriaco e l’italiano; il ceppo
statunitense o Brown Swiss è quello che attualmente domina il mercato
mondiale della razza.
Il ceppo svizzero, che è il ceppo originario dal quale derivano tutti gli altri, è
caratterizzato da: conformazione molto armonica ed uniforme; tronco con
buone capacità toracica e addominale; mantello bruno, con diverse tonalità;
mole e statura elevate; garretti asciutti; mammella ben sviluppata e sostenuta.
Inizialmente considerato a triplice attitudine, attualmente è caratterizzato da
buona produzione di latte e da discreta produzione di carne. La produzione
media delle vacche iscritte al L.G. nel 2000 (204.000) è stata di kg 6.066, con un
contenuto lipidico del 3,99% e proteico del 3,32%.
La Bruna italiana, originata dal ceppo svizzero, si è diffusa inizialmente nelle
vallate alpine e successivamente in tutta la Penisola. Nelle zone settentrionali
(pianura padana) essa è stata sostituita gradualmente dalla più produttiva
Frisona; è invece ancora ben rappresentata nell'Italia centrale e soprattutto
meridionale e insulare, grazie alla sua ritenuta superiore rusticità ed adattabilità
rispetto alla Frisona.
La razza è caratterizzata da: mole (kg 900÷1.000 nei tori e 500÷600 nelle vacche)
e taglia (cm 145 e 133, rispettivamente) grandi; conformazione tipica
dell'animale da latte, ma con forme meno angolose rispetto alla Frisona;
mantello bruno, di diversa tonalità; ottima conformazione della mammella. Una
caratteristica peculiare della razza è la buona capacità di adattamento a
condizioni ambientali anche difficili. Sotto l'aspetto produttivo, la Bruna
italiana è una razza capace di dare ragguardevoli produzioni di latte di ottima
qualità, con alta resa alla caseificazione, particolarmente adatto alla produzione
di formaggi tipici, grazie anche all'elevata frequenza (64%) in essa della variante
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genetica B della k-caseina, che è la più favorevole alla caseificazione. La
produzione media delle vacche iscritte al L.G. nel 2000 (136.000) è stata di kg
6.010 di latte, con un contenuto lipidico del 3,88% e proteico del 3,41%. La razza
presenta inoltre buona attitudine alla produzione della carne (peso alla nascita
di kg 40÷45 nei maschi e 35÷40 nelle femmine, ritmo di accrescimento di kg/d
0,9÷1,1, resa alla macellazione del 55÷56%).
Gli obiettivi della selezione sono l'innalzamento del contenuto proteico del latte,
il miglioramento della conformazione e l'aumento della longevità che
attualmente è scarsa (3,4 lattazioni per vacca). (L'associazione nazionale degli
allevatori della razza è l'Anarb).
LE RAZZE A DUPLICE ATTITUDINE
Le razze a duplice attitudine, in cui la produzione di latte e quella di carne
hanno quasi la stessa importanza economica, presentano caratteristiche
somatiche e produttive intermedie fra le razze specializzate da latte a quelle
specializzate da carne; sono allevate, in genere, in aziende di piccole dimensioni
(diretto-coltivatrici), in zone collinari e in allevamenti di livello tecnico non
elevato. Esse sono rappresentate dalle razze Pezzata Rossa, Normanna, Grigio-
Alpina, Valdostana e Norica.
La razza Pezzata Rossa, derivata dal B. frontosus, originaria della Svizzera e
diffusa in tutta l’Europa continentale, tra i quali i più importanti sono quello
svizzero o simmental da cui derivano tutti gli altri, quello tedesco o bavarese e
quello italiano o friulano.
Il ceppo italiano, denominato ufficialmente Pezzata Rossa Italiana, è originario
del Friuli, è diffuso soprattutto nel Friuli e nel Veneto. E’ caratterizzato da:
· conformazione robusta, ma non pesante;
· mantello pezzato rosso, dal chiaro al mogano, con pelle morbida ed
elastica;
· statura media (cm140÷150 nel tori e 135÷145 nella vacche) e mole elevata
(kg 1.000 e 600, rispettivamente);
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· testa leggera e larga e collo molto muscoloso; petto largo e torace ampio;
· ventre voluminoso;
· groppa lunga e ampia, coscia muscolosa e natica convessa;
· mammella voluminosa, spugnosa ed ampia, vene appariscenti e
tortuose.
La razza ha buona attitudine alla produzione del latte (kg 5.500÷6.000, con un
contenuto lipidico del 3,88% e proteico del 3,37%) e della carne (kg 40÷50 alla
nascita, ritmo di accrescimento kg/d 1,1÷1,2 e resa alla macellazione del 58%,
con carne di buona qualità) e buona precocità (peso a 12 mesi kg 480 nel
maschio, 320 nelle femmine). (L'associazione nazionale degli allevatori della
razza è l'Anapri).
La razza Normanna è la vecchia razza da latte francese — ormai in via di
sostituzione per lam produzione del latte con la Frisona e per quella della carne
con la Charolaise .
Le razze Grigio-Alpina, Valdostana e Norica hanno tutte interesse locale, anche
per la loro limitata consistenza e diffusione.
LE RAZZE DA CARNE
Sono ormai considerate razze da carne sia quelle in cui l’attitudine alla
produzione della carne — elevato ritmo di accrescimento, basso indice di
conversione alimentare, alta resa alla macellazione, ottime caratteristiche della
carcassa e ottima qualità e composizione della carne — è preminente, in quanto
insita nel patrimonio genetico della razza, sia quelle che, pur non essendone
dotate naturalmente, possono acquisirla per mezzo dell'incrocio industriale con
quelle da carne: le prime sono le razze specializzate, le seconde sono le razze
rustiche.
LE RAZZE SPECIALIZZATE
Le razze specializzate sono contraddistinte dalle seguenti caratteristiche
somatiche: taglia e/o mole elevata, impalcatura scheletrica robusta ma non
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grossolana, pelle sottile; testa piccola, collo corto e muscoloso, gibboso nei
maschi; tronco lungo e robusto con garrese, dorso e lombi larghi; petto e torace
ampi; ventre ampio ma non voluminoso; groppa lunga, larga e orizzontale,
natica spessa e sviluppata e coscia convessa; arti robusti, solidi, ma leggeri;
appiombi diritti e stinchi asciutti.
Le razze italiane sono allevate in purezza quasi esclusivamente in Italia,sono
quasi tutte caratterizzate da taglia e mole elevate, associate a ottima qualità
della carne, ma, ad eccezione della Piemontese, da scarsa attitudine materna.
Esse sono le razze Chianina, Romagnola, Marchigiana e Piemontese, le cui
associazioni di razza fanno capo all’Anabic (Associazione Nazionale Allevatori
Bovini Italiani da Carne).
La razza Chianina, originaria della Val di Chiana, è l’unica razza autoctona
italiana. E’ caratterizzata da: taglia (cm 170÷175 nei tori e 160÷165 nelle vacche)
e mole (kg 1.500÷1.600 e 800÷900, rispettivamente) elevatissime che ne fanno il
gigante della specie; mantello bianco porcellana su cute pigmentata e pelle
sottile; testa sottile e allungata, con corna piccole; collo e tronco allungato, con
linea dorso-lombare orizzontale; arti lunghi e robusti. Le caratteristiche
produttive più salienti sono: l’elevatissimo ritmo di accrescimento (kg/d
1,3÷1,4), il basso indice di conversione (5,5÷6), la alta resa alla macellazione
(62÷64%), la ottima conformazione della carcassa e l'elevata resa in tagli
pregiati, la ottima qualità della carne (bistecca fiorentina) e la alta resa allo
spolpo; a tali caratteri pregevoli sono però associati: scarsissima attitudine
materna, scarsa rusticità soprattutto alimentare, temperamento eccessivamente
vivace e maturazione somatica molto tardiva, che ne limita, di fatto, l’impiego
alla produzione del vitellone pesante. La caratteristica riproduttiva principale è
la grande facilità di parto che la rende utilizzabile su tutte le razze (da latte, da
carne e rustiche) per l’incrocio industriale.
La razza Romagnola, originaria della Podolia è allevata quasi esclusivamente
in Romagna. E’ caratterizzata da: mantello bianco-grigio (fromentino alla
nascita, come in tutte le razze podoliche), con cute pigmentata e pelle spessa
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(10÷12% del peso corporeo); taglia non elevata (cm 145÷150 nei tori e 135÷140
nelle vacche) e grande mole (kg 1.200÷1.400 e 700÷900, rispettivamente); testa
con corna piccole e collo molto muscoloso; torace e petto robusti e profondi;
dorso e lombi larghi; groppa, coscia e natica non molto larghe; arti solidi e
robusti, con piedi grandi.
La razza Marchigiana, originaria delle Marche e derivata dall’incrocio di
assorbimento del bovino podolico locale con le razze Chianina e Romagnola, è
diffusa, oltrechè nella regione di origine, anche nell'Europa settentrionale e
nelle Americhe soprattutto come razza incrociante con razze specializzate da
latte. E' la più consistente fra le razze dell'Italia centrale (200.000 capi, di cui
90.000 vacche iscritte al L.G.) ed è somaticamente molto simile alla Chianina
(cm 150÷155 nei tori e 140÷145 nelle vacche; kg 1.200÷1.500 e 700÷900,
rispettivamente) da cui deriva, ma è più atterrata, più resistente, con rese alla
macellazione superiori (64÷65%) e più precoce (raggiunge infatti il peso di
macellazione più anticipatamente).
La razza Piemontese, originaria del Piemonte, è la più importante razza italiana
da carne E’ caratterizzata da: mantello grigio, con occhiaie e pisciolare neri;
ossatura molto sottile e pelle finissima (8÷10% del peso corporeo); sviluppo
muscolare eccezionale, soprattutto nei soggetti a groppa doppia ("piemontesi
dalla coscia"), grazie all’ipertrofia muscolare della coscia e delle natiche; testa
molto sottile e collo muscoloso e gibboso; tronco rotondeggiante e ventre
retratto; dorso, groppa e lombi molto larghi; coscia e natiche molto carnose; arti
delicati e spesso deboli (quelli posteriori sono in genere "sotto di sè"); taglia (cm
140 nei tori e 130 nelle vacche) e mole (kg 800 e 500, rispettivamente) non
elevate. Le caratteristiche produttive sono: buono ma non prolungato ritmo di
accrescimento (kg/d 1,1÷1,2), elevatissima resa alla macellazione (65÷66%),
carcasse e tagli di qualità eccezionale, eccellente qualità della carne (resa in
muscolo del 76%) ed ottima attitudine materna. A tali caratteristiche positive
sono associate però scarsa capacità di deambulazione e di impennata,
soprattutto nelle zone impervie; scarsa fertilità, per oligospermia; difficoltà di
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parto, per eccessivo sviluppo dei vitelli alla nascita (anche 70÷80 kg nel tipo a
groppa doppia); scarsa adattabilità ad ambienti difficili. La razza è utilizzata
soprattutto per incroci industriali con razze specializzate da latte e rustiche
nella produzione di vitelloni semipesanti e come razza incrociante finale negli
incroci tripli. (L'associazione nazionale degli allevatori della razza è
l'Anaborapi).
Le razze francesi sono caratterizzate da: taglia media (cm 140÷150 nei tori e
130÷140 nelle vacche) ma da mole elevata (kg 1.000÷1.300 e 700÷900,
rispettivamente); conformazione rotondeggiante, con grande sviluppo dei
diametri trasversali e delle relative masse muscolari che determinano elevate
rese alla macellazione (62÷65%); in genere buona adattabilità anche a condizioni
ambientali difficili; buona attitudine materna. Fra di esse le principali sono le
razze: Charolaise, Limousine, Blonde d’Aquitaine e Blu Belga.
La razza Charolaise (detta anche Nivernaise), originaria della regione di
Charolle (F) .Essa è allevata sia in purezza che per incrocio industriale con razze
specializzate da latte, con razze specializzate da carne e con razze rustiche ed è
utilizzata per il meticciamento con razze zebuine.E caratterizzata da:
impalcatura scheletrica molto robusta, con grande sviluppo dei diametri
trasversali; mantello bianco crema, con cute depigmentata e mucose rosee; testa
corta, con corna giallognole dirette lateralmente e in avanti; collo breve e
muscoloso; tronco cilindrico, lungo e largo, con profilo dorso-lombare
orizzontale; torace ampio e profondo e petto largo; groppa, coscia e natica
molto sviluppate e muscolose, superconvesse nei soggetti a groppa doppia
(culard) per ipertrofia muscolare; arti solidi, robusti e tozzi, con stinchi e piedi
larghi; taglia media (cm 140 nei tori e 130 nelle vacche) e mole notevole (kg
1.200÷1.300 e 800÷900, rispettivamente). Le caratteristiche produttive sono:
ritmo di accrescimento elevato e prolungato (kg/d 1,2÷1,3), resa alla
macellazione ottima (62÷65%), qualità della carcassa ottima per la prevalenza di
tagli pregiati del treno posteriore, qualità della carne mediocre per scarse
colorazione e consistenza. Le caratteristiche riproduttive sono: buona precocità,
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longevità e fertilità, associate a grande adattabilità ambientale.La razza è adatta
alla produzione di vitelloni semipesanti (kg 450÷500) e pesanti (kg 500÷550) e
per consumatori che non richiedano carni di particolare pregio e per
ingrassatori orientati all’acquisto di ristalli con conformazione e mantello molto
marcanti.
La razza Limousine, originaria della regione del Limousin (F) è la seconda razza
francese da carne per importanza e per consistenza; è allevata, sia in purezza
che per incrocio, anche in Italia ed in altri paesi europei. E’ caratterizzata da:
impalcatura scheletrica sottile e conformazione generale molto armonica, con
grande sviluppo delle masse muscolari; mantello rossiccio o fromentino vivo e
pelle sottile; taglia media (cm 140 nei tori e 130 nelle vacche) e mole elevata (kg
1.000÷1.200 e 700÷800, rispettivamente); testa corta e stretta, con corna sottili;
collo corto e muscoloso, con coppa pronunciata; tronco cilindrico e allungato,
con profilo orizzontale della linea dorso-lombare; petto largo e torace
rotondeggiante; groppa, coscia e natica molto sviluppate e convesse; addome
retratto; arti sottili ma solidi. Le caratteristiche produttive sono: ritmo di
accrescimento elevato, ma limitato al primo anno di vita (kg/d 1,0÷1,2), resa
alla macellazione molto alta (62÷65%), resa in tagli pregiati alta e qualità della
carne eccezionale. Le caratteristiche riproduttive sono: precocità sessuale e
somatica spinte, buona longevità, alta fertilità, associata ad ottima attitudine
materna, grande facilità di parto anche in purezza, ma scarse rusticità ed
adattabilità climatica ed alimentare. La razza è adatta anche per l'allevamento
brado per produrre vitelloni leggeri (kg 380÷420) o al massimo semipesanti (kg
420÷480), per incrocio anche con razze caratterizzate da parto non facile (ad es.
Bruna) e per consumatori che apprezzano le carni di grande pregio.
La razza Blonde d’Aquitaine, La razza Hereford, originaria della contea di
Hereford (Inghilterra), è caratterizzata da: corna giallognole di media
lunghezza; mantello rosso scuro, con faccia, giogaia, ventre e coda bianchi;
La razza Aberdeen-Angus, originaria della contea di Aberdeen (Scozia), è
caratterizzata da: testa acorne, con sincipite prominente; mantello nero
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uniforme, con pelo raso e lucente; tronco cilindrico, con scheletro
particolarmente leggero; arti brevissimi; mole elevata (kg 1.000 nel toro e 700
nella vacca) e resa alla macellazione eccezionale (70%). E’ impiegata, oltrechè in
purezza, soprattutto per l'incrocio industriale con razze specializzate da latte o
da carne o duplici.
LE RAZZE RUSTICHE
Le razze rustiche sono le ex razze da lavoro le quali — venuta meno, con la
diffusione della meccanizzazione in agricoltura, la loro funzione produttiva
economicamente preminente (il lavoro), hanno ritrovato una nuova funzione
produttiva (la carne). Esse sono caratterizzate da: elevata rusticità, ossia alta
capacità di adattamento agli ambienti più difficili sia sotto l’aspetto orografico,
che climatico che alimentare; grande facilità di parto, indispensabile per
garantire la sopravvivenza del vitello negli allevamenti
bradi; buona attitudine materna, ossia notevole capacità di allevare il vitello in
buone condizioni alimentari sino allo svezzamento; alta riproducibilità, ossia
precocità sessuale, longevità riproduttiva e fertilità elevate; infine,
compatibilmente con l’ambiente di allevamento, taglia e mole grandi associate
ad impalcatura scheletrica robusta. Le razze più rappresentate sono: in Italia, la
Maremmana, la Podolica, la Modicana, la Sarda, la Sardo-Bruna, la Sardo-
Modicana; in Francia, la Salèrs e l'Aubrac.
La razza Maremmana, di origine podolica e diffusa soprattutto nella Maremma
toscana e laziale, dove è allevata in mandrie brade che trascorrono l’inverno
nelle zone boschive, ha limitata consistenza (20.000 capi, 8.000 vacche). E'
caratterizzata da: impalcatura scheletrica molto robusta; taglia elevata (cm 150
nei tori e 125 nelle vacche), mole media (kg 800 e 500, rispettivamente); mantello
rosso alla nascita e grigio a maturità, scuro nei maschi, chiaro nelle femmine,
con pelle nera e resistente; testa leggera, con corna a semiluna nei maschi ed a
lira nelle femmine; collo corto e muscoloso, con abbondante giogaia; tronco
robusto, con spalle, garrese, dorso e lombi larghi e muscolosi, con torace e petto
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profondi e ventre sostenuto; coscia e natica muscolose; arti solidi e asciutti con
piedi serrati. E’ razza molto rustica ed adatta all’incrocio industriale con razze
specializzate da carne (L’associazione nazionale degli allevatori della razza fa
capo all’Anabic).
La razza Podolica, diffusa ormai soltanto nelle zone appenniniche meridionali
(dall’Abruzzo alla Calabria), ha limitata consistenza (100.000 capi, 40.000
vacche) ed è allevata brada in zone molto difficili. E’ caratterizzata da:
impalcatura scheletrica solida, ma leggera; mantello fromentino alla nascita e
grigio a maturità, con pelle nera, fine ed elastica; testa leggera, con corna come
nella Maremmana; tronco e arti simili a quelli della maremmana, rispetto alla
quale però è di taglia e di mole inferiori, ma di maggiore rusticità.
La razza Modicana, originaria della contea di Modica (RG) e diffusa quasi
esclusivamente in Sicilia, ha consistenza ridotta (30.000 capi in purezza).
LE RAZZE BUFALINE
Sono allevate: principalmente, per la produzione del latte (kg 2.000÷3.000) che,
grazie all'alto contenuto lipidico (8%) e proteico (4,5%), è destinato alla
produzione di formaggi tipici (mozzarella);
Secondariamente.Le razze bufaline vengono di solito distinte: in razze indiane
(B. bubalis), adatte ad ambienti umidi e con buona capacità produttiva; e razze
africane (B. caffer), adatte ad ambienti aridi e con minori capacità produttive. In
Italia la specie (B. bubalis) è allevata quasi esclusivamente in alcune regioni
(Campania e Lazio) ed ha una consistenza di circa 200.000 capi, di cui 90.000
bufale. La produzione lattea media è di circa kg 2.150, con un contenuto lipidico
dell’ 8,35% proteico del 4,74% ed una resa in formaggio fresco (mozzarella) del
12,5%. Il peso corporeo è di kg 800 nei tori e 500 nelle bufale. Il ritmo di
accrescimento è di kg/d 0,9, la resa alla macellazione di circa il 50%.
25
CARATTERISTICHE DEI BUFALINI
In Italia la zone di maggior diffusione del bufalo è la Campania (province di
Caserta e Salerno) dove è concentrato l'80% del patrimonio nazionale. La
domanda di latte bufalino per la produzione di formaggi (mozzarella e provola
affumicata) è in costante ascesa e il latte di bufala non è soggetto a limitazioni o
quote di produzione previste invece dalla CE per il latte bovino, la cui
produzione è eccedentaria nella Comunità.
DIFFERENZE TRA BUFALO E BOVINO
Bufali e bovini sono simili per quanto riguarda l'aspetto generale e il carattere
scheletrico delle 13 paia di coste. Appaiono però più tozzi e con il tronco più
largo e alto. A differenza dei bovini, non hanno giogaia nella parte inferiore del
collo, presentano la fronte convessa e diversa forma delle corna. Nei tori i
testicoli sono aderenti al ventre e non pendenti.
Pelo scarso e pelle (quasi nuda) più spessa e coriacea di quella del bovino, più
ricca di ghiandole sebacee (pelle untuosa al tatto) e limitate ghiandole
sudoripare. Per questa ultima particolarità i bufali si proteggono dalla calura
guazzando nell'acqua e coprendosi di fango.
La colorazione della pelle è nera con tendenza al rossiccio o grigio ardesia (più
chiara sul ventre). Gli zoccoli sono appiattiti e allargati alla base, facilitando
l'avanzamento nei terreni paludosi. Animale più intelligente del bovino,
risponde al proprio nome. Ha la stessa formula dentaria del bovino, ma
un'evoluzione più lenta.
Diverso il numero di cromosomi:
- il numero dei cromosomi nei bufali è 48 per la specie selvatica asiatica - 52 per
la specie selvatica africana;
- il numero dei cromosomi della specie bovina è 60.
Meno spiccato il dimorfismo sessuale. Il maschio, in genere più tozzo e con il
tronco più largo e più alto, raggiunge un peso di 7-8 quintali; le femmine
mediamente i 5 quintali, con eccezioni di 6-6,5.
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La durata media della gravidanza è di 316 giorni (da 312 a 321 giorni) e l'età
media al primo parto si aggira sui 36-38 mesi. I bufalotti alla nascita pesano
mediamente 38-39 kg (maschi) e 35-36 kg (femmine). Notevole durata della
carriera produttiva (fino a 18-20 anni e fino a 15 lattazioni).
LE RAZZE OVINE
Le razze ovine appartengono tutte alla specie Ovis aries e deriverebbero, per
evoluzione e/o selezione e/o incrocio e/o meticciamento, dai seguenti tre
progenitori comuni: Ovis ammon, che è l’Argali allevato nelle regioni centrali
dell’Asia; Ovis musimon, che è il muflone europeo, ancora presente in Sardegna
e in Corsica; Ovis vignei, che è l’ovino della steppa delle regioni caspiche.
Esse vengono classificate in funzione, principalmente, della loro attitudine
produttiva prevalente e, subordinatamente, della regione geografica di
provenienza in: razze da latte o a prevalente attitudine alla produzione del latte
e razze da carne o a prevalente attitudine alla produzione della carne e/o della
lana; entrambe a loro volta sono suddivise in razze italiane e razze estere.
LE RAZZE DA LATTE
Le razze da latte, diffuse prevalentemente nelle regioni circummediterranee
europee ed asiatiche (Israele) e in Oceania (Nuova Zelanda), sono allevate
prevalentemente con sistemi semiestensivi basati, sotto l'aspetto alimentare, sul
pascolamento. Esse sono caratterizzate da:
· impalcatura scheletrica leggera;
· vello grossolano;
· taglia (cm 70÷80 negli arieti e 65÷70 nelle pecore) e mole (kg 60÷80 e 45÷55,
rispettivamente) generalmente medie;
· testa piccola normalmente acorne, con profilo leggermente montonino ed
orecchie medie; collo sottile e quasi sempre privo di vello;
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· tronco allungato e cilindrico con linea dorso-lombare quasi orizzontale;
petto e torace stretti e ventre voluminoso; groppa inclinata, natica e coscia
vuote;
· mammella grande e sviluppata, con emimammelle poco differenziate;
capezzoli verticali e regolari; testicoli ampi e molto discesi;
· coda lunga e magra;
· elevata attitudine alla produzione del latte, quasi sempre scarsa attitudine
alla produzione della carne e scarsissima a quella della lana.
LE RAZZE ITALIANE
Le razze italiane che possono essere correttamente considerate razze.
specializzate da latte sono soltanto cinque (Sarda, Comisana, Massese, Valle del
Belice e Delle Langhe), anche se, ufficialmente ma impropriamente, vengono
considerate tali anche altre tre razze (Pinzirita, Leccese e Altamurana).
La razza Sarda. Razza autoctona della Sardegna, è la più importante e più
diffusa razza da latte Italiana.
E’ caratterizzata da: impalcatura scheletrica leggera ma solida; vello bianco
(raramente compare il colore recessivo nero o marrone), aperto e costituito da
bioccoli appuntiti con filamenti lunghi e midollati; testa leggera e piccola,
allungata e distinta, acorne (raramente compare il carattere presenza di corna
soprattutto nei maschi, grazie alla selezione operata contro tale carattere
recessivo), con profilo quasi rettilineo ed orecchie grandi e laterali; collo
allungato e sottile; tronco rettilineo, con profilo dorso-lombare quasi orizzontale
(leggermente insellato al dorso); torace e petto stretti ma profondi, con spalle
solide soprattutto nei maschi; groppa leggermente spiovente e ventre ampio e
voluminoso; arti solidi e robusti con unghioni ben distinti ed appiombi regolari;
Mammella molto sviluppata, larga e attaccata alta, con emimammelle non
distinte e capezzoli piccoli e diretti verticalmente, adatti alla mungitura
meccanica (vengono ormai scartate le mammelle globose, con capezzoli laterali
e diretti in avanti); testicoli grandi, lunghi e pendenti; coda lunga e lanosa;
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taglia (cm 70 negli arieti e 65 nelle pecore) e mole (kg 65 e 45, rispettivamente)
piccole, anche se attualmente tali pesi tendono ad aumentare per effetto sia
della selezione che del migliore regime alimentare.
La produzione lattea (l 120±30 in 100 d nelle primipare, 190±40 nelle
secondipare e 210±50 nelle pluripare in 180 d) ed i contenuti lipidico (6,7%) e
proteico (5,8%) non sono elevati in assoluto, ma, considerate le difficili
condizioni di allevamento, sono da ritenersi buoni.
La produzione della carne è scarsa (kg 3,5÷4 nei maschi e 3÷3,5 nelle femmine,
alla nascita; 18÷20 e 15÷17, rispettivamente, a 90 d), con resa alla macellazione
bassa (55÷58% negli agnelli, alla romana), ma di ottima qualità e molto
apprezzata dal consumatore soprattutto nei periodi natalizio e pasquale.
La produzione della lana è di modesta entità (kg 1,8÷2 negli arieti e 1,2÷1,5 nelle
pecore) e di pessima qualità.
La precocità è buona (primo parto a 15 mesi) e la prolificità variabile.
La razza Comisana. E’, per consistenza numerica (700.000 capi, di cui 520.000
pecore) e per diffusione territoriale (Sicilia, Italia meridionale e centrale), la
seconda razza italiana da latte; è originaria di Comiso (RG), da cui prende il
nome. E’ caratterizzata da: taglia (cm 80 negli arieti,e 70 nelle pecore) e mole (kg
80 e 50, rispettivamente) medie; vello bianco, aperto, con bioccoli conici; testa
fine, allungata e leggera di colore rosso o marrone; torace e petto stretti, ma
profondi; groppa inclinata e coda molto lunga; mammella allungata.
La produzione lattea è di l 100±30 in 100 d nelle primipare, 160 ± 60 nelle
secondipare e 170±50 nelle pluripare in 180 d, con un contenuto lipidico del
6,5% e proteico del 5,2%. L'attitudine alla produzione della carne è mediocre (il
peso alla nascita è di kg 3,5÷4 nei maschi e 3÷3,5 nelle femmine; quello a 90 d di
kg 20÷22 e 15÷18,rispettivamente). L’età al primo parto è di 15÷16 mesi, la
prolificità del 150%; la produzione della lana, di qualità grossolana, è di kg 2,5
negli arieti ed 1,5 nelle pecore.
La razza Delle Langhe, originaria delle Langhe (Piemonte) ed allevata in piccoli
allevamenti semibradi quasi esclusivamente in Piemonte e Liguria, è una razza
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di scarsissima consistenza (10.000 capi) ed è ormai avviata a diventare reliquia.
E’ caratterizzata da: taglia grande (cm 85 negli arieti e 75 nelle pecore) e mole
elevata (kg 90 e 70, rispettivamente); vello bianco, aperto, con bioccoli ondulati;
testa montonina acorne, con orecchie lunghe, grandi e cadenti. La produzione
lattea è di l 85 ± 40 nelle primipare in 100 d, 120 ± 60 nelle secondipare e 140 ±
70 nelle pluripare in 180 d, con contenuto lipidico del 6,5% e proteico del 5,5.%.
LE RAZZE ESTERE.
Sono principalmente le razze: Frisona, Awassi, Churra, Manchega, Lacaune,
Prealpina, Corsa.
La razza Frisona, originaria della Frisia, è la più importante razza da latte
estera; è allevata in purezza oppure per insanguare altre razze da latte allo
scopo di aumentarne sia la produzione lattea che quella carnea. E’ caratterizzata
da: taglia (cm 85÷90 negli arieti e 80÷85 nelle pecore) e mole (kg 90 e 70,
rispettivamente) molto elevate; impalcatura scheletrica solida; testa grande e
acorne, con profilo montonino accentuato; vello bianco merinizzato a bioccoli
compatti; tronco cilindrico allungato, con buon sviluppo dei diametri
trasversali; coda corta e sottile; mammella ben sviluppata, con capezzoli piccoli
e di buona mungibilità meccanica, ma di difficile mungibilità manuale.
La produzione lattea è molto elevata (kg 400÷500 nelle pluripare, in 280 d), con
un buon contenuto lipidico (6%) e proteico (4,5%). La produzione della carne è
buona (peso alla nascita kg 4,5÷5 nei maschi e 3,5÷4 nelle femmine; a 90 d kg 22
e 18, rispettivamente), con rese alla macellazione del 60% alla romana e del 54%
in carcassa. La produzione della lana, di media qualità, è di kg 3 negli arieti e 2
nelle pecore. La precocità è elevata. E’ una razza molto produttiva, che richiede
però condizioni ambientali, sia climatiche che pedologiche che alimentari,
molto buone e presenta qualche difficoltà al parto (distocie del 5÷10%) anche
per l’elevato peso alla nascita degli agnelli.
30
LE RAZZE SPECIALIZZATE DA CARNE
Esse, qualunque sia la loro attitudine alla produzione della lana, sono
caratterizzate da: impalcatura scheletrica molto solida, ma non grossolana;
grande mole (kg 100÷120 negli arieti, 70÷80 nelle pecore), non sempre associata
a grande taglia (spesso infatti sono molto atterrate); grande sviluppo dei
diametri trasversali e delle masse muscolari, soprattutto del treno posteriore
(groppa, coscia e natiche molto rotonde); testa piccola, larga e montonina, più
frequentemente acorne, con orecchie piccole e orizzontali; collo corto e
muscoloso; tronco cilindrico e allungato, con linea dorso-lombare orizzontale;
petto e torace molto sviluppati; spalla, dorso, lombi e groppa molto larghi e
muscolosi; addome retratto; arti corti, robusti e verticali; mammella piccola e
rotondeggiante e testicoli grossi.
Queste razze presentano ritmi di accrescimento elevati (200÷300 g/d sino ai tre
mesi), ottime rese alla macellazione (60÷65% in carcassa), con prevalenza di
tagli pregiati; grande tenerezza e sapidità delle carni e spesso anche alta
prolificità (150÷180%). Esse sono classificate, a seconda della provenienza
geografica, in razze: italiane, francesi, britanniche e germaniche.
Le razze italiane ufficialmente considerate da carne in effetti non lo sono in
quanto prive generalmente delle caratteristiche tipiche degli animali da carne:
sono infatti di grande taglia, ma non sempre di grande mole, e vengono
utilizzate per produrre carne soprattutto per mezzo dell’incrocio industriale con
razze estere specializzate da carne. Esse sono le razze: Appenninica, Barbaresca,
Bergamasca, Biellese, Laticauda, Fabrianese e Merinizzata italiana.
La razza Appenninica, autoctona dell’Umbria. La produzione della carne è
media (alla nascita, kg 3,5÷4 nei maschi e 3÷3,5 nelle femmine; a 90 d, kg 22÷25
e 20÷22, rispettivamente). La produzione della lana, molto grossolana, è di kg
2,5 e 1,5, nei due sessi. La razza ha ottima attitudine materna, buona rusticità e
buon ritmo di accrescimento che la rendono adatta a produrre: in purezza,
l’agnello pesante da latte; in incrocio, l’agnellone leggero. La prolificità è bassa
(130%).
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La razza Laticauda, originata dalla razza nord-africana Barbaresca per incrocio
con la razza Appenninica e successivo meticciamento, è allevata in Campania in
piccoli greggi ed ha consistenza ridotta (40.000 capi). E’ caratterizzata da:
impalcatura scheletrica robusta; taglia grande (cm 80 negli arieti e 70 nelle
pecore) e mole media (kg 95 e 70, rispettivamente); vello bianco con bioccoli
prismatici; testa pesante, montonina e acorne, con orecchie grandi rivolte in
basso; tronco lungo e largo, con linea dorso-lombare rettilinea; torace ampio e
profondo, groppa larga e spiovente ed arti solidi.
La attitudine alla produzione della carne è buona (alla nascita, kg 4÷5 nei
maschi e 3,5÷4 nelle femmine; a 90 d, kg 25 e 22, rispettivamente, con buona
resa alla macellazione).
La produzione della lana, di qualità grossolana, è di kg 3 e 2. La razza ha buona
attitudine materna, grande precocità (primo parto a 12 mesi) ed elevata
prolificità (180%). E’ particolarmente adatta per l’incrocio industriale.
Le razze francesi sono fra le migliori del mondo per mole, resa alla
macellazione, qualità della carcassa e delle carni. Esse sono in genere derivate
da razze locali merinizzate e successivamente incrociate con razze da carne
inglesi. Le principali sono le razze: Ile de France e Berrichon du Chèr.
La razza Ile de France.E' la più importante razza da carne francese, ha una
consistenza di circa 500.000 capi ed è utilizzata in purezza per la produzione
dell'agnello da latte (kg 12÷15), dell'agnellone precoce (kg 30÷35) e
dell'agnellone pesante (kg 40÷50), ma soprattutto come razza incrociante
nell'incrocio industriale con razze da latte e rustiche. E' caratterizzata da:
impalcatura scheletrica solida; taglia non elevata (cm 78 negli arieti e 70 nelle
pecore), ma mole elevata (kg 120 e 80, rispettivamente); vello bianco a bioccoli
chiusi ricoprente tutto il corpo, ad eccezione degli arti e della faccia; testa larga
acorne, con profilo rettilineo e orecchie grandi; collo corto e tozzo; tronco
ampio, lungo e largo; petto e torace larghi e profondi; dorso lungo e largo;
groppa lunga e orizzontale; coscia muscolosa e sviluppata; ventre retratto; arti
regolari e robusti.
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La produzione della carne è caratterizzata da: peso alla nascita elevato (kg 4÷5
nei maschi e 3÷4 nelle femmine), ritmo di accrescimento prolungato (g/d
280÷300 nei maschi e 220÷250 nelle femmine, nei primi 3 mesi), resa alla
macellazione molto elevata (65%), con tagli e qualità eccezionali.
La produzione della lana è di kg 5,5 nei maschi e 4 nelle femmine, di buona
qualità (25μ). La razza presenta precocità medi a (15÷18 m al 1° parto), buona
prolificità (150%), discreta attitudine materna e facilità di parto; essendo però
molto delicata e poco resistente alle alte temperature ed alle sue variazioni
repentine, ha difficoltà di adattamento, soprattutto negli allevamenti
semiestensivi, nel periodo di monta, è particolarmente adatta all'incrocio
industriale con le razze da latte per la produzione sia dell'agnello pesante da
latte che dell'agnellone precoce.
Le razze inglesi sono caratterizzate da mole grande e taglia elevata e da lana di
buona qualità. Le principali sono le razze: Suffolk, Dorsetdown, Southdown.
La razza Suffolk, originaria della contea di Norfolk (UK) e derivata dall'incrocio
fra le due razze inglesi Norfolk e Southdown, è diffusa in Inghilterra ed in
Australia.
E' caratterizzata da: ossatura robusta e corpo cilindrico; testa e arti neri; vello
bianco compatto; taglia e mole elevate (cm 80 negli arieti e 74 nelle pecore e kg
120 e 90, rispettivamente).
La produzione della carne è buona, sia per ritmo di accrescimento, che per resa
alla macellazione, che per qualità della carcassa.
La produzione della lana è media (kg 3 e 2,5) e di buona qualità. E' utilizzata
per l'incrocio industriale.
La razza Dorsetdown, originaria della contea di Dorset e derivata dall'incrocio
fra le razze Dorset e Southdown, è diffusa in Gran Bretagna, Francia, Sud
America e Australia. E' caratterizzata da: mole media (kg 80 negli arieti e 50
nelle pecore); vello bianco con bioccoli serrati; testa acorne marrone.
E' una razza precoce, prolifica e con buona attitudine materna.
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La razza Southdown, originaria del Sussex e considerata la più antica razza da
carne inglese, è caratterizzata da: mole grande (kg 100 negli arieti e 90 nelle
pecore); impalcatura scheletrica leggera, con tronco ampio; vello bianco o grigio
e testa nera acorne; notevole precocità somatica e buone fertilità e prolificità.
LE RAZZE CAPRINE
Le razze caprine (Capra hircus) deriverebbero — per selezione e/o
meticciamento — principalmente dai seguenti tre progenitori:
C. aegagrus, il Bezoar asiatico, ridotto ormai alle zone montuose dell'Asia
minore; C. prisca, la capra carpatica e balcanica, ormai estinta; C. falconeri, il
markor del kashmir.
Esse vengono classificate in razze: alpine o europee, di origine alpina oppure
pirenaica, tipo Saanen, Alpina, Toggenburg; asiatiche, di origine centroasiatica,
tipo Angora e Kashmir; mediterranee o africane, tipo Maltese, Siriana, Nubiana
ed Egiziana.
Poichè in questa specie non esistono razze a prevalente attitudine alla
produzione della carne, le razze sono classificate in: razze specializzate,
ovviamente per la produzione del latte; razze rustiche che non hanno
specializzazione produttiva; e, infine, razze da pelo o fibra.
LE RAZZE SPECIALIZZATE
Le razze specializzate da latte sono caratterizzate da: impalcatura scheletrica
solida, ma leggera; conformazione somatica di tipo lattifero; testa leggera con o
senza corna e tettole; tronco trapezoidale allungato, con groppa inclinata, ventre
voluminoso e mammella sviluppata; arti solidi.
Le principali sono le razze: Saanen, Alpina, Toggenburg, Appenzel, Poitevine,
Granadina, Maltese, Girgentana, Ionica e Siriana.
La razza Saanen, appartenente al gruppo alpino ed originaria della Svizzera, è
diffusa in tutto il mondo ed è la più importante razza specializzata; in Italia ha
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una consistenza di 40.000 capi ed è allevata in allevamenti di tipo intensivo
soprattutto nelle regioni settentrionali.
E' caratterizzata da: mantello bianco rosato a pelo corto; testa piccola spesso
acorne e collo robusto; profilo dorsolombare orizzontale; torace ampio e
addome sviluppato; taglia grande (cm 85 nei becchi e 75 nelle capre) e mole
grossa (kg 90 e 60, rispettivamente). L’attitudine alla produzione del latte è
elevata: l 300 nelle primipare in 150 d, 500 nelle secondipare, 600 nelle pluripare
in 210 d, con contenuto lipidico del 3% e proteico del 2,5%. La produzione della
carne è rappresentata dal capretto da latte macellato a 45 d di età; il peso alla
nascita è di kg 4÷4,5 nei maschi e 3,5÷4 nelle femmine, quello a 90 d, di 20 e 17,
rispettivamente. La razza è molto precoce (1° parto a 13 mesi) e prolifica (160%)
ed è adatta agli allevamenti semintensivi e soprattutto intensivi delle regioni
settentrionali.
La razza Alpina, in Italia ufficialmente denominata Camosciata delle Alpi ed
appartenente anch'essa al gruppo alpino, è diffusa in tutto il mondo ed è
allevata in allevamenti intensivi e semintensivi; in Italia ha una consistenza di
40.000 capi. E' caratterizzata da: mantello a pelo raso castano scuro con
caratteristica riga mulina marrone; taglia media (cm 85 nei becchi e 75 nelle
capre) e mole grande (kg 100 e 70, rispettivamente); testa leggera, generalmente
con corna nel maschio e senza nella femmina; torace ed addome ampi, groppa
inclinata. La produzione lattea è elevata (l 250 nelle primipare in 150 d; 450 nelle
secondipare, 550 nelle pluripare in 210 d), con contenuto lipidico del 3,5% e
proteico del 3%. La produzione della carne è media (kg 3,5÷3,8 nei maschi e
2,5÷3,2 nelle femmine, alla nascita; kg 18 e 15, a 90 d). La razza ha elevata
precocità (1° parto a 12 mesi) e buona prolificità (160%); è meno produttiva
della Saanen, ma leggermente più rustica.
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LE PRINCIPALI RAZZE DEI RUMINANTI
Razza Frisona
Razza Bruna
Razza Jersey
Razza Guernsey
Razza Ayrshire
Razza Pezzata Rossa
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Razza Piemontese
Razza Chianina
Razza Marchigiana
Razza Romagnola
Razza Charolaise
Razza Limousine
Razza Shorthorn
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Razza Hereford
Razza Aberdeen – Angus
Razza Maremmana
Razza Podolica
Razza Modicana
Razza Bruno - Sarda
Razza Normanna
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Razza Blu Belga
Razza Santa Gertrudis
Razza Brahman
Specie Bufalina
Razza Sarda
Razza Comisana
Razza Massese
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Razza Valle del Belice
Razza Frisona
Razza Pinzirita
Razza Laticauda
Razza Appenninica
Razza Bergamasca
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Razza Fabrianese
Gestione degli eventi riproduttivi nel gruppo di animali
LA TECNICA DELLA RIPRODUZIONE
La tecnica riproduttiva — che è funzione della specie e della razza
(specializzata oppure rustica), dell’attitudine e indirizzo produttivo (latte
oppure carne), del tipo di allevamento (estensivo oppure intensivo) — è
ovviamente legata al sesso maschile. Preliminarmente occorre pertanto
considerarne il regime igienico-sanitario, il regime alimentare ed il regime
sessuale del riproduttore.
Il regime igienico-sanitario. Il redo destinato alla riproduzione deve essere
sempre mantenuto, in qualunque specie e razza ed in qualsiasi tipo di
allevamento, in stabulazione libera (box oppure recinto individuale o collettivo)
affinchè, potendo muoversi a suo piacimento, ne risulti favorito lo sviluppo
scheletrico e muscolare e la sanità; l’ambiente deve pertanto essere asciutto,
soleggiato e provvisto di ricovero sia notturno che per le ore più calde estive e
più fredde invernali.
Il regime alimentare deve essere costantemente equilibrato sotto tutti gli aspetti
(energetico, proteico, minerale, vitaminico e fibroso): non deve cioè presentare
né carenze, che provocherebbero una riduzione del ritmo di accrescimento e di
conseguenza un rallentamento nel raggiungimento della pubertà, né eccedenze,
che favorirebbero un ingrassamento, sempre dannoso in tutti gli animali
destinati alla riproduzione; deve pertanto essere evitata la somministrazione di
foraggi troppo voluminosi e/o fibrosi quali i fieni scadenti e/o gli insilati
ingombranti, che provocherebbero uno sviluppo eccessivo dell’addome con
conseguente appesantimento dell’animale; deve invece essere praticata quella
di fieni ottimi e di concentrati fibrosi (quali avena e orzo) e con proprietà
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rinfrescanti (quali crusche e panelli di lino). Le esigenze nutritive dei
riproduttori sono riportate per le varie specie ed attitudine produttiva nelle
relative tabelle di razionamento.
Il regime sessuale.
Sebbene nei maschi destinati alla riproduzione l’istinto genesico si manifesti
abbastanza precocemente, ovviamente ad età variabile con la specie e la razza
(normalmente al raggiungimento del 30% del peso corporeo adulto tipico della
razza) anche se la produzione di sperma è spesso quantitativamente scarsa e
qualitativamente scadente, l’utilizzazione dei riproduttori non inizia
normalmente prima del raggiungimento del 50% del peso corporeo adulto,
prosegue con intensità crescente sino al raggiungimento della piena maturità
sessuale, ossia intorno ai 2 anni nei bovini rustici, 2,5 in quelli da latte, 3 in
quelli specializzate da carne, 1,5 negli ovini da latte e 1,25 nei caprini.
Oltre tale età, che corrisponde all’incirca al conseguimento del 60¸65% del peso
corporeo adulto nelle rispettive specie e/o razze, i riproduttori raggiungono la
completa maturità sessuale e possono di conseguenza essere utilizzati appieno.
Ovviamente fra i diversi riproduttori esistono sempre differenze individuali di
cui occorre tener conto nel programmare gli accoppiamenti: l’attività
riproduttiva deve essere sempre intervallata da brevi periodi di riposo, onde
evitare un eccessivo impiego del riproduttore che può ripercuotersi
negativamente sulla bontà del seme (riduzione della quantità di eiaculato per
salto, riduzione della concentrazione nemaspermica del liquido seminale,
minore mobilità, motilità e vitalità dei nemaspermi); lunghi intervalli di riposo
sono però inutili in quanto la spermatogenesi richiede globalmente circa 2 mesi
e la durata delle vitalità dei nemaspermi nell’epididimo non supera anch’essa i
2 mesi circa, periodo oltre il quale essi degenerano perdendo la capacità
fecondante e vengono quindi riassorbiti nell’epididimo.
La inseminazione può essere naturale oppure strumentale.
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L’INSEMINAZIONE NATURALE
L’inseminazione, che è la deposizione dello sperma prodotto dal maschio nelle
vie genitali femminili (in genere la vagina oppure l’utero, a seconda del tipo di
inseminazione) allo scopo di ottenere la fecondazione, può avvenire
naturalmente — inseminazione naturale IN — con il coito o accoppiamento
naturale tramite il salto o monta oppure strumentalmente in cui è l’uomo
(inseminatore abilitato) che, con apposita strumentazione, depone lo sperma,
dopo averlo prelevatodal maschio, nella vagina o nella cervice della femmina in
calore — inseminazione strumentale IS detta anche, ma impropriamente,
inseminazione artificiale IA e fecondazione artificiale FA.
La legge disciplina la pratica della monta, che può essere attuata con
riproduttore della stessa o di diversa razza dalla femmina, purchè però abilitato
a tale esercizio (dotato cioè di caratteristiche somatiche e funzionali rispondenti
ad uno standard di razza prefissato da una apposita commissione di esperti),
anche se tale norma è quasi sempre ignorata o disattesa, soprattutto per gli
allevamenti bradi di razze rustiche e per quelli delle piccole specie.
La monta, a seconda del tipo di allevamento, dell’indirizzo produttivo e
soprattutto del ciclo estrale femminile, può essere: libera oppure semilibera o
controllata.
La monta libera è praticata sempre nell’allevamento bovino da carne
completamente (razze rustiche) o prevalentemente (razze specializzate)
estensivo ed in quello ovino e caprino semiestensivo da latte, in cui il
riproduttore, all’inizio della stagione riproduttiva (primavera e/o autunno),
viene imbrancato con le femmine della mandria bovina o del gregge ovino
oppure caprino. Le riproduttrici, essendo a poliestro stagionale, possono
presentare calori soltanto in tale stagione (inizio primavera per le bovine, fine
primavera per le ovine e le caprine pluripare; inizio autunno per quelle
primipare): in tutti i casi, ai fini dell’ottenimento di una buona fertilità (almeno
l’80-85%), il rapporto riproduttivo fra i sessi deve essere adeguato: 1:20÷40 nei
bovini; 1:40÷50 negli ovini; 1:50÷60 nei caprini.
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Spesso, allo scopo di consentire una migliore e più efficace utilizzazione dei
riproduttori e soprattutto quando gli estri sono molto concentrati, questi
rimangono imbrancati soltanto durante il dì e separati durante la notte, come
nel caso dei bovini, oppure, al contrario, come nel caso degli ovini e dei caprini,
l’imbrancamento è soltanto notturno al rientro del gregge in ovile oppure in
caprile.
Nella monta libera è sempre il maschio ad individuare la femmina in calore ed a
coprirla tempestivamente in modo da assicurarne la fecondazione e quindi la
continuità riproduttiva dell’allevamento.
La monta controllata è invece praticata quasi esclusivamente nell’allevamento
intensivo bovino da latte, in cui, grazie al costante controllo della mandria
almeno in corrispondenza delle due mungiture giornaliere ed all’addensamento
degli animali in stalla, è possibile la tempestiva individuazione dei calori e
quindi del momento più opportuno per praticare l’inseminazione ed ottenere di
conseguenza la fecondazione. In questo caso il vaccaro, individuata la femmina
in calore, la conduce nel recinto riservato al toro (mai deve avvenire il contrario,
per ovvi motivi di sicurezza) oppure in un apposito travaglio (che è una
struttura di contenimento temporaneo della vacca) ove avviene la monta:
normalmente il toro compie due salti, in quanto le due eiaculazioni consecutive
hanno nel complesso una superiore concentrazione nemaspermica (1 miliardo
di nemaspermi per cc, ossia 5 miliardi per eiaculato).
L’INSEMINAZIONE STRUMENTALE
L’inseminazione strumentale IS — detta impropriamente anche inseminazione
artificiale IA e ancor più impropriamente fecondazione artificiale FA — è stata
praticata per la prima volta sulla specie canina nel 1779 Attualmente essa è
praticata ampiamente in tutto il mondo zootecnicamente progredito,
soprattutto sulle razze da latte, per i vantaggi di natura igienico-sanitaria,
genetica ed economica che la sua applicazione comporta.
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Sotto l’aspetto sanitario, essa ha il vantaggio di impedire la trasmissione e la
diffusione delle malattie coitali, quali la tricomoniasi e le vibriosi (con lo sperma
possono essere invece trasmesse la tubercolosi, la brucellosi, la leptospirosi, la
salmonellosi, la micoplasmosi, la clamidiosi e l’afta).
Sotto l’aspetto genetico, rappresenta il più efficace sistema di valutazione dei
riproduttori, la cui validità dipende soprattutto dal numero di figlie testate, e
soprattutto di conservazione del materiale seminale, talvolta per una durata
anche superiore a quella della vita stessa del riproduttore da cui proviene.
Ovviamente la grande diffusione del seme di pochi riproduttori testati
positivamente in moltissimi allevamenti comporta, nel lungo periodo, un
considerevole aumento dell’inincrocio o consanguineità di cui occorre evitare
tempestivamente le conseguenze negative con la predisposizione di appropriati
piani di accoppiamento.
Sotto l’aspetto economico, è rilevante il risparmio conseguito con l’utilizzazione
dello sperma in IS, anziché del riproduttore in IN: da ciascun eiaculato, che in
IN costituisce un’unica dose, in IS invece, grazie alla diluizione talvolta molto
spinta (1:10÷1:30) ed alla ripartizione in mini porzioni (1:100÷1:200), ciascun
eiaculato può originare anche migliaia di dosi.
Le fasi della inseminazione strumentale sono le seguenti cinque: raccolta,
valutazione, diluizione, conservazione e utilizzazione.
La raccolta del seme. Consiste nel suo prelievo dal maschio che lo produce con
la eiaculazione e che può essere praticata con quattro modalità: per prelievo
vaginale, per massaggio vescicolare, per elettrostimolazione e con metodo
parafisiologico.
Il prelievo vaginale, che ormai ha importanza soltanto storica in quanto è stato
il primo metodo praticato per mettere a punto la tecnica inseminatoria, consiste
nella raccolta del seme dalla vagina della femmina in cui il maschio lo ha
deposto con il coito; presentando grandi difficoltà pratiche.
Il massaggio delle vescicole seminali è adottato soltanto con i riproduttori
incapaci di saltare per difficoltà di impennata e/o di erezione: l’operatore, con
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un opportuno massaggio sulle vescicole seminali praticato manualmente per
via rettale, provoca l’eiaculazione; l’eiaculato ha però in genere una bassa
concentrazione nemaspermica ed è spesso inquinato a causa del suo
versamento nel prepuzio dovuto alla parziale protrusione del pene per mancata
o incompleta erezione.
L’elettrostimolazione è praticata anche essa con riproduttori che presentano
difficoltà di monta; l’eiaculazione è stimolata artificialmente con scariche
elettriche a basso voltaggio (3÷4 V) e ad alto amperaggio (40÷50 A) praticate con
l’inserzione di due elettrodi, uno nel retto e l’altro all’altezza della 4ª vertebra
lombare: il volume dell’eiaculato e la concentrazione nemaspermica sono
sempre inferiori al normale, anche se il liquido spermatico è pulito, grazie alla
normale protrusione.
Il metodo parafisilogico è quello più adottato in tutte le specie e più diffuso in
condizioni fisiologiche normali; il riproduttore è condotto, o meglio, senza
essere trasferito dal suo box o recinto, è messo in presenza di una femmina della
specie non necessariamente in calore oppure di un manichino simulante la
femmina, su cui, una volta addestrato, si impenna, salta ed eiacula; l’operatore,
all’atto della eiaculazione, devia la verga o pene in un’apposito contenitore
cilindrico (vagina artificiale), a doppia parete con intercapedine contenente
acqua tiepida (40÷45 °C) che simula la temperatura vaginale; l’eiaculato è
raccolto in una propaggine della vagina artificiale ed è sottoposto
immediatamente a valutazione.
Allo scopo di ottenere un eiaculato più denso, normalmente è praticata una
doppia eiaculazione.
La valutazione del seme.
Deve essere effettuata immediatamente dopo la raccolta e consiste in due tipi di
analisi: la prima macroscopica, la seconda microscopica.
L’analisi macroscopica rileva il volume dell’eiaculato ed il suo aspetto (densità,
colorazione e motilità). Il volume varia con la specie (5÷8 cc in quelle grosse e
1÷1,5 in quelle piccole), oltrechè, ma in minor misura, con lo stato nutrizionale e
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sanitario, con l’età e il regime sessuale (frequenza dei prelievi) del riproduttore.
Il colore deve essere biancastro opaco con densità elevata che è indice di
maggiore concentrazione nemaspermica, ed esente da liquidi estranei (sangue,
pus, urina).
L’analisi microscopica rileva: la vitalità dei nemaspermi, dei quali almeno l’80%
devono essere vitali, motili e mobili, cioè dotati di moto ondoso o browniano,
conformati correttamente nelle diverse parti (testa, corpo e coda); la densità o
numero di nemaspermi per cc o ml, che deve essere intorno a 0,8¸1,0 miliardi
nelle grosse specie e 4¸5 nelle piccole.
Per una valutazione più efficace vengono praticati anche test di decolorazione
(capacità di riduzione dell’ossigeno) e di densità ottica (misurazione
dell’intensità di assorbimento luminoso) che sono entrambi correlati con la
vitalità dei nemaspermi.
La diluizione del seme. Consiste nella dispersione dello sperma in un
opportuno mestruo diluitorio che ha la funzione di conservarne, anche per
anni, la capacità fecondante, oltrechè ovviamente quella di innalzare il numero
di femmine inseminabili proficuamente con un solo eiaculato. I mestrui devono
quindi essere, otrechè ricchi di sostanze nutritive (in particolare energetiche,
minerali e vitaminiche), anche capaci di inibire lo sviluppo dei batteri
(addizione di antibiotici, in particolare di neomicina), di proteggere gli
spermatozoi nel congelamento e di mantenere costante il pH: attualmente quelli
più impiegati sono a base di latte e di tuorlo d’uovo (addizionati di glicerina,
acido citrico, glucosio e fruttosio).
Il rapporto di diluizione varia: con la concentrazione nemaspermica, con la
motilità e vitalità dei nemaspermi e con il numero minimo per dose che è
indispensabile alla riuscita della inseminazione.
A titolo di esempio: da un toro che eiaculi 5 cc di sperma, con concentrazione di
1,2 miliardi di nemaspermi per cc (6 miliardi di nemaspermi per eiaculato) ed
ogni dose debba contenere almeno 40 milioni di nemaspermi affinché
l’inseminazione abbia successo, possono essere prodotte anche 150 dosi.
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La conservazione del seme.
Il seme può essere conservato nei seguenti modi:
· a temperatura ambientale di 16÷18 °C; in tal caso però esso deve essere
utilizzato immediatamente dopo il prelievo, ossia entro le 6 h;
· a temperatura di refrigerazione, ossia a 3÷5 °C; in tal caso deve essere
utilizzato entro 1 w;
· a temperatura di liquefazione dell’azoto (-196 °C); in tal caso può essere
conservato anche per molti anni ed utilizzato proficuamente anche dopo
diversi anni dalla morte del riproduttore che lo ha prodotto; tale
temperatura deve però essere raggiunta gradualmente e
progressivamente, grazie alla diluizione in un’apposito mestruo
contenente glicerina, onde evitare la cristallizzazione dei nemaspermi
sottoposti al freddo, e antibiotici, onde preservare lo sperma da infezioni.
La confezione può essere in fiale, in pagliette e in pellette:
· la prima, in fiale di vetro, del volume di 1 cc per dose, è ormai in disuso;
· la seconda, in pagliette (sottili tubi di plastica della L di 8÷10 cm e del Ø
di 2 mm) è quella più diffusa e contiene 0,50÷0,25 cc per dose ed 8÷10
milioni di nemaspermi; è chiusa alle estremità con un tappo di cotone
imbevuto di alcool polivinilico e deve riportare l’indicazione del
riproduttore che ha prodotto il seme e del centro IS che lo ha
confezionato;
· la terza, in pasticche, del volume di 0,1÷0,2 cc, è conservata direttamente
nell’azoto liquido senza involucro, ma contiene un disco di
identificazione del seme (riproduttore e centro IS).
Le diverse confezioni (fiale, pagliette, pasticche) vengono conservate, immerse
in azoto liquido, in appositi contenitori (bidoni) trasportabili in azienda e
ricaricabili continuamente.
La utilizzazione del seme. È realizzata per mezzo della inseminazione, che
consiste nella deposizione manuale del seme, che può essere fresco oppure
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congelato, nell’apposito organo genitale della femmina, la quale deve essere
necessariamente in estro.
L’inseminazione è praticata con una siringa, detta comunemente pistoletta,
contenente la dose da depositare nell’organo prescelto. Questo, a seconda della
specie e quindi delle dimensioni, della penetrabilità e della individuabilità delle
vie genitali, può essere: la parte iniziale oppure profonda della vagina in
prossimità della cervice (inseminazione vaginale); il tratto cervicale dell’utero
(inseminazione cervicale); il corpo dell’utero (inseminazione uterina o
transcervicale) purchè però le pliche cervicali consentano il passaggio, senza
lacerazioni, della siringa; infine le tube ovariche (inseminazione tubarica) se
praticata per via laparoscopica.
Il tipo di inseminazione dipende anche dalla modalità con cui il seme è stato
conservato: seme fresco, se conservato alla temperatura ambiente di 15÷16 °C e
utilizzato entro le 5÷6 dal prelievo; seme refrigerato, se conservato alla
temperatura di refrigerazione di 3÷5 °C e utilizzato entro 1 settimana; seme
congelato, se conservato anche per anni alla temperatura di liquefazione dell’N
(-196 °C) e utilizzato anche dopo molti anni e a distanza.
Con quest’ultimo tipo di conservazione, che è ormai quello più diffuso in
quanto consente una conservazione temporale lunghissima e la utilizzazione a
distanza, è necessario, immediatamente prima dell’impiego, lo scongelamento
graduale della dose in acqua tiepida sino a temperatura corporea per garantire
la perfetta conservazione della vitalità dello sperma.
La tecnica della IS, qualora non correttamente programmata (predisposizione di
un opportuno piano degli accoppiamenti) oppure non bene attuata, costituisce
un’arma a doppio taglio: infatti, se da un lato essa offre il vantaggio di poter
valutare molto più accuratamente i riproduttori (grazie al maggior numero di
figlie e/o di mezze sorelle ottenibili dallo stesso riproduttore) ed al contempo di
poterne utilizzarne il seme su più vasta scala, dall’altro lato può anche essere
responsabile indiretta, soprattutto su popolazioni ristrette, di un aumento
notevole della consanguineità, aggravata dall’utilizzazione troppo frequente
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degli stessi riproduttori negli stessi allevamenti, e dalla diffusione di caratteri
indesiderati, soprattutto recessivi, di cui questi sono portatori, non
sufficientemente valutati o accertati durante la prova di discendenza.
LE FASI DELLA RIPRODUZIONE
Le fasi della riproduzione, ovviamente tutte connesse con il sesso femminile,
sono: la inseminazione, la fecondazione, la gravidanza ed il parto.
L’INSEMINAZIONE
È la prima delle 4 fasi e può essere, come s’è detto, naturale oppure
strumentale.
Nel primo tipo è il riproduttore prescelto stesso — imbrancato durante la
stagione riproduttiva nella mandria bovina o bufalina oppure nel gregge ovino
o caprino, come nel caso degli allevamenti estensivi o semiestensivi le cui
femmine sono a poliestro stagionale; oppure tenuto in un apposito recinto nel
quale vengono introdotte per tutto l’anno le femmine a poliestro annuale
continuo che via via vanno in calore, come nell’allevamento intesivo o
semintensivo bovino o bufalino da latte — che determina il momento più
opportuno per l’inseminazione, coprendo la femmina una o più volte in
coincidenza del calore e deponendovi in vagina il proprio seme: la percentuale
di attecchimento normalmente è abbastanza elevata (> 80%).
Nel secondo tipo è invece l’inseminatore, che, accertata tempestivamente la
comparsa del calore nella femmina, la insemina deponendo, in vagina oppure
in cervice oppure in utero oppure in tuba a seconda della specie, il seme fresco
oppure congelato, dopo averlo gradualmente scongelato.
Nell’inseminazione naturale incontrollata degli allevamenti bovini estensivi e di
quelli ovini e caprini semiestensivi occorre: adottare un corretto rapporto
riproduttivo fra i sessi, affinchè la concentrazione nemaspermica di ciascun
eiaculato non scenda al di sotto del limite minimo per la specie a causa del
numero eccessivo di salti che il riproduttore è costretto a compiere per poter
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coprire in breve periodo (2÷3 w negli ovini e nei caprini e 2÷3 m nei bovini)
tutto il gregge o la mandria ad esso assegnato; garantire al riproduttore brevi
intervalli di riposo sessuale (1 w ogni 2÷3 w di attività); preparare
adeguatamente il riproduttore con un opportuno regime alimentare almeno 2
mesi prima del suo impiego, allo scopo di consentire lo svolgimento di tutta la
spermatogenesi in condizioni ottimali; non immettere nel branco un numero
pari di riproduttori, onde ridurne la rivalità sessuale che si manifesta sempre
per la supremazia nell’accoppiamento e che spesso comporta la cessazione del
calore nella femmina prima che sia stato praticato proficuamente il salto.
Nell’inseminazione strumentale degli allevamenti intensivi da latte ed in quelli
semintensivi sincronizzati degli ovini e dei caprini da latte occorre il rispetto
delle tre seguenti norme: accertamento della bontà del seme, corretta manualità
dell’intervento inseminatorio e tempestività dell’inseminazione.
La bontà del seme è compendiata dalla concentrazione e dalla vitalità dei
nemaspermi (almeno l’80% devono essere vivi, vitali e regolari); la corretta
manualità di intervento è legata alla bravura dell’inseminatore, che deve
deporre il seme nel luogo opportuno senza provocare lacerazioni all’organo
interessato, soprattutto nel caso di inseminazione transcervicale ovina; la
tempestività di intervento è l’osservanza puntuale del momento più opportuno
per l’inseminazione, normalmente alla fine dell’estro, ossia 12÷6 ore prima del
momento ottimale di fecondazione, la quale avviene, a livello tubarico, durante
il metaestro, ossia 6 ore dopo la deiescenza del follicolo e quando gli
spermatozoi hanno acquisito la piena capacità fecondante con la risalita dalla
vagina o dalla cervice alla tuba in 6÷12 h dall’inseminazione.
Tale momento è individuale negli animali a poliestro continuo, che presentano i
calori gradualmente; è invece collettivo in animali a poliestro stagionale ma
sincronizzati appunto per poter praticare la IS su tutto il gregge
contemporaneamente.
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LA FECONDAZIONE
È l’incontro dello spermatozoo con l’ovulo entrambi maturi ed avviene, di
norma, nel terzo superiore della tuba ovarica omologa, corrispondente cioè a
quella dell’ovaio che ha maturato il follicolo nel ciclo estrale; affinchè però ciò si
verifichi è indispensabile una certa sfasatura temporale fra l’inseminazione e
l’ovulazione: la prima cioè deve essere praticata all’incirca con 12 h di anticipo
sulla seconda, in quanto gli spermatozoi, per risalire dal luogo di deposizione a
quello di fecondazione attraverso le vie genitali (utero, corni e tube), impiegano
circa 18 ore, che è il tempo mediamente necessario affinchè, grazie alla presenza
delle sostanze uterine secrete dalle cellule secernenti del miometrio e spinti
verso l’alto dalle cellule vibratili del miometrio e della tuba, essi possano
capacitarsi (acquisire cioè la piena capacità fecondativa, ossia passare dallo
stadio di nemaspermi a quello di spermatozoi completamente maturi) e
raggiungere l’ovulo maturo nel momento opportuno; nel contempo l’ovulo, per
discendere dal follicolo scoppiato sino al luogo di fecondazione e per
capacitarsi, impiega all’incirca 6 h. L’incontro deve quindi avvenire
preferibilmente quando i due gameti sono al massimo della loro capacità
fecondante, che coincide con la 18ª h per lo spermatozoo e con la 6ª per l’ovulo.
Ovviamente esistono differenze fra le diverse specie, ma in genere il momento
ottimale di inseminazione coincide con la seconda metà dell’estro, l’ovulazione
con la prima metà del metaestro e la fecondazione avviene durante quest’ultima
fase. Di tutti i milioni di spermatozoi presenti in una dose (oppure in un
eiaculato) soltanto poche migliaia raggiungono la tuba e di questi soltanto uno,
o al massimo due in caso di biovulazione, feconda l’ovulo femminile dando
origine allo zigote diploide che successivamente evolverà prima in embrione e
poi in feto.
L’ovulo, che in tutte le specie ha dimensione di molto superiore (almeno 4
volte) a quella dello spermatozoo ed è circondato da un ammasso di cellule
somatiche (cumulo ooforo), una volta disceso nel terzo superiore della salpinge,
viene raggiunto da un elevato numero di spermatozoi che si dispongono
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ortogonalmente alla sua superficie. È indispensabile che tale numero sia molto
elevato per creare la concentrazione enzimatica acrosomiale minima necessaria
alla fecondazione, anche se è uno soltanto lo spermatozoo che, penetrato nel
cumulo ooforo e superate le due membrane ovulari (vitellina e pellucida),
raggiunge il citoplasma in cui avviene la fusione dei due pronuclei aploidi —
maschile e femminile — in un unico zigote diploide dando così inizio alla
gravidanza e determinando nel contempo il sesso dell’embrione. Questo sarà
maschile se l’incontro casuale dell’unico eterocromosoma femminile X sarà
avvenuto con l’eterocromosoma maschile Y, sarà invece femminile se l’incontro
sarà avvenuto con l’eterocromosoma maschile X
LA GRAVIDANZA
La gravidanza o gestazione è la fase che inizia con la fecondazione e termina
fisiologicamente con il parto: talvolta essa è interrotta dall’aborto (precoce
oppure a termine) che, quando avviene inizialmente (primi 15÷30 d), passa
inosservato, a causa del riassorbimento embrionale dello zigote che la
maschera.
Lo zigote, che appena formatosi inizia la sua moltiplicazione cellulare mitotica,
permane per circa 1ª w nella tuba allo stadio di morula (16÷32 cellule), indi
nella 2ª w, già allo stadio di blastula, discende nell’utero in cui si impianta
stabilmente intorno alla 4ª w e differenzia i suoi tessuti embrionali (ecto, meso
ed endoderma) che daranno origine sia ai tessuti che agli invogli o annessi
fetali. Esso trae nutrimento nel primo periodo dal citoplasma ovulare, nel
secondo periodo dai fluidi uterini (latte uterino).
Con la formazione e lo sviluppo delle tre membrane extraembrionali
(dall’esterno verso l’interno: corion, allantoide e amnios), che iniziano la loro
differenziazione già dopo la 2ª w e la terminano entro la 4ª w, l’embrione prima
ed il feto successivamente è immerso completamente in un liquido (liquido
amniotico, che al parto costituirà le seconde acque) contenuto nella membrana
più interna o amnios, la quale è circondata a sua volta da un liquido più esterno
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(liquido corion-allantoideo, che al parto costuituirà le prime acque) contenuto
nelle 2 membrane più esterne (allantoide e corion), la cui reciproca saldatura
avviene molto precocemente.
Queste membrane, venendo a contatto con l’endometrio uterino, sviluppano, in
corrispondenza delle caruncole uterine, i cotiledoni fetali che saldandosi con le
caruncole stesse formano la placenta la quale consente l’ancoramento, lo
sviluppo e la nutrizione dell’embrione con l’utero. Entro il primo mese,
dall’embrione si diparte un sistema vascolare arterio-venoso (cordone
ombelicale) che, attravversando l’amnios ed il corion-allantoide, si capillarizza
nei cotiledoni, i quali, per mezzo di villi (villi coriali) affondano nelle caruncole
uterine, da cui assorbono le sostanze nutritive materne necessarie allo sviluppo
del feto e scaricano i prodotti catabolici fetali; il complesso dei placentomi
(insieme di unità cotiledonari fetali e di caruncola uterina) costituisce la
placenta che è l’organo di scambio fra madre e feto per tutta la gravidanza.
Nei ruminanti la placentazione è di tipo cotiledonare (i villi sono presenti
soltanto nei cotiledoni) e non diffusa in tutto il corion come nei monogastrici:
non potendosi realizzare, a causa di diversi strati di tessuto frapposti, alcuno
scambio di molecole molto grosse fra madre e feto, in queste specie non avviene
il travaso delle macromolecole anticorpali g-globuliniche, le quali avrebbero
conferito al feto l’immunità passiva nel primo periodo di vita; pertanto,
immediatamente dopo la nascita, è indispensabile la somministrazione del
colostro, in attesa che il neonato produca autonomamente i propri anticorpi
(immunità attiva).
La durata della gravidanza (intervallo fra il concepimento, in pratica,
l’inseminazione feconda, e il parto) dipende dalla specie, dalla razza, dal sesso,
dalla successione dei parti, dalla gemellarità, dalla stagione del parto; essa
influenza il peso alla nascita del feto ed è mediamente di 285±15 d nelle specie
grosse e di 150±7 in quelle piccole.
La diagnosi di gravidanza
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Nelle femmine comunque (naturalmente oppure strumentalmente) inseminate
è indispensabile, ai fini dell’economicità dell’allevamento, accertare il più
precocemente possibile l’esito della inseminazione.
La diagnosi può essere eseguita per tre vie: ormonale, ginecologica ed
ecografica.
La diagnosi ormonale è basata sulla determinazione del contenuto ematico
oppure latteo del progesterone, il cui livello è sempre al di sotto di una soglia
limite (< 9 ng nei bovini, < 4 ng negli ovini) nelle femmine vuote e sempre al di
sopra (> ng 11 e ng 6, rispettivamente) nelle femmine gravide.
Il livello è decisamente inferiore al valore soglia: la femmina è quasi certamente
vuota o per mancata fecondazione oppure per riassorbimento embrionale
precoce (diagnosi negativa);
Il livello è decisamente superiore al valore soglia: la femmina è quasi
certamente gravida (diagnosi positiva) e di conseguenza non deve presentare il
calore successivo, altrimenti occorre procedere a visita ginecologica per
accertare la causa di tale comportamento anomalo.
Il livello è compreso fra i due valori soglia: la femmina può essere vuota oppure
gravida (diagnosi incerta o dubbia).
La diagnosi ginecologica è basata sullo stato di ingrossamento del corno uterino
omologo all’ovaio che ha ovulato e che quindi presenta il corpo luteo gravidico;
essa è eseguita dal veterinario ginecologo con una delicata palpazione manuale
per via rettale alla 5ª÷6ª w nelle nullipare oppure alla 7ª÷8ª w nelle pluripare;
anche se questo tipo di diagnosi è quello più preciso per rilevare con certezza lo
stato di gravidanza dell’animale, esso è di fatto praticato soltanto nelle specie
grosse (bovina e bufalina), a causa della impossibilità pratica di riuscire ad
inserire, senza provocare traumi, la mano nel retto delle specie piccole (ovina e
caprina).
La diagnosi ecografica è basata sull’impiego di apparecchiature ad ultrasuoni
(ecografi), capaci di rilevare la presenza dell’embrione già nel 1° mese di
gravidanza con lo stato di ingrossamento dell’arteria uterina. Essa, per difficoltà
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pratiche, è limitata alle piccole specie. In tutti i casi la visita ginecologica si
rende sempre necessaria per accertare le cause dell’eventuale mancata
fecondazione (inseminazione infeconda) allo scopo di porre rimedio alla
infecondità femminile (presenza di corpo luteo non gravidico persistente, cisti
ovarica, squilibrato rapporto alimentare Ca/P, carenza o eccesso alimentare
energetico e/o proteico, metriti uterine).
La diagnosi di gravidanza può infine, ma molto tardivamente per cui è quasi
inutilizzata, essere praticata: con il ballottamento (nel 4° mese nelle specie
grosse e nel 3° in quelle piccole), che consiste nell’osservare il battito del fianco
destro, dopo aver fatto correre la femmina presunta gravida; oppure con il
contraccolpo fetale, che consiste nel premere con il pugno il fianco destro della
femmina ritenuta gravida per sentire la presenza del feto.
IL PARTO
Il parto, ultima fase del processo riproduttivo, è la conclusione fisiologica della
gravidanza e consiste nella espulsione del feto e degli invogli fetali dal corpo
materno, attraverso le vie genitali esterne (vagina e vulva).
La femmina gravida, pervenuta alla fine della gravidanza, si prepara
gradualmente al parto, modificando innanzitutto il suo equilibrio ormonale: la
placenta riduce la secrezione di progesterone e inizia quella degli estrogeni, che
a loro volta stimolano il miometrio uterino a secernere prostaglandine; tutti
questi ormoni, coadiuvati anche dalla secrezione adenocorticotropica del feto,
stimolano la secrezione ipotalamica neuroipofisaria di ossitocina che a sua volta
favorisce la contrazione del miometrio e conseguentemente l’espulsione del
feto, il quale, giunto al suo massimo sviluppo, preme fisicamente sugli organi
genitali.
Il parto consta delle tre fasi consecutive seguenti: la fase preparatoria o
prodromica; la fase espulsiva del feto; la fase secondativa o espulsiva della
placenta.
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La fase preparatoria, che può incominciare anche qualche settimana prima del
parto vero e proprio ma in genere non dura più di qualche giorno, consiste
essenzialmente: nel rilassamento dei legami pelvici sacro-ischiatici (corde),
provocato dall’azione degli estrogeni che determinano anche un allargamento
del bacino per favorire il passaggio del feto attraverso il canale del parto; nella
tumefazione della vulva, da cui scola un liquido filamentoso che è dovuto allo
scioglimento del tappo mucoso cervicale formatosi all’inizio della gravidanza
per proteggere l’utero dall’ingresso di agenti patogeni; nel rigonfiamento
edematoso della mammella, provocato dagli estrogeni; nell’irrequietezza
comportamentale della gestante (inappetenza, movimenti continui, mugugni e
muggiti oppure belati); nella contrazione del miometrio e nella dilatazione della
cervice, provocate dall’azione dell’ossitocina, coadiuvata dalla relaxina ovarica
e dagli estrogeni uterini e placentari.
La fase espulsiva del feto — che inizia con le doglie o premiti, prima distanziate
e leggere e via via più frequenti ed intense, dovute alle contrazioni del
miometrio sotto l’effetto ossitocinico — consiste: nella lacerazione dell’invoglio
fetale esterno (il corion – allantoide), che libera il liquido corionallantoideo
(prime acque), il quale fuoriesce dalla vulva; nel passaggio del feto dall’utero al
canale del parto; nella espulsione del corion-allantoide; nella lacerazione
dell’invoglio fetale interno amnios e nella fuoriuscita del liquido amniotico
(seconde acque); nell’espulsione dell’amnios; infine nella espulsione del feto,
che, sotto l’effetto delle contrazioni muscolari diaframmatiche e addominali,
raggiunge pienamente il canale del parto, lacerando il cordone ombelicale che
lo tiene ancora legato alla placenta ed all’utero e quindi interrompendo
qualsiasi legame nutrizionale e respiratorio con la madre. Questa ultima fase
deve essere la più breve possibile per evitare l’asfissia del nascituro, il quale
deve passare rapidamente (entro 1÷2 m’) dalla respirazione fetale per via
ombelicale a quella polmonare per via buccale e nasale: se il parto è normale
(eutocico), ciò avviene naturalmente; se invece il parto è difficile (distocico) per
qualsiasi causa (eccessivo sviluppo del feto ed in particolare dei suoi diametri
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trasversali — fronte, petto e groppa —, ristrettezza del canale del parto,
anormale presentazione del feto), occorre intervenire immediatamente per
facilitare la espulsione del feto (trazione verso il basso degli arti, aggiustamento
della posizione del feto, taglio cesario nei casi estremi) e per evitare danni sia a
questo che alla madre. Tale fase non dovrebbe protrarsi per oltre 2 ore nelle
piccole specie e 4 nelle grandi.
La fase espulsiva della placenta o secondamento, che deve avvenire entro le
10÷12h dall’espulsione del feto, conclude il parto: talvolta però la placenta,
soprattutto nei parti distocici, resta attaccata, tramite i cotiledoni, alla mucosa
uterina (ritenzione placentare), provocandone danni gravissimi con la sua
putrefazione (metriti) che si ripercuotono negativamente su tutta la funzionalità
riproduttiva (ipofecondità, sterilità); in questi casi si deve ricorrere al distacco
manuale della placenta dai cotiledoni, a trattamenti farmacologici antibiotici e
all’immissione di capsule secondative nell’utero ancora beante immediatamente
dopo l’espulsione del feto. La facilità di parto, che è legata alla specie (le grosse
presentano più difficoltà delle piccole), alla razza (quelle rustiche e da latte
partoriscono più facilmente di quelle da carne specializzate), al sesso, alla
gemellarità, allo sviluppo somatico del nascituro, all’alimentazione della
gestante a fine gravidanza, è soprattutto funzione della presentazione del feto al
parto.
La presentazione del feto, che è la posizione che questo assume nell’utero al
momento della sua espulsione, può essere normale oppure anormale.
La prima — in cui il feto, che sino al giorno precedente il parto era in posizione
diretta (la testa rivolta verso la testa della madre), con un movimento di
inversione di 180°C si orienta verso il canale del parto posizionando la testa fra
gli arti anteriori distesi (presentazione anteriore) — è la posizione più frequente
e più facile; a volte però il feto non compie l’inversione ma si presenta con il
posteriore verso il canale del parto (presentazione posteriore) per cui fuoriesce
con gli arti posteriori.
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La seconda può presentare diverse forme e gradi di anormalità, generalmente
caratterizzate da maggiore difficoltà o addirittura da impossibilità di parto
naturale, per cui è indispensabile il ricorso al taglio cesario o addirittura alle
fetotomia.
Fra le presentazioni anteriori, in cui il rivoltamento del feto non è avvenuto
perfettamente, ci sono quelle: della testa rivolta verso il basso oppure piegata
lateralmente o posteriormente; degli arti anteriori ripiegati al ginocchio oppure
alla spalla; degli arti posteriori rivolti in avanti. Fra le presentazioni posteriori,
in cui il rivoltamento del feto non è avvenuto affatto, c’è quella degli arti
posteriori piegati al garretto oppure alla coscia. Infine la presentazione più
difficile, che è quella dorsale anziché ventrale, che a sua volta può essere
anteriore oppure posteriore oppure intermedia.
Il parto può essere distocico anche quando è ritardato oppure il feto è troppo
grosso rispetto al canale del parto, come avviene spesso soprattutto nelle
primipare e nelle femmine inseminate da riproduttore che genera figli troppo
pesanti o sproporzionati, quali ad esempio i bovini da carne a coscia doppia.
La ripresa del ciclo riproduttivo.
Nel puerperio, che è la fase immediatamente successiva (18÷20 d) al parto, la
femmina che ha partorito non presenta di norma alcuna attività sessuale
(anestro puerperale): le ovaie non maturano follicoli, né di conseguenza
producono ovuli per almeno un ciclo sessuale nelle razze a poliestro continuo,
ovviamente anche per diversi mesi in quelle a poliestro stagionale; l’utero,
grazie all’azione costante della ossitocina ipofisaria, subisce un’evoluzione
profonda che prelude e prepara alla riacquisizione della sua funzione
fisiologica, ossia ad una nuova gravidanza; questo processo naturale però può
essere ritardato, a volte eccessivamente, nel caso di parti non regolari (distocia,
ritenzione placentare, prolasso uterino e/o vaginale, infezioni puerperali).
Il primo calore dopo il parto normalmente ricompare: fra 40÷45 d, ossia ad una
distanza pari alla durata di 2 cicli estrali, nelle vacche da latte che sono a
poliestro annuale continuo; fra 2,5÷3,5 m in quelle da carne che sono a poliestro
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stagionale; intorno ai 2 m nelle specie ovina e caprina che sono a poliestro
stagionale prolungato.
L’intervallo parto – primo calore è però in genere più lungo, talvolta
eccessivamente, nel caso soprattutto delle alte produttrici, per il maggior
dispendio energetico della lattazione, e nelle femmine allattanti, per la presenza
del redo soprattutto quando questo segue la madre per tutto il giorno.
La prima inseminazione è effettuata già al primo calore (40÷45 d) nelle vacche
da latte (un tempo era consigliata al secondo calore manifesto, ossia dopo 60÷65
d), entro 3 mesi in quelle da carne e soltanto nella successiva stagione
riproduttiva nelle due specie piccole.
La ritenzione placentare, il prolasso uterino e/o vaginale e le infezioni
puerperali debbono essere curate tempestivamente per evitare disturbi
temporanei, o peggio permanenti, alla funzione riproduttiva.
LA MISURAZIONE DELL’EFFICIENZA RIPRODUTTIVA
L’efficienza riproduttiva, che ovviamente è il presupposto fondamentale di una
buona riproducibilità, è misurata con diversi parametri, la cui importanza e
validità varia però con la specie, con l’indirizzo produttivo e con il tipo di
allevamento. I principali sono: la fertilità, la prolificità, la fecondità; la
sopravvivenza, la mortalità e la abortività; l’intervallo interparto ed il periodo
di servizio; la percentuale di femmine che presentano il calore entro un
determinato periodo dal parto, nonché la percentuale di attecchimento o di non
ritorno in calore delle femmine inseminate; l’età al primo concepimento oppure
al primo parto; l’età all’ultimo concepimento oppure all’ultimo parto; la durata
della carriera riproduttiva ed il numero di nati per carriera; la quota annuale di
rimonta e/o di eliminazione.
La fertilità è la percentuale delle femmine che partorisce — in una determinata
stagione (fertilità stagionale) oppure durante tutto l’anno (fertilità annuale) —
rispetto a quelle in età riproduttiva presenti nell’allevamento; essa è quindi
calcolata al netto delle inseminazioni rimaste infeconde, ossia non seguite da
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gravidanza e da parto, e degli aventuali aborti embrionali e/o fetali. La fertilità
assume grande importanza nelle specie e/o razze caratterizzate da poliestro
stagionale (bovini estensivi da carne specializzati oppure rustici e ovini e
caprini semiestensivi da latte) nelle quali l’accoppiamento, se non avviene nella
stagione propizia (in genere la primavera nelle prime e l’autunno nelle
seconde), subisce un ritardo di almeno sei mesi, talvolta di un anno, ossia sino
alla nuova stagione riproduttiva, con conseguente perdita dell’unico prodotto
ottenibile che è il redo.
La fertilità dipende, oltrechè dalla razza allevata, soprattutto dalle tecniche di
allevamento ed in particolare di alimentazione nella stagione dei calori, dal
rapporto riproduttivo fra i sessi, dalla preparazione del maschio inseminatore
nei 2 mesi precedenti l’accoppiamento e infine dal governo dei riproduttori
durante la stagione di monta. È calcolata come percentuale ed è considerata
ottima quando supera il 90%, buona fra l’80÷90%, scarsa al di sotto dell’80%.
Nei bovini, a causa della elevata durata della gestazione (285±15 d) e della
presenza di una sola stagione riproduttiva all’anno (in genere primaverile, più
raramente autunnale), la fertilità stagionale si identifica con quella annuale.
Negli ovini e nei caprini, grazie alla brevità della gestazione (150±7 d) ed alla
presenza di 2 stagioni riproduttive all’anno (autunnale e primaverile), invece
deve essere tenuta distinta la fertilità stagionale (in genere autunnale) da quella
annuale (autunnale + primaverile); le femmine, per qualsiasi motivo rimaste
vuote in primavera, ripresentano i calori in autunno e quindi partoriscono,
anziché in autunno quale è la norma, in primavera; pertanto, anche se la fertilità
autunnale non supera l’80÷85%, quella primaverile (pari al 90% delle femmine
rimaste vuote nell’autunno) compensa quasi del tutto le fallanze autunnali,
raggiungendo nel complesso il 95÷98%; ovviamente però è il valore autunnale
quello che ha maggiore rilevanza economica, grazie alla maggiore durata della
lattazione delle femmine che partoriscono in autunno.
Nelle razze bovine allevate in condizioni ambientali (climatiche, pedologiche e
alimentari) particolarmente difficili spesso la fertilità non supera il 65% e
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talvolta scende al 50% (in quest’ultimo caso le vacche partoriscono infatti ad
anni alterni).
La prolificità, che è il numero di nati per parto, assume rilevanza soltanto nelle
specie tendenzialmente multipare (bipare come la ovina oppure tripare come la
caprina) ma è un evento eccezionale, e neppure auspicato, nelle specie
normalmente unipare (bovina e bufalina) in cui raramente supera il 3÷4%; essa
dipende soprattutto dall’alimentazione praticata in prossimità (da almeno 2
mesi prima) della stagione dei calori, ossia all’inizio della ovogenesi, in cui,
anziché una ovulazione singola per ciclo, avviene una ovulazione duplice
(biparità) oppure triplice (triparità), evento abbastanza frequente,
rispettivamente, nelle specie ovina e caprina.
La fecondità, che è il numero di nati per femmina in età riproduttiva presente
nell’allevamento ed è data dal prodotto della fertilità per la prolificità.
La sopravvivenza è la percentuale di animali che, rispetto a quelli allevati in un
determinato anno, sopravvive ad una determinata età.
La mortalità, che è il complemento della vitalità, è invece la percentuale degli
animali morti rispetto a quelli allevati. La morbilità è la percentuale di animali
che contraggono malattie, le quali, potendo evolvere positivamente con la
completa guarigione, non comportano la loro eliminazione.
L’abortività è la percentuale di aborti accertati sui nati.
L’interparto è l’intervallo temporale che intercorre fra un parto e quello
immediatamente successivo e, sotto l’aspetto riproduttivo, è costituito da due
componenti: il periodo di servizio e la durata di gravidanza.
Il primo è il tempo che intercorre fra il parto e l’inizio della gravidanza
successiva, che in pratica è calcolata dall’inseminazione feconda; la seconda è
misurata dall’inseminazione feconda al relativo parto. Poiché la durata della
gravidanza è una caratteristica intrinseca della specie ed, in misura minore,
della razza e presenta una scarsa variabilità e comunque non modificabile (se
non con l’anticipazione del parto di qualche giorno) dall’allevatore, la
variabilità, talvolta eccessivamente elevata, che l’interparto può presentare è
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dovuta quasi esclusivamente al periodo di servizio; è infatti soltanto su questa
componente che l’allevatore può agire riducendola o tentando di ridurla al
minimo fisiologico. La femmina, dopo il parto, presenta un anestro (anestro
puerperale o da parto o da lattazione) che dura in genere pressappoco quanto la
lunghezza di un ciclo estrale normal e dopo il quale essa riprende di norma la
attività riproduttiva presentando il calore nel ciclo successivo (42±6 d nelle
specie grosse, 36±6 nelle piccole).
Nei bovini da latte si deve praticare la monta oppure l’inseminazione
strumentale alla comparsa di questo primo calore, onde poter contenere
l’interparto entro i 12 mesi, tenuto conto che non sempre la prima
inseminazione risultam feconda e che in alcuni soggetti sono necessarie anche 2
o più inseminazioni per ottenere la gravidanza. Nei bovini da carne
(specializzati oppure rustici), in cui l’inseminazione è di norma naturale, è il
toro, a suo tempo imbrancato nella mandria, che individua i calori delle
femmine già partorite e provvede alla loro tempestiva inseminazione,
garantendo in tal modo l’inizio della nuova gravidanza entro la stagione
riproduttiva.
Nelle specie ovina e caprina invece si evita accuratamente la monta o
l’inseminazione al primo calore, che normalmente si verifica in autunno dopo la
separazione del redo, ossia dopo 40÷60 d dal parto, e si rimanda alla successiva
stagione riproduttiva che cade nella primavera seguente, allo scopo di
concentrare in autunno la stagione dei parti per tutte le pluripare; qualora
invece si tenda ad ottenere tre parti ogni 2 anni (intensificazione dei cicli
riproduttivi, con un parto ogni 8 mesi), la monta oppure l’inseminazione
strumentale è praticata intorno ai 60÷90 d dal parto.
Il valore dell’interparto costituisce un’ottima stima dell’efficienza riproduttiva
dell’allevamento, ma soltanto a condizione che: la specie considerata sia a
poliestro annuale continuo (in pratica soltanto i bovini da latte e i bovini da
carne specializzati allevati in condizioni intensive); le femmine
dell’allevamento, pur nella loro variabilità individuale, presentino la
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ricomparsa del ciclo estrale e vengano fecondate entro una determinata
distanza dal parto.
L’età al 1° parto (oppure al 1° concepimento) è l’età a cui una femmina
partorisce (oppure inizia la gravidanza) per la prima volta: in genere si dà
maggiore importanza al primo parametro piuttosto che al secondo, in quanto
non sempre la gravidanza si conclude con il suo esito fisiologico che è il parto.
Sebbene l’età puberale, che è funzione della specie, della razza e della tecnica di
allevamento, in particolare alimentare, inizi abbastanza precocemente, la prima
inseminazione (naturale oppure strumentale) è praticata di norma soltanto
dopo che l’animale ha raggiunto il 60÷70% del suo peso corporeo adulto
(talvolta si valuta l’altezza o statura raggiunta dall’animale, in quanto di più
immediata rilevazione): 380÷420 kg nelle manze da latte; 450÷480 in quelle
specializzate da carne, 240÷300 in quelle rustiche; 300÷350 nelle manze bufaline;
27÷30 nelle agnelle e nelle caprette.
In pratica quindi, sia per la 1ª inseminazione che per il 1° parto, conta, più che
l’età, il peso corporeo che la femmina deve aver raggiunto per poter essere
inseminata per la prima volta: un ritardo consistente di questa età comporta, a
parità di durata di carriera e di longevità dell’animale, una minor durata della
carriera riproduttiva e quindi produttiva; un anticipo eccessivo per contro può
provocare un arresto dello sviluppo dell’animale, talvolta irreversibile per cui
questo rimane sempre sotto taglia, una maggiore difficoltà di parto ed una
minore produzione per carriera ed a volte una ridotta fertilità successiva ed una
minore longevità.
L’età all’ultimo parto (oppure all’ultimo concepimento), analogamente al
parametro precedente, è funzione della specie, della razza, della tecnica di
allevamento e soprattutto dell’indirizzo produttivo; essa è l’età a cui l’animale
partorisce (o inizia la gravidanza) per l’ultima volta, ossia prima della
macellazione o comunque della eliminazione dall’allevamento.
Essa oscilla mediamente fra anni: 6÷8 nei bovini da latte, 7÷9 in quelli
specializzati da carne, 10÷12 in quelli rustici e nella specie bufalina; 5÷7 negli
64
ovini e 6÷8 nei caprini. Spesso l’allevatore anticipa oppure posticipa la
eliminazione degli animali dall’allevamento per considerazioni economiche più
che zootecniche.
La durata della carriera riproduttiva è l’intervallo temporale fra l’inizio del
primo e la fine dell’ultimo concepimento (primo salto fecondo-ultimo parto) ed
è legata, oltrechè alla precocità ed alla longevità della specie e/o della razza,
alla intensività di sfruttamento dell’allevamento e quindi al suo indirizzo
produttivo; tale intervallo è ovviamente tanto maggiore quanto più
anticipatamente avviene il primo salto e più posticipatamente l’ultimo parto:
però il primo trova un limite fisiologico nello sviluppo dell’animale ed il
secondo nella sua longevità produttiva. Essa quindi varia con la specie, la razza
e l’attitudine produttiva.
Il numero di nati per carriera riproduttiva è il rapporto fra la durata della
carriera riproduttiva e l’intervallo interparto ed è quindi direttamente
proporzionale alla prima e inversamente al secondo. I suoi valori sono
mediamente fra: 3÷4 nei bovini da latte, 4÷5 nei bovini specializzati da carne,
6÷7 nei bovini rustici e nei bufalini, 4÷5 negli ovini e 5÷6 nei caprini. A questo
parametro è legata strettamente la quota di rimonta, che infatti ne costituisce
l’inverso.
La quota annuale di rimonta, è uno dei principali parametri di valutazione
dell’efficienza riproduttiva dell’allevamento; essa è la quantità di animali che
tutti gli anni l’allevatore deve necessariamente destinare all’allevamento per
sostituire quelli che via via vengono eliminati per una qualsiasi causa
(mortalità, invecchiamento, scarsa produttività, ipofecondità, scelta
imprenditoriale dell’allevatore). Tale quota dipende dalla longevità e precocità
delle specie e della razza, dalla scelta imprenditoriale dell’allevatore. La quota
di rimonta non può essere inferiore ad un certo limite (quota obbligatoria) per
non pregiudicare la sopravvivenza dell’allevamento, può essere ampiamente
superata (quota facoltativa) per diversa scelta imprenditoriale dell’allevatore.
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La quota annuale di eliminazione è la percentuale di animali che mediamente
ogni anno sono eliminati dall’allevamento perché giunti a fine carriera
produttiva o comunque ritenuti non più idonei a proseguirla: essa è sempre
mediamente inferiore a quella di rimonta in quanto al netto della mortalità
degli animali, e costituisce anch’essa un parametro molto efficace della
efficienza riproduttiva e produttiva dell’allevamento.
L’ESALTAZIONE DELL’EFFICIENZA RIPRODUTTIVA
Se l’efficienza riproduttiva è, per qualsiasi ragione, scarsa o comunque
economicamente insoddisfacente, occorre provvedere all’adozione di tecniche
che la innalzino o che almeno la regolarizzino. Queste sono rappresentate
principalmente da: la destagionalizzazione e la sincronizzazione degli estri; la
superovulazione, l’induzione di parti plurimi e il trasferimento embrionario;
l’induzione anticipata del parto; la predeterminazione del sesso; la
fecondazione degli ovuli e la coltivazione degli embrioni in vitro; la
congelazione e la duplicazione degli embrioni; la clonazione.
La destagionalizzazione degli estri o calori. È la tecnica di induzione dei calori
in una stagione dell’anno diversa da quella riproduttiva naturale (normalmente
la primavera nei bovini rustici e l’autunno negli ovini e nei caprini), allo scopo
di ottenere i parti in periodi ritenuti più opportuni e/o più convenienti
dall’allevatore. Essa interessa ovviamente soltanto le specie a poliestro
marcatamente stagionale e non quelle a poliestro annuale continuo. Il risultato
può essere conseguito per tre vie: alimentare, ormonale e tecnica.
La destagionalizzazione per via alimentare può essere ottenuta con il
miglioramento, tanto quantitativo quanto qualitativo, dell’alimentazione
durante tutto l’anno ed in particolare nei periodi di anestro naturale, che
coincide con l’autunno nella specie bovina rustica e con la primavera nelle
specie ovina e caprina. Grazie a ciò infatti, soprattutto come conseguenza del
miglioramento dei pascoli e della diffusione dei prati autunno-invernali: le due
specie piccole, che, essendo a fotoperiodo decrescente, originariamente
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presentavano la stagione riproduttiva in autunno e conseguentemente quella
puerperale ad inizio primavera, sono diventante entrambe a stagione
riproduttiva primaverile e puerperale autunnale.
Attualmente, per indurre i calori fuori stagione o anche per anticiparne di
qualche settimana la comparsa, è praticata la tecnica della sferzata alimentare
(flushing), che di fatto consiste nel sottoporre gli animali, di norma in lattazione
avanzata particolarmente nelle razze ovine da latte, ad un alternanza di
restrizione e di forzatura alimentare per provocare l’estro: la tecnica risponde
abbastanza bene nelle razze da carne, che, essendo già in fase di asciutta, non
subiscono alcun calo produttivo per la restrizione, ma non è applicabile, se non
soltanto parzialmente (ossia limitatamente alla sola fase di forzatura) nelle
razze da latte le quali, essendo ancora in fase di lattazione anche se abbastanza
avanzata per lo meno nelle pluripare, potrebbero subire, proprio a causa della
restrizione alimentare, un calo produttivo irreversibile.
La destagionalizzazione per via ormonale consiste nel trattamento degli animali
con prodotti sintetici di tipo progestinico o progestageno (l’impiego del
progesterone naturale ha costi troppo elevati) applicati alle femmine o per via
vaginale mediante spugnette di poliuretano oppure per via auricolare mediante
pasticche, entrambe contenenti opportune dosi di progestageno , la cui azione
residua è quella di provocare l’estro negli animali precedentemente trattati.
L’impiego delle prostaglandine non è invece assolutamente efficace su animali
anestrali, cioè fuori ciclo.
La destagionalizzazione per via tecnica consiste nello sfruttamento del cosi
detto “effetto maschio” (ariete oppure becco) sulle femmine. Perché però la
tecnica sia efficace, occorre immettere im riproduttori nel gregge femminile
dopo averli tenuti fisicamente separati e lontani per un certo periodo (almeno 1
mese), affinchè le femmine siano stimolate olfattivamente dalla loro presenza
nel gregge alla predisposizione al calore entro qualche settimana.
La sincronizzazione degli estri o calori. È la tecnica con la quale i calori o estri
vengono indotti, attraverso opportuni trattamenti ormonali, su tutte le femmine
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del gregge o della mandria contemporaneamente o per lo meno entro la stessa
giornata: affinchè essa sia efficace occorre però che il gregge oppure la mandria
sia già in ciclo, abbia cioè superata la fase di anestro.
La superovulazione. È praticata con un trattamento ormonale a base di ormoni
follicolostimolanti FSH che hanno appunto la funzione di indurre, anziché
un’ovulazione singola quale normalmente si verifica nelle specie unipare,
un’ovulazione multipla per la contemporanea attivazione di entrambe le ovaie
o per la pluriovulazione di un follicolo di una singola ovaia. La finalità della
tecnica può essere duplice: indurre una gravidanza e quindi un parto plurimo
(preferibilmente bigemino o al massimo trigemino) nell’animale sottoposto a
trattamento ormonale, come nel caso delle piccole specie; oppure indurre una
multiovulazione (10÷12 ovuli che maturano contemporaneamente) utilizzabili
successivamente, dopo la loro fecondazione, per il trapianto degli embrioni su
altre femmine accettrici sincronizzate, come nella specie bovina.
Il trapianto degli embrioni o trasferimento embrionario.
È praticato, al momento, soltanto nella specie bovina per il suo elevato costo
(300 € per embrione trapiantato) e consiste nel prelievo di un rilevante numero
di embrioni (8÷12) da una femmina (donatrice), che sia stata precedentemente
sottoposta a trattamento superovulatorio e ad inseminazione strumentale, e nel
loro trasferimento nell’apparato genitale di altrettante femmine riceventi
(accettrici), precedentemente sottoposte a sincronizzazione estrale con la
femmina donatrice. Questa tecnica consente di ottenere dalla stessa vacca anche
10÷15 vitelli all’anno e quindi la possibilità di operare una intensa selezione
anche per via femminile, essendo praticata sempre su femmine donatrici di
livello produttivo eccezionale (> 100 q di latte per lattazione), ovviamente
fecondate con il seme di un unico toro anch’esso di altissimo valore genetico
La predeterminazione del sesso.
È la tecnica che consente di stabilire, anche con buona precisione, il sesso
(sessaggio) che deriverà dall’impiego di un determinato spermatozoo
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(sessaggio spermatico) oppure che si è già realizzato in un determinato
embrione (sessaggio embrionale).
Il primo è ottenibile con la separazione fisica degli spermatozoi di un eiaculato
nelle due categorie che li compongono (portatori dell’eterocromosoma Y, da cui
deriveranno soltanto maschi; portatori dell’eterocromosoma X, da cui
deriveranno soltanto femmine), grazie al loro differente contenuto in DNA (3%
in più nei primi rispetto ai secondi), rilevabile con tecnica citofluorimetrica che
ha una precisione del 80÷95%.
Il secondo è anch’esso basato sul differente contenuto in DNA dei due tipi di
embrioni ed è rilevabile attraverso biopsia che ha una precisione ancora
superiore (97%).
Il sessaggio, nonostante i grandi vantaggi pratici che comporta — nascita di soli
maschi con gli animali destinati all’ingrassamento per la produzione carnea e di
sole femmine con quelli destinati alla mungitura per la produzione lattea, e
conseguente possibilità di aumentare, in entrambi i casi, il differenziale selettivo
grazie alla riduzione della quota destinata a produrre la rimonta — non ha
ancora trovato larga applicazione aziendale sia per l’alto costo, sia per la minor
vitalità dei nemaspermi e/o degli embrioni sottoposti al trattamento di
sessaggio.
NUTRIZIONE E ALIMENTAZIONE, GESTIONE DELLE RISORSE
FORAGGERE
Concetti fondamentali riguardanti la nutrizione degli animali di allevamento,
recenti risvolti applicativi
Il razionamento alimentare consiste essenzialmente nel calcolare — in
successione e per le diverse categorie di animali nelle loro differenti fasi e livelli
produttivi e nei vari periodi dell'anno — i seguenti 4 parametri:
· le esigenze nutritive degli animali;
· l'ingestione alimentare degli animali;
69
· la concentrazione nutritiva della razione;
· la formula della razione alimentare, sulla base del valore nutritivo degli
alimenti disponibili
Sistemi di alimentazione in riferimento alle diverse categorie animali e tipologie
aziendali
Le esigenze nutritive dei ruminanti variano, per ciascuna specie animale e per le
diverse categorie ed attitudini produttive, in funzione dei seguenti 7 fattori:
1. peso corporeo o, più precisamente, peso metabolico;
2. ritmo di accrescimento, limitatamente ai giovani in accrescimento;
3. ritmo di variazione ponderale (ingrassamento o dimagrimento), soprattutto
negli adulti;
4. livello produttivo, inteso nel duplice aspetto della quantità e della qualità
della produzione, limitatamente alle femmine in lattazione;
5. stadio riproduttivo, limitatamente alle femmine in gestazione avanzata
(ultimo terzo della gravidanza) ed ai maschi in attività riproduttiva (periodo di
monta);
6. attività motoria, limitatamente agli animali al pascolo e/o in stabulazione
libera;
7. dispendio energetico per termoregolazione, limitatamente ai climi torridi
oppure gelidi.
Tali esigenze possono essere classificate sotto 2 differenti aspetti: nutrizionale e
funzionale.
Sotto l'aspetto nutrizionale le esigenze sono le seguenti 8: 1. energetiche; 2.
proteiche, o più in generale azotate; 3. minerali; 4. vitaminiche; 5. idriche; 6. in
carboidrati strutturali (fibrose); 7. in carboidrati non strutturali; 8. lipidiche;
Sotto l'aspetto funzionale le esigenze sono le seguenti 6: 1. di mantenimento,
comprensive anche di quelle del normale movimento o deambulazione; 2. di
percorrenza, limitatamente agli animali in stabulazione libera e/o pascolanti; 3.
di variazione ponderale (ingrassamento o dimagrimento), comprensive —
70
limitatamente ai giovani però — anche di quelle di accrescimento; 4. di
produzione, intesa sia come quantità che come qualità, la quale è identificata di
fatto con il contenuto lipidico del latte; 5. di riproduzione (di gestazione per le
femmine e di monta per i maschi); 6. di termoregolazione.
Le esigenze energetiche possono essere espresse come:
· Unità foraggere tradizionali UF per tutte le specie, le attitudini e le categorie,
secondo lo standard italiano che, essendo però tecnicamente superato, è da
abbandonare;
· Unità foraggere differenziate per attitudine oppure per destinazione
produttiva degli animali (Unità foraggere latte UFL per animali da latte e simili
oppure Unità foraggere carne UFC per animali da carne e simili), secondo lo
standard francese, ormai in uso anche in Italia;
· Kg di Sostanza nutritiva digeribile SND o TDN (ormai poco usato anche in
USA);
· Mcal oppure MJ (1 MJ = 0,24 Mcal; 1 Mcal = 4,18 MJ) di Energia digeribile DE,
oppure di Energia metabolizzabile ME, oppure di Energia netta NE, oppure di
Energia netta differenziata secondo la funzione produttiva e le categorie
animali (di mantenimento NEM per animali in mantenimento; di accrescimento
e/o ingrasso NEG, per animali in accrescimento e/o ingrasso; di lattazione
NEL, per femmine in lattazione, in asciutta e/o in gravidanza), secondo lo
standard americano.
Le esigenze proteiche possono essere espresse come kg oppure g di:
· Proteina grezza CP (calcolata come N totale x 6,25);
· Proteina digeribile DP (calcolata come N digeribile x 6,25);
· Proteina digeribile intestinale PDI;
· Proteina degradabile nel rumine DIP e proteina non degradabile nel rumine
UIP (calcolate entrambe in equivalenti di proteina assorbibile AP);
· Proteina assorbibile AP, limitatamente alle femmine in lattazione.
Le esigenze minerali sono espresse come: g per i 7 macroelementi (Ca, Mg, K,
Na; P, S, Cl) e mg per i 9 microelementi (Mn, Fe, Cu, Co, Zn, Se, Mo; I, F).
71
Le esigenze vitaminiche (o provitaminiche) sono espresse in Unità
internazionali UI per le Vitamine A* e D** ed in mg per tutte le altre vitamine
(E, K; B1, B2, B3, B6, B12 etc) e per i caroteni (a, b, g).
Le esigenze idriche variano in funzione principalmente della composizione
della razione (suo contenuto in s.s.), del clima (soprattutto temperatura e
umidità relativa), della specie animale e della fase produttiva; sono espresse in l
di acqua, ma il loro calcolo è in genere trascurato grazie alla disponibilità
aziendale di acqua di abbeveraggio normalmente superiore alle esigenze.
Le esigenze fibrose, non essendo esigenze quantitative vere e proprie ma
soltanto livelli di minimo della razione complessiva e quindi concentrazioni
fibrose, possono essere espresse come % di:
· Fibra grezza CF, fibra resistente alla degradazione sia acida che basica,
comprendente: teoricamente, tutti i carboidrati strutturali (principalmente
lignina, cutina, cellulosa, emicellulosa e pectina); praticamente, soprattutto
cellulosa;
· Fibra neutro-detersa NDF, fibra resistente alla degradazione neutra,
comprendente i costituenti fibrosi delle pareti cellulari (principalmente lignina,
cutina, cellulosa, emicellulosa ed eventuali minerali insolubili);
· Fibra acido-detersa ADF, fibra resistente alla degradazione acida,
comprendente principalmente lignina, cutina, cellulosa ed eventuali residui
insolubili di minerali, di pectine e di tannini;
· Lignina acido-detersa ADL, lignina resistente alla degradazione acida
comprendente principalmente lignina e cutina: la conoscenza di questo
parametro è utile però, più che ai fini del razionamento, per la determinazione
del valore energetico degli alimenti.
Per differenza fra NDF e ADF, si ottiene l'emicellulosa; fra ADF e ADL, la
cellulosa.
Le esigenze in carboidrati non strutturali NSC (zuccheri semplici ed
amido),possono essere espresse in % di:
· Amidi;
72
· Amidi + zuccheri semplici;
· NSC (Amidi + zuccheri semplici + pectine).
Le esigenze lipidiche, non essendo in alcun caso esigenze quantitative ma
soltanto livelli di massimo della razione complessiva, sono espresse in % di
lipidi della razione complessiva (oppure dei soli concentrati).
L'INGESTIONE ALIMENTARE
L'ingestione alimentare dei ruminanti — che è la quantità massima di sostanza
secca s.s. giornalmente mediamente ingeribile da un determinato animale varia
principalmente in funzione dei 4 fattori seguenti:
· animale (specie allevata, peso corporeo, stadio fisiologico, stato nutrizionale,
condizione sanitaria, tipo di produzione, livello produttivo, qualità della
produzione);
· alimentare (tipo, qualità e composizione della razione);
· gestionale (modalità di presentazione e di somministrazione della razione;
tipo di conduzione e di stabulazione dell'allevamento);
· climatico (temperatura, umidità, ventilazione).
Essa è sempre espressa in kg di sostanza secca per capo e per giorno
Il livello di ingestione LI, espresso in kg di s.s. ingeribile per q di peso corporeo
(ossia in % del peso) dell'animale, varia principalmente in funzione dei 3 fattori
seguenti:
· peso corporeo P, essendo correlato con il peso metabolico;
· livello produttivo L, negli animali in lattazione;
· ritmo di accrescimento A, negli animali giovani.
Elementi di conoscenza basilari per la formulazione di razioni alimentari
La concentrazione nutritiva di una razione — solitamente composta da più
alimenti, quali foraggi (erbe, insilati, fieni), sottoprodotti, concentrati ed
integrativi ed è denominata, concentrazione energetica, proteica, fibrosa, in
73
NSC, minerale, vitaminica e lipidica. Essa viene espressa con le stesse unità di
misura delle esigenze nutritive degli animali.
La concentrazione energetica può quindi essere espressa in:
· Unità foraggere tradizionali (UF/kg di s.s.), per tutte le specie, le attitudini e le
categorie;
· Unità foraggere differenziate per attitudine o destinazione produttiva degli
animali, ossia Unità foraggere latte (UFL/kg di s.s.) per gli animali da latte e
simili e Unità foraggere carne (UFC/kg di s.s.) per gli animali da carne e simili;
· Mcal oppure MJ di Energia (E/kg di s.s.) (digeribile DE, metabolizzabile ME,
netta NE, a sua volta differenziata per tipo di produzione: di mantenimento
NEM, di lattazione NEL, di accrescimento e/o ingrasso NEG), sopratutto per i
bovini da latte;
· kg di sostanza nutritiva digeribile (SND/kg di s.s.).
IL CALCOLO DELLA RAZIONE ALIMENTARE
Una volta determinate sia le esigenze nutritive degli animali — energetiche,
proteiche, fibrose, in NSC, minerali e vitaminiche, la concentrazione nutritiva
che la razione deve avere deriva dal rapporto fra le prime (esigenze) e la
seconda (ingestione).
Nel caso in cui la razione base, costituita normalmente da foraggi aziendali
(erbe pascolate o sfalciate e/o insilati e/o fieni e/o sottoprodotti fibrosi), abbia
una concentrazione nutritiva complessiva uguale a quella calcolata (rapporto
fra esegenze nutritive degli animali e loro ingestione alimentare), il problema è
risolto; cio però, nella pratica razionistica, si verifica molto raramente.
Nel caso in cui la concentrazione nutritiva della razione base sia addirittura
superiore a quella necessaria — anch'esso poco frequente nella pratica
razionistica, se non con animali in fase improduttiva e/o di livello produttivo
molto basso ed in presenza di alimenti di base ad elevato valore nutritivo — si
può avere, oltrechè uno spreco delle risorse alimentari, sia un ingrassamento,
talvolta indesiderabile, se l'eccedenza è esclusivamente energetica, sia persino
74
disturbi alimentari se l'eccedenza è anche proteica e/o minerale (chetosi,
tossicosi proteica, collasso puerperale, tetania da
erba etc).
Nel caso in cui la concentrazione nutritiva della razione base sia invece inferiore
a quella necessaria che è quello più frequente nella pratica razionistica —
occorre provvedere alla somministrazione aggiuntiva (integrazione) di alimenti
con valore nutritivo (energetico e/o proteico e/o minerale e/o vitaminico, a
seconda del tipo di carenza) più elevato di quello degli alimenti base, onde
colmare il relativo sbilancio. In questo caso bisogna distinguere il tipo di
carenza: se è energetica, essa va colmata stabilendo un corretto rapporto
concentrati/foraggi nella razione; se è proteica (e/o minerale e/o vitaminica),
innalzando opportunamente l'entità dell'integrazione proteica (e/o minerale
e/o vitaminica) sui concentrati, oppure, nel caso della tecnica Unifeed,
direttamente sulla razione complessiva; se è fibrosa, innalzando il contenuto
fibroso, tramite la somministrazione di foraggi più grossolani (paglie,
possibilmente trattate per migliorarne la digeribilità) e/o di concentrati fibrosi
(polpe di bietole, semi di cotone, etc).
L'integrazione proteica della razione deve essere praticata innalzando
opportunamente la concentrazione proteica dei concentrati (oppure
direttamente quella della razione complessiva nel caso dell'Unifeed) con la
parziale sostituzione di quelli energetici ( tipo mais, orzo, avena etc) con quelli
proteici (tipo farina di estrazione di semi oleaginosi, quali soia, arachide, colza
etc)
Carenza fibrosa. E' molto frequente sopratutto nelle razioni per animali in
lattazione ed è tanto più elevata quanto maggiore è il loro livello produttivo, a
causa della grande difficoltà di conciliare l'alto contenuto fibroso con l'alta
concentrazione energetica della razione stessa. L'integrazione fibrosa deve
essere praticata utilizzando foraggi fibrosi ma non scadenti (tipo fieni ottimi
e/o paglie trattate) oppure, a parziale sostituzione di questi, concentrati fibrosi
(tipo polpe di bietola e/o semi di cotone); qualora tale integrazione comporti
75
una eccessiva riduzione della concentrazione energetica, si può ricorrere alla
grassatura dei concentrati
IL RAZIONAMENTO ALIMENTARE DEI BOVINI DA LATTE
Il razionamento alimentare dei bovini da latte in allevamento presenta notevoli
difficoltà anche tecnico-applicative, a causa:
· per un verso, dell'elevato livello produttivo raggiunto da questi animali, il
quale comporta la necessità della somministrazione di razioni che globalmente
possiedano: sia un'alta concentrazione nutritiva, in particolare energetica e
proteica, allo scopo di sopperire alle elevate esigenze nutritive indispensabili
per sostenere elevate produzioni; sia un alto contenuto fibroso, allo scopo di
equilibrare la funzionalità digestiva, in particolare ruminale, per evitare
disturbi digestivi e/o metabolici, la cui ripercussione sanitaria e/o produttiva è
immediata;
· per l'altro verso, della opportunità tecnica e della convenienza economica di
utilizzare il più possibile alimenti aziendali, nutrizionalmente non sempre
ottimi ma in genere di costo inferiore rispetto a quelli extraziendali.
Esempio di razioni per vacche in lattazione nelle diverse fasi produttive e in
gravidanza Animale: Vacca secondipara del peso corporeo di q 7; percorrente
km/d 2,0; producente kg/d 45 nel 1° m, 60 nel 2°÷3° m, 48 nel 4°÷5° m, 36 nel
6°÷7° m, 24 nel 8°÷9° m, 12 nel 10° m di latte con contenuto lipidico del 3,5% ;
con variazioni ponderali negative (per dimagrimento) di kg/d 0,770 (g 110 per
q di peso corporeo) nei primi tre mesi di lattazione e positive per recupero di
kg/d 0,385 (g 55 per q di P) dal 5° al 10° mese; in gravidanza inoltrata (8°÷9°
mese) nel 11°÷12° mese.
Alimenti: Ottimo fieno di medica ed ottimo silomais ceroso, nel rapporto di
40:60% sulla ss per esigenze aziendali; farina di orzo e farina di estrazione di
soia 50, orientativamente nel rapporto di 80:20, integrati da sali minerali
orientativamente in quantità del 2% e contenenti il Ca ed il P al titolo del 22% e
del 19% rispettivamente (CaHPO4 )
76
LA SOMMINISTRAZIONE ALIMENTARE
La somministrazione degli alimenti consta sempre delle 3 fasi seguenti: la
scelta, la preparazione e la distribuzione.
La classificazione, ormai universalmente accettata, dei principali alimenti
comunemente impiegati nell'alimentazione animale, e dei ruminanti, li
suddivide nei 4 gruppi seguenti: foraggi, concentrati, sottoprodotti e
integratori.
I foraggi, grazie al contenuto fibroso ed in particolare cellulosico generalmente
abbastanza elevato, costituiscono sempre gli alimenti di base dei ruminanti; essi
sono a loro volta distinti: in graminacee, leguminose e altre famiglie; rispetto
alla forma di conservazione, in freschi, secchi e semi freschi o semi-secchi.
Le graminacee vengono raggruppate: rispetto all’epoca di semina, in essenze a
semina autunnale (quali orzo, avena, frumento, triticale e segale) oppure
primaverile (quali mais, sorgo e miglio), entrambe utilizzate interamente come
tali oppure destinate alla produzione di granella.
Le leguminose vengono raggruppate in essenze: poliennali (quali medica sativa,
trifoglio pratense,trifoglio ladino, sulla e lupinella) oppure annuali (quali
medica annuale, trifoglio incarnato, trifoglio alessandrino e trifoglio squarroso).
Le altre famiglie, la cui importanza foraggera è di molto inferiore alle due
precedenti, sono prevalentemente crucifere (cavolo, colza, ravizzone) e
composite (girasole).
I foraggi freschi o erbe sono caratterizzati da: contenuto idrico sempre elevato
(80÷85%) e conseguentemente contenuto in s.s. sempre basso (15÷20%), che li
rende molto appetibili e molto digeribili, ma nel contempo anche facilmente
fermentescibili e quindi non conservabili come tali; contenuto fibroso elevato in
cellulosa (22÷25%) e basso in lignina (3÷5%) che li rende molto degradabili e
quindi altamente digeribili; concentrazione proteica variabile con la specie
botanica (5÷10% nelle graminacee e 12÷15% nelle leguminose, sempre sulla s.s.).
Essi possono provenire da colture: stagionali o intercalari (erbai autunno-
77
invernali oppure primaverili-estivi), annuali (erbai o prati annuali) e poliennali
(prati se falciabili, prati-pascoli se in parte falciabili ed in parte pascolabili,
pascoli se esclusivamente pascolabili) e possono essere utilizzati direttamente
come tali oppure possono essere falciati e conservati in vario modo (con la
fienagione, attuata in 1 oppure in 2 tempi, per la produzione di fieno; con
l’insilamento, per la produzione di insilati, le cui caratteristiche sono variabili a
seconda del tipo di insilato).
I foraggi secchi o fieni sono caratterizzati da: contenuto idrico sempre molto
basso (mai > al 15%, possibilmente fra 12÷13%) e conseguentemente elevato in
ss (mai < all’85%), che li rende abbastanza appetibili e quindi ingeribili, purchè
di buona qualità, e lungamente conservabili; contenuo fibroso sempre elevato
(spesso a favore della lignina ed a danno della cellulosa) che stimola l’attività
ruminale; concentrazione proteica variabile con la specie botanica (5÷10 nelle
graminacee e 15÷20% nelle leguminose). Essi provengono di norma da colture
annuali o poliennali (prati e prati pascoli) ma anche intercalari (erbai autunno-
invernali) e, ovviamente, da essenze falciabili ed affienabili (graminacee e
leguminose foraggere a culmo o stelo sottile).
I foraggi semi-freschi(erba-silo) e semi-secchi (fieno-silo) o insilati sono
caratterizzati da:contenuto idrico variabile (60÷65% nell'erba-silo tipo silomais,
40÷50% nel fieno-silo tipo insilato di medica o di loglio) che li rende abbastanza
appetibili e quindi ingeribili ; concentrazione proteica variabile con la specie
botanica ed il tipo di insilato (6÷8% nell'erba-silo di mais e 13÷15% nel fieno-silo
di medica).
Essi provengono da colture intercalari (quali tutti i cereali autunno-vernini
oppure primaverili estivi),
annuali (logli, festuche e bromi) e poliennali (medica, logli, mazzolina, fienarola
etc.), con preferenza
per l'erba-silo con i cereali e per il fieno-silo con le leguminose.
I concentrati, che possono essere semplici se costituiti da 1 sola essenza (quali
cariossidi di graminacee e semi di leguminose) oppure composti se costituiti da
78
più essenze (quali le miscele di concentrati e/o di sottoprodotti industriali),
sono caratterizzati da: contenuto in s.s. sempre molto elevato (87÷89%) che li
rende molto conservabili, molto appetibili ed eccessivamente ingeribili e quindi
pericolosi se somministrati a volontà concentrazione energetica sempre molto;
concentrazione proteica variabile (8÷12% nei semi di cereali; 25÷30% nei semi di
leguminose; 40÷50% nelle farine di estrazione di semi oleaginosi); contenuto
fibroso in genere basso (2÷3%) nei concentrati energetici e proteici quali i semi
di graminacee e di leguminose, elevato (20÷25%) nei concentrati fibrosi di
alcuni sottoprodotti quali le polpe di bietole.
I sottoprodotti agro-industriali, essendo residui delle colture agricole e/o della
trasformazione industriale dei suoi prodotti, presentano caratteristiche molto
variabili, legate soprattutto sia al prodotto di origine che al tipo di lavorazione
subita, e possono essere assimilati: alcuni, a foraggi scadenti perchè molto
fibrosi, quali i residui vegetali delle colture cerealicole (stoppie di pascolo,
paglie di cereali, stocchi di mais) e dell'industria risicola (pula, lolla e
farinaccio); altri, invece, a concentrati veri e propri, quali i sottoprodotti
dell'industria molitoria ( crusca, cruschello, tritello e farinetta), olearia (panelli
oppure farine di estrazione di semi proteaginosi ed oleaginosi, quali le farine di
estrazione di soia, di arachide, di girasole, di cotone, di colza, di ravizzone, di
sesamo, di cocco), saccarifera (melasso, polpe di bietola, pastazzo di agrumi,
trebbie di birra e marcomele) e casearia (latte magro, siero di latte e scotta).
Gli integratori, che vengono miscelati in genere con i concentrati per equilibrare
la razione complessiva, sono distinti in: proteici, quali urea solida o
liquida,idrolizzati proteici, aminoacidi; minerali (carbonato e fosfati di calcio,
fosforiti, farine d'ossa, cloruro di sodio, oligominerali); vitaminici (premiscele
vitaminiche a base di vitamina A, D, E, etc.); auxinici, quali antibiotici,
probiotici, enzimi, ormoni, batteriostatici; additivi, quali antiossidanti,
aromatizzanti, pigmentanti, conservanti e leganti.
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AMBIENTE E TIPOLOGIE DI ALLEVAMENTO
Criteri strutturali utili a garantire funzionalità produttiva, efficienza del lavoro
e benessere delle diverse categorie animali.
La scelta degli alimenti da somministrare ai ruminanti nei diversi periodi
dell'anno è funzione dei seguenti 3 fattori:
• categoria animale di destinazione: giovani (in allattamento, in svezzamento,
in ingrassamento) oppure adulti (in asciutta, in lattazione oppure in
gravidanza, per le femmine; in riposo oppure in attività riproduttiva, per i
maschi);
• continuità di disponibilità: provenienza aziendale (continua come nelle
aziende irrigue oppure discontinua come nelle aziende asciutte) oppure
possibilità di reperimento extraziendale con approvvigionamento continuo;
• costo (di produzione) oppure prezzo (di acquisto) dell'unità nutritiva (in
ordine di importanza: energetica, proteica, minerale e vitaminica)
dell'alimento.
LA PREPARAZIONE DEGLI ALIMENTI
La preparazione aziendale degli alimenti varia principalmente: con il tipo di
alimento (erba, fieno, insilato, concentrato, sottoprodotto, integratore) e con la
tecnica di somministrazione (al pascolo oppure in stalla; in mangiatoia oppure
in sala di mungitura; in associazione con altri alimenti oppure singolarmente,
collettivamente oppure individualmente; a volontà oppure razionatamente).
Le principali operazioni precedenti la somministrazione, quali la fienagione e
l’insilamento — sono le seguenti.
La falciatura, indispensabile per la raccolta di qualsiasi alimento foraggero che
non venga utilizzato esclusivamente con il pascolamento, è operazione
preliminare sia per la conservazione (fienagione e insilamento) che per la
somministrazione diretta dell’erba in ricovero. Essa deve essere eseguita: nel
momento più opportuno (il contenuto ottimale di ss deve essere compreso fra
80
12÷18%); con taglio ad altezza giusta (cm 3÷5), per limitare la presenza di terra
nella massa falciata; possibilmente con erba asciutta, per evitare fermentazioni
incontrollabili e immediate nella massa dell'erba.
La trinciatura, consistente nella riduzione degli steli o dei culmi alle dimensioni
comprese fra cm 2÷3 e 4÷5, è indispensabile, oltrechè per innalzare l’ingeribilità
dell’alimento, anche per facilitare la sua distribuzione in mangiatoia soprattutto
se questa è praticata, come nel caso dell’Unifeed, con carri miscelatori e
distributori.
La sfibratura, consistente nella lacerazione longitudinale degli steli per ridurre
la robustezza e la resistenza delle fibre lignocellulosiche, favorisce la ingeribilità
e la digeribilità dell’alimento.
La alcalinizzazione, che è il trattamento con alcali (NH4OH e NaOH) riservato
esclusivamente ai sottoprodotti fibrosi (quali paglie di cereali e stocchi di mais)
allo scopo di aumentarne la digeribilità grazie alla sua azione
lignocellulosolitica, è operazione poco diffusa a causa della difficoltà pratica sia
del corretto dosaggio degli ingredienti che della distribuzione della massa
trattata.
La macinazione o molitura, operazione riservata esclusivamente ai concentrati
(semi di graminacee e di leguminose) allo scopo di ridurre la dimensione dei
semi ed offrire, a parità di peso, una superiore e più facile superficie di attacco
da parte dei succhi digestivi, deve essere sempre molto grossolana (Ø di 2÷3
mm), in quanto una sfarinatura eccessiva può creare difficoltà ingestive (minore
appetibilità per polverulenza e ridotta prensibilità) e digestive (impasto del bolo
alimentare già a livello ruminale).
La pellettatura (o più esattamente, cubettatura oppure cilindratura) è praticata
allo scopo sia di rendere più prensibile e quindi più ingeribile il concentrato, sia
di facilitarne la somministrazione ed il trasporto anche in sala di mungitura: la
dimensione dei cilindretti varia in funzione della specie animale (cm 0,8÷1 di Ø
e 2÷3 di L per bovini e bufalini; cm 0,4÷0,6 di Ø e 1,0÷1,2 di L per ovini e
81
caprini); la loro consistenza deve essere sempre adeguata onde evitare sia lo
sbriciolamento che la durezza eccessiva.
La grassatura (aggiunta di grassi) e la vaporizzazione (trattamento termico
rapido con vapore), seguita dalla rullatura o schiacciatura oppure dalla
fioccatura, essendo operazioni generalmente exstraziendali.
La miscelazione, operazione praticata ormai diffusamente tanto sui foraggi
quanto sui concentrati allo scopo di amalgamare i differenti alimenti della
razione, è sempre utile, ma è indispensabile nella tecnica dell’Unifeed o piatto
unico, in cui i diversi alimenti (foraggi, concentrati, sottoprodotti ed integratori)
sono somministrati, opportunamente miscelati, contemporaneamente a tutti gli
animali quale razione base per soddisfare tutte le loro esigenze di
mantenimento e quelle di produzione comuni a tutti gli animali della mandria o
del gregge o comunque del gruppo.
LA DISTRIBUZIONE DEGLI ALIMENTI
La distribuzione alimentare — ad eccezione del pascolamento in cui gli animali
assumono l’erba direttamente in campo e quindi scelgono, entro determinati
limiti, le essenze botaniche e le parti anatomiche più appetibili, regolando
autonomamente anche la ingestione (kg/d di s.s. 2÷3 nei bovini in 3÷4 ore di
pascolamento; kg 1÷1,2 negli ovini in 6÷8 ore di pascolamento) è praticata di
norma nel ricovero (stalla, ovile o caprile) ed in particolare: in mangiatoia per
tutti gli alimenti, ma soprattutto per i foraggi (erbe e insilati) e per i
sottoprodotti; in rastrelliera, esclusivamente per il fieno; in sala di mungitura
oppure con gli autoalimentatori, per i concentrati.
La distribuzione dell’erba e/o dell’insilato è effettuata — congiuntamente
oppure separatamente, in uno in oppure due pasti giornalieri —
preferibilmente in successione ad un primo pasto mattutino a base di alimenti
fibrosi (fieno, sottoprodotti fibrosi, pellettati molto fibrosi) allo scopo di evitare
fermentazioni ruminali eccessivamente rapide in carenza di fibra e
possibilmente distanziate di qualche ora dalla mungitura successiva allo scopo
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di evitare la trasmissione al latte di eventuali sapori e soprattutto di odori
sgradevoli dell’alimento (particolarmente dell’insilato): fra le ore 10÷12 nel caso
di una sola somministrazione; fra le ore 8÷10 e 16÷18 nel caso di due.
La distribuzione del fieno è praticata in mangiatoia oppure in rastrelliera: nel
primo caso, il fieno è distribuito, singolarmente e intero, al mattino per
garantire una sufficiente quantità di fibra anche per i pasti successivi (2÷3
kg/capo per le specie grosse; 0,5÷0,6 per quelle piccole) oppure, trinciato a 3÷5
cm di lunghezza per garantire la omogeneità di miscelazione, mescolato con
altri alimenti della razione in tutti i pasti della giornata; nel secondo caso è
messo a libera disposizione degli animali in rastrelliere, circolari oppure
rettangolari, sistemate nell’aria di esercizio (è opportuno che le sbarre della
rastrelliera non siano verticali ma inclinate di 30° per ridurre le perdite di fieno
provocate dagli animali nel movimento di pressione dell’alimento); negli
allevamenti completamente bradi (allevamento bovino rustico, allevamento
caprino rustico e allevamento ovino estensivo) il fieno è spesso distribuito sul
terreno in appezzamenti attigui al vaccile o all’ovile o al caprile.
La distribuzione dei sottoprodotti è praticata sempre in mangiatoia, in
associazione con altri alimenti oppure isolatamente, a seconda della tecnica di
preparazione e di distribuzione.
La distribuzione dei concentrati è praticata in mangiatoia, in sala di mungitura
oppure ancora per mezzo di autoalimentatori. Nel primo caso i concentrati, in
genere pellettati, sono di solito miscelati con gli altri alimenti a completamento
della razione base (che copre le esigenze di mantenimento e di produzione
lattea sino ai kg/d 10÷12 nei bovini, sino a l/d 1÷1,2 negli ovini e sino a l/d
1,5÷2 nei caprini, negli animali in lattazione; di mantenimento e di
accrescimento, negli animali in ingrassamento).
Nel secondo caso tutta o parte dell’integrazione alimentare alla razione di base
(oppure di mantenimento) è somministrata, agli animali in lattazione, in sala di
mungitura — ovviamente durante la mungitura, ossia almeno due: la quantità
83
massima somministrabile è quindi di 8÷10 kg/d nei bovini e 0,4÷0,8 kg/d negli
ovini e nei caprini.
Nel terzo caso, limitato però di fatto alle specie di grossa mole, i concentrati
sono distribuiti con autoalimentatori, che sono dei sili per concentrati situati
nella zona di esercizio del ricovero in grado di erogare quantità fisse (oppure
variabili) di alimento in funzione delle esigenze collettive (o individuali) degli
animali: quelli per i quali è prevista la distribuzione, ossia gli animali per i quali
è insufficiente la quantità già somministrata in mangiatoia e/o in sala di
mungitura, sono dotati di una medaglia elettronica di riconoscimento la quale,
con la sua presenza presso l’autoalimentatore, determina l’erogazione di
quantità fisse ed eguali per tutti i capi che ne sono dotati oppure variabili da
animale ad animale e specifica per ciascun animale in base al suo livello
produttivo. Gli autoalimentatori possono essere a controllo meccanico oppure
elettronico: i primi sono in grado di erogare, ovviamente soltanto agli animali
dotati di medaglia di riconoscimento, quantità prestabilite di mangime in orari
prestabiliti, ma in maniera indifferenziata per tutti gli animali; i secondi, allo
scopo di poter praticare il razionamento individuale, erogano quantità
giornaliere prestabilite in dosi orarie prestabilite individualmente a ciascun
singolo animale cui spetta la razione, con possibilità di recupero almeno
parziale della dose eventualmente non consumata interamente nel giorno
precedente e di erogazione di dose superiore, entro determinati limiti, alle
esigenze della giornata.
LA SOMMINISTRAZIONE AI BOVINI DA LATTE
La somministrazione degli alimenti ai bovini da latte è in gran parte imperniata
sull’impiego contemporaneo di foraggi — in genere di provenienza aziendale
per contenerne i costi, ma non sempre di alto valore nutritivo — che sono
consumati allo stato fresco (erbe) oppure semi-fresco (insilati) oppure secco
(fieni o addirittura alcuni prodotti complementari, quali stoppie e paglie), e di
concentrati, sempre di alto valore nutritivo e di provenienza aziendale quali le
84
granelle di cereali e/o di leguminose oppure extraziendale quali alcuni
sottoprodotti delle industrie saccarifera (polpe), molitoria (crusche), olearia
(farine di estrazione di semi proteaginosi) o altre (semi di cotone), tutti
distribuiti sempre in stalla, ad eccezione delle erbe e delle stoppie che possono
essere utilizzate anche con il pascolamento.
Il pascolamento, che nell’allevamento bovino da latte è una tecnica diffusa
quasi esclusivamente nelle regioni meridionali e negli allevamenti non
completamente stallini, è praticato, a seconda della stagione: prevalentemente
su erbai autunno-invernali asciutti, in autunno-inverno; su prati irrigui,
immediatamente prima (fine inverno) e/o immediatamente dopo (autunno) la
stagione irrigua; infine su stoppie di cereali da granella, riservate però in genere
alle vacche asciutte ed alle giovenche, in estate.A sua volta e indispensabile
l’integrazione alimentare da somministrare in stalla, in grado di soddisfare
completamente le esigenze nutritive degli animali.
Negli allevamenti più intensivi in cui per qualunque ragione,non possa essere
praticato, permanentemente oppure anche soltanto temporaneamente, il
pascolamento, l’erba deve essere distribuita, ovviamente previo sfalcio da
praticare immediatamente prima per evitare l’inizio della sua fermentazione, in
1 oppure in 2 pasti giornalieri (rispettivamente, intorno alle ore 10 oppure alle
ore 8 e 16) in quantità tale da poter essere ingerita, senza eccessivi residui in
mangiatoia (sino a 0,5÷6,0 kg di s.s. per q di peso corporeo, corrispondenti a
20÷40 kg di tq per capo).
In associazione oppure anche in sostituzione dei foraggi freschi, è praticata la
somministrazione degli insilati — prevalentemente silomais a maturazione
cerosa nelle aziende totalmente o parzialmente irrigue oppure erba-silo a
maturazione latteo-cerosa di graminacee da granella a semina autunnale
(frumento, orzo, avena, triticale) o di graminacee esclusivamente foraggere
(logli, festuche, mazzolina) o anche fieno-silo di leguminose foraggere (medica,
trifogli). La quantità somministrata è , per una vacca di 6÷7 q di peso corporeo a
6÷7 kg di s.s. ed a 15÷18 kg di tq di erba silo ed a 12÷15 di fieno-silo.
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Allo scopo di innalzare la concentrazione fibrosa della razione complessiva, è
somministrato preferibilmente il fieno, alimento fibroso per eccellenza, di
leguminose o di graminacee o misto distribuito intero a volontà in rastrelliera
oppure in mangiatoia trinciato e miscelato con gli altri alimenti, in quantità
variabile a seconda delle disponibilità, fra i 2÷3 kg di tq al giorno per capo.
Infine è praticata la somministrazione di concentrati, molto spesso sotto forma
di cubettati o cilindrati o fioccati, e di sottoprodotti industriali di alto valore
nutritivo (crusche, polpe, trebbie e farine di estrazione di semi
oleoproteaginosi).
LA SOMMINISTRAZIONE AI BOVINI DA CARNE
La somministrazione alimentare ai bovini da carne è funzione sia della razza
allevata (specializzataoppure rustica) che del conseguente tipo di allevamento
praticato (intensivo e/o stallino oppure estensivo e/o brado).
L’allevamento specializzato può essere: completamente intensivo, in cui gli
animali, trascorrendo tutto l’anno e tutta la giornata in stabulazione, debbono
essere alimentati esclusivamente in stalla; oppure semintensivo, in cui gli
animali; facendo largo ricorso, almeno in alcune stagioni, al pascolamento,
devono ricevere in stalla soltanto l’integrazione alimentare al pascolo.
Nel primo caso (allevamento intesivo) l’alimentazione è basata sull’impiego
prevalente degli insilati (silomais nelle aziende almeno parzialmente irrigue;
insilati di graminacee autunnali, da granella oppure esclusivamente foraggere,
in quelle prevalentemente asciutte) con un’integrazione di fieno (3÷5 kg/d x
capo), soprattutto per innalzare il contenuto fibroso della razione, e di
concentrati distribuiti in genere in mangiatoia assieme all’insilato con il sistema
del pasto unico (unifeed) sia alle vacche in lattazione (sino a 4÷6 mesi dal
parto), che a quelle in asciutta (7÷9 mesi dal parto), che a quelle in gravidanza
inoltrata (10÷12 mesi dal parto o 7°÷9° di gravidanza), sia alle giovenche e
talvolta anche alle manze; ai vitelli/e in allattamento, oltre al latte poppato
direttamente dalla madre sino al 4°÷6° mese di età, può essere somministrato, in
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particolare negli ultimi 2 mesi (5°÷6° di età) del concentrato in ragione di kg/d
1 per q di peso corporeo, allo scopo principale di innalzare il loro ritmo di
accrescimento e secondario di addestramento al consumo di alimenti solidi, in
preparazione.
Nel secondo caso (allevamento semintensivo), l’utilizzazione dell’erba, che è
realizzata direttamente attraverso il pascolamento (praticato per almeno 7÷8
mesi all’anno e per almeno 10÷12 ore/d), oppure con la sua distribuzione in
mangiatoia, in seguito a sfalcio, in almeno 2 pasti giornalieri, costituisce la fonte
alimentare preminente; la sua integrazione è costituita di norma dalla
somministrazione di fieno e/o di concentrati in ragione di non più di 0,5 kg/q
al giorno. Empiricamente si calcola che in un’intera giornata al pascolo gli
animali da carne possano ingerire sino all’1,2÷1,5% del proprio peso corporeo,
corrispondente, in animali di 7÷8 q, a 10÷12 kg di s.s. ed a 70÷80 kg di tq al
15÷16% di s.s..
Nel caso invece dei bovini rustici, nei quali l’allevamento è necessariamente
estensivo e quindi completamente brado, il pascolamento (erbaceo e/o
arbustivo) costituisce per gran parte dell’anno (8÷10 mesi) l’unica fonte
alimentare; l’integrazione è costituita, ma solo per 2÷4 mesi all’anno
(gravidanza inoltrata e primissimi mesi di lattazione), in genere da fieno,
distribuito raramente in rastrelliera e più frequentemente in campo, in misura
di 3÷5 kg/d a seconda della mole dell’animale (1% del peso corporeo) nei mesi
tardo autunnali e invernali nelle zone altimetricamente elevate, nei mesi tardo-
estivi e autunnali in quelle costiere. Allo scopo di ridurre l’anestro da parto, e
quindi di innalzare la fertilità della mandria, è spesso praticata l’integrazione
con concentrati, in genere granelle di leguminose distribuite in campo, per i
primi 2 mesi dal parto in ragione di 2 kg/d, corrispondenti complessivamente a
120 kg per vacca allattante.
Talvolta nell’allevamento bovino da carne sono impiegati, in sostituzione totale
o parziale del fieno come alimento fibroso, la paglia di cereali, le polpe di
bietola o altri sottoprodotti industriali di minor costo.
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Il problema della esatta determinazione dell’energia ingerita con il
pascolamento nell’allevamento bovino da carne ha importanza molto minore
che in quello da latte, in quanto il livello produttivo deglianimali è molto più
basso, la loro resistenza a periodi anche prolungati di sottoalimentazione è
maggiore e quindi la corrispondenza fra le esigenze animali e la disponibilità
alimentare può essere molto approssimativa e limitata soltanto ai periodi della
gravidanza inoltrata e dell’allattamento (al massimo quindi 6÷8 mesi all’anno).
LA SOMMINISTRAZIONE AI VITELLONI
La somministrazione alimentare ai vitelloni in ingrassamento dipende
strettamente dall’organizzazione della struttura di ingrassamento: se l’azienda è
totalmente o prevalentemente irrigua, la coltura predominante, talvolta l’unica,
è quella del mais, che è utilizzato in parte come insilato a maturazione cerosa
(70÷80%) ed in parte come granella (20÷30%), in quanto costituisce l’alimento di
base più economico nell’ingrassamento; se invece l’azienda è totalmente o quasi
asciutta, la coltura predominante non può che essere una graminacea autunno-
invernale, da granella oppure esclusivamente foraggera, che è utilizzata in parte
come fieno (20%), in parte come granella (50÷60%) e talvolta anche come
insilato (20%) a maturazione latteo-cerosa; in entrambi i casi, i concentrati sono
in genere parzialmente costituiti da farine di estrazione di semi di soia, per
innalzare il contenuto proteico della razione complessiva, e da alimenti fibrosi
(tipo polpe di bietole), per innalzarne il contenuto fibroso, oltrechè ovviamente
dall’integrazione minerale e/o vitaminica. Alle colture di graminacee sono
spesso associate, le leguminose foraggere (tipo medica e trifogli) destinate in
genere alla fienaggione e da granella destinate alla produzione di concentrati
proteici aziendali.
L’ingrassamento con fieno e concentrati, in genere molto più costoso (almeno +
20%) di quello con insilato e concentrati, determina però una produzione carnea
qualitativamente migliore, grazie alla maggiore compattezza e consistenza
muscolare, alla colorazione più intensa ed al migliore sapore; tali caratteristiche
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non sempre però sono giustamente apprezzate, e conseguentemente
remunerate con un prezzo di vendita superiore, dal consumatore medio.
Quando l’alimento di base è il mais (aziende irrigue), il silomais è distribuito a
volontà, in quantità di 4,5÷6 kg di tq per q di peso corporeo, associato al
concentrato, in quantità di 0,5÷1 kg sempre per q di peso; questo è talvolta
parzialmente fibroso (polpe di bietola), soprattutto in carenza di fieno nella
razione.
Quando invece l’alimento di base è il fieno (aziende asciutte), questo è
somministrato a volontà (il consumo è di circa kg 1 per q di peso corporeo),
associato a concentrato, a seconda del livello nutritivo della razione e quindi del
piano alimentare, che ovviamente è legato al ritmo di ingrassamento ed all’età e
al peso di macellazione dei vitelli, entrambi funzione sia del tipo etnico (razze
da carne oppure meticci di razze rustiche o da latte) che della provenienza di
allevamento (ristalli di provenienza brada oppure da allevamenti intensivi), che
del sesso (maschi oppure femmine) degli animali.
LA SOMMINISTRAZIONE AI BUFALINI
La somministrazione alimentare ai bufalini non differisce sostanzialmente da
quella ai bovini da latte, salvo che per le differenti esigenze nutritive della
specie, cui consegue in genere un maggiore impiego di alimenti fibrosi ed una
minore utilizzazione di alimenti concentrati, distribuiti quasi sempre in stalla
per il ricorso molto meno frequente al pascolamento.
LA SOMMINISTRAZIONE AGLI OVINI DA LATTE
La somministrazione alimentare agli ovini da latte è strettamente legata al
livello di intensività dell’allevamento: allevamento intensivo in aziende
prevalentemente irrigue con distribuzione degli alimenti quasi esclusivamente
in ovile per gran parte dell’anno, ed in cui il pascolamento, qualora sia attuato,
rappresenta una pratica limitata a poche ore al giorno (non oltre 3÷4) e soltanto
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ad alcuni periodi dell’anno (in genere inverno e primavera); oppure
allevamento semintesivo in aziende prevalentemente asciuttte con utilizzazione
diretta delle produzioni foraggere per mezzo del pascolamento, praticato per
gran parte dell’anno (almeno 9÷10 mesi) e per buona parte del dì (almeno 7÷8
ore).
Nel primo caso (allevamento intensivo) — in cui le colture aziendali principali
sono le graminacee, da granelle e foraggere, autunno-invernali, intercalate con
graminacee e/o leguminose estive, in avvicendamento colturale con
leguminose prative poliennali, nonché le graminacee primaverili estive da
granella e/o da insilato — le erbe sfalciate sono distribuite in mangiatoia in
almeno 2 pasti giornalieri ,gli insilati (erbe-silo di graminacee e fieni-silo di
leguminose, entrambi di essenze autunnali, in associazione con erbe-silo di
graminacee primaverili-estive) in 1 oppure in 2 pasti giornalieri dopo le 2
mungiture giornaliere; i concentrati in sala di mungitura due volte al giorno. Il
fieno è somministrato in rastrelliera (di forma circolare, se esso è confezionato
in rotoballe; di forma lineare, se confezionato in presse parallelepipede) a
volontà); sempre più frequentemente il concentrato è utilizzato sottoforma
cubettata o meglio cilindrata: il consumo di erba di medica disidratata si sta
diffondendo ed espandendo sempre più.
Nel secondo caso (allevamento semintensivo in aziende prevalentemente
asciutte), l’alimentazione è invece basata principalmente sull’utilizzazione
diretta dell’erba per mezzo del pascolamento, che infatti costituisce la
principale fonte di approvvigionamento alimentare delle pecore e che viene
esercitato: in inverno, a causa della brevità del dì, per non oltre 7÷8 h/d, ma
ancora compatibili con 2 pasti giornalieri; in primavera per 10÷12 ore,
teoricamente compatibili anche con 3 pasti giornalieri, che però di fatto si
riducono spesso a 2 soltanto, a causa della elevata temperatura (25÷30 °C) e
della lunga insolazione (15 ore di illuminazione al solstizio) le quali nella
primavera inoltrata costringono gli animali al pomeriggio nelle ore più calde
(9÷17) e quindi ad un riposo ingestivo forzato.
90
Con tre pasti giornalieri le pecore in lattazione possono ingerire al pascolo
anche il 2,5÷3% del proprio peso corporeo (corrispondente a 10÷12 kg di erba
ottima): in tali condizioni, la somministrazione di fieno in rastrelliera e di
concentrati in mangiatoia e/o in sala di mungitura costituiscono
un’integrazione alimentare al pascolo.
LA SOMMINISTRAZIONE AGLI OVINI DA CARNE
La somministrazione alimentare agli ovini da carne è funzione anch’essa
dell’intensività dell’allevamento che può essere: completamente stallino e senza
ricorso al pascolamento, ma con impiego di alimenti di basso costo, soprattutto
sottoprodotti delle industrie molitoria (crusca e granelle di scarto), saccarifera
(polpe di bietola ed altri simili quali melasso, borlande etc), olearia (sanse),
agrumaria (pastazzi); oppure completamente estensivo, con ricorso sistematico
al pascolamento per almeno 9÷10 mesi all’anno, anche su stoppie di cereali da
granella o su pascoli scadenti collinari purchè non arbustivi.
Nel primo caso (allevamento completamente stallino), la distribuzione degli
alimenti è praticata sempre in ovile a gruppi di animali differenziati fra loro
soltanto: per fase fisiologica (lattazione e/o allattamento, asciutta, gravidanza
inoltrata) qualora sia attuata l’intensificazione dei cicli riproduttivi (1,5 parti
all’anno); oppure per stagione dell’anno, qualora il ciclo riproduttivo sia
stagionale, con 1 parto all’anno e con la stagione dei parti concentrata
generalmente in autunno. Gli agnelli, che seguono le madri sino allo
svezzamento (1,5÷2 mesi), hanno un consumo di concentrati ridotto;
successivamente sono separati ed ingrassati con miscele di fieno (20%) e
concentrati (80%) distribuite in genere a volontà sino ai 3÷4 mesi, età in cui
vengono macellati.
Nel secondo caso (allevamento completamente brado), il pascolamento, che è
praticato per tutta la giornata, rappresenta la fonte alimentare quasi esclusiva
almeno per le pecore in asciutta ed in gravidanza, in quanto l’integrazione
alimentare con concentrati e/o sottoprodotti è praticata soltanto nelle ultime 2
91
w di gravidanza e nel periodo di allattamento (2 m). Il costo di alimentazione di
questo tipo di allevamento deve essere ridotto al minimo per la sua bassa
redditività e remuneratività dei pur scarsi capitali investitivi.
LA SOMMINISTRAZIONE AI CAPRINI
Anche nell’allevamento caprino la somministrazione alimentare è legata alla
intensività di allevamento ed alla razza che le è strettamente connessa.
Nel primo caso (allevamento intensivo), la somministrazione alimentare è
praticata esclusivamente in caprile, nel quale il gregge, suddiviso i gruppi
separati.
I gruppi sono costituiti in funzione del livello produttivo degli animali,
similmente ai bovini da latte.
Alle capre in lattazione è distribuita una razione base, in grado di soddisfare le
esigenze di mantenimento e quelle di produzione, costituita da erba sfalciata
e/o da insilato di mais o di altre graminacee e leguminose autunnali e/o da
concentrati; il fieno, in rotopresse contenute in rastrelliere circolari sistemate al
centro del box oppure in presse parallelepipede contenute in rastrelliere lineari
sistemate ai bordi del box,; i concentrati, in genere pellettati, sono distribuiti in
parte in mangiatoia assieme ai foraggi, sono somministrati anche sottoprodotti
energetico-fibrosi (polpe di bietola) oppure energeticoproteici (farine di
estrazione di semi proteoleaginosi) oppure altri sottoprodotti di minor valore
nutritivo ma di basso costo.
Alle capre asciutte ed in gravidanza inoltrata sono invece somministrati in
genere soltanto fieno o altro alimento fibroso (1 kg/d capo) e concentrati
Alle caprette da rimonta (da 2,5÷3 mesi di età sino al primo parto a 13÷15 mesi)
la somministrazione alimentare è prevalentemente basata sul fieno e sui
concentrati.
Ai capretti/e in allattamento raramente è somministrato il latte materno ma più
frequentemente un adeguato succedaneo a volontà.
92
Ai becchi, mantenuti per gran parte dell’anno separati dalle capre e imbrancati
soltanto nella stagione riproduttiva oppure nel gruppo fresco di parto, è
somministrato sempre il fieno come alimento di base ed il concentrato ad
integrazione delle esigenze energetiche e/o proteiche. In questo tipo di
allevamenti, che spesso sono “senza terra” (non dotati cioè di superfici
aziendali coltivabili), raramente può essere attuato il pascolamento, anche per
difficoltà organizzative pratiche.
Nel secondo caso (allevamento semintensivo), la somministrazione alimentare è
basata sia sul pascolamento, sia sulla distribuzione degli alimenti in caprile ad
integrazione delle esigenze nutritive non soddisfatte dal pascolo. Il
pascolamento è praticato per tutto l’anno, o almeno per i 10 mesi della fase di
lattazione, la quale, data la stagionalità abbastanza accentuata dei calori, è
concentrata per tutto il gregge da ottobre-novembre a luglio-agosto (ad
eccezione delle primipare, che invece partoriscono a dicembre-febbraio).
Esso è esercitato, di norma sui prati annuali di graminacee e di leguminose in
autunno-inverno, di leguminose in primavera, di stoppie di cereali in estate.
La quantità di fieno non supera in genere 0,5÷0,8 kg/d nei periodi del suo
massimo consumo (asciutta e gravidanza inoltrata); quella di concentrati, che
sono distribuiti in parte in mangiatoia) ed in parte in sala di mungitura al
momento della mungitura.
Nel terzo caso (allevamento estensivo), la somministrazione alimentare è
ottenuta quasi esclusivamente con il pascolamento (che raramente è soltanto
erbaceo, ma più frequentemente è arbustivo e talvolta addirittura soltanto
arboreo); esso è praticato ininterrotamente per tutto l’anno e spesso per tutto il
giorno: un percorso pascolativo talvolta di diversi chilometri al giorno è
indispensabile affinchè le capre riescano a procurarsi una quantità di alimenti
che garantisca la loro sopravvivenza in alcune stagioni ed il mantenimento di
un pur minimo livello produttivo durante la lattazione. L’integrazione
alimentare al pascolo, consiste nella distribuzione di 0,4÷0,5 kg/d di
concentrato e/o di altrettanto fieno, al momento del rientro delle capre in
93
caprile per l’allattamento dei capretti che vi sono stati rinchiusi sin dalla nascita.
Questa integrazione alimentare non supera di norma i 3÷4 mesi (l’ultimo di
gravidanza ed i primi 2÷3 di lattazione, ossia poco dopo lo svezzamento o la
macellazione dei capretti.
I DISORDINI ALIMENTARI DEI RUMINANTI
I disordini alimentari, dovuti a squilibrio quanti-qualitativo dei componenti
della razione rispetto alle esigenze nutritive degli animali e/o alla loro
somministrazione non adeguatamente frazionata, possono provocare disturbi
di vario tipo e di diversa entità; tra essi i principali sono: digestivi;
digestivometabolici; metabolici; secretori; riproduttivi; locomotori.
I DISTURBI DIGESTIVI
I disturbi digestivi, essendo legati prevalentemente all'andamento delle
fermentazioni ruminali, essi sono rappresentati principalmente da: timpanismo
ruminale, indigestione acuta e dislocazione abomasale.
Il timpanismo ruminale è caratterizzato da un'abnorme distensione
(particolarmente evidente sul fianco sinistro) delle pareti ruminali per eccessivo
accumulo di gas di fermentazione (principalmente CO2 e CH4) che non
riescono ad essere eliminati regolarmente con l'eruttazione a causa di:
ostruzione meccanica dell'esofago, per abbassamento della sua parte terminale
sotto il livello del contenuto ruminale; riduzione della motilità delle pareti del
rumine, per alterazione del suo equilibrio fisiologico acido-basico; inibizione
della normale peristalsi ruminale, per azione di sostanze inibenti ingerite con
l'alimento oppure formatesi durante la digestione (saponine).
Il timpanismo è favorito principalmente da: grado di predisposizione
individuale; tipo di alimentazione, in quanto i foraggi freschi e teneri (in
particolare modo le leguminose, quali medica e trifoglio, soprattutto se
pascolati oppure sfalciati e somministrati umidi e a digiuno) essendo ricchi di
carboidrati facilmente fermentescibili e poveri di fibra, favoriscono la
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formazione, a livello ruminale, di grandi quantità di schiume, la cui azione
dannosa è ulteriormente accentuata dalla scarsa insalivazione provocata da tali
alimenti; tipo di microbismo ruminale che, a seconda dell'indirizzo
fermentativo prevalente, può determinare un timpanismo di tipo gassoso, in cui
i gas si accumulano al di sopra del contenuto ruminale, oppure schiumoso, in
cui i gas vengono invece trattenuti all'interno; quest'ultimo è il tipo più
frequente e più dannoso.
Le forme sotto cui può presentarsi sono: subacuta, dovuta in genere ad elevato
consumo di concentrati e di leguminose fresche; acuta, caratterizzata da
respirazione affannosa e da defecazioni frequenti, che può provocare, se non
curata tempestivamente, anche la morte; cronica, che determina una distensione
permanente del rumine.
La prevenzione è basata principalmente su: parziale sostituzione dei foraggi
freschi, soprattutto le erbe di leguminose, con foraggi secchi a più elevato
contenuto in fibra (fieni); mescolanza delle leguminose con le graminacee;
adattamento graduale dell'animale al consumo di elevate quantità di foraggi
freschi; pascolamento oppure distribuzione dei foraggi freschi non umidi e ad
animali non digiuni (ad es., inizio del pascolamento nella tarda mattinata e
dopo una foraggiata contenente fieno e/o paglia); somministrazione di sostanze
tensioattive che , abbassando la tensione superficiale dei liquidi ruminali,
inibiscono la formazione di schiume; impiego di antibiotici che inibiscono
l'attività fermentativa di alcuni batteri ruminali e la conseguente produzione di
gas.
La terapia consiste principalmente: con la forma subacuta, nella
somministrazione di oli minerali e/o vegetali e di grassi animali ad elevata
azione antischiumogena (ad es. siliconi, attraverso sonda esofagea) e/o di
sostanze minerali alcaline (NaHCO3) capaci di restaurare rapidamente
l'equilibrio acido-basico del rumine; con la forma acuta, nell'impiego della
sonda esofagea oppure, nei casi più gravi, del trequarti, evitando sempre la
eliminazione dei gas in maniera repentina.
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L'indigestione acuta è caratterizzata da una eccessiva riduzione del pH
ruminale anche al disotto di 4 (acidosi ruminale) a causa di un anormale
aumento degli acidi organici, particolarmente dell'acido lattico, provocato da
una alterazione della microflora ruminale in conseguenza dell'ingestione di
alimenti eccessivamente ricchi di amido e di carboidrati facilmente
fermentescibili e poveri di fibra, quali sono principalmente i concentrati; ciò
determina una consistenza eccessivamente acquosa del contenuto ruminale e di
conseguenza un suo ristagno eccessivo. Le forme leggere possono comportare
una riduzione dell'ingestione alimentare e della produzione lattea, un aumento
degli aborti e/o dei parti prematuri associati a ritenzione placentare; le forme
gravi possono provocare, se non curate tempestivamente, ruminite e/o
gastroenterite associate a dismetabolie gravi. La prevenzione è basata sulla
riduzione degli alimenti eccessivamente ricchi di carboidrati fermentescibili e
poveri di fibra ossia dei concentrati e sull'adattamento graduale dell'animale al
loro consumo. La cura consiste: con le forme leggere, nella somministrazione di
sostanze alcaline capaci di restaurare rapidamente l'equilibrio acido-basico del
rumine (ad es. NaHCO3 allo 0,5÷1,5% sulla miscela di concentrato) e/o di oli
minerali ad azione antischiumogena (ad es. siliconi); con la forma acuta, nella
puntura del rumine.
La dislocazione dell'abomaso è caratterizzata da un'eccessiva dilatazione
dell'abomaso, il quale per effetto di un abnorme aumento di gas e/o di liquidi
(AGV) causato (soprattutto negli animali meno giovani e nei mesi inverno-
primaverili e subito dopo il parto) da un repentino aumento della
concentrazione della dieta nel primissimo periodo (1° mese) di lattazione —
subisce una dislocazione a destra oppure, più frequentemente, a sinistra a
seconda del prevalere delle produzioni, rispettivamente, di liquidi o di gas (gli
AGV, se presenti nell'abomaso, ne inibiscono la motilità). Essa è causata
principalmente dall'impiego di dosi troppo elevate di concentrati e troppo
povere di fibra strutturata durante la fase di asciutta. La prevenzione consiste
nell'impiego di dosi non elevate di concentrati; la cura invece nella sistemazione
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permanente dell'abomaso attraverso intervento chirurgico che comporta però,
oltre all'elevato costo, una temporanea riduzione produttiva; ciò nonostante, nel
caso della dislocazione a sinistra, si ottengono esiti positivi in circa il 90% dei
casi.
I DISTURBI DIGESTIVO-METABOLICI
I disturbi digestivo-metabolici agiscono sia a livello digestivo con la
modificazione del pH ruminale, sia a livello metabolico con l'alterazione del
ricambio; essi sono principalmente: la tossicosi proteica e la tossicosi ureica.
La tossicosi proteica è caratterizzata da una deamidazione ruminale delle
proteine in eccedenza oppure con composizione aminoacidica squilibrata
rispetto alle esigenze alimentari quanti-qualitative dell'animale, per cui la
componente non azotata della molecola proteica originaria viene fermentata
sino ad AGV con basso rendimento energetico, oppure completamente
catabolizzata fino ad acqua e CO2 con elevato dispendio energetico, oppure
ancora trasformata in corpi chetonici o chetogenici; la componente azotata, che
viene degradata sino ad NH3 con innalzamento del pH ruminale sino a valori
di 7,5÷8,5, determina un’alcalosi ruminale con dannosa alterazione
dell'equilibrio glucochetonico del sangue, la quale limita la motilità delle pareti
ruminali, inibisce la normale attività fermentativa dei batteri amilolitici e
cellulosolitici con ristagno alimentare nel rumine e favorisce infine un
assorbimento eccessivo di NH3; questa, non potendo essere tempestivamente
trasformata in urea nel fegato e successivamente eliminata rapidamente con
l'urina, si accumula nel sangue determinando intossicazioni e turbe metaboliche
minerali (iperammoniemia e ipomagnesiemia). Questa tossicosi, sia che si
manifesti in forma eclatante — disoressia, ruvidità del pelame, indurimento
della cute, mucosità fecale — provoca sempre una riduzione della produzione
lattea e/o un'alterazione del processo riproduttivo (ipofertilità da
iperprotidicità). La prevenzione consiste nella somministrazione di razioni a
giusto contenuto protidico; la cura nella somministrazione di sostanze
97
acidificanti oppure nella riduzione tempestiva della concentrazione proteica
della razione.
La tossicosi ureica è una particolare tossicosi proteica causata da un eccesso di
NPN sottoforma di urea che si manifesta rapidamente (entro 30÷60 h)
dall'ingestione della dose tossica con segni caratteristici quali ansia e respiro
affannoso, barcollamento e scalciamento laterale, abbondante salivazione e
tetania muscolare, ed altrettanto rapidamente (24÷48 h) evolve positivamente
con la guarigione oppure negativamente con la morte.
La prevenzione consiste:
· nel non superare la dose massima tollerabile, che è di 14 g/d di NPN
(corrispondente a 30 g/d di urea) per q di peso corporeo
· nell'adattamento graduale dell'animale all'uso dell'urea in almeno 1÷3 w
prima di raggiungere la dose massima compatibile;
· nella somministrazione dell'urea con alimenti ricchi di carboidrati e ad
animali non digiuni ed in buone condizioni nutrizionali.
La cura consiste: nella tempestiva somministrazione di sostanze acidificanti (es.
1÷2 lt/capo grosso di aceto) e nella immediata sospensione della razione
contenente urea.
I DISTURBI METABOLICI
Le principali dismetabolie legate a disordini alimentari di tipo glucidico,
lipidico, proteico, oppure minerale capaci di alterare il normale equilibrio
energetico o minerale del metabolismo dell'animale sono: la chetosi, la
ipolipogalattopoiesi, il collasso puerperale e la tetania da erba.
La chetosi o acetosi è caratterizzata da un'alterazione del normale rapporto
gluco-chetonico (acetone, acetoacetato, idrossibutirrato) del sangue per
riduzione del primo (ipoglicemia) e/o, aumento contemporaneo dei secondi
(iperchetonemia), i quali determinano acidosi ematica (acidosi metabolica) per
riduzione dei sali di Na e/o di K con cui si combinano per essere eliminati
attraverso le urine (chetonuria). Essa è dovuta ad una delle cause seguenti:
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carenza ormonale nell'animale; carenze vitaminiche (soprattutto di A e di B12)
e/o minerali (soprattutto di P, di Co e di I) nella razione; squilibrio alimentare
fra sostanze non chetogeniche (glucosio ed acidi acetico e propionico) e
sostanze chetogeniche (acido butirrico, che è precursore dell'acido
bidrossibutirrico, soprattutto in insilati mal riusciti); carenze energetiche nella
razione, per cui l'animale deve sopperire ai propri fabbisogni mobilizzando i
grassi di deposito con formazione epatica di corpi chetonici; indirizzo
fermentativo ruminale di tipo prevalentemente butirrico anzichè acetico e/o
propionico; eccesso alimentare proteico con produzione di corpi chetonici dalla
parte non azotata delle proteine originarie; difetto di fibra e/o eccesso di
concentrati, con conseguente squilibrio fra AGV ruminali. La chetosi, la cui
azione può essere diretta (riduzione della produzione lattea e della fertilità)
oppure indiretta (aumento di mastiti, di nefriti e di ritenzione placentare), può
presentarsi in forma clinica evidente (inappetenza, affanno, salivazione
eccessiva, disidratazione e dimagrimento) oppure subclinica (senza segni
appariscenti) e colpisce particolarmente le femmine fra la 2ª÷3ª w prima del
parto ed il 3°÷4° mese dopo il parto, con un'incidenza massima nelle pluripare
alla 3ª w di lattazione.
La diagnosi è basata sul contenuto di corpi chetonici, espressi in equivalente
acetonico, nel latte, nel sangue e nelle urine.
La cura, qualora non sopravvenga la guarigione spontanea, che nei casi meno
gravi si verifica al 3°÷4° mese di lattazione, in corrispondenza del
pareggiamento fra esigenze e ingestione — è basata sul trattamento endovena,
alla dose di 1 cc/kg di peso corporeo, di gluconato di Ca + cortisone + Kal 50%;
sul trattamento con glicole propilenico + propionato di Na.
La Ipolipogalattopoiesi (produzione di latte con contenuto lipidico
eccessivamente basso) è dovuta ad uno squilibrio fra i vari AGV ruminali per
alterazione del rapporto acidi acetico + butirrico/acido propionico ed è causata
principalmente da razioni che nel complesso sono: carenti di fibra, la quale
favorisce la produzione dell'acido acetico precursore assieme all'acido butirrico
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degli acidi grassi dei lipidi del latte; eccedenti di carboidrati fermentescibili, i
quali favoriscono invece la produzione di acido propionico, precursore del
glucosio del sangue e del lattosio del latte; contenenti oli e/o grassi costituiti da
acidi grassi insaturi (ad es. olio di fegato di merluzzo); contenenti concentrati
troppo finemente pellettati o macinati, che indirizzano la fermentazione
ruminale verso una maggiore produzione di acido propionico. La cura consiste
nella integrazione della razione con NaHCO3 o di KHCO3 che, tamponando
l'acidità ruminale insorta, ripristina il giusto rapporto fra i tre AGV (60÷70% di
acetico, 20÷25% di propionico e 5÷10% di butirrico). La prevenzione consiste:
nella riduzione dei concentrati; nell'aumento del fieno e/o dei foraggi fibrosi
nella eliminazione degli oli e/o grassi insaturi dalla razione; nella sostituzione
dei pellettati troppo sottili con altri più grossolani.
La febbre o collasso puerperale è' dovuta ad una alterazione dell'equilibrio
minerale (particolarmente del Ca, del P e talvolta anche del Mg) nel sangue che
si manifesta entro la prima w dal parto, preferenzialmente in pluripare di
elevata produzione, con sonnolenza, barcollamento, intorpidimento,
prostrazione, paresi, coma e morte. Essa è causata da un abbassamento del
contenuto in Ca (100÷150 ppm) nel sangue (ipocalcemia) e talvolta del P e del
Mg per effetto: di un errato rapporto Ca/P e/o Ca/Mg, che riduce
l'assorbimento intestinale del Ca e/o del P anche quando il Ca si trova in
quantità sufficiente nella razione; di uno squilibrio ormonale fra
paracalcitonina, la cui secrezione aumenta in condizioni di ipocalcemia
favorendo la mobilitazione delle riserve scheletriche a favore del sangue, e
calcitonina, la cui secrezione aumenta invece in condizioni di ipercalcemia
favorendo la fissazione scheletrica del Ca ematico in eccesso.Il collasso
interviene quando l'eccessiva riduzione della calcemia, dovuta
all'ingrossamento del feto a fine gravidanza e all'elevata produzione lattea
all'inizio della lattazione, non viene immediatamente superata con il ripristino
del normale tasso calcemico per via alimentare e/o ormonale.
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La cura consiste: in un trattamento endovena di gluconato di calcio per 2÷3 w.
La prevenzione è basata: sull'impiego orale di dosi massicce di vit. D (5÷6
milioni di UI x q di peso) per 5 d consecutivi nella settimana precedente il parto,
che però, oltre al pericolo di una eccessiva calcificazione dei tessuti molli, è di
difficile attuazione per la difficoltà di stabilire la data precisa del parto;
sull'impiego durante l'asciutta di razioni con rapporto Ca/P molto stretto, che
favorisce la mobilizzazione scheletrica del Ca, ossia di razioni a base di
graminacee (in cui il rapporto Ca: P è 1:2÷1:3) oppure, se a base di leguminose
(in cui il rapporto Ca: P è 5:1÷6:1), con integrazione fosfatica di prodotti
minerali privi di Ca, quali ad es. il NaH2PO4.
La Tetania da erba è dovuta ad un'alterazione dell'equilibrio minerale
(particolarmente del K e del Mg e spesso anche del Ca) nel sangue che si
manifesta, preferenzialmente in primavera in animali di alta produzione
alimentati su prati teneri, con inappetenza, nervosismo, convulsioni, tetania,
coma e morte. Essa è causata da una riduzione del contenuto ematico di Mg
(ipomagnesiemia), che può passare da 25 a 5 ppm, e spesso anche di Ca
(ipocalcemia), che può passare da 100 a 50 ppm, e da un parallelo aumento del
contenuto di K (iperpotassiemia.
I DISTURBI SECRETORI
I principali disturbi secretori sono l'edema mammario e la mastite, entrambe
favorite da disordini alimentari quali: l'alterazione dell'equilibrio acido-basico
del sangue, il cui valore normale deve essere compreso fra pH 7÷7,8; 4.5.5.
I DISTURBI RIPRODUTTIVI
I principali disturbi riproduttivi, la cui insorgenza può essere favorita da
disordini alimentari, sono: la ipofertilità; il prolasso uterino e la ritenzione
placentare.
La ipofertilità, riduzione talvolta permanente dell'efficienza riproduttiva per
eccessivo allungamento dell'anestro puerperale e conseguentemente del
periodo di servizio e dell'interparto, è dovuta prevalentemente a cause
101
genetiche e/o di allevamento ed è favorita da errori alimentari quali: eccessiva
concentrazione energetica della razione nell'ultimo periodo di gravidanza (che
provoca una eccessiva adipopoiesi sia epatica che ovarica) oppure sua carenza
nel primo periodo di lattazione (che provoca una eccessiva mobilizzazione delle
riserve adipose epatiche con frequente allungamento dell'anestro puerperale);
carenza fibrosa (NDF < 30÷32%); eccedenza proteica, soprattutto di proteine
ruminodegradabili che innalzano il livello ruminale di NH3 ed epatico di urea;
carenze mineral (soprattutto di P, di I e di Se) e vitaminiche (bcarotene e Vit A,
Vit D e Vit E, soprattutto se associata a carenza di Se); eccesso di fitoestrogeni e
di tossine (aflatossine, zearalenone ed ocratossine in insilati mal conservati).
La ritenzione placentare, che è il mancato distacco entro le 48 h dal parto della
placenta dall'utero (secondamento) causato a sua volta da quello degli invogli
fetali dalla placenta, può essere provocata da carenze alimentari quali, in
particolare, carenza di Vit A, di Vit E e di Se nella razione soprattutto in animali
anatomicamente mal conformati (controinclinazione della linea dorso-lombare).
Il prolasso uterino, che è l'estroflessione dell'utero dopo il parto, può essere
favorito da carenze alimentari, quali quella di Zn, Vit A e C, nonchè da eccesso
proteico, soprattutto successivamente a parti molto difficili.
I DISTURBI LOCOMOTORI
I disturbi locomotori favoriti da errori alimentari sono principalmente la
zoppia, la cui insorgenza può essere favorita da eccesso proteico e/o da carenza
di Zn nella razione. I disordini alimentari sinora descritti con particolare
riferimento alla specie bovina da latte possono colpire indistintamente tutte e 4
le specie ruminanti in produzione zootecnica, anche se taluni sono più frequenti
in alcune specie rispetto ad altre soprattutto a causa del differente sistema
alimentare, in particolare il livello nutritivo, praticato nelle diverse specie.
102
LE TECNICHE DI ALLEVAMENTO
L'allevamento dei ruminanti, pur essendo praticato con modalità differenti a
seconda dell'indirizzo produttivo prevalente (latte oppure carne) e del
conseguente tipo di organizzazione aziendale (intensivo e prevalentemente
stallino oppure estensivo e con largo ricorso al pascolamento), è però
caratterizzato sempre dalle seguenti fasi: cure neonatali e periodo colostrale,
allattamento, svezzamento, ingrassamento, allevamento della rimonta,
riproduzione in purezza ed in incrocio,
pascolamento, stabulazione; dalle modalità della loro attuazione dipende sia la
conduzione dell'allevamento che la gestione dell'azienda zootecnica.
LE CURE NEONATALI E LA FASE COLOSTRALE
L'animale appena nato (neonato) ha bisogno delle prime cure, dette appunto
neonatali, che consistono essenzialmente: nella ripulitura dall'eventuale liquido
amniotico accumulatosi nella bocca e/o nelle narici durante l'ultima fase fetale,
da eseguirsi a mano posizionando, se necessario, il neonato verticalmente e con
la testa rivolta verso il basso; nell'asciugamento del corpo, sempre bagnato da
liquido amniotico, con della paglia asciutta e pulita o meglio con uno straccio
assorbente; nella predisposizione di abbondante lettiera in uno stallo apposito,
riparato dalle correnti d'aria e con temperatura dell'ambiente intorno ai 20÷22
°C; nella somministrazione, entro le prime ore di vita, del colostro,
possibilmente materno oppure di stalla oppure, in subordine, artificiale; nella
separazione immediata del neonato dalla madre, ovviamente soltanto in caso di
allattamento artificiale, onde evitare sia l'instaurazione di legami affettivi fra
madre e figlio.
Il colostro è la prima secrezione mammaria, che incomincia normalmente già
prima del parto. Esso, nell'alimentazione del neonato, svolge le tre funzioni
seguenti: alimentare, lassativa e immunitaria.
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La funzione alimentare è dovuta al suo alto contenuto in principi nutritivi che,
variabile con la specie e la razza, è mediamente quello riportato nel prospetto
seguente.
La funzione lassativa è dovuta alla presenza di alcune sostanze minerali (in
particolare Mg) che esercitano la loro azione sull'intestino del neonato,
liberandolo dal meconio, che è l'insieme delle feci e dei prodotti catabolici
accumulativisi durante la vita intrauterina o fetale.
La funzione immunitaria è quella più importante ed è data dalla presenza di
immunoglobuline specifiche (gglobuline) nel colostro materno, le quali nelle
prime ore di vita del neonato sono assorbite come tali direttamente
dall'intestino, senza cioè essere digerite a livello gastrico: l'assorbimento è molto
elevato e rapido nell'animale giovanissimo (entro le prime 6 ore di vita), si
riduce progressivamente già dal primo giorno e cessa entro le 36÷48 h, in
quanto anche le globuline, seguendo, dopo il secondo giorno, la sorte di tutte le
altre proteine, sono digerite a livello gastrico. La indispensabilità del colostro
nell'alimentazione iniziale dei ruminanti è dovuta alla impermeabilità della loro
placenta, al contrario di altre specie, agli anticorpi materni: l'immunità passiva,
non acquisibile dal neonato durante la vita fetale, deve pertanto essere
trasmessa dal colostro, possibilmente materno, in attesa che il giovane realizzi
direttamente quella attiva. La concentrazione immunoglobulinica del colostro è
massima nei primi 2 giorni dal parto, nelle femmine pluripare ed in quelle nelle
quali la durata dell'asciutta sia stata di circa 2 mesi; l'assorbimento diretto delle
gglobuline per via intestinale sotto forma di macromolecole proteiche è dovuto
alla scarsa produzione abomasale di enzimi proteolitici e di acido cloridrico ed
alla grande permeabilità della mucosa intestinale nei primi giorni e soprattutto
nelle prime ore di vita del neonato.
La somministrazione del colostro è praticata: nel caso dell'allattamento naturale
in cui il neonato poppa il latte materno per tutto il periodo dell'allattamento, a
volontà e per diverse volte al giorno (3÷4 nelle specie bovina e bufalina, 5÷6 in
quella ovina e 2 in quella caprina), a seconda che il neonato segua la madre
104
(bovini, bufalini e ovini) oppure no (caprini); nel caso dell'allattamento
artificiale, in cui il latte materno è in genere sostituito dal succedaneo, per
mezzo di biberon per almeno 3 volte al giorno ed in quantità del 4÷5% del peso
corporeo dell'animale per volta ,corrispondenti a 4÷6 l/d, per vitelli e bufalini;
0,15÷0,20 l per somministrazione, corrispondenti a 0,4÷0,6 l/d, per agnelli e
capretti). Qualora non si disponga, per qualunque causa (morte della madre al
parto oppure assenza o ritardo della secrezione lattea), di colostro materno, si
deve ricorrere: preferibilmente, a colostro di femmine dell'allevamento (che
deve essere prelevato, immediatamente dopo il parto, da animali di buona
produzione e conservato, surgelato, in azienda anche per 3÷4 mesi), in quanto
provviste di anticorpi specifici contro le più diffuse infezioni dell'allevamento;
oppure a colostro artificiale che viene preparato con latte, tuorlo d'uovo e
antibiotici e conservato refrigerato in azienda; un trattamento termico
opportuno (alta oppure bassa temperatura) potrebbe risolvere i problemi legati
alla trasmissione lattogena di malattie parassitarie (ascaridiosi).
Lo scolostramento, che consiste nella soppressione della somministrazione del
colostro e nel passaggio alla somministrazione del latte (naturale oppure
artificiale), è forzatamente sempre graduale nell'allattamento naturale, ma deve
esserlo anche nell'allattamento artificiale: la somministrazione di solo latte deve
avvenire soltanto dopo il 3°÷4° giorno di età. Poichè in questa fase, nonostante
l'immunità passiva conferita dal colostro, il neonato è particolarmente sensibile
alle infezioni neonatali (enterotossiemia, setticemia e colibacillosi), queste
devono essere prevenute tempestivamente con la vaccinazione materna a base
di vaccini stabulogeni e/o con la vaccinazione del neonato a base di vaccini
specifici e con la somministrazione, in dosi massicce, di vitamine A, D, E.
L'ALLATTAMENTO
Ricevute le prime cure neonatali e superata la fase colostrale, il neonato deve
essere allattato, per un periodo più o meno lungo (almeno 2÷3 m nelle specie
bovina e bufalina e almeno 5÷6 w nelle specie ovina e caprina), esclusivamente
105
o quasi esclusivamente con latte (che può essere quello materno o comunque
della stessa specie) oppure con un suo succedaneo, per la sua incapacità a
digerire e quindi ad utilizzare proficuamente, almeno in questa prima fase della
vita, alimenti diversi dal latte: sino al completo svezzamento infatti anche i
ruminanti hanno un comportamento alimentare molto simile a quello dei
monogastrici; l'unico stomaco funzionante è di fatto quello vero, l'abomaso, il
cui volume costituisce il 70% dell'intero apparato gastrico (il complesso rumine-
reticolo e l'omaso costituiscono il restante 30%) ed in cui, attraverso il
meccanismo di chiusura della doccia esofagea che collega direttamente
l'esofago con l'abomaso senza la intermediazione di passaggio nei prestomaci, il
latte poppato perviene direttamente dalla bocca;
Fra le proteine: la caseina, che ne costituisce il componente principale (82÷83%
sulla proteina vera ), subisce nell'abomaso la coagulazione immediata ad opera
dell'HCl contenuto nel succo gastrico e la prima digestione ad opera
principalmente e inizialmente della rennina o chimosina, proteasi specifica della
caseina.
L'allattamento può essere naturale oppure artificiale.
L'ALLATTAMENTO NATURALE
L'allattamento naturale consiste nella utilizzazione, che può essere totale o
anche soltanto parziale, del latte prodotto dalla madre durante tutta o parte
della lattazione da parte dell'allevo direttamente per mezzo della poppata; esso
è praticato negli allevamenti estensivi delle razze rustiche e/o da carne di tutte
e 4 le specie (lo svezzamento coincide spesso con la fine della lattazione) e nelle
razze da latte di livello produttivo e tecnico non elevato delle specie ovina e
caprina.
Gli allevi poppano, per tutto il periodo di allattamento, il latte materno
seguendo le madri al pascolo per l'intera giornata (come nel caso dei bovini
rustici e/o da carne e degli ovini da latte) oppure soltanto durante la notte (in
quanto restano confinati di giorno) oppure ancora per due volte al giorno (al
106
mattino ed alla sera al rientro delle madri nel caprile, come nel caso dei caprini
allevati estensivamente).
La fase di allattamento si può protrarre per tutta la durata della lattazione (in tal
caso la produzione lattea non ha funzione economica diretta, ma è soltanto una
produzione fisiologica finalizzata alla produzione della carne e all'allevamento
della rimonta, come nel caso delle razze rustiche e/o da carne di tutte le specie)
oppure per la parte iniziale della lattazione (in tal caso l'animale viene
macellato oppure svezzato quando ha raggiunto un peso ritenuto idoneo ed il
latte è munto sino all'asciugamento dell'animale, come nel caso delle razze
ovine e caprine da latte e delle razze bovine di basso livello produttivo e/o
tecnico).
Durante questa fase il ritmo di accrescimento dell'allevo dipende, oltrechè dalle
sue potenzialità di crescita, soprattutto dalla quantità e dalla qualità (contenuti
lipidico e protidico) del latte materno e dalla sua disponibilità durante la
giornata (numero di poppate giornaliere).
L'ALLATTAMENTO ARTIFICIALE
L'allattamento artificiale può essere attuato sia con latte naturale che con un suo
succedaneo.
Nel primo caso, il latte materno o comunque della specie viene somministrato
razionatamente al secchio per 2÷3 volte al dì; è quanto avviene normalmente
con animali di basso livello produttivo e in allevamenti di scadente livello
tecnico oppure con allevi rimasti orfani, oppure ancora con eccedenze
produttive (bovini da latte di alto livello produttivo, con quote latte
insufficienti).
Nel secondo caso, in sostituzione del latte materno o della specie, viene
somministrato un succedaneo (sostitutivo) che deve rimpiazzare
adeguatamente il latte materno o della specie;
107
I SUCCEDANEI DEL LATTE.
I succedanei del latte sono alimenti in grado di sostituire completamente il latte
naturale, materno oppure della specie, durante tutta la fase di allattamento e
derivano, in genere, da sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia, ricostituiti
in alcuni loro componenti per poter appunto sostituire il latte; essi debbono
avere, per esserne conveniente l'impiego, un prezzo, riferito al succedaneo
ricostituito, di molto inferiore (<40%) a quello del latte naturale, il quale
pertanto, anzichè essere usato nell'alimentazione dell'allevo, è impiegato,
ovviamente previa mungitura, nell'alimentazione umana). I succedanei
fisicamente si presentano sotto forma di farine lattee, che devono essere molto
solubili per poter essere rinvenute in acqua al momento del loro impiego, e
sono costituiti fondamentalmente: per il 60÷75% da latte magro in polvere, che è
il residuo della lavorazione del burro; per il 5÷10% da siero di latte, che è il
residuo della lavorazione del formaggio ; per il 15÷25% da grassi animali,
derivati in genere dai residui della lavorazione delle carni.
Il latte magro in polvere è il residuo della sgrassatura del latte per la
produzione del burro. La sua qualità può essere valutata in base: al contenuto
in lisina utilizzabile rispetto a quello in lisina totale, che non deve essere
inferiore all' 80% al contenuto in caseina, che non deve essere inferiore al
2,5÷3% della s.s.; al tempo di coagulazione, alla solubilità e all'acidità. A causa
del suo elevato costo di produzione, il latte magro in polvere è purtroppo
spesso sostituito, almeno parzialmente, con prodotti alternativi (i cosiddetti
"latti senza latte"), il cui contenuto proteico però, essendo diverso dalla caseina
contenuta nel latte, può ridurne la digeribilità.
Nella scelta del succedaneo occorre quindi tener conto della fonte proteica
impiegata; questa può essere: la farina di soia, la farina di pesce, il siero di latte.
La farina di soia, per poter essere utilizzata senza inconvenienti come
integratore proteico del succedaneo del latte, deve essere preventivamente
disidratata, integrata con metionina e, per disattivarne i fattori antipepsinici ed
emoagglutinanti in essa contenuti, sottoposta a trattamento termico di tostatura
108
oppure chimico (farina fiore di soia),. Il siero di latte è il residuo della
coagulazione del latte per la produzione del formaggio ed è usato
prevalentemente nell'alimentazione suina ed in quella bovina adulta; esso può
essere impiegato anche in sostituzione, purchè però soltanto parziale, del latte
magro.
LA SOMMINISTRAZIONE DEL SUCCEDANEO.
Essa è praticata con modalità e tecniche variabili con la specie e la sua
destinazione produttiva (allevamento oppure ingrassamento); i parametri
principali da considerare sono: la concentrazione, la quantità, la temperatura di
erogazione, la modalità di distribuzione.
La concentrazione o diluizione del succedaneo è la quantità, sempre espressa in
peso (kg), di succedaneo da disciogliere nell'unità di volume (l) oppure di peso
(kg) di acqua; per vitelli è del 10÷14%, per bufalini del 12÷14%, per agnelli del
20÷24%, per capretti del 15÷18%, a seconda della destinazione produttiva
(svezzamento oppure ingrassamento); concentrazioni inferiori non
soddisferebbero appieno le esigenze nutritive dell'animale, con ripercussioni
negative sul suo stato di salute e sul suo ritmo di accrescimento; concentrazioni
superiori potrebbero provocare ingrassamento non desiderato, associato per
giunta a complicazioni digestive e a costi più elevati.
La quantità da erogare,;essa è mediamente:
· nella specie bovina: giornalmente, del 10÷12% del peso corporeo del vitello,
corrispondente a 4÷12 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,5÷1,5 kg/d di farina
lattea;
· nella specie bufalina: giornalmente, del 8÷10% del peso corporeo del vitello,
corrispondente a 4÷10 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,4÷1,2 kg/d di farina
lattea;
· nella specie ovina: giornalmente, del 10÷12% del peso corporeo dell'agnello,
corrispondente a 0,4÷ 1,2 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,08÷ 0,24 kg/d di
farina lattea;
109
· nella specie caprina: giornalmente, del 12÷14% del peso corporeo del capretto,
corrispondente a 0,5÷1,5 l/d di succedaneo rinvenuto ed a 0,075÷0,25 kg /d di
farina lattea.
La temperatura di erogazione può essere quella di refrigerazione del
succedaneo ricostituito (3÷4°C), quella corporea dell'animale (36÷38°C), quella
ambientale dell'allevamento (18÷20°C). Il primo sistema, adottato un tempo
soprattutto con le specie ovina e caprina, poichè necessita di un sistema di
refrigerazione in grado di mantenere il succedaneo ricostituito alla temperatura
di 3÷4 °C che è quella massima per evitare fermentazione e sviluppo batterico
nella massa e quindi disturbi intestinali gravi agli animali — non è più adottato.
LO SVEZZAMENTO
Lo svezzamento è la fase di transizione dell'animale giovane dall'alimentazione
lattea a quella con foraggi (erba, insilato, fieno) e concentrati, che può anche
coincidere con la separazione del figlio dalla madre (come nell'allevamento
estensivo) ma non necessariamente (come in quello intensivo, in cui questa
avviene con lo scolostramento o addirittura alla nascita).
Esso può essere praticato: gradualmente, quando la fase di passaggio
dall'alimentazione esclusivamente lattea (naturale o artificiale) a quella
esclusivamente solida (fieno e concentrati oppure erba oppure ancora insilati,
concentrati e fieno) è graduale; oppure bruscamente, quando tale fase di
passaggio e quindi di adattamento dell'animale è ridotta al minimo o
addirittura soppressa.
Lo svezzamento, comunque venga praticato, comporta sempre un
rallentamento (talvolta un arresto o addirittura una inversione) del ritmo di
accrescimento, con conseguente arresto oppure calo ponderale dell'animale; per
ridurre al minimo questo aspetto negativo occorre quindi attuare lo
svezzamento secondo opportune norme e tecniche.
Nell'allevamento estensivo (bovini rustici e da carne, ovini da latte di basso
livello produttivo ed ovini da carne) l'allevo durante la fase di allattamento
110
segue la madre al pascolo per tutta la giornata o per parte di essa ma, raggiunta
una determinata età (4÷8 m nei bovini, 6÷8 w negli ovini da latte e 10÷12 w in
quelli da carne), è separato e svezzato automaticamente a causa
dell'asciugamento della madre (bovini rustici e da carne) oppure per la
destinazione di tutto il latte prodotto alla mungitura (ovini da latte): in
entrambe le specie l'allevo viene svezzato gradualmente, in quanto
l'alimentazione solida, attuata quasi esclusivamente con erba, incomincia molto
precocemente (3÷4 m nei bovini, 3÷4 w negli ovini); normalmente le femmine
destinate alla rimonta hanno una fase, sia di allattamento che di svezzamento,
leggermente più lunga.
Nell'allevamento intensivo (bovini da latte, bovini da carne, bufalini, ovini da
latte di buon livello produttivo, caprini da latte) lo svezzamento è praticato
quasi sempre gradualmente, grazie alla somministrazione di soli concentrati o
di concentrati e fieno anche durante la fase di allattamento. Lo svezzamento
deve essere attuato in ciascuna specie ad età e pesi peculiari della razza; nella
pratica però conta, più che l'età, il peso corporeo che l'animale deve avere
raggiunto all'atto dello svezzamento; tale peso è quantificato normalmente in
almeno 2,5÷3 volte il peso alla nascita: kg 100 nei bovini da latte (80÷100 nelle
femmine e 100÷120 nei maschi), kg 200 nei bovini da carne (180÷200 nelle
femmine e 200÷220 nei maschi), kg 150 nei bovini rustici (120÷150 nelle
femmine e 150÷180 nei maschi), kg 80 nei bufalini (70÷80 nelle femmine e 80÷90
nei maschi), kg 10 negli ovini da latte (9÷10 nelle femmine e 10÷11 nei maschi),
kg 15 negli ovini da carne (14÷15 nelle femmine e 15÷16 nei maschi); kg 10 nei
caprini (8÷10 nelle femmine e 10÷12 nei maschi).
Durante lo svezzamento l'animale deve passare, più o meno gradualmente,
dalla fase di monogastrico funzionale (lattante), in cui l'unico stomaco
funzionante è quello vero (abomaso), alla fase di poligastrico funzionale
(ruminante), in cui gli stomaci funzionanti sono tutti e quattro (rumine-reticolo,
omaso ed abomaso); questo passaggio, dovendo essere il più graduale possibile
111
e quindi senza brusche variazioni, presuppone lo sviluppo progressivo dei
prestomaci associato alla riduzione relativa dell'abomaso.
L'apparato gastrico dei ruminanti è mediamente costituito in volume: nella
prima settimana di età, per il 70÷80% dall'abomaso, per il 15÷20% dall'omaso e
soltanto per l‘ 8÷10% dal complesso rumine-reticolo (corrispondente
globalmente a l 3 nella specie bovina e bufalina ed a l 0,3 nella specie ovina e
caprina); dopo lo svezzamento, per il 70÷80% dal ruminereticolo, per il 20%
dall'omaso e soltanto per il 10% dall'abomaso. Questo apparato, che nel suo
complesso passa da 7÷8 l/q di peso corporeo dell'animale nel neonato a 20÷25
l/q nell'adulto, subisce quindi, oltrechè un aumento dimensionale rilevante,
anche e soprattutto una modificazione relativa dei suoi componenti (lo sviluppo
relativo dei prestomaci e quello dell'abomaso si invertono con l'età e con il
cambiamento di alimentazione).
Lo sviluppo e la funzionalità dei prestomaci dipendono soprattutto dagli
alimenti usati, i quali vanno messi a libera disposizione dell'animale e debbono
possedere un'elevata concentrazione energetica (1÷0.9 UFL/kg di s.s.), proteica
(20÷22% di PDI) e soprattutto fibrosa (32÷35% di NDF) per garantire la
graduale funzionalità del rumine e la salvaguardia dell'apparato digerente da
turbe digestive.
Nell'allevamento bovino da latte di buon livello tecnico la fase di svezzamento
inizia molto presto, normalmente dopo la seconda settimana di età, con la
somministrazione di fieno di ottima qualità (possibilmente di medica o di logli)
in rastrelliera individuale o di gruppo (a seconda che i vitelli siano allevati in
box singoli oppure di gruppo) e di concentrato in mangiatoia (costituito
prevalentemente di farine di orzo, di mais, di estrazione di soia, dallo stesso
succedaneo del latte adoperato contemporaneamente per l'allattamento e da
integratori minerali e vitaminici) messi a disposizione, entrambi a volontà, in
posizione facilmente accessibile al vitello.
Dopo la 4÷5ª w, quando l'animale è già in grado di assumere gli alimenti solidi
anche se in modeste quantità (100÷200 g/d), deve aver inizio, per stimolare
112
ulteriormente la capacità e la funzionalità ruminali, la riduzione del latte, la cui
entità deve passare dai 10÷12 l/d della 4÷5ª w a zero nella 10a w con un calo
graduale di circa 2 l/d per w, mentre l'ingestione di fieno e di concentrati deve
crescere dai g/d 200÷250 iniziali sino ai kg/d 1,8÷2 alla fine dello svezzamento
che si completa intorno ai 2,5÷3 m di età.
Sotto l'aspetto tecnico, il vitello è considerato svezzato se a tale età il suo livello
di ingestione, fra fieno e concentrati, non è < al 2% del peso corporeo (kg/d
0,2÷0,3 di fieno e kg 1,8÷1,7 di concentrati al peso corporeo di kg 100 ed all'età
di 2,5 m, grazie ad un ritmo medio di accrescimento che deve essere stato di
kg/d 0,7÷0,8).
Nell'allevamento bovino da carne, sia esso praticato estensivamente con grande
ricorso al pascolamento oppure intensivamente in ambiente confinato, lo
svezzamento è attuato a pesi ed età più elevati di quelli dei bovini da latte m
quasi sempre gradualmente, in quanto il vitello utilizza tutto il latte prodotto
dalla madre per tutta la lattazione (4÷6 m), non essendo conveniente sottoporre
questa a mungitura sistematica per la sua scarsa attitudine lattifera (8÷10 kg/d
di produzione lattea massima e 4÷6 m di durata massima della lattazione,
corrispondenti ad una produzione totale per lattazione di l 800÷1200, quantità
peraltro più che sufficiente ad allevare un vitello da destinare successivamente
al ristallo per l'ingrassamento oppure all'allevamento per la rimonta); il vitello,
quando la produzione lattea materna diventa insufficiente (per contemporaneo
calo produttivo della curva di lattazione e per innalzamento delle sue esigenze
nutritive), è costretto ad alimentarsi prevalentemente con erba nell'allevamento
brado e con insilati e concentrati nell'allevamento intensivo.
Sotto l'aspetto tecnico, il vitello è considerato svezzato se a tale età il suo livello
di ingestione è del 2÷2,2%, il suo peso corporeo è di kg 220 a 6 mesi di età ed il
suo ritmo di accrescimento è stato mediamente di almeno 1 kg/d.
Nell'allevamento bufalino, destinato esclusivamente alla produzione lattea, lo
svezzamento, sia naturale che artificiale, è praticato gradualmente a m 3÷4
113
d'età, al peso di kg 80÷90 con tecniche simili a quelle dell'allevamento bovino da
latte di modesto livello tecnico.
Nell'allevamento ovino da latte lo svezzamento varia con il tipo di conduzione:
in quello semiestensivo, in cui è praticato sempre l'allattamento naturale, esso
incomincia alla 5÷6 w (età sino alla quale l'agnello segue la madre al pascolo,
poppandone tutto il latte), si protrae per 2÷3 w (in cui l'agnello segue la madre
al pascolo soltanto durante il dì ed è separato da essa durante la notte, in cui
riceve un'integrazione alimentare di fieno e concentrati) e termina alla 8ª w al
peso di kg 10÷12; in quello semintensivo, in cui è praticato spesso l'allattamento
artificiale, esso dura mediamente 2 w (5ª e 6ª), nelle quali la riduzione del
succedaneo disponibile e la utilizzazione del fieno e dei concentrati sono
graduali (svezzamento graduale) oppure la sospensione del succedaneo e la
somministrazione di alimenti solidi è praticata bruscamente alla 5ª w
(svezzamento brusco). Sotto l'aspetto tecnico, è preferibile lo svezzamento
graduale, da attuare in almeno 1 w di transizione dall'alimentazione
esclusivamente lattea a quella esclusivamente solida.
Nell'allevamento ovino da carne, in cui il ricorso al pascolamento è preminente,
l'agnello segue la madre al pascolo, ricevendo spesso una integrazione
soprattutto a base di concentrati sino ai 60÷75 d di età, indi è separato da essa e,
di norma, ingrassato per la produzione della carne e infine macellato.
Nell'allevamento caprino, lo svezzamento varia con il tipo di conduzione: in
quello estensivo il capretto, tenuto al chiuso ed allattato dalla madre sino alla 6a
w due oppure una sola volta al giorno a seconda dell'organizzazione aziendale,
è svezzato in 2 m con la somministrazione graduale di concentrati; in quello
intensivo il capretto è invece allattato con un succedaneo del latte sino alla 4ª÷5ª
w e successivamente svezzato, di norma gradualmente in 2 w, all'età di 2 m ed
al peso di kg 10÷12. Dopo lo svezzamento i giovani vengono destinati: in
piccola parte (12÷25% nei bovini, 10% nei bufalini, 25% negli ovini, 18% nei
caprini) all'allevamento per la rimonta, che è costituita in prevalenza da
femmine per effetto del loro superiore rapporto riproduttivo fra sessi; in gran
114
parte (l'eccedenza della rimonta) all'ingrassamento per la produzione della
carne anche con i soggetti di razze da latte e/o rustiche.
L'INGRASSAMENTO
L'ingrassamento è la tecnica con cui gli animali eccedenti la rimonta o giunti,
per qualsiasi causa, a fine carriera riproduttiva e/o produttiva o comunque non
più atti all'allevamento vengono messi in condizioni nutrizionali adatte per la
macellazione, ovviamente dopo aver raggiunto un peso ed uno stato corporeo
adeguati. L'ingrassamento può quindi essere attuato su animali giovanissimi
appena nati (ingrassamento latteo, per la produzione di lattoni a carne bianca)
oppure su animali giovani ma già svezzati (ingrassamento di vitelloni, bufalotti,
agnelloni e caprettoni) oppure ancora su animali adulti (ingrassamento di
animali a fine carriera oppure da scarto).
L'INGRASSAMENTO LATTEO
L'ingrassamento latteo degli animali giovanissimi è praticato con latte
(normalmente artificiale per il suo minor costo, ma talvolta anche naturale)
somministrato sempre a volontà allo scopo di esaltare al massimo la capacità di
accrescimento dell'animale e di anticiparne il più possibile l'età di macellazione.
La tecnica di produzione consiste essenzialmente nella somministrazione di
quantità superiori, in pratica con distribuzione quasi a volontà (12÷15%,
anziché 10÷12% del peso corporeo al giorno), di un succedaneo più energetico
(contenuto lipidico 25÷30%, anzichè 20%) e più proteico (contenuto proteico
24%, anzichè 20%) di quello di allevamento ed a concentrazione superiore in
modo che risultino superiori sia il livello di ingestione (1,5% anzichè 1%), sia il
ritmo di accrescimento (kg 1,2 anzichè 0,8 nei vitelli; g 300 anzichè 200 negli
agnelli; g 200 anzichè 150 nei capretti) ed il peso alla macellazione dell'animale
(q 1,8÷2,0 nei vitelli, kg 12÷15 negli agnelli e kg 10÷12 nei capretti).
Poichè però le carni ottenute da questi animali devono, per poter essere
giustamente apprezzate dal consumatore e quindi adeguatamente retribuite dal
115
mercato, avere gusto e colore particolari, i succedanei impiegati non devono
alterarne le caratteristiche fondamentali; esse devono quindi essere molto
proteiche e ricche di aminoacidi indispensabili, poco grasse ma ben dotate di
grassi insaturi e/o a catena corta, molto digeribili, bianche per scarsità di Fe,
adatte per tutte le categorie di consumatori ed infine molto versatili nell'uso
culinario. Questi animali sono purtroppo particolarmente predisposti, sia per il
tipo di alimentazione che costituisce pur sempre una forzatura nutrizionale, sia
per la ristrettezza degli spazi e la relativa concentrazione in cui essi vengono
mantenuti, a malattie soprattutto digestive — meteorismo, provocato da
anomala fermentazione ruminale per caduta di latte dalla doccia esofagea;
costipazione intestinale, provocata spesso da concentrazione eccessiva del
succedaneo; diarrea.
Nell'allevamento bovino l'ingrassamento incomincia subito dopo lo
scolostramento (ad 1 w di età, come nel caso dell'ingrassamento aziendale)
oppure anche più tardi (dopo 1 m, come nel caso dei vitelli importati). Esso è
attuato prevalentemente con razze da latte (Frisona e Bruna) ma anche con
razze da carne (Piemontese) e loro derivati, soprattutto se di sesso maschile, e
viene protratto per circa 5 mesi sino a pesi elevati (da kg 150÷180 a 220÷250)
grazie ai buoni ritmi di accrescimento (da g/d 800÷1000 a 1200÷1400)
realizzabili con la forzatura alimentare. Nell'allevamento ovino l’ingrassamento
incomincia dopo lo scolostramento (1÷2 d) ed è protratto, per 6÷8 w, sino a pesi
di kg 10÷12 nelle femmine e di 14÷16 nei maschi, soprattutto se meticci.
Nell'allevamento caprino incomincia dopo lo scolostramento ed è protratto per
6÷8 w sino a pesi di 12÷14 kg.
L'INGRASSAMENTO DEI GIOVANI GIÀ SVEZZATI
L'ingrassamento dei giovani già svezzati (vitellone , bufalotto, agnellone e
caprettone) varia con il tipo di animale (specie, razza, sesso ed età) e con il tipo
di allevamento (intensivo da latte o da carne oppure estensivo rustico o da
carne).
116
Nell'allevamento estensivo gli animali da ingrasso (ristalli) iniziano la fase di
ingrassamento in età giovanile avanzata, in quanto lo svezzamento coincide con
l'asciugamento materno (6÷8 mesi nei bovini rustici, 4÷6 mesi nei bovini da
carne, 2,5÷3 mesi negli ovini da carne o simili): poichè però i giovani
provenienti da questo tipo di allevamento, quasi sempre indenni da malattie
infettive sia virali che batteriche, sono di solito massivamente parassitati
(soprattutto strongilosi gastro-intestinali e broncopolmonari, teniasi e
distomatosi epatiche), la prima operazione che l'allevatore deve eseguire, ancor
prima di iniziare l'ingrassamento, è un esame parassitologico per diagnosticare
il tipo di parassita ed il conseguente trattamento farmacologico;
successivamente gli animali debbono essere riuniti in gruppi omogenei per
sesso, tipo genetico, peso corporeo e, possibilmente, anche per età e
provenienza, allo scopo di poter praticare tecniche di ingrassamento (livelli
nutritivi, piani alimentari, durata d'ingrassamento) adeguate a ciascun gruppo.
Nell'allevamento intensivo invece gli animali da ingrasso iniziano la fase di
ingrassamento in età più giovanile, in quanto l'allattamento è di norma
artificiale e lo svezzamento è di conseguenza precoce (2,5÷3 m nei bovini da
latte e nei bufalini, 3÷4 m nei bovini da carne, 4÷6 w negli ovini da latte e nei
caprini); gli animali provenienti da questo tipo di allevamento sono spesso
mantenuti per qualche periodo (2÷3 mesi, i bovini e i bufalini; 2÷3 w, gli ovini
ed i caprini) nella stessa struttura di svezzamento, indi sono trasferiti (a 5÷6 m i
bovini ed i bufalini, a 8÷10 w gli ovini ed i caprini) in apposite strutture di
ingrassamento del tutto simili o uguali a quelle per gli animali provenienti
dall'allevamento estensivo.
La durata dell'ingrassamento, e quindi l'età ed il peso alla macellazione,
variano: con il sesso (i maschi, per la loro maggiore capacità di accrescimento
sia come ritmo che come persistenza, possono essere macellati ad un'età
superiore a quella delle femmine), con il tipo genetico (le razze da carne, i loro
meticci, le razze da latte e le razze rustiche maturano in ordine temporalmente
decrescente); con la provenienza (gli animali bradi maturano dopo quelli
117
stallini) e con il piano alimentare (piani sempre alti comportano ingrassamento
spinto, non sempre desiderabile, e indici di conversione più elevati; piani
sempre moderati comportano accrescimenti bassi, carni magre e tempi lunghi;
piani discontinui, alto-moderato o moderato-alto, sono spesso i più indicati per
contemperare ritmi di accrescimento sostenuti, buone conversioni, giusto
ingrassamento e tempi modesti).
L'ALLEVAMENTO DELLA RIMONTA
L'allevamento aziendale della rimonta è indispensabile negli allevamenti che
producono in proprio i giovani animali (maschi e/o femmine) per la
riproduzione.
La sua entità — Quota di rimonta — viene espressa come percentuale di
animali che ogni anno debbono essere allevati per la riproduzione e che hanno
la funzione di sostituire gradualmente quelli che vengono eliminati
dall'allevamento perchè giunti a fine carriera oppure per malattia oppure
ancora per altre cause.
La quota di rimonta è variabile con la specie, con la razza e con il tipo di
allevamento e dipende essenzialmente dal numero medio di nati per carriera
produttiva oppure riproduttiva,
La quota di rimonta obbligatoria, cioè la percentuale minima di animali da
allevare ogni anno per mantenere costante la consistenza numerica
dell'allevamento; l'allevatore non può quindi scendere al di sotto di tale limite,
ma può superarlo, qualora decida, per qualsiasi ragione tecnica e/o economica,
di allevare annualmente una quota superiore, che costituisce quindi la quota di
rimonta facoltativa. Ovviamente la quota di rimonta maschile è di molto
inferiore a quella femminile sia per il diverso rapporto riproduttivo fra i sessi
(1:20÷40 nei bovini rustici; 1:50÷100 nei bovini da latte; 1:20÷30 nei bufalini;
1:40÷60 negli ovini; 1:60÷80 nei caprini, in caso ovviamente di adozione della
inseminazione naturale) sia per la diversa durata della carriera riproduttiva nei
due sessi (sempre superiore nelle femmine rispetto ai maschi).
118
Gli aspetti più importanti da tenere in considerazione sono l'alimentazione, la
riproduzione e la conduzione dell'allevamento.
L'alimentazione deve essere basata sull'impiego di alimenti: sufficientemente
fibrosi, in quanto lo sviluppo dell'apparato digerente, ed in particolare del
rumine e della sua flora cellulosolitica indispensabile per la funzionalità
dell'organo, è strettamente legato alla concentrazione fibrosa della razione;
sufficientemente energetici (0,7÷0,8 UFL/kg di s.s.), in quanto una carenza
energetica, che spesso si accompagna ad una fibrosità eccessiva, può ridurre il
ritmo di accrescimento e l'armonico sviluppo del giovane (ritardo nella
comparsa del primo calore e quindi dell'età al primo parto, sviluppo corporeo
ridotto e quindi animale sotto peso), così come una eccedenza energetica, che
spesso si accompagna ad un uso eccessivo di concentrati e/o di insilati, può
provocare un ingrassamento non voluto e dannoso all'animale, che può avere
ripercussioni negative sulla carriera riproduttiva ed in particolare sulla
funzionalità ovarica (deposito eccessivo di grasso, difficoltà di parto);
giustamente proteici (18÷20% di proteina grezza CP), in quanto soprattutto la
carenza proteica comporta riduzione del ritmo di accrescimento (il giovane
animale per crescere adeguatamente ha bisogno di concentrazioni proteiche
tanto più elevate quanto più scadente è il foraggio e minore è l'apporto di
concentrato). In pratica, gli animali costituenti la rimonta dovrebbero essere
suddivisi, dallo svezzamento al 1° parto, in tre gruppi, possibilmente omogenei
per peso corporeo e per età, nel modo seguente:
· per i bovini ed i bufalini: manzette da 3 a 6 mesi, da alimentare
prevalentemente con fieno e concentrati; manze da 6 a 18 mesi, con fieno,
insilati e concentrati; giovenche da 18 mesi sino al 1° parto (27±3 mesi) con
fieno, insilati e concentrati;
· per gli ovini e i caprini: agnelle/caprette da 1,5÷2 mesi sino a 3÷4 mesi, con
fieno e concentrati; agnelle/caprette da 3 a 10 mesi, con pascolo e concentrati;
agnelle/caprette da 10 mesi sino al 1° parto (15±1 mesi) con fieno, pascolo e
concentrati.
119
Il concentrato dovrebbe apportare il 60÷65% dell'energia totale della razione
nella prima categoria, il 45÷50% nella seconda ed il 20÷25% nella terza; l'insilato
dovrebbe essere somministrato soltanto alla seconda e alla terza categoria, in
quantità non superiore ai kg 6÷8 alle manze ed a kg 0,5÷0,7 alle agnelle e alle
caprette; il fieno a tutte le categorie.
L'efficienza riproduttiva è legata soprattutto all'età alla prima inseminazione e
quindi al 1° parto: sebbene il primo calore si manifesti abbastanza presto (10±2
m nei bovini da latte, 12±3 in quelli da carne, 8±2 in quelli rustici; 15±3 nei
bufalini; 7±1 negli ovini da latte; 6±1 nei caprini), è consigliabile praticare la 1ª
inseminazione non prima che l'animale abbia raggiunto una determinata età
(15÷18 m nei bovini da latte, 21÷24 m in quelli da carne, 24÷27 m in quelli
rustici; 30÷33 m nei bufalini, 10÷12 m negli ovini, 8÷10 m nei caprini) o meglio
ancora un determinato peso corporeo (60÷70% di quello adulto tipico della
specie e della razza) oppure ancora una determinata statura che è la misura più
facilmente rilevabile. Un forte anticipo del primo parto comporta quasi sempre:
una minore produzione nella 1a lattazione, spesso senza possibilità di recupero
in quelle successive; una maggiore difficoltà di parto, associata ad una più
frequente ritenzione placentare; un arresto dello sviluppo corporeo, senza
possibilità di recupero successivo. Un ritardo determina invece un minor
numero di nati per carriera riproduttiva ed un maggior costo di allevamento
della rimonta.
La corretta conduzione della rimonta è imperniata molto sull'allevamento degli
animali all'aperto, il cui ricovero va limitato possibilmente alle stagioni estreme
(inverno ed estate), alla notte e/o alle giornate molto calde, grazie all'effetto
benefico che il movimento spontaneo (ginnastica funzionale) e soprattutto il
pascolamento esercitano su tutti gli animali ed in specie su quelli in
accrescimento.
120
IL PASCOLAMENTO
Il pascolamento è l'utilizzazione diretta (brucamento) dell'erba, qualunque sia la
sua provenienza: pascoliva, se da pascoli naturali non sfalciabili; prativa, se da
prati, naturali o artificiali, sfalciabili; coltivata, se da erbai annuali o stagionali.
Esso, rispetto ad altre forme di utilizzazione dell'erba (insilamento, fienagione
e disidratazione), offre vantaggi economici, produttivi ed igienico-sanitari.
I vantaggi economici sono legati alla riduzione sia dei costi di produzione,
grazie all'utilizzazione diretta dell'erba anzichè alla sua somministrazione in
stalla o in ovile, sia delle perdite per sfalciatura e/o conservazione (20÷25% vs
30÷35% sulla sostanza secca e 20÷30% vs 35÷40% sul valore nutritivo). I
vantaggi produttivi sono legati alla composizione dell'erba che è in genere di
più alto valore nutritivo (0,7÷0,9 UFL/kg), di più elevata digeribilità (75÷80%),
di maggior contenuto proteico (15÷25% di CP) e vitaminico. I vantaggi igienico-
sanitari sono legati al movimento degli animali all'aria aperta, che si ripercuote
positivamente tanto sulla funzione produttiva quanto e soprattutto su quella
riproduttiva.
I principi del pascolamento razionale si basano sulle esigenze sia della pianta
che dell'animale: per quanto riguarda le prime, la pianta al momento del
pascolamento deve aver raggiunto uno stadio vegetativo che le consenta di
riprendere, immediatamente dopo la recisione , il proprio accrescimento, grazie
all'accumulo nelle radici di sufficienti sostanze di riserva in grado di sopperire
temporaneamente alla mancata sintesi produttiva causata dall'asportazione
della parte aerea; per quanto riguarda le seconde, l'animale appetisce l'erba
quanto più essa è giovane, ingerendone quantità differenti in funzione dello
stadio vegetativo.
Sotto l'aspetto qualitativo, l'erba è tanto più appetibile e digeribile quanto più
essa è giovane e tenera, ossia nella fase iniziale dell'accrescimento; sotto
l'aspetto quantitativo, la sua produzione (in q/ha di s.s.) è massima nello stadio
di maturità, ossia alla fine della fase di accrescimento;
121
I PARAMETRI DEL PASCOLAMENTO RAZIONALE
I parametri del pascolamento razionale, che discendono dall'osservanza dei
principi suesposti, sono: il momento ottimale di pascolamento, il periodo
ottimale di riposo ed il tempo ottimale di permanenza (di soggiorno e/o di
occupazione) degli animali.
Il momento ottimale di pascolamento è il momento migliore per immettere gli
animali al pascolo e dipende dall'evoluzione quantitativa e qualitativa dell'erba,
rilevabili: la prima, con l'andamento della curva di crescita e/o di ricrescita
dell'erba, espressa normalmente in q/ha di sostanza secca; la seconda, con
l'andamento della curva di evoluzione dell'erba, espressa in UFL o UFC/kg di
s.s., in pratica quando l'altezza media dell'erba ha raggiunto i cm 15÷18 nel
pascolamento bovino e bufalino e i cm 12÷15 in quello ovino e caprino (oltre
tale limite il calpestio eccessivo riduce l'utilizzazione della massa erbacea
disponibile).Con la transizione dalla fase vegetativa a quella riproduttiva,
nell'erba aumenta il contenuto in s.s. ed in fibra ma diminuisce la sua
concentrazione energetica e proteica e quindi la sua ingeribilità e digeribilità.
Il periodo ottimale di riposo, che è la durata minima che deve intercorrere fra la
fine del pascolamento precedente e l'inizio di quello successivo, deve essere tale
da consentire all'erba pascolata di raggiungere nuovamente l'altezza di
pascolamento; esso dipende dalla stagione (è più lungo in autunno che in
primavera) e dal suo andamento (piovosità e distribuzione pluviometrica,
temperatura giornaliera media e soprattutto minima, ventosità e illuminazione),
nonchè dalla rapidità di ricaccio dell'essenza vegetale .Tale periodo oscilla
mediamente: fra 18÷20 d in primavera; 12÷15 d in estate, ovviamente in irriguo;
30÷35 d in autunno; 45÷50 d in inverno, purchè in zone altimetriche non
elevate.
Il tempo ottimale di permanenza degli animali è la durata ottimale di
pascolamento in giorni e può essere riferito alla permanenza di ciascun gruppo
(tempo di soggiorno) oppure alla permanenza complessiva dei diversi gruppi
(tempo di occupazione).
122
Poichè però gli animali compiono sempre una scelta sia fra le diverse essenze
vegetali che fra le loro differenti parti anatomiche, nel primo giorno vengono
ingerite le parti migliori (foglie), nel quarto invece quelle peggiori (steli): ciò ha
ripercussioni negative sull'andamento produttivo degli animali soprattutto in
quelli in lattazione, nei quali la risposta produttiva alla variazione alimentare è
immediata; per evitare ciò, si ricorre alla suddivisione della mandria o del
gregge in almeno 2 gruppi (animali in lattazione e animali in asciutta oppure
animali di maggiore livello produttivo e animali di minor livello produttivo) da
immettere nel pascolo rispettivamente nei primi 2 giorni e nei secondi 2 giorni
del turno, in modo che il gruppo più esigente utilizzi l'erba migliore non ancora
pascolata e quello meno esigente l'erba già pascolata dal gruppo precedente; in
tal modo è rispettato un tempo di soggiorno di 2 d ed un tempo di occupazione
di 4 d.
Sotto l’aspetto della protezione sanitaria degli animali è sempre preferibile
praticare il pascolamento, in particolare nelle stagioni intermedie (fine autunno
e inizio primavera), nelle ore centrali dellagiornata, allo scopo di ridurre
l’ingestione delle larve presenti nell’erba umida della notte e/o del mattino
(strongilosi) e di evitare il rallentamento dei processi digestivi che favoriscono
l’insorgenza di tossicosi (gastroenterotossiemia
LA STABULAZIONE
La stabulazione è il ricovero in appositi locali e/o il contenimento con apposite
attrezzature degli animali in produzione zootecnica. Essa, a seconda
dell'aspetto considerato, può essere distinta:
rispetto alla durata, in: permanente o continua, quando gli animali vivono per
tutto l'anno nei ricoveri, ovviamente escluse le ore di pascolamento
(normalmente 3÷4 nei bovini da latte, 6÷8 nei bovini da carne, negli ovini da
latte e nei caprini) qualora questo venga praticato continuativamente per tutto
l'anno (come nel sistema semiestensivo) oppure saltuariamente per alcune
stagioni (come nel sistema semintensivo); temporanea o discontinua, quando gli
123
animali sono mantenuti nei ricoveri soltanto in alcune stagioni (normalmente
d'inverno e/o d'estate); · rispetto alla libertà di movimento degli animali, in:
fissa, quando gli animali sono mantenuti legati nella posta o rinchiusi in un
recinto — individuale o collettivo — molto stretto; libera, quando gli animali
sono liberi di muoversi a proprio piacimento nel ricovero. La stabulazione è
quindi, di fatto, limitata soltanto agli allevamenti stallini e semistallini,.
La stabulazione quindi comporta inevitabilmente la necessità della presenza di
fabbricati aziendali, i quali, in funzione della loro destinazione, vengono distinti
fondamentalmente in: locali per il ricovero degli animali, denominati stalle per i
bovini ed i bufalini, ovili per gli ovini e caprili per i caprini, tettoie per tutte le
specie quando essi risultano aperti almeno su un lato; locali di servizio degli
animali (sala di attesa, sala di mungitura, sala di raccolta e di refrigerazione del
latte e sala di servizio del personale, per gli allevamenti da latte; sala di parto,
sala di isolamento degli animali ed infermeria, per tutti gli allevamenti); locali
di conservazione degli alimenti (fienili o tettoie per il fieno, sili per gli insilati,
magazzini per i concentrati, pagliai per la paglia); strutture accessorie: quali
corridoi di transito, di guida, di pesatura e di contenimento degli animali;
concimaie per la raccolta e/o la fermentazione dei residui (deiezioni solide o
feci, deiezioni liquide o urine, paglia e/o lettiera, acqua di lavaggio degli
impianti) e recinzioni più o meno ampie per l'allevamento dei giovani.
I LOCALI PER IL RICOVERO DEGLI ANIMALI
LE CARATTERISTICHE GENERALI
I locali per il ricovero degli animali, qualunque sia la loro destinazione
produttiva (latte, carne, duplice), la categoria e la fase produttiva (giovani in
allattamento, in svezzamento, in ingrassamento oppure in allevamento;
femmine in produzione — in mungitura o in allattamento — oppure in asciutta;
maschi in attività oppure in riposo riproduttivo), debbono ottemperare sempre
ai tre seguenti requisiti fondamentali: igienicità dell'ambiente; efficienza di
conduzione dell’allevamento, economicità di gestione dell'azienda.
124
L’igienicità dell'ambiente. Per garantire la sanità degli animali, l'igiene dei
locali, soprattutto se la stabulazione è fissa e/o permanente, deve essere sempre
molto curata; gli elementi principali da considerare per realizzare l'igienicità
sono: la ubicazione, l'esposizione, la termoregolazione, la ventilazione, la
umidificazione e la illuminazione dei locali.
La ubicazione, che è sempre fortemente condizionata dalle caratteristiche
orografiche dell'azienda (conformazione planimetrica, giacitura ed esposizione
dei terreni), deve essere realizzata in zona asciutta, ventilata, soleggiata,
pianeggiante, con possibilità di esecuzione di ampie recinzioni attigue per i
giovani ed in posizione baricentrica rispetto alle attività aziendali.
L'orientamento o esposizione, che è condizionata dalla posizione geografica
dell'azienda (latitudine, altitudine, direzione dei venti dominanti, insolazione) e
dal tipo di allevamento (specie allevata ed indirizzo produttivo), è normalmente
quello Nord - Sud, talvolta con rotazione di 10÷20 gradi verso E per aumentare
l'insolazione nei periodi freddi oppure verso O per ridurla in quelli caldi, nelle
zone di pianura; quello Est - Ovest con il lato aperto verso Sud per favorire
l'insolazione, nelle zone collinari.
La termoregolazione è indispensabile per mantenere, per quanto possibile,
l'ambiente entro intervalli termici vicini a quelli ottimali per la specie e la
categoria allevate (°C 12±6 per vacche in lattazione, 15±5 per vitelloni, 18±2 per
vitelli in allattamento; 10±5 per pecore, 18±2 per agnelli; 15±5 per capre, 20±2
per capretti). Essa può essere realizzata: all'interno dei locali, oltrechè con la
coibentazione delle sue parti (tetto, pareti, pavimento), con il riscaldamento
invernale ed il raffreddamento estivo a mezzo di pompe di calore; all'esterno
dei locali, con pareti protettive oppure con l'ombreggiamento, rispettivamente.
La ventilazione è indispensabile per garantire un adeguato ricambio dell'aria
(almeno 3÷4 ricambi completi ogni ora) e per evitare l'accumulo: della anidride
carbonica CO2, prodotta dalla respirazione degli animali e dalla fermentazione
delle loro feci e della loro lettiera; dell'ammoniaca NH3, prodotta dalla
fermentazione delle urine; dell'acido solfidrico H2S proveniente dalla
125
fermentazione della lettiera;. Tale ricambio può essere ottenuto, oltrechè
direttamente con la ventilazione, con l'impiego di finestrature sulle pareti.
La umidificazione oppure l’essiccazione dell'aria sono indispensabili per
regolare l'umidità relativa dell'ambiente, il cui valore ottimale è del 60÷80 % ed
il cui livello minimo è del 45÷40 %. Essa è praticata, più che con l'impiego di
umidificatori oppure di essiccatori che sono sempre molto costosi, adottando
accorgimenti costruttivi e/o espositivi che facilitino il ricambio dell'aria e
l'insolazione e limitino l'accumulo di umidità e soprattutto il suo
condensamento negli strati alti e la successiva precipitazione in quelli bassi.
La illuminazione, che, salvo rari casi, è praticata artificialmente soltanto di
notte, è garantita da una buona esposizione e da una opportuna disposizione
dei vari fabbricati; queste devono consentire una luminosità naturale più
intensa e lunga possibile allo scopo di favorire tutte le attività dell'animale
(maggiore livello di ingestione, maggiore sintesi vitaminica, deambulazione più
frequente etc.).
La efficienza di conduzione dell’allevamento è legata principalmente alla
efficienza della manodopera nel governo degli animali: la movimentazione di
questi, qualunque sia la loro libertà di movimento e quindi il tipo di
stabulazione, deve poter essere attuata sempre facilmente, comodamente, senza
perturbazioni etologiche per essi e con il minimo dispendio di manodopera;
pertanto i percorsi degli animali devono essere minimi, abitudinari e ripetitivi.
La economicità di gestione dell’azienda è legata al costo di costruzione e di
gestione dei fabbricati, alla durata del loro ammortamento tecnico ed alle spese
di gestione dell'allevamento. Essa è in genere stimata come costo unitario per
capo allevato e/o per kg di prodotto..
Le strutture minime
Le strutture dei ricoveri, qualunque sia la loro tipologia costruttiva ed i
materiali impiegati, sono sempre costituite da: Pavimento, Pareti, Tetto,
Attrezzature.
126
Il Pavimento può essere eseguito in calcestruzzo (continuo oppure fessurato
con sottostante fossa di raccolta delle deiezioni) oppure in metallo (grigliato,
per giovani in ingrassamento) oppure in legno (gabbie per giovani in
allattamento) oppure in paglia su battuto in terra (stabulazione libera); esso
deve essere sempre isolato termicamente ed igroscopicamente, possedere una
pendenza non < al 3% per garantire lo smaltimento delle urine e non > al 5% e
possibilmente rugoso, per evitare lo scivolamento degli animali.
Le Pareti, eseguite normalmente in blocchetti forati di calcestruzzo poroso a
tamponamento degli spazi fra i pilastri generalmente metallici, devono essere
sempre provviste di finestre apribili per l'arieggiamento, la cui superficie
rispetto a quella del pavimento non deve essere inferiore ad 1/15; la il ricambio
di questa deve essere garantito almeno 3 ÷ 4 volte per ora.
Il Tetto, che può essere eseguito in tegole, in lamiera o in fibrocemento, deve
garantire comunque un sufficiente isolamento termico (ad esempio con
l'impiego, soprattutto nelle strutture chiuse, di isolanti quali polistirolo estruso,
poliuretano espanso, lana di vetro) ed evitare la possibilità di condensamento e
di ricaduta dell'umidità ambientale.
Le Attrezzature, che ovviamente dipendono dal tipo di stabulazione, sono: le
rastrelliere (normalmente in ferro zincato) fisse oppure mobili e le tazze di
abbeveraggio, che devono essere sempre presenti; i battifianchi e le catene di
contenimento, necessari soltanto nella stabulazione fissa.
Le aree o zone dei ricoveri
Le aree o zone di suddivisione dei ricoveri, qualunque sia il tipo di stabulazione
(permanente oppure temporanea) e la sua modalità (fissa oppure libera) sono le
seguenti 3: area di riposo o di decubito, area di alimentazione, area di esercizio
o di passeggio. Queste tre aree sono nettamente distinte e separate anche
fisicamente nella stabulazione libera, non sempre distinte in quella fissa.
La area di riposo o di decubito è l'area in cui gli animali riposano (i ruminanti
dormono per circa 6 h/d, ruminano per circa 12 h/d ed ingeriscono alimenti
127
per circa 6 h/d) e/o ruminano e quindi stanno sdraiati, normalmente sul fianco
destro, in posizione di decubito. Essa deve essere sana, confortevole sia per
temperatura che per umidità che per aerazione e con pavimento morbido.
L'area di alimentazione è l'area in cui agli animali è somministrata la razione ed
in cui essi trascorrono circa 1/4 della giornata ed emettono circa 2/3 delle feci:
nella stabulazione fissa è attigua ma non separata dall'area di riposo, in quella
libera è in genere sistemata ortogonalmente o parallelamente all'area di riposo
da cui è però sempre nettamente distinta.
La area di esercizio o di passeggio è l'area in cui l'animale circola liberamente ed
a suo piacimento durante tutto il giorno ed in cui permane per 6÷12 h/d.
I RICOVERI PER I BOVINI
I ricoveri per bovini, denominati genericamente stalle (o più propriamente
tettoie se aperte almeno su un lato) sono condizionati sia dall'indirizzo
produttivo dell'allevamento (latte oppure carne) che dalla categoria produttiva
degli animali (giovani destinati all'allevamento oppure all'ingrassamento;
vacche per la produzione lattea oppure per quella carnea).
I ricoveri per i giovani
I ricoveri per i giovani in allattamento oppure in svezzamento, qualunque ne
sia la destinazione produttiva (allevamento per la rimonta oppure
ingrassamento per la macellazione) sono caratterizzati: negli allevamenti da
latte, da box singoli normalmente in legno, sistemati all'aperto o sotto tettoia,
dove devono essere provviste di zona di passeggio e di lettiera abbondante
nella zona di riposo e mantenute a temperatura ed umidità più costanti
possibili (rispettivamente, 18±2°C e 65±10%); · negli allevamenti da carne, da
box collettivi, attigui oppure interni alla stalla delle madri, per tutta la durata
dell'allattamento (5÷6 mesi).
I ricoveri per i giovani in allevamento sono caratterizzati da box multipli per
20÷40 capi in tettoie spaziose (1 mq/q di peso corporeo), munite di zona di
128
passeggio molto ampia (recinti di 10÷20 mq/capo) in cui i vitelli, separati per
sesso, restano dai 3÷4 oppure dai 6÷8 mesi sino alla età della riproduzione.
I ricoveri per le vacche da carne I ricoveri per le vacche da carne sono legati al
tipo di allevamento (stallino oppure semistallino) ed al tipo di stabulazione
(libera oppure fissa): poichè però di fatto è diffusa soltanto la stabulazione
libera in qualsiasi tipo di allevamento, le stalle devono disporre di una zona di
riposo, di una zona di alimentazione e di una zona di passeggio comprende
anche lo spazio necessario ai vitelli nel periodo di allattamento alla madre che
dura 4÷6 mesi);
I ricoveri per le vacche da latte
Nell'allevamento bovino da latte — praticato ormai esclusivamente con il
sistema intensivo senza ricorso al pascolamento e, limitatamente alle regioni
meridionali, con il sistema semintensivo con ricorso al pascolamento soltanto
nelle stagioni di maggior produzione foraggera — la stabulazione, che è sempre
permanente, può essere fissa oppure libera.
La stabulazione fissa, praticata in aziende collinari di modeste dimensioni (< 30
vacche) e di basso livello tecnico e produttivo, è attuata con stalle chiuse in cui
la zona di riposo è formata da poste di m 2 x 1 separate individualmente da
battifianchi, la zona di alimentazione è attigua a quella di riposo e la zona di
passeggio è distaccata dalla prima: gli animali sono normalmente disposti su 2
file (testa a testa, con 1 corsia di alimentazione centrale e 2 corsie di servizio
laterali; oppure groppa a groppa, con 1 corsia di servizio centrale e 2 di
alimentazione laterali) ove rimangono per almeno 16÷18 h/d legati con catena
alla rastrelliera e da cui vengono condotti alla zona di passeggio ad orario
stabilito. La superficie di riposo è di 2 mq/capo, il fronte mangiatoia di 1
m/capo, la superficie di passeggio è di 6÷8 mq/capo.
La stabulazione libera, che, rispetto a quella fissa, garantisce una migliore sanità
animale (affezioni mammarie e podali meno gravi) ed una maggiore
produttività (carriera produttiva più lunga e fecondità superiore) in quanto le
129
vacche sono libere di muoversi durante tutto il giorno a loro piacimento, è
caratterizzata dalla presenza delle 3 zone di riposo, di alimentazione e di
passeggio normalmente ben delimitate e fisicamente distinte.
L'area o zona di riposo può essere individuale (a cuccetta) oppure collettiva (a
lettiera permanente):
• le cuccette — delle dimensioni minime di m 2,20 x 1,15 (2,5 mq/capo) e
di m 2,60 x 1,35 (3,5 mq/capo) a seconda che il peso corporeo degli animali sia
di 5 oppure 7 q (0,5 mq/q), separate fra loro per evitare agli animali reciproci
disturbi e disposte in doppia fila in numero non > a 30 per fila per evitare
un'eccessiva densità — sono quotidianamente rifornite di paglia (1 kg/d) per la
lettiera;
• la lettiera permanente, per il cui buon mantenimento sono invece
necessari, a seconda del clima ed in particolare della piovosità invernale, 3÷4 kg
x capo/d di paglia, ha una superficie unitaria, a seconda del peso corporeo
degli animali, di 4÷6 mq con pendenza del pavimento fra 3÷5%.
• L'area o zona di alimentazione, che è sempre preferibile tenere separata
anche fisicamente dalle altre 2 aree, è disposta in genere ortogonalmente a
quella di riposo, in posizione leggermente rilevata, coperta con strutture leggere
e formata da una corsia centrale di distribuzione meccanizzata degli alimenti
(4÷5 m di larghezza) e da 2 mangiatoie laterali (m 1,6÷1,8 di larghezza) con
rastrelliera autocatturante di lunghezza proporzionale alla consistenza
dell'allevamento
• L'area di passeggio, la cui superficie è normalmente doppia di quella di
riposo (8÷12 mq/capo) deve essere aperta, libera, ben esposta, ventilata,
facilmente ripulibile dalle deiezioni e dotata di cumuli in terra per una migliore
ventilazione estiva degli animali. Essa è realizzata con pavimento in parte in
battuto di cemento ed in parte in battuto di terra.
• La asportazione del letame (lettiera + feci + urine fermentati), la cui
produzione annuale complessiva si aggira mediamente intorno alle 10÷12 volte
il peso corporeo degli animali nella stabulazione fissa e intorno alle 8÷10 volte
130
in quella libera deve essere eseguita almeno settimanalmente nella prima e
almeno trimestralmente nella seconda (comunque quando lo strato raggiunge
l'altezza di cm 10÷15 e di cm 40÷50, rispettivamente). Le deiezioni, che
giornalmente sono pari mediamente all' 1% del peso corporeo, vengono emesse
per il 65% nella zona di alimentazione.
I LOCALI DI SERVIZIO PER GLI ANIMALI
Il tipo e l'entità dei locali di servizio variano in funzione dell'attitudine
produttiva degli animali: per quelli da carne sono infatti sufficienti soltanto la
sala di parto, la sala di isolamento e l'infermeria; per quelli da latte, oltre ai
precedenti, sono invece indispensabili tutti quelli per la mungitura (sale di
attesa e di mungitura degli animali, di refrigerazione del latte e di servizio del
personale).
La sala di parto è formata da box individuali per i bovini ed i bufalini e da box
collettivi per gli ovini ed i caprini; la dimensione del box è di mq 8÷10 per capo
nel primo caso, di mq 50÷60 per 50 capi nel secondo caso.
La sala di isolamento, che è particolarmente importante negli allevamenti che
praticano il ristallo o l'ingrassamento dei vitelli scolostrati, deve poter contenere
per almeno 5÷10 d gli animali da ingrassare.
L'infermeria è indispensabile soprattutto per gli allevamenti a stabulazione
permanente, in cui maggiore è il pericolo di contagio e di diffusione delle
malattie sociali.
La sala di attesa, antistante quella di mungitura, deve essere proporzionata alla
consistenza dei gruppi in mungitura (mq/capo 2 per bovini e bufalini e 0,5 per
ovini e caprini).
La sala di mungitura, da eseguire sempre con materiale lavabile sia nel
pavimento che nelle pareti (grès o ceramica), deve essere proporzionata alla
consistenza dell'allevamento: 1 posto ogni 10÷12 animali in mungitura.
131
La sala di raccolta e di refrigerazione del latte è formata da contenitori (tanks)
che devono contenere tutto il latte delle 24 h se il conferimento è quotidiano
oppure delle 48 h se il conferimento avviene ogni 2 giorni.
La sala di servizio del personale è un'ambiente di pochi mq (6÷8) per il
personale di stalla.
I LOCALI DI CONSERVAZIONE DEGLI ALIMENTI
Sono costituiti principalmente dal fienile, dal silo, dal magazzino e talvota dai
locali di preparazione degli alimenti.
Il fienile — eseguito normalmente con strutture molto economiche tipo tettoie
con pilastri in ferro zincato o in alluminio, con pareti in blocchetti soltanto sino
all'altezza di m 1,5÷2, con pavimento in calcestruzzo e con tetto in lamiera —
deve contenere il fieno necessario all'allevamento da una primavera a quella
successiva (che è di fatto l'unica stagione di produzione di esso). Nel suo
dimensionamento occorre tener conto che l'altezza massima del fienile non deve
superare di norma i m 4÷5,
Il silo — eseguito con strutture economiche formate da pareti in calcestruzzo
dell'altezza di m 2,5÷3 e con pavimento anch'esso in calcestruzzo nei sili
orizzontali oppure da cilindri metallici del diametro di m 5÷6 e dell'altezza di m
8÷10 in quelli verticali — deve essere dimensionato tenendo conto che
l'insilamento può avvenire per non oltre 4÷6 mesi all'anno (l'allevamento deve
quindi essere autonomo per 8÷6 mesi
Il magazzino, eseguito in muratura oppure in sili metallici, deve contenere le
granelle e/o i concentrati e/o i pellettati,
LE STRUTTURE ACCESSORIE
Sono costituite dai corridoi, dalle concimaie e dalle recinzioni.
I corridoi, necessari per il transito e lo spostamento degli animali oppure per la
cattura, il contenimento e la pesatura di essi, sono in genere in calcestruzzo
132
oppure in sbarre metalliche e devono consentire il passaggio di 1 o pochi
animali per volta.
Le concimaie, la cui distanza dagli altri fabbricati non deve essere inferiore ai m
25, devono essere impermeabilizzate per evitare la dispersione dei liquidi; la
quantità di letame prodotto, fra lettiera, feci, urina e acqua di lavaggio, varia
con il tipo di produzione del letame: 10÷20 volte il peso corporeo degli animali
negli allevamenti di bovini tenuti in stabulazione fissa e permanente, 3÷4 volte
negli allevamenti di ovini e caprini tenuti in stabulazione libera e con
sistematico ricorso al pascolamento.
Le recinzioni, attigue ai ricoveri, devono essere molto ampie (almeno 50÷100
mq/capo nei bovini, 10÷20 mq/capo negli ovini e nei caprini).
LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO
La conduzione dell’allevamento consiste essenzialmente nell’organizzazione e
nella gestione degli animali, la cui suddivisione in gruppi è indispensabile nelle
differenti fasi produttive e/o riproduttive e nei diversi periodi e/o stagioni
dell’anno. Questa suddivisione comporta sempre la costituzione di gruppi, che,
oltre a dover essere mantenuti separati anche fisicamente almeno in determinati
periodi, siano anche il più possibile omogenei al loro interno per la caratteristica
differenziale principale: ad esempio, il sesso (maschi vs femmine); l’età (giovani
ancora improduttivi vs adulti già in produzione); la destinazione produttiva
(giovani in allevamento vs giovani in ingrassamento); la funzione produttiva
(femmine in asciutta e/o in gravidanza inoltrata vs femmine in lattazione e/o
in allattamento; maschi in attività riproduttiva vs maschi in riposo
riproduttivo); il livello produttivo (femmine ad alta produzione vs femmine a
bassa produzione; maschi a rapido accrescimento vs maschi a lento
accrescimento), lo stadio produttivo (femmine ad inizio lattazione vs femmine
in lattazione avanzata).
133
LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO BOVINO DA LATTE
La conduzione dell’allevamento bovino da latte, rispetto a quella degli altri
allevamenti, presenta: da un lato, una maggiore complessità, per il maggior
numero di gruppi che costantemente lo compongono e che è dovuto sia al più
elevato livello produttivo degli animali della specie che al più avanzato livello
tecnico delle aziende bovine da latte; dall’altro, una accentuata uniformità nelle
diverse stagioni, grazie soprattutto alla poliestralità continua delle vacche da
latte, che comporta una distribuzione dei calori e delle gravidanze e,
conseguentemente, dei parti e delle lattazioni quasi uniforme durante tutto
l’anno;
Qualunque sia la consistenza patrimoniale e l’organizzazione aziendale di
questo tipo di allevamento, la mandria è sempre composta, per tutto l’anno, dai
seguenti gruppi:
· gruppo delle vacche in lattazione che, quando la dimensione aziendale lo
consente, può essere a sua volta suddiviso, nei seguenti sottogruppi;
a) vacche fresche di parto: da 1 settimana sino ad un mese dal parto;
b) vacche ad inizio lattazione (2°÷3° mese) sino al 90° giorno dal parto;
c) vacche a metà lattazione (4°÷6° mese) sino al 180° giorno dal parto;
d) vacche a fine lattazione (7°÷10° mese) dal 180° giorno dal parto sino
all’asciugamento;
· gruppo delle vacche in asciutta e delle giovenche prossime al parto (8°÷9°
mese di gravidanza);
· gruppo delle manzette e delle manze non ancora inseminate: talvolta questo
gruppo è ulteriormente suddiviso in 2 sottogruppi (manzette e manze) per
meglio regolarne l’alimentazione;
· gruppo delle vitelle (femmine al di sotto dei 6 mesi di età) da rimonta;
· gruppo degli animali eccedenti la rimonta in ingrassamento, ovviamente
qualora l’ingrasso venga praticato in azienda: talvolta esso è suddiviso in 2 o
più sottogruppi, in funzione sempre del sesso (maschi vs femmine) o anche del
134
tipo genetico (puri vs meticci) o dell’età e del peso corporeo (sino a 2 q, oltre i 2
q).
La suddivisione delle vacche in lattazione in più sottogruppi è indispensabile
comunque per mantenere distinti fra loro animali di differente livello
produttivo giornaliero ai fini della corretta alimentazione: infatti animali con
differente distanza dal parto hanno ovviamente produzioni giornaliere
differenti, che sono prima crescenti (sino a 4÷6 w), poi costanti (2°÷3° mese) e
successivamente via via decrescenti, inizialmente con ritmo lento (4°÷6° mese) e
successivamente con ritmo più accentuato (7°÷10° mese), sino all’asciugamento.
In tutti i casi agli animali in lattazione viene somministrata una razione
alimentare di base (in grado di soddisfare le esigenze di mantenimento e quelle
di produzione sino a 10 kg/d di latte) cui si aggiunge (in mangiatoia oppure in
sala di mungitura oppure ancora con autoalimentatore) una integrazione
(individuale oppure di gruppo, a seconda del tipo di autoalimentatore)
differenziata in base alla distanza dal parto, che viene assunta come parametro
di stima della diversità di livello produttivo giornaliero fra animali aventi
identica anche se sfasata curva di lattazione. Nel caso in cui venga praticata la
inseminazione naturale, in associazione oppure in sostituzione della
inseminazione artificiale, deve essere comunque previsto un box singolo per
ciascun toro mantenuto in azienda.
LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO BOVINO DA CARNE
La conduzione dell’allevamento bovino da carne è funzione della razza allevata
(rustica oppure specializzata), del sistema di allevamento (estensivo oppure
intensivo) e dell’eventuale adozione della tecnica dell’incrocio industriale, la
quale è indispensabile soltanto nell’allevamento delle razze rustiche ma può
essere utile anche in quello delle razze specializzate.
Nell’allevamento estensivo — tipico e sempre caratterizzante delle razze
rustiche ma abbastanza frequente anche per quelle specializzate — la
utilizzazione del pascolo (soprattutto arbustivo nelle prime ed erbaceo nelle
135
seconde) come fonte alimentare principale e la sua integrazione
prevalentemente con fieno e/o concentrati soltanto in alcuni periodi dell’anno
(autunno e/o inverno, a seconda del livello altimetrico dell’azienda) ed in
alcune fasi produttive degli animali (vacche in gravidanza inoltrata e/o ad
inizio lattazione), nonché la totale assenza della mungitura, se non
limitatamente a qualche mese dopo il parto, comportano la organizzazione e la
suddivisione della mandria in gruppi, variabili per numero e consistenza con le
diverse fasi produttive che coincidono con le diverse stagioni dell’anno.
La mandria all’inizio dell’annata agraria, convenzionalemente fissata nel 1° di
ottobre, è normalmente costituita da 3 gruppi: il primo formato dalle vacche
asciutte, in gravidanza inoltrata nelle zone costiere ove i parti sono
prevalentemente autunnali oppure a metà gravidanza nelle zone montane ove i
parti sono prevalentemente primaverili; il secondo dalla rimonta, ossia dalle
manzette sotto l’anno d’età e dalle manze oltre l’anno; il terzo dai tori e dai
torelli. Essa permane tale sino alla fine dell’autunno in pianura e sino alla metà
della primavera in montagna, momento in cui i tori sono imbrancati con le
vacche già figliate o pronte al parto e con le manze in età riproduttiva (26÷27
mesi); il/i gruppo/i delle vitelle, delle manzette e delle manze non ancora in età
riproduttiva (al di sotto dei 24 mesi) deve essere accuratamente e rigorosamente
mantenuto separato dai tori per evitare il rischio di gravidanze indesiderate in
animali troppo giovani che comportano sempre maggiori probabilità di distocie
e/o di arresto dello sviluppo somatico delle giovenche.
I vitelli durante l’allattamento, che si protrae al massimo per 6÷8 mesi nelle
razze rustiche e per 4÷6 nelle razze specializzate, possono seguire le madri al
pascolo per tutto il giorno, oppure restare separati soltanto durante la notte,
oppure ancora, per favorire la ripresa immediata dell’attività riproduttiva delle
madri, per tutto il giorno, nel qual caso però si deve avere cura di allattare i
vitelli almeno 2 volte al giorno. Questi di norma si svezzano spontaneamente
all’asciugamento delle madri (giugno in pianura, settembre in montagna).
136
Nell’allevamento intensivo — basato sulla stabulazione permanente degli
animali e sull’impiego esclusivo di razze specializzate in aziende (asciutte o
parzialmente irrigue) di elevata produzione foraggera — la conduzione, a parte
quelli igienico sanitari, non pone particolari problemi. La mandria è sempre
costituita da almeno 2 gruppi: quello degli animali adulti e quello degli animali
giovani (rimonta).
Il gruppo degli adulti può, a sua volta, essere ulteriormente suddiviso in 2
sottogruppi:
• il sottogruppo delle vacche allattanti, i cui vitelli possono essere
imbrancati con la madre per tutto o soltanto per parte del giorno, ed in cui è
imbrancato il toro riproduttore se è praticata la inseminazione naturale (IN o
monta) oppure il toro saggiatore (maschio intero deferenctomizzato), per
l’accertamento tempestivo dei calori, se invece è praticata quella strumentale
(IS);
• il sottogruppo delle vacche asciutte in gravidanza accertata più o meno
avanzata, i cui singoli capi confluiscono, via via che partoriscono, in quello
precedente e dal quale provengono, via via che vanno in asciutta, le vacche in
gravidanza.
• Il gruppo dei giovani può essere anch’esso suddiviso in due sottogruppi:
quello delle vitelle svezzate e destinate alla rimonta (15÷18% delle vacche,
corrispondente al 30÷35% delle vitelle nate) e quello delle manze sino all’età del
primo salto o della prima inseminazione (18÷20 mesi).
• Il toro in questo tipo di allevamento, in cui i parti sono distribuiti
abbastanza uniformemente in tutte le stagioni grazie alla poliestralità quasi
continua delle vacche, resta sempre imbrancato con le vacche fresche di parto.
LA CONDUZIONE DELL’ALLEVAMENTO OVINO DA LATTE
L’allevamento ovino da latte, essendo praticato di norma in aziende
semintensive o semiestensive contraddistinte comunque sempre da due
condizioni caratterizzanti — il ricorso sistematico al pascolamento per tutto o
137
per gran parte dell’anno e l’elevata concentrazione stagionale dei parti
(novembre–dicembre per le pluripare e febbraio-marzo per le primipare) —
comporta necessariamente la suddivisione e la successiva ricomposizione del
gregge in un numero di gruppi variabile con la stagione ma sempre in funzione
dello stadio riproduttivo e quindi produttivo degli Animali.
Il gregge alla fine dell’annata precedente (30 settembre) è normalmente
costituito da un unico gruppo formato dalle tre categorie seguenti:
1) pecore asciutte, che si trovano in parte in gravidanza inoltrata, in quanto
inseminate e regolarmente rimaste gravide entro il mese di giugno; in parte a
metà gravidanza, in quanto rimaste gravide soltanto a fine luglio oppure
addirittura nella 1ª quindicina di agosto; in parte ad inizio gravidanza, in
quanto rimaste gravide soltanto in settembre; in parte addirittura ancora vuote,
in quanto, pur essendo state inseminate, non sono ancora rimaste gravide o
hanno abortito precocemente; nel complesso esse costituiscono mediamente
l’80% delle femmine del gregge ed ovviamente il 100% delle femmine adulte;
2) agnelle nate nell’autunno precedente (novembre–dicembre) e costituenti la
quota di rimonta (25% delle femmine adulte, corrispondente al 20% del gregge)
ad inizio gravidanza oppure ancora vuote;
3) arieti in attività riproduttiva
Esso, con l’inizio della nuova annata (1° ottobre), deve essere suddiviso, allo
scopo principale di poter alimentare separatamente i gruppi in funzione delle
loro differenti esigenze nutritive, in almeno 2 gruppi (il 1° costituito dalle
pecore in gravidanza inoltrata accertata, che quindi partoriranno entro
dicembre; il 2° dalle pecore ad inizio gravidanza o vuote, dalle agnelle e dagli
arieti),oppure in 3 gruppi (il 1° dalle pecore in gravidanza inoltrata; il 2° dalle
pecore gravide, ma che partoriranno dopo dicembre; il 3° dalle pecore vuote o
ad inizio gravidanza, dalle agnelle e dagli arieti).
Questo schema classico di conduzione dell’allevamento ovino da latte
tradizionale — imperniato cioè sulla stagionalità dei parti e quindi delle
produzioni e sulla utilizzazione delle risorse foraggere aziendali esclusivamente
138
tramite il pascolamento e conseguentemente sulla conduzione semiestensiva, o
al massimo semintensiva, dell’azienda — può subire però variazioni più o
meno rilevanti qualora si ricorra all’impiego di tecniche più avanzate di
allevamento, ormai in via di diffusione almeno nelle aziende migliori, quali: 1)
l’allattamento artificiale, 2) lo svezzamento precoce, 3) l’incrocio industriale, 4)
la produzione dell’agnellone, 5) la destagionalizzazione dei parti e
l’intensificazione dei cicli riproduttivi, 6) l’inseminazione artificiale e la
connessa sincronizzazione degli estri, 7) l’introduzione in azienda di colture
irrigue supplementari e la conseguente anticipazione dei parti e/o ritardo
dell’asciugamento, 8) l’adozione della stabulazione permanente.
L’allattamento artificiale degli agnelli comporta — a parte la necessità di
disporre in azienda oppure in strutture esterne di adeguati locali di
allattamento — la separazione degli agnelli dalla madre, anziché al momento
della macellazione (limitatamente alla quota eccedente la rimonta) o dello
svezzamento (limitatamente alla quota di rimonta), già al 2° - 3° d di vita e
conseguentemente l’inizio della mungitura delle pecore immediatamente dopo
il parto anziché dopo 25÷35 d.
Lo svezzamento precoce degli agnelli, che di fatto è strettamente connesso con
l’allattamento artificiale, comporta il passaggio degli agnelli dalla alimentazione
liquida (con latte o con suoi succedanei) a quella solida più anticipatamente
della norma (30 anziché 45 d).
L’inseminazione strumentale delle pecore, necessariamente associata alla
sincronizzazione degli estri per garantire una percentuale minima (50÷70%) di
attecchimento, comporta soltanto una maggiore concentrazione dei parti ed un
conseguente maggior impegno di sorveglianza del gregge.
L’incrocio industriale comporta la suddivisione del gruppo delle pecore in
mungitura in due sottogruppi di uguale consistenza (il primo, di maggior
livello produttivo, da destinare alla riproduzione in purezza con arieti da latte;
il secondo, di minor livello produttivo, da destinare alla riproduzione in
incrocio con arieti da carne), ma limitatamente al solo periodo riproduttivo
139
(giugno) e soltanto se è praticata la monta naturale. La produzione
dell’agnellone — necessariamente connessa con l’incrocio industriale, in quanto
con animali da latte in purezza non esiste né utilità tecnica né convenienza
economica a produrre l’agnellone — comporta soltanto la necessità della
disponibilità aziendale o extraziendale di idonei locali, che però possono essere
anche quelli di allattamento adeguatamente adattati all’ingrassamento.
TECNICHE PARTICOLARI
Strettamente connesso con il tipo di conduzione è l’impiego di alcune tecniche
particolari, quali la decornazione, la marchiatura, la tosatura, la caudotomia, la
toelettatura, la punteggiatura corporea e la rilevazione dei calori.
La decornazione, che consiste nella inibizione dello sviluppo delle corna sin
dalla nascita oppure nel loro taglio in età giovanile o adulta, è praticata in tutti
gli allevamenti di qualsiasi specie se mantenuti in stabulazione permanente,
allo scopo sia di ridurre l’aggressività degli animali, tanto nei confronti
dell’uomo quanto delle compagne, e quindi limitare i danni provocati dalle
reciproche testate o incornate, sia di facilitare la loro cattura ed il loro
contenimento nelle rastrelliere e, limitatamente alle razze da latte e duplici, in
sala di mungiutura. Essa viene attuata: negli animali giovani, con la
cauterizzazione del bottone corneo, a mezzo di un ferro rovente oppure di un
cavo elettrico oppure ancora di una matita caustica acida o basica, entro la
prima settimana di vita; negli animali adulti con il taglio, a mezzo di un
seghetto o di un filo metallico o di una sega elettrica, delle corna già sviluppate
e nella loro disinfezione con soda, allo scopo di prevenire eventuali pericolose
infezioni..
La marchiatura, che è l’apposizione di un marchio o semplicemente di un
tatuaggio in una parte specifica del corpo, è usata per l’identificazione
inequivocabile (sia aziendale o padronale, che comunale o provinciale)
dell’animale, ai fini dell’accertamento della proprietà (difesa contro l’abigeato) o
di uno specifico trattamento sanitario (antiparassitario, antimicrobico,
140
vaccinazione etc). Essa può essere praticata, a seconda della specie, in regioni
differenti del corpo dell’animale (groppa, coscia, natica, collo, evitando però
sempre di deprezzarne la pelle, oppure orecchio o grassella) e con modalità
differenti (marchiatura a fuoco e/o apposizione auricolare di targhetta
identificatoria numerata , impressione con azoto liquido, pinzatura indelebile).
La segnatura, pratica ormai caduta in disuso, consisteva invece nella fenditura,
perpendicolarmente o traversalmente o obbliquamente all’asse maggiore, e/o
nell’asportazione di una piccola parte di uno o di entrambi i lobi auricolari.*
La tosatura consiste nella rimozione, annuale oppure semestrale, della lana, allo
scopo di favorire la dispersione del calore corporeo e quindi la
termoregolazione dell’animale durante la stagione calda; essa ovviamente è
praticata soltanto nella specie ovina e, limitatamente alle razze da pelo, in
quella caprina.
La caudotomia consiste nel taglio, fra la 4ª e la 5ª vertebra caudale, della coda,
allo scopo di mantenere sempre pulita dalle feci la parte posteriore dell’animale
(in particolare cosce, natiche e pube) per facilitare, soprattutto nelle razze
lattifere, le operazioni di mungitura e di controllo della mammella. Essa è
praticata quasi esclusivamente nella specie ovina, nella quale la coda è molto
lunga (15-20 vertebre) e ricoperta di abbondante lana; è superflua in quella
caprina, nella quale è molto corta (4÷5 vertebre) e non ha bisogno di essere
amputata; è praticata molto raramente nelle specie bovina e bufalina, in quanto
la coda ha funzione difensiva e protettiva dai parassiti.
l’applicazione di un anello in plastica molto rigida fra la 4ª e la 5ª vertebra
caudale, il quale, interrompendo la circolazione sanguigna della parte distale,
ne provoca la necrosi e la conseguente caduta o distacco in maniera indolore e
incruenta.
La rilevazione dell’estro. La rilevazione tempestiva e puntuale dell’estro di
ciascun animale è un’operazione fondamentale ai fini della corretta
determinazione del momento ottimale di inseminazione (sia essa naturale
oppure strumentale) che, a sua volta, è condizione indispensabile perché
141
all’inseminazione consegua sempre la fecondazione e la gravidanza e quindi
una normale attività riproduttiva degli animali e dell’allevamento.
Nell’allevamento intensivo bovino da carne i calori sono in genere rilevati con
l’impiego di un toro saggiatore (maschio intero vasectomizzato) imbrancato
perennemente nella mandria e provvisto di un tampone (pezza fissata al torace)
imbevuto di sostanza vivamente colorata per marcare, con il salto, le femmine
che via vengono in calore dopo il parto.
Nell’allevamento bovino da latte il calore è rilevato — oltrechè con
l’osservazione operata direttamente dal vaccaro su ciascun animale al momento
della mungitura, ossia almeno 2 volte al giorno, soprattutto nel periodo del
servizio — con l’adozione del “podometro”, che è una fascia elettronizzata
applicata allo stinco, la quale misura e registra su un computer i movimenti
dell’animale e quindi stima la sua irrequietezza come indice
dell’approssimazione dell’estro.
Nell’allevamento ovino da latte il calore è accertato direttamente dall’ariete
inseminatore oppure dall’ariete saggiatore provvisto di tampone colorato.
La toelettatura consiste nella asportazione della parte eccedente, nella limatura
e ripulitura degli unghioni cresciuti oltre misura per mancanza di movimento
degli animali soprattutto nelle stalle a stabulazione fissa e/o permanente. È
praticata periodicamente sugli animali, catturati e contenuti in un travaglio, da
personale aziendale o extraziendale specializzato che esercita quindi la
funzione del maniscalco. Gli animali che più necessitano di tale operazione
sono i maschi nel periodo riproduttivo e quelli mantenuti per lungo tempo in
recinti chiusi.
La punteggiatura corporea consiste nell’attribuzione di un punteggio (da 1 a 5)
che misuri correttamente lo stato di ingrassamento (o di dimagrimento) di un
animale, in particolare delle femmine durante le diverse fasi della lattazione,
allo scopo di valutare sia la correttezza dell’alimentazione praticata sia lo stato
fisiologico-sanitario dell’animale. Premesso che il valore 1 è assegnato ad
animali molto magri, 2 ad animali magri, 3 ad animali in forma, 4 ad animali
142
grassi e 5 ad animali obesi, questi valori variano durante la lattazione a causa
della deposizione oppure del consumo di riserve corporee, dovuti
rispettivamente alla superiorità dell’ingestione alimentare sulle esigenze
nutritive, in particolare energetiche (seconda parte della lattazione) oppure
delle esigenze sull’ingestione (prima parte della lattazione).
Il sistema di valutazione delle condizioni corporee dell’animale (BCS) si basa
sull’osservazione e sulla valutazione di alcuni tasti dell’animale quali: 1)
l’angolosità laterale del bacino (triangolo: tuberosità iliaca ® articolazione
coxofemorale ® tuberosità ischiatica); 2) la linearità dei legamenti sacro-iliaci e
sacro-ischiatici (depressi, coperti oppure grassi); 3) le tuberosità iliache ed
ischiatiche (copertura muscolare e depositi adiposi); 4) la rilevanza delle apofisi
spinose e trasverse delle vertebre lombari (depressione fra i processi, copetura
muscolare, depositi adiposi).
Il valore ottimale dovrebbe oscillare: intorno a 3,5 al parto, 3 all’inizio della
lattazione e 3,5 all’asciugamento, nelle vacche in lattazione; intorno a 3 al salto,
3,5 al parto e 2,5 allo svezzamento nelle pecore in lattazione.
È bene quindi che il punteggio corporeo si mantenga di fatto fra 2,5 e 3,5, non
essendo opportuno che un animale da latte ingrassi oltre 4 (fine lattazione), nè
dimagrisca al di sotto di 2 (picco di lattazione).
LA GESTIONE DELL’ALLEVAMENTO ZOOTECNICO
La gestione dell’allevamento zootecnico consiste principalmente nella
predisposizione di un piano colturale aziendale finalizzato al soddisfacimento
delle esigenze alimentari degli animali e nella gestione economica dell’attività
produttiva complessiva. Essa è pertanto funzione: dell’indirizzo produttivo
dell’impresa zootecnica (latte oppure carne), della specie allevata (bovina o
bufalina oppure ovina o caprina), del tipo di allevamento (esclusivamente
zootecnico oppure misto; specializzato oppure promiscuo; estensivo e
prevalentemente brado oppure intensivo e prevalentemente stallino), del livello
produttivo (alto, medio, basso) e soprattutto del regime idrico aziendale
143
(totalmente o prevalentemente asciutto oppure totalmente o prevalentemente
irriguo).
È inoltre da tenere sempre ben presente che tutte le scelte gestionali tecniche
debbono essere totalmente subordinate a quelle economiche.
Il piano colturale aziendale, che l’imprenditore deve accuratamente predisporre
di anno in anno, è legato strettamente al regime idrico dell’azienda ed al
conseguente tipo di allevamento ed indirizzo produttivo con questo
compatibile. Le aziende zootecniche in cui vengono allevati i ruminanti possono
essere ricondotte ai seguenti 3 tipi principali:
· Aziende asciutte pascolive, con pascoli prevalentemente arbustivi e/o
arborei, talvolta dotate di modeste superfici (4÷5%) coltivabili asciutte oppure
irrigue;
· Aziende asciutte prevalentemente coltivabili (> 80%), talvolta dotate di
superfici irrigue(5÷6%);
· Aziende totalmente o prevalentemente irrigue.
AZIENDE ASCIUTTE PASCOLIVE
Nelle aziende pascolive — in cui l’unica, o comunque predominante, coltura
praticata è il pascolo, che raramente è soltanto erbaceo ma più spesso è
soprattutto arbustivo o addirittura arboreo — il solo tipo di allevamento
compatibile è ovviamente quello estensivo e brado, limitato pertanto
all’impiego delle sole razze in grado di adattarvisi, cioè quelle rustiche sia della
specie caprina che di quella bovina
Nell’allevamento bovino rustico — in cui, oltre alla riproduzione in purezza di
una parte dellefattrici (30%) allo scopo di garantire la produzione della rimonta
e quindi la continuità dell’allevamento rustico, è attuata anche la riproduzione
in incrocio con razze da carne della restante parte delle fattrici (70%) allo scopo
di migliorare la produzione della carne e quindi di valorizzare l’allevamento
stesso — l’integrazione alimentare al pascolo è praticata, per almeno 2 mesi e
per non più di 4 mesi: generalmente soltanto con fieno, somministrato in
144
quantità limitata (3÷5 kg/d per 60÷120 d/y, corrispondente ad un consumo
annuale di 3÷6 q/capo produttivo), appena sufficiente a garantire la
sopravvivenza degli animali nel periodo critico autunnale o invernale; oppure
anche con concentrati negli ultimi giorni di gravidanza e nei primi di lattazione,
allo scopo di favorire la ripresa riproduttiva immediatamente dopo il parto. In
questo tipo di allevamento la produzione foraggera pascoliva non supera
mediamente i 20÷30 q/ha di s.s. (della quale però in tutto l’anno è utilizzabile di
fatto soltanto il 70%); il fabbisogno integrativo complessivo oscilla mediamente
intorno ai 2 q di fieno e 2 di concentrato, i quali debbono necessariamente essere
reperiti con il ricorso all’acquisto axtraziendale a costi sempre molto elevati,
talvolta economicamente proibitivi soprattutto nel caso del fieno, oppure
all’approvvigionamento interno a costi più contenuti, qualora l’azienda
disponga di superfici coltivabili (arabili), irrigue o asciutte.
AZIENDE ASCIUTTE PREVALENTEMENTE COLTIVABILI
Nelle aziende asciutte prevalentemente coltivabili (arabili), in cui le colture
predominanti sono rappresentate dalle foraggere prative a semina autunno-
invernale e/o dai cereali da granella a raccolta tardo-primaverile, il tipo di
allevamento praticato è quello semiestensivo oppure semintensivo, a seconda
dell’importanza che il pascolamento vi assume come forma di utilizzazione
diretta dell’erba prodotta, nonché della entità e della costanza della
integrazione alimentare al pascolo.
Le specie zootecniche allevate, sono in genere costituite da bovini da carne di
razze specializzate e/o da ovini prevalentemente da latte e talvolta da caprini
di razze di medio livello produttivo.
Nell’allevamento bovino specializzato da carne — in cui può essere praticato
anche l’incrocio industriale con altra razza da carne per esaltare ulteriormente
la capacità produttiva della razza allevata, ma in cui in genere viene praticata
soltanto la riproduzione in purezza — l’alimentazione è basata quasi
esclusivamente sulle produzioni aziendali di erba di provenienza dai prati
145
annuali di graminacce singole o consociate (loglio, avena, orzo) e/o poliennali
(medica, festuche, sulla) utilizzati direttamente con il pascolamento per gran
parte dell’anno (autunno-inverno-estate) e parzialmente destinati alla sfalcio
primaverile per la produzione di fieno e/o di insilati (in tal caso il
pascolamento non si protrae oltre febbraio). Essa è completata con
l’utilizzazione delle granelle di cereali raccolte a fine primavera dopo un
pascolamento non spinto praticato in inverno (in tal caso il pascolamento non si
protrae oltre gennaio).
La produzione di tali colture è intorno agli 80 q/ha di s.s. per i prati annuali e di
60 q/ha per quelli poliennali (di cui di norma la metà viene utilizzata come erba
direttamente con il pascolamento e la metà come fieno oppure come insilato con
lo sfalcio primaverile) e di 30 q/ha di granella per i cereali, anch’essi a volte
pascolati in inverno. Poichè la loro utilizzazione annuale non supera l’80 ÷85% e
l’ingestione alimentare dei bovini da carne (il cui peso medio delle vacche
adulte è di q 6÷7) è intorno al 2,5%, il carico mantenibile oscilla fra 1÷1,5 vacche
adulte, compresa la relativa quota biennale di rimonta (manze + giovenche, pari
al 30% delle adulte). La presenza in tale allevamento di appezzamenti
supplementari irrigui, in genere in misura non superiore al 5÷10% della
superficie coltivabile, oltre che innalzare il carico unitario complessivo, rende
più uniforme e continua la crescita dei vitelli in allattamento materno.
AZIENDE PREVALENTEMENTE O TOTALMENTE IRRIGUE
Nelle aziende prevalentemente o totalmente irrigue — caratterizzate sempre da
terreni a giacitura piana o pianeggiante, di elevata fertilità agronomica, di
sufficiente dimensione territoriale (almeno 20÷30 ha), di elevato valore
fondiario anche per i consistenti investimenti — la redditività, dovendo essere
molto elevata per garantire un’adeguata remunerazione di questi, consente di
praticare esclusivamente tipi di allevamento capaci di fornire alti redditi unitari
e aziendali; ciò comporta la necessità di ricorrere ai seguenti tipi di allevamento:
l’allevamento bovino o bufalino da latte, l’allevamento ovino e/o caprino
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intensivo, l’allevamento bovino da carne limitatamente alla fase di
ingrassamento.
Nell’allevamento bovino da latte — in cui i parti, e di conseguenza le lattazioni,
si espletano quasi uniformemente durante tutto l’anno, grazie alle continuità
del ciclo riproduttivo femminile dovuto alla poliestralità annuale continua delle
vacche ¾ l’alimentazione, allo scopo di evitare sbalzi nutrizionali che avrebbero
ripercussioni negative immediate sia sulla riproduzione che sulla produzione,
deve essere necessariamente abbastanza costante e uniforme nelle diverse
stagioni dell’anno. Ciò comporta la necessità di un approvvigionamento
alimentare, in particolare foraggero, continuo sia sotto l’aspetto quantitativo che
qualitativo: la disponibilità di acqua per l’irrigazione di tutta o di parte
dell’azienda è in grado di garantire, con sufficiente sicurezza, tale
approvvigionamento anche per il periodo invernale,
L’ordinamento colturale di queste aziende deve pertanto prevedere un
accumulo di disponibilità foraggere nel periodo irriguo (da marzo-aprile sino a
settembre-ottobre, a seconda dell’andamento meteorico, soprattutto
pluviometrico, primaverile) da utilizzare durante tutto l’anno ed in particolare
nel semestre autunno-invernale.
Le colture più diffuse sono quindi: i cereali a semina autunnale ed a raccolta
tardo-primaverile (quali frumento, orzo, avena, triticale), utilizzati soprattutto
per la produzione di granella (con raccolta a maturazione fisiologica) oppure
per l’insilamento (con raccolta a maturazione latteo-cerosa) ed, almeno per
alcuni periodi, anche come erbe (pascolate oppure sfalciate); le graminacee
esclusivamente foraggere (quali logli, bromi, festuche, fienarola), utilizzate
come erbe (pascolate e/o sfalciate) oppure destinate alla fienaggione e/o
all’insilamento (erba-silo); le leguminose foraggere (quali mediche, trifogli
annuali e poliennali, sulla), impiegate soprattutto nel periodo primaverile-
estivo come erbe oppure destinate alla produzione di fieni e/o di insilati (fieno-
silo); i cereali a semina primaverile (quali mais e sorgo), utilizzati, oltrechè per
la produzione di granella, soprattutto per l’insilamento (il mais ceroso
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costituisce uno degli alimenti base più importanti nell’alimentazione delle
vacche in lattazione); ed infine, ma in minor misura, le leguminose da granella
(quali fava, favino, pisello) ed altre essenze proteaginose e/o oleaginose (soia,
arachide, colza, girasole, cotone) di cui sono utilizzati soprattutto i
sottoprodotti, ossia i residui derivati dall’estrazione dell’olio (panelli e farine di
estrazione), come integratori proteici dei concentrati energetici e/o fibrosi.
La coltivazione di essenze autunnali asciutte (in semina pura o in
consociazione, soprattutto fra graminacee e leguminose) e di essenze
primaverili irrigue garantiscono quindi un approvvigionamento alimentare
quasi continuo, indispensabile al regolare svolgimento della lattazione e quindi
della produzione lattea durante tutto l’anno..
Nell’ipotesi, ad esempio, di aziende ad indirizzo esclusivamente zootecnico
specializzato da latte imperneate quindi sulla coltivazione di erbai stagionali a
semina tardo estiva o autunnale in successione con erbai primaverili-estivi
(oppure estivi, nel caso di colture cerealicole) e di prati poliennali in
avvicendamento contiunuo con i primi:
· i prati poliennali (in genere di leguminose quali medica e sulla, ma anche di
graminacee quali logli e festuche) occupano mediamente il 30¸40% della SAU
aziendale con produzioni unitarie, espresse in s.s., oscillanti intorno ai 150¸180
q, che per il 25¸30% vengono consumate fresche (con pascolamento e/o con
sfalcio) e per il restante 75¸70% vengono affienate oppure insilate (erba-silo con
le graminacee e fieno-silo con le leguminose);
· gli erbai autunno-invernali, in genere formati da essenze di graminacee (quali
logli, avena e orzo) e/o di leguminose (quali trifogli) spesso consociate fra loro,
occupano il restante 60¸70% della SAU, con produzioni di 60¸80 q, consumati in
genere per metà come erbe (pascolamento e/o sfalcio) e per metà con la
fienagione oppure con l’insilamento; qualora l’indirizzo produttivo sia
cerealicolo-zootecnico, metà di tale superficie (30¸35% della SAU aziendale) è
invece destinata alla produzione di granella (in genere frumento duro) di cui
ovviamente è utilizzata soltanto la paglia e le stoppie (20¸30q/ha); in entrambi i
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casi però il restante 60¸70% della SAU è coltivata ad erbai primaverili-estivi per
la produzione di insilato e di granella nelle aziende specializzate (mais con
semina ad aprile) e di erbai (sorgo con semina a giugno) per il consumo diretto
(sfalcio e/o pascolamento) nelle aziende miste.
In tali allevamenti il foraggiamento deve essere continuo e uniforme, in quanto
le vacche in lattazione mal sopportano brusche variazioni di alimentazione, per
cui la somministrazione delle diverse categorie di alimenti (erba, insilato, fieno,
concentrati e/o sottoprodotti) deve essere praticata durante tutto l’anno e la
eventuale sostituzione di una categoria con un’altra deve avvenire sempre
gradualmente, onde evitare turbe alimentari che avrebbero una ripercussione
dannosa immediata, talvolta irreversibile, sulla produzione lattea giornaliera.
LE PRINCIPALI TIPOLOGIE DI ALLEVAMENTO
I vari tipi di allevamento praticati nei diversi ambienti possono essere ricondotti
ai seguenti tre: allevamenti estensivi, allevamenti intensivi, allevamenti
semintesivi o semiestensivi.
GLI ALLEVAMENTI ESTENSIVI
Gli allevamenti estensivi sono sempre localizzati in aziende di dimensioni
fisiche anche elevate (almeno 100¸200 ha, talvolta anche 500¸600 ha) ubicate in
zone altimetricamente montane o collinari (>500¸600 m slm) oppure, se costiere
o di pianura, orograficamente montagnose; in queste la fertilità è generalmente
bassa a causa sia delle caratteristiche climatiche, in particolare pluviometriche
che sono sempre molto variabili e ad andamento annuale aleatorio, sia delle
caratteristiche pedologiche (terreni con profili superficiali, spesso con roccia
affiorante e con pendenze elevatissime), sia delle conseguenti caratteristiche
floristiche (essenze erbacee e/o arbustive solitamente di scarso valore
pabulare).
Le produzioni foraggere — quasi sempre di scarsa entità (20¸30 q/ha di s.s.), di
scadente qualità (0,5¸0,6 UFL/kg di s.s.) e distribuite, a causa della siccità
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primaverile-estiva nelle zone costiere oppure delle basse temperature autunno-
invernali nelle zone montane, irregolarmente nelle diverse stagioni dell’anno
(25¸30% in autunno, 70¸75% in primavera) — sono utilizzate direttamente con il
pascolamento.
Gli investimenti fondiari, a causa della bassissima redditività di queste aziende,
sono sempre molto modesti, talvolta addirittura inesistenti, e consistono
essenzialmente: in recinzioni fisse (in muratura o in rete metallica) di
suddivisione dell’azienda in appezzamenti di superficie ampia (25¸50 ha), allo
scopo di garantire una sia pur minima rotazione nella utilizzazione dei pascoli
o delle essenze arbustive e/o arboree; in strutture del centro aziendale molto
economiche, per il soggiorno del personale (casa appoggio per gli addetti), per
il ricovero notturno degli animali (tettoie aperte), per il deposito degli alimenti
(fienile e/o magazzino); in abbeveratoi (fissi o in prefabbricati trasferibili)
collocati generalmente nei punti di confluenza di due o più appezzamenti; in
recinti per il raduno, la cattura ed il contenimento degli animali (vaccili in
pietrame e caprili in rete metallica), a fini del controllo anagrafico e/o sanitario
del bestiame.
Le specie allevate, rappresentate sempre esclusivamente da razze rustiche, sono
generalmente quella bovina, quella caprina e molto raramente, se non negli
appezzamenti migliori di fondovalle, quella ovina.
GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI
Gli allevamenti intensivi sono sempre localizzati in aziende di dimensioni
anche non elevate ,da almeno 20¸25 sino ad 80¸100 ha, ubicati in zone piane o
pianeggianti anche se altimetricamente talvolta collinari, nelle quali la
potenzialità produttiva è generalmente molto elevata grazie alla naturale
fertilità pedoagronomica dei terreni, che sono profondi, e idraulicamente
sistemati e soprattutto alla presenza dell’irrigazione che è estesa di norma a
tutta o a gran parte della superficie.
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Le produzioni foraggere — di grande entità (q/ha di s.s. 60¸80 in asciutto e
150¸180 in irriguo) e di elevato valore nutritivo (0,8¸1,00 UFL/kg di s.s.) e
distribuite, grazie alle miti temperature autunno392 invernali ed alla irrigazione
primaverile-estiva, abbastanza uniformemente nelle diverse stagioni dell’anno
(40¸50% in autunno-inverno e 50¸60% in primavera-estate) — sono utilizzate
soltanto parzialmente con il pascolamento, che è praticato soprattutto sulle
colture asciutte autunno-invernali, in quanto quelle irrigue sono destinate di
norma allo sfalcio per la somministrazione come tali in stalla o per
l’essiccazione (fienagione) o semiessicazione (insilamento) oppure alla mietitura
per la produzione di granella che è utilizzata in azienda oppure venduta.
Gli investimenti fondiari, grazie alla elevata redditività di queste aziende, sono
sempre cospicui, a volte elevatissimi, e consistono essenzialmente: in strutture
per l’abitazione del personale aziendale (casa colonica, talvolta di tipo
signorile), per il ricovero permanente degli animali (stalle, ovili, caprili), per la
conservazione degli alimenti (fienile, pagliaio, silo, magazzino, deposito di
macchine e/o officina meccanica), per l’esercizio degli animali (sala di
mungitura nelle aziende da latte, infermeria e sala parto) oltre alle recinzioni
per il trasferimento e la deambulazione degli animali.
Le specie allevate, rappresentate sempre esclusivamente da razze specializzate
da latte e/o da carne di elevatissima attitudine produttiva, possono appartenere
ad una o più delle quattro specie di maggiore interesse zootecnico. Le razze
bovine: sono quelle specializzate da latte (Frisona e Bruna) per la produzione
prevalente di latte, riprodotte, generalmente in IS, soltanto in purezza oppure
anche in incrocio industriale con razze da carne; quelle specializzate da carne
(italiane o francesi) per la produzione esclusiva della carne; i vitelli, puri o
mettici di entrambe, in ingrassamento aziendale; infine esclusivamente i vitelli,
puri e meticci, provenienti sia dall’allevamento brado che da quello stallino
extraziendale, per il ristallo e l’ingrassamento. La specie bufalina, in presenza di
aree umide o paludose da valorizzare, per la produzione quasi esclusiva di latte
industriale.
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Le razze ovine sono: quelle specializzate da latte (Frisona, Sarda e Comisana)
oppure quelle specializzate da carne (generalmente francesi). Le razze caprine
sono quelle specializzate da latte (principalmente Saanen e Alpina). In questo
tipo di allevamenti pertanto la produzione lorda vendibile proviene
prevalentemente dal latte (dal 60÷70% all’80÷90%, a seconda della
specializzazione produttiva della azienda e del livello produttivo degli animali)
e secondariamente della carne oppure esclusivamente da quest’ultima.
GLI ALLEVAMENTI SEMIESTENSIVI O SEMINTENSIVI
Gli allevamenti intermedi fra quelli estensivi e quelli intensivi sono detti, a
secondo del grado di intensività, allevamenti semiestensivi oppure
semintensivi; essi sono di norma localizzati in aziende di dimensioni fisiche
variabili, nelle quali però almeno in 50% della superficie totale, generalmente
ubicate in zone di pianura oppure di collina (300÷400 slm), nelle quali la fertilità
è media, grazie alle discrete caratteristiche pedo-climatiche e floristiche; sono
talvolta dotate di appezzamenti supplementari irrigui (da 2÷3% a 5÷10% della
superficie) che garantiscono la produzione di scorte foraggere sufficienti per il
periodo autunno invernale
Le produzioni foraggiere sono medie (40÷60 q/ha di ss) e di buona qualità
(0,7÷0,8 UFL/kg di s.s.) distribuite prevalentemente in autunno-inverno grazie
soprattutto alla presenza di essenze foraggiere a ciclo inverno-primaverile
coltivate in avvicendamento discontinuo su parte della superficie aziendale;
sono utilizzate in gran parte direttamente con il pascolamento oppure destinate
allo sfalcio per la produzione di fieno e/o di insilati primaverili.
Gli investimenti fondiari consistono in genere: in recinzioni e in punti di
abbeveraggio, in strutture di ricovero di animali (tettoie aperte, per tutte le
specie) con i loro annessi (fienile magazzino ed officina) e, nel caso di
allevamenti da latte, in sale di mungitura o almeno di mungitoi talvolta mobili.
Le specie allevate sono rappresentate sempre: da razze specializzate da carne,
per quanto riguarda la specie bovina e ovina; da razze da latte, ma di non
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elevato livello produttivo, per quanto riguarda le specie ovina e caprina. Spesso
in questo tipo di aziende è praticato l’allevamento promiscuo (ovini e bovini
oppure ovini e caprini, in successione altimetrica) e la coltivazione di cereali
soprattutto da granella in avvicendamento con le colture esclusivamente
foraggere, i primi destinati alla vendita (orzo, avena, frumento duro), le seconde
alla utilizzazione alimentare aziendale.
Opportunità offerte da una corretta gestione dell’alpeggio
L'alpeggio è l'attività agro-zootecnica che si svolge nelle malghe di montagna
durante i mesi estivi. Con il termine malga si fa riferimento all'insieme dei
fattori produttivi fissi e mobili in cui avviene la transumanza: terreni, fabbricati,
attrezzature, animali, lavorazione del latte prodotto.
L'alpeggio, che si svolge tra un'altitudine minima di 600 m s.l.m. e una massima
di 2500-2700, inizia con la monticazione, cioè la salita sull'alpe, che avviene tra
la fine di maggio e la metà di giugno e termina con la demonticazione, cioè la
ridiscesa in pianura che avviene a fine settembre.
Per quel che riguarda le necessità animali, per l'intera durata dell'alpeggio
occorrono 1,5-2 ettari per ogni bovino mentre un solo ettaro riesce a nutrire dai
4 ai 6 ovini.
L'alpeggio ben fatto porta notevoli vantaggi agli animali da un punto di vista
alimentare (maggiore valore nutritivo che si riflette sia sulla salute che sulla
qualità dei prodotti zootecnici), da quello dell'attività fisica (sviluppo della
muscolatura, aumento dell'attività circolatoria, respiratoria e della capacità
polmonare dovuta alla rarefazione dell'aria e al maggiore sforzo fisico) e da
fattori ambientali (qualità dell'aria respirata e aumento delle radiazioni attive
con benefici influssi su cute, pelo, attività ghiandolare e metabolismo).
Allevamento di tipo biologico: possibilità attuali e prospettive
L'allevamento biologico deve garantire il benessere degli animali.
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L'allevamento biologico deve garantire uno stretto legame con la terra.
L'alimentazione animale deve essere sostanzialmente da agricoltura biologica e
per almeno il 50% di provenienza aziendale.
L'allevamento biologico ricopre un notevole importanza in agricoltura
biologica, per l'apporto di sostanza organica ed elementi nutritivi utili per le
colture. Il carico del bestiame deve essere comunque commisurato alla
superficie aziendale e/o comprensoriale per far sì che sia gestito in modo
adeguato lo spandimento delle deiezioni. In termini numerici il limite è di 170
kg N/ha/anno e per le varie specie allevate è definito il numero massimo di
capi ad ettaro.
Gli animali presenti all'inizio della conversione dell'allevamento e i prodotti da
loro ottenuti, saranno considerati biologici dopo aver completato il periodo di
conversione che varia da specie e tipologia produttiva. Gli animali che nascono
e sono allevati in aziende biologiche sono considerati biologici.
In caso di prima costituzione di un allevamento, possono essere inseriti giovani
mammiferi non biologici, allevati in modo biologico subito dopo lo
svezzamento.
A fini riproduttivi, possono essere inseriti, nel corso degli anni, animali allevati
in modo non biologico, questi dovranno poi completare il periodo di
conversione.
In caso dell'insorgere di malattie, queste vanno trattate immediatamente per
evitare sofferenze agli animali.
Gestione delle deiezioni nell’allevamento
Le deiezioni (escrementi) degli animali da allevamento (suini, bovini e pollame
vario), possono essere utilizzate facilmente per la produzione di biogas. Il
biogas prodotto, a sua volta può essere utilizzato in motori azionanti gruppi
elettrogeni, per produrre energia elettrica, oppure in delle caldaie, per generare
energia termica (riscaldamento), o ancora meglio in cogeneratori, per la
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produzione combinata dei due tipi di energia. Ma la produzione di biogas da
deiezioni animali assume un secondo ordine di importanza, per il fatto che
contribuisce allo smaltimento degli escrementi animali, che , a differenza del
pensiero comune, non possono essere utilizzati come concime. Le deiezioni
liquide e semi liquide del bestiame contengono, infatti, alti livelli di fosforo e
azoto che, se riversati nell'ambiente,potrebbero creare grossi problemi alle falde
acquifere, ai corsi d'acqua e all'ambiente. Per cui il ricorso a impianti di
produzione di biogas, diventa doppiamente conveniente, vista la possibilità di
“vendere energia” elettrica, tramite il meccanismo dei certificati verdi e visti i
benefici ambientali derivanti dal recupero delle deiezioni animali.
FATTORI TECNICI CONDIZIONANTI LA QUALITÀ DELLE PRODUZIONI:
SETTORE BOVINI E SETTORE BUFALINO
LE PRODUZIONI
Le produzioni economicamente rilevanti delle 4 specie ruminanti allevate in
Italia sono: la produzione di latte, la produzione di carne e le produzioni
minori.
LA PRODUZIONE DI LATTE
Il latte, che per tutti i mammiferi è l'alimento indispensabile durante la fase
giovanile di allevamento (allattamento), nelle 4 specie ruminanti è soprattutto il
prodotto ottenuto dalla mungitura ¾ che deve essere completa ed ininterrota ¾
di una femmina in buono stato di salute ed in fase non colostrale (legalmente da
dopo il 15° giorno dal parto, in pratica da dopo il 5° giorno); esso è utilizzato
per l'alimentazione umana sia direttamente come latte alimentare (intero
oppure parzialmente scremato, in genere previo trattamento termico) o come
latte dietetico (per particolari categorie di consumatori), sia dopo fermentazione
(latti fermentati), sia infine dopo trasformazione industriale (burro, formaggio,
155
ricotta) con recupero quasi sempre dei sottoprodotti (latte magro, siero e scotta)
per l'alimentazione animale.
La sua composizione, caratteristica della specie e della razza e variabile in
funzione di diversi fattori (genetici, climatici, fisiologici, tecnici, alimentari e
igienico-sanitari).
Il contenuto in residuo secco (sostanza secca del latte) è molto variabile,
sopratutto per effetto della elevata variabilità del suo principale componente
che è il contenuto lipidico, il quale può appunto presentare variazioni molto
ampie; il contenuto in residuo magro, che è costituito dalla differenza tra il
contenuto in residuo secco ed il contenuto lipidico, è invece abbastanza stabile;
il contenuto proteico è meno variabile di quello lipidico e costituisce la
principale causa di variazione del contenuto in residuo magro; il contenuto
lattosico ed il contenuto minerale sono le componenti meno variabili.
Il latte contiene inoltre enzimi, composti aromatici, cellule somatiche; ma può
contenere anche microrganismi e, talvolta, sostanze inibenti e inquinanti.
LE FASI DELLA PRODUZIONE.
La produzione del latte, si realizza in quattro fasi tre attive (sintesi, secrezione
ed eiezione) ed una passiva (rimozione) ed è influenzata da diversi fattori i
quali agiscono, oltrechè sulla quantità, anche sulla qualità e conseguentemente
sul suo valore commerciale.
La sintesi del latte. La sintesi del latte, regolata dall'ormone galattogeno
adenoipofisario prolattina PRL o luteotropina LTH, avviene principalmente
nelle cellule epiteliali degli alveoli, le quali sono cellule specifiche capaci di
sintetizzare i vari componenti del latte dopo averne captato i precursori dal
plasma sanguigno (è necessario un ciclaggio di moltissimi lt di sangue, da 400 a
600 nei bovini, per produrre 1 kg di latte); gli alveoli sono raggruppati in lobuli,
riuniti, a loro volta, in lobi che sboccano nei dotti galattofori, i quali si versano
nella cisterna del latte. La sintesi dei vari costituenti avviene con modalità
differenti.
156
La sintesi lipidica. I lipidi, contenuti nel latte sotto forma di emulsione
(particelle liquide, sospese nel latte, di diametro variabile con la specie da μm
3,8 a 4,4) e formati principalmente da trigliceridi degli acidi oleico, stearico,
palmitico e butirrico, derivano: per sintesi mammaria dagli acidi acetico e b-
idrossibutirrico, che provengono dal rumine come acidi grassi volatili AGV e
pervengono alla mammella attraverso la corrente sanguigna; oppure per
inclusione diretta degli acidi grassi ad elevato peso molecolare ( palmitico C16,
stearico C18 ) veicolati dal sangue (lipoproteine oppure acidi grassi liberi
NEFA).
La sintesi protidica. I protidi, contenuti nel latte sotto forma di sospensione
colloidale (particelle solide piccolissime sospese nel latte) e formati
principalmente da caseine, sieroproteine (globuline e albumine) e composti
minori, costituiscono mediamente il 95% delle sostanze azotate totali del latte
SAT (N x 6,38) e derivano dagli aminoacidi liberi, dalle globuline e dalle
albumine ematici: per provenienza diretta, come nel caso delle latto-albumine,
di alcune latto-globuline e delle g-globuline colostrali; per trasformazione
mammaria degli aminoacidi ematici, come nel caso delle caseine e delle b-
lattoglobuline. La sintesi delle diverse frazioni proteiche (as1, as2, b, k-caseine;
a, b-lattoalbumine; a,b,g-globuline) è sotto controllo genetico.
L'azoto non proteico NPN (quasi il 5% delle SAT), per circa il 50% costituito da
urea, deriva invece da prodotti del catabolismo mammario oppure proviene
direttamente da analoghi prodotti ematici.
La sintesi lattosica. Il lattosio, contenuto nel latte sotto forma di soluzione
(particelle solide disciolte nel latte) e formato da glucosio+galattosio, deriva
dalla sintesi enzimatica mammaria del galattosio con il glucosio, che è di
provenienza ematica ed in gran parte originato dall'acido propionico ruminale.
La sua concentrazione è poco variabile ed ¾ assieme ai cloruri, al Na ed al K ¾ è
responsabile della pressione osmotica del latte.
157
La sintesi minerale e vitaminica. Tanto i sali minerali quanto le vitamine
provengono direttamente dal sangue; nella mammella subiscono soltanto una
variazione di concentrazione.
La secrezione del latte. La secrezione del latte consiste nel riversamento ¾ dalle
cellule secretrici al lume dell'alveolo ¾ dei composti di neosintesi mammaria
(lipidi, caseine e b lattoglobuline, glucidi) e delle altre sostanze emunte dal
sangue (sieroproteine ematiche, minerali, vitamine, NPN). Il suo ritmo, da cui
dipende sia l'entità che la composizione della produzione giornaliera, pur
essendo una caratteristica strettamente individuale (il numero delle cellule
secernenti e l'efficienza secretiva di ciascuna di esse sono specifiche
dell'animale), è legato anche allo stato di replezione mammaria, il quale
aumenta con la secrezione stessa, sicchè questa non ne risente sino alla 9÷10ª h
dopo la mungitura, ma si riduce progressivamente dopo tale limite sino a
cessare del tutto intorno alla 36ª h.
La eiezione del latte. La eiezione del latte, regolata dall'ormone ipotalamico
neuroipofisario ossitocina OH o MH, consiste nello svuotamento degli alveoli
per caduta progressiva del latte nei dotti alveolari, nei dotti galattofori e nella
cisterna della mammella: al momento della mungitura o della poppata infatti
soltanto il 40% del latte prodotto è già contenuto nei dotti e nella cisterna (latte
cisternale), il 60% è ancora trattenuto negli alveoli (latte alveolare) dai quali è
appunto rimosso dalla ossitocina, la cui azione è istantanea (45÷60 sec) ed il cui
effetto è di breve durata (2÷8 m');
La scarica ossitocinica è provocata da uno stimolo neurormonale che può essere
indotto anche da sollecitazioni esterne quali la poppata (o semplicemente la
presenza o addirittura la sola vista) del figlio e/o la mungitura con le
operazioni ad essa normalmente connesse (lavaggio e massaggio della
mammella, attacco dei gruppi di mungitura, rumore della pompa del vuoto in
sala di mungitura, somministrazione dei concentrati etc.). (Le due fasi della
secrezione e della eiezione possono essere raggruppate nella fase della
emissione).
158
La rimozione del latte. La rimozione del latte dalla mammella, indispensabile
oltre che ai fini produttivi anche per la salvaguardia della sanità dell'organo,
può avvenire secondo due modalità: per estrazione naturale mediante suzione o
poppata del redo o allevo; per raccolta artificiale mediante mungitura manuale
oppure meccanica; talvolta le due modalità, come nel caso dell'allattamento
naturale materno, si susseguono o addirittura si sovrappongono nel corso della
stessa lattazione.
Il latte presente nella mammella non è mai ceduto completamente nè con la
poppata nè, tantomeno, con la mungitura: una parte di esso, variabile
individualmente ma aggirantesi intorno al 10÷20% del latte totale, è trattenuto
nella mammella (latte residuale o di ritenzione fisiologica) e può essere estratto
sperimentalmente soltanto con iniezione endovena di ossitocina.
La velocita' di rimozione del latte, da cui dipende la rapidità di mungitura e
quindi la sua durata e di conseguenza il numero di animali munti per addetto
per h, è legata sia a fattori intrinseci all'animale (livello produttivo e quantità di
latte prodotto, diametro del dotto papillare ed elasticità dello sfintere,
tranquillità e temperamento dell'animale), sia a fattori estrinseci (livello del
vuoto, rapporto di pulsazione e frequenza di pulsazione dell'impianto di
mungitura).
Gli ormoni surrenici (adrenalina e noradrenalina), esercitando effetto limitante
o addirittura inibente sulla eiezione del latte, possono causare anche l'arresto
della sua rimozione, per cui occorre evitare qualsiasi azione che possa
provocare spavento o eccitazione o turbamento all'animale immediatamente
prima e/o durante le operazioni di mungitura.
Poichè nelle razze lattifere la produzione lattea è sempre — grazie all’azione di
selezione e miglioramento genetico operato da secoli, nonché alle migliori
condizioni ambientali e alimentari in cui è praticato attualmente l’allevamento
animale — largamente eccedente rispetto a quella necessaria al soddisfacimento
delle esigenze nutritive del redo (produzione fisiologica), essa è diversamente
159
utilizzata, a seconda della specie allevata, nell'industria lattiero-casearia, i cui
sottoprodotti sono spesso destinati all'alimentazione animale.
Nelle specie bovina e bufalina sino a qualche decennio fa ¾ e talvolta ancora
oggi, soprattutto in allevamenti semintensivi di basso livello tecnico e con
animali di modeste produzioni ¾ almeno parte della produzione (5÷10 l/d per
un periodo 3÷4 mesi) era utilizzata per l'allevamento del vitello (mediante
allattamento con latte materno poppato direttamente oppure somministrato
razionatamente al secchio); attualmente invece tutto il latte prodotto è, in
genere, munto ed il vitello è alimentato con succedanei del latte, il cui costo è di
molto inferiore (30÷40%) al prezzo di vendita del latte.
LA MUNGITURA MECCANICA
La mungitura, che in una azienda da latte impegna assieme alla preparazione e
distribuzione degli alimenti gran parte del tempo (mediamente il 50÷70%) del
personale, deve essere eseguita secondo tempi, modalità e tecniche adeguate, in
quanto da questi dipendono, oltre che la qualità e la quantità di latte prodotto,
soprattutto il suo costo di produzione e quindi l'economicità dell'allevamento.
Essa deve comunque essere praticata mediamente: in 6÷8 m' (non meno di 4÷6,
per evitare l'incompleta rimozione del latte; non più di 8÷10 per evitare
l'eccessivo affaticamento ed i conseguenti effetti negativi sulla mammella) nelle
specie bovina e bufalina; in 1,5÷2 m' (non meno di 1 e non più di 2) nelle specie
ovina e caprina.
Gli elementi principali da prendere in considerazione per la corretta
applicazione della tecnica della mungitura meccanica e per la valutazione
dell'efficienza dell'impianto sono: le fasi della mungitura, le parti dell'impianto,
i parametri di funzionamento ed il sistema di mungitura.
Le fasi della mungitura meccanica. Le fasi della mungitura meccanica sono
normalment costituite dal lavaggio e/o massaggio della mammella, dal
controllo del latte, dalla mungitura vera e propria, dal ripasso e stacco dei
160
gruppi di mungitura, dalla disinfezione della mammella e dei gruppi di
mungitura.
Il lavaggio e il massaggio della mammella. Il lavaggio, spesso eseguito male o
addirittura omesso come solitamente avviene nelle specie ovina e caprina, è
indispensabile per ripulire la mammella, ed in particolare i capezzoli, dalla
sporcizia accumulatavisi principalmente con il decubito dell'animale in stalla o
in ovile e per prevenire eventuali masteopatie provocate da germi patogeni
aderenti alla mammella; esso è praticato di norma con acqua tiepida, a mano
(tecnica che però può facilitare il contagio manuale da un animale all'altro)
oppure meccanicamente con spruzzatori sistemati nella posta di mungitura
oppure ancora automaticamente nella sala di accesso a quella di mungitura
come negli impianti più moderni. Il massaggio, non strettamente indispensabile
ma utile ai fini della facilitazione della cessione del latte e quindi dell'aumento
della velocità di mungitura anche per l'effetto stimolante che ha sulla scarica
ossitocinica, é praticato al momento dell'attacco del gruppo di mungitura alla
mammella. Le due operazioni richiedono nel complesso un tempo di
esecuzione che mediamente oscilla fra 15÷30 sec/capo nei bovini e nei bufalini e
5÷10 sec/capo negli ovini e nei caprini.
Il controllo del latte. Questa operazione, spesso trascurata o male eseguita per
incuria, è della massima importanza pratica ai fini dell'accertamento
dell'igienicità del latte e della sanità della mammella; essa consiste nel controllo
operato direttamente dal mungitore, all'atto dell'attacco del gruppo di
mungitura, di poche gocce di latte provenienti dai singoli capezzoli dei diversi
animali, oppure in sistemi di controllo automatici basati sulla rilevante
presenza di cellule somatiche o di grumi indicanti un'infezione batterica nel
latte: l'animale infetto, o anche semplicemente sospetto, deve essere munto
separatamente, curato e tenuto sotto controllo per evitare sia la propagazione
dell'infezione ad altri animali, sia ulteriori danni allo stesso animale.
L'operazione dura mediamente 20÷30 sec/capo nei bovini e nei bufalini e 5÷10
negli ovini e nei caprini.
161
La mungitura vera e propria. E' la fase che va dall'attacco, che è sempre
manuale, allo stacco, che può essere manuale o automatico, del gruppo; la sua
durata dipende dalla velocità di cessione del latte, che è legata sia alle
caratteristiche anatomo-fisiologiche della mammella sia a quelle meccaniche
dell'impianto di mungitura, ed oscilla mediamente fra 6÷8 min/capo nei bovini
e nei bufalini e 1,2÷1,5 negli ovini e nei caprini. L'operazione deve essere
eseguita a fondo per garantire sia la massima produzione giornaliera che il più
alto contenuto lipidico del latte.
Il ripasso di mungitura e lo stacco del gruppo. Il ripasso, che consente di
estrarre dalla mammella quella parte di latte non rimosso nella fase precedente,
può essere manuale oppure meccanico; esso è spesso trascurato nella specie
bovina per accelerare la velocità di mungitura, in quanto l'operazione dura
mediamente 20÷60 sec/capo; ma non può esserlo in quella ovina soprattutto
nelle razze caratterizzate da lentezza di cessione del latte. Lo stacco del gruppo
può essere manuale, come nei vecchi impianti, oppure automatico come in
quelli più recenti; in tutti i casi però deve essere tempestivo, in quanto la
permanenza del gruppo in funzione oltre un certo limite dopo la
cessazionedella rimozione del latte può provocare gravi danni alla sanità della
mammella, soprattutto in impianti di vecchio tipo caratterizzati da livello di
vuoto spinto e da rapporto di pulsazione elevato.
La disinfezione della mammella e dei gruppi di mungitura. Alla fine della
mungitura di ciascun animale dovrebbero essere disinfettati sia la mammella
che i gruppi di mungitura, questi ultimi per poter essere riutilizzati
immediatamente: la disinfezione della mammella è praticata abbastanza
frequentemente nelle specie bovina e bufalina, molto raramente in quelle ovina
e caprina; la disinfezione dei gruppi, ormai automatizzata nelle specie bovina e
bufalina, è invece praticata soltanto alla fine della mungitura di tutto il gregge
assieme al lavaggio dell'impianto nelle specie ovina e caprina. Per la
disinfezione sono usati prodotti del commercio in soluzione, in genere a base di
I e di HCl.
162
Le parti dell'impianto di mungitura meccanica. Qualsiasi impianto di
mungitura è composto sempre da una pompa del vuoto, da un collettore del
latte, da un pulsatore, da uno o più gruppi di mungitura e da un sistema di
refrigerazione del latte.
La pompa del vuoto. La pompa del vuoto deve essere capace di creare attorno
ai capezzoli una depressione tale da facilitare l'apertura del loro dotto papillare
e quindi la caduta del latte dalla cisterna all'esterno.
Il pulsatore. Il pulsatore, con l'azione di una opportuna valvola, deve
interrompere sistematicamente la depressione creata dalla pompa attorno al
capezzolo e ricrearla immediatamente dopo, secondo una alternanza prefissata
fra le due fasi sia per frequenza che per durata.
Il collettore del latte. Il collettore deve convogliare il latte munto verso un
recipiente di raccolta e/o di refrigerazione con un percorso possibilmente
breve, rettilineo e ad altezza non superiore a quella della mammella.
Il gruppo di mungitura. Il gruppo di mungitura è formato da un complesso di 4
prendi capezzoli per i bovini e i bufalini e di 2 per gli ovini e i caprini, provvisti
ciascun di guaina e manicotto, che viene usato ripetitivamente e variamente a
seconda del numero di animali in mungitura; negli impianti più moderni il
numero dei gruppi oscilla fra 5÷10 e 24÷48 nei bovini e nei bufalini, e fra 6÷12
ed 8÷16 negli ovini e nei caprini.
Il sistema di refrigerazione del latte. Il sistema di refrigerazione è costituito da
un contenitore di varia capienza, proporzionato alla produzione giornaliera
massima, e da un refrigeratore capace di abbassare, entro 1÷2 h, la temperatura
del latte a 4÷5 °C e di mantenervela per almeno 12÷24 h; tale temperatura è
sufficiente a inibire lo sviluppo batterico senza danneggiare la qualità del latte.
I parametri di funzionamento dell'impianto. Il funzionamento di un impianto è
legato principalmente ai seguenti tre fattori: il livello del vuoto, la frequenza di
pulsazione ed il rapporto di pulsazione.
Il livello del vuoto. Il livello del vuoto, dato dalla depressione creata attorno ai
capezzoli dall'azione della pompa e misurato in mm di Hg oppure in Pascal,
163
dovrebbe oscillare per tutte le specie intorno ai 340÷380 mm di Hg
(corrispondenti a 45÷50 kP): un suo innalzamento favorisce la velocità di
efflusso del latte, ma può danneggiare, se eccessivo, i capezzoli; un suo
abbassamento preserva la mammella dall'affaticamento, ma può ridurre la
velocità di efflusso e, al limite, interrompere la cessione del latte; un buon
impianto, oltrechè avere un livello del vuoto ottimale, deve soprattutto evitarne
gli sbalzi che sono molto dannosi alla mammella, la quale può tollerare, senza
gravi conseguenze, cadute o impennate di vuoto purchè minime (max ± 20÷30
mm) e di brevissima durata (max 2÷3 sec).
La frequenza di pulsazione. La frequenza di pulsazione, che è il numero di
pulsazioni per minuto, dovrebbe essere mediamente intorno a 60 per i bovini e i
bufalini, a 120 per gli ovini ed a 90 per i caprini, che è la frequenza ottimale di
stimoli fisiologici alla mammella nelle quattro specie; essa no influenza la
velocità di efflusso del latte ma riduce il tempo di stacco dei prendi capezzoli.
Il rapporto di pulsazione. Il rapporto di pulsazione, che è il rapporto fra la
durata dell'aspirazione (corrispondente al massaggio manuale), in cui il latte è
sollecitato ad effluire dal capezzolo, e quello del riposo, in cui il capezzolo è in
fase distensiva, è mediamente di 1:1 (50%) per i bovini ed i bufalini, di 1,5:1
(60%)per gli ovini e di 2:1 (66%) per i caprini; un innalzamento del tempo di
aspirazione innalza la velocità di efflusso e conseguentement riduce il tempo di
mungitura, ma può affaticare la mammella; un innalzamento del tempo di
riposo preserva invece più facilmente la mammella dall'affaticamento e
favorisce lo stacco automatico dei gruppi, ma rallenta la velocità di efflusso del
latte.
I sistemi di mungitura meccanica. A seconda del luogo in cui la mungitura è
praticata, gli impianti possono essere alla posta oppure in sala mungitura.
Gli impianti alla posta. Questi impianti, con i quali gli animali sono munti in
stalla o in ovile, sono ancora diffusi in allevamenti di piccole dimensioni (15÷20
bovini o bufalini e 60÷80 ovini o caprini), nei quali la sala di mungitura non
sarebbe conveniente, e di basso livello tecnico: generalmente sono impianti con
164
carrello mobile di mungitura oppure impianti a linea fissa sulla corsia di
stabulazione.
Le sale di mungitura. Esse variano soprattutto in funzione della dimensione
dell'allevamento e possono essere lineari oppure rotative.
Nelle sale lineari gli animali sono disposti in successione (sale a tandem)
oppure affiancati (sale a spina di pesce con inclinazione di circa 30° e sale a
pettine con inclinazione di 90°) ed il loro svincolo è anteriore o laterale. Quelle
attualmente più diffuse sono a spina oppure a pettine, di grandezza variabile
con la dimensione dell'allevamento: 3+3 sino a 50 capi, 5+5 sino a 80 capi, 10+10
sino a 150 capi, 16+16 oltre i 150 capi, per mandrie bovine e bufaline;
Nelle sale rotative gli animali, una volta raggiunta la posta di mungitura (a
spina oppure a pettine), sono trasportati su una giostra circolare ad una velocità
che consente tutte le operazioni di mungitura prima che la giostra abbia
compiuto una intera rotazione; attualmente le più diffuse sono quelle a 24
oppure a 48 poste, a seconda delle dimensioni dell'allevamento, rispettivamente
sino a 400 capi ed oltre i 400 capi. Esse sono di solito automatizzate con
congegni elettronici.
Le sale e gli impianti di mungitura, qualunque sia la dimensione ed il tipo,
debbono in ogni caso consentire: comodità di mungitura, che richiede un
dislivello fra pavimento e piano di mungitura di 80÷90 cm; facilità di dosaggio e
di somministrazione dei concentrati in funzione della massima velocità di
ingestione alimentare degli animali, possibilità di controllo e di misurazione
delle produzioni individuali per mezzo di recipienti trasparenti calibrati,
funzionanti anche come stabilizzatori del livello del vuoto Il corretto
dimensionamento ed il perfetto funzionamento dell'impianto sono
fondamentali per la sua efficienza di rendimento e quindi per la sua
economicità di gestione.
L'efficienza di rendimento dell'impianto è stimata dai seguenti parametri:
durata media di mungitura, orario di mungitura, numero di animali munti per
addetto e per h.
165
I FATTORI CHE INFLUENZANO LA PRODUZIONE
I fattori che influenzano la produzione lattea, sia sotto l'aspetto quantitativo che
qualitativo, sono di natura: genetica, climatica, fisiologica, tecnica, alimentare e
igienico-sanitaria.
I fattori genetici. L'attitudine alla produzione lattea è un tipico carattere
quantitativo, ad eredibilità bassa per quanto riguarda il suo aspetto quantitativo
(h² per la produzione = 0,2÷0,4) e medio-alta per quanto riguarda invece alcune
sue caratteristiche qualitative (h² per il contenuto lipidico = 0,4÷ 0,5; h² per il
contenuto proteico = 0,5÷0,6). Essa varia notevolmente con la specie (quella
bovina è più produttiva della bufalina, quella caprina della ovina); con la razza
(le razze da latte sono ovviamente più produttive di quelle da carne, anche se il
contenuto lipidico e protidico del loro latte è quasi sempre inferiore); col ceppo
(i ceppi americani delle razze bovine da latte sono più produttivi di quelli
europei); con l'individuo (in tutte le razze esiste una più o meno forte variabilità
produttiva quanti-qualitativa all'interno dello stesso allevamento che è dovuta a
differenze individuali).
I fattori climatici. Tra i fattori climatici quelli che giocano un ruolo importante
nella produzione lattea sono principalmente la temperatura, l'umidità e la
ventosità dell'ambiente.
La temperatura ottimale è compresa all'incirca fra i +5 e +15°C, intervallo che
costituisce la zona di neutralità termica; fra +5 e -5°C oppure fra +15 e +25°C la
produzione, pur non esplicandosi in condizioni ottimali, non ne risente, purchè
siano adottati accorgimenti opportuni (ventilazione negli ambienti caldi e
riparo dalle correnti negli ambienti freddi); fra -5 e -15°C oppure fra +25 e
+35°C la produzione si riduce, anche con l'adozione degli accorgimenti
opportuni; al di sotto di -15°C oppure al di sopra di +35°C la produzione può
essere seriamente compromessa, talvolta in maniera irreversibile, sopratutto se
tali temperature perdurano oltre un certo periodo (>24÷48 h) e se, per giunta,
sono associate ad umidità e ristagno d'aria oppure a secchezza e ventosità
166
eccessive e con elevate escursioni fra il dì e la notte. In tutti i casi sono più
dannosi gli eccessi che i difetti termici. In generale, rispetto alla specie, i bovini
e gli ovini sono i più resistenti alle temperature basse, i bufalini ed i caprini agli
eccessi termici; rispetto alla razza, quelle di mole maggiore resistono meglio alle
temperature basse, quelle di mole minore alle temperature elevate; rispetto alla
composizione del latte, le basse temperature comportano un innalzamento del
suo contenuto in residuo secco e in lipidi, le alte temperature invece un loro
abbassamento.
L'umidità relativa dell'aria ottimale è compresa all'incirca fra il 60% e il 70%; al
di sotto del 60% e al di sopra del 70% l'animale può risentirne, ma soltanto al di
sopra del 90% e al di sotto del 40% essa può provocare, soprattutto se
perdurante ed associata a ventosità eccessiva oppure ad assenza di ventilazione
ed a temperature eccessivamente alte o basse, una caduta irreversibile della
produzione. Fra le specie, quella più resistente è la bufalina, quella più sensibile
la caprina.
La ventosità, sopratutto se associata a temperatura molto bassa e/o ad elevata
secchezza dell'ambiente, come anche l'assenza di ventilazione, sopratutto se
associata a temperatura e/o umidità molto elevate, sono dannosi per la
produzione.
Le altre componenti climatiche (luce, pressione, etc.) hanno di per sè effetto
diretto trascurabile sulla produzione, ma possono avere effetto indiretto
rilevante per l'azione che esercitano sulla riproduzione (durata e intensità di
illuminazione).
I fattori fisiologici. I principali fattori fisiologici influenzanti la produzione
lattea sono: la mole, le condizioni generali, l'ordine di parto, la stagione di
parto, lo stadio di lattazione, l'interparto limitatamente alla specie bovina e
bufalina e la prolificità limitatamente alle specie ovina e caprina.
La mole. Le dimensioni corporee, in particolare la taglia o statura ed il volume o
mole, e quindi il peso corporeo dell'animale sono correlati positivamente, anche
se in maniera non strettissima, con la produzione lattea, principalmente per il
167
maggior sviluppo degli apparati digerente e mammario negli animali di grande
taglia (al di sopra di 6 q nei bovini, di 5 q nei bufalini, di 50 kg negli ovini e nei
caprini) rispetto a quelli di piccola taglia (al di sotto dei valori precedenti).
Le condizioni generali (nutrizionali, sanitarie e riproduttive). La produzione
dipende anche dallo stato nutrizionale con cui l'animale perviene al parto e
dalle condizioni sanitarie generali (assenza di malattie e di disturbi digestivi
e/o metabolici); essa decresce temporaneamente in concomitanza dei calori,
progressivamente ed irreversibilmente con il progredire della gravidanza (dal
6° mese nei bovini e nei bufalini, dal 3° mese negli ovini e nei caprini).
L'ordine di parto. La produzione aumenta con la successione dei parti, e quindi
con l'età dell'animale che le è strettamente legata, sino alla 5ª lattazione nei
bovini e nei bufalini e sino alla 4ª negli ovini e nei caprini; successivamente
decresce progressivamente sino alla fine della carriera.
Lo stadio di lattazione. La produzione giornaliera cresce dal parto sino alla
3ª÷6ª w di lattazione nei bovini e nei bufalini e sino alla 3ª÷4ª negli ovini e nei
caprini, momento in cui raggiunge l'apice (picco produttivo o di lattazione); si
mantiene quasi costante sino al 3°÷4° mese; indi decresce, prima lentamente
sino al 6°÷7° mese, successivamente in maniera più accentuata sino
all'asciugamento (inizio dell'8° mese di gravidanza nei bovini e nei bufalini, del
4° negli ovini e nei caprini).
La stagione di parto. Gli animali che partoriscono nel periodo autunno-
invernale hanno, rispetto a quelli che partoriscono nel periodo primaverile-
estivo, una produzione ed un contenuto lipidico del latte più elevati sia per le
più basse temperature invernali e per la migliore qualità dei foraggi di tale
periodo, sia per la coincidenza del picco produttivo con l'inverno, dello
svolgimento della lattazione con la primavera e dell'asciugamento con l'estate.
L'intervallo interparto. Il suo allungamento comporta inevitabilmente
l'allungamento, e quindi una maggiore produzione, della lattazione in corso
oltreché un effetto positivo su quella successiva, ma anche una riduzione, del
numero di lattazioni e quindi della produzione complessiva;
168
I fattori tecnici. Fra i fattori tecnici la mungitura è, dopo l'alimentazione, quella
che ha il maggior effetto sulla quantità e sulla qualità del latte; di essa hanno
rilevanza principalmente: il numero o frequenza delle mungiture giornaliere, la
intermungitura o distanza fra le mungiture e la completezza di mungitura.
La frequenza di mungitura. La produzione lattea aumenta con il numero delle
mungiture giornaliere;
L'intermungitura. Tenuto conto dello scarso innalzamento produttivo reale
conseguibile con un aumento della frequenza di mungitura, gli animali sono
munti di solito 2 volte al giorno: l'intervallo ottimale fra le due mungiture è di
12+12 h che però è difficilmente realizzabile nella pratica aziendale per ragioni
economico-organizzativo-sociali; un'intermungitura anche di 10+14 h non
modifica la produzione giornaliera complessiva;
La completezza di mungitura. L'incompleto svuotamento della mammella ha
effetto negativo, oltreché sulla quantità di latte prodotto giornalmente
(riduzione del 5÷10%), anche e soprattutto sulla sua composizione, in
particolare sul suo contenuto lipidico che, essendo il costituente più leggero, è
rimosso per ultimo e rimane quindi nella mammella in caso di mungitura
incompleta:ad esempio, in un latte medio col 3,5% di grasso sulla mungitura
completa, questo può variare dall'1,5% all'inizio sino al 5% alla fine della
mungitura.
I fattori igienico-sanitari. Lo stato sanitario dell'animale in generale e della
mammella in particolare (la cui patologia più diffusa nelle femmine lattifere è la
mastite, processo infiammatorio a carico di tale organo, che può costituire la
principale causa di eliminazione degli animali dall'allevamento) influenza sia la
quantità (riduzione o addirittura arresto della produzione) sia la qualità del
latte: modificazioni dell'aspetto (colore, odore, sapore) che lo rendono non
commerciabile e della attitudine casearia (riduzione del contenuto caseinico,
lattosico e minerale ed aumento di quello in sieroproteine, in azoto non
proteico, in cellule somatiche, in cloruri e dell'acidità; alterazione strutturale dei
lipidi e modificazione della composizione acidica).
169
Il contenuto lipidico è influenzato positivamente: dalla bassa produzione; dalle
basse temperature; dallo stadio di lattazione e dall'ordine di parto; dalla
completezza, frequenza e distanza di mungitura; dal tipo di razione alimentare
(concentrazione, dimensione e qualità della fibra; contenuto, qualità e momento
di somministrazione dei concentrati); dalle condizioni generali dell'animale
(stato sanitario e nutrizionale); oltrechè ovviamente dall'attitudine genetica
dell'individuo (h²@ 0,5).
Il contenuto proteico, molto meno influenzabile di quello lipidico, è legato al
tipo di razione , oltrechè all'attitudine genetica individuale
I contenuti lattosico e minerale subiscono variazioni praticamente insignificanti.
Il contenuto in cellule somatiche CCS — cellule di derivazione ematica
(leucociti e linfociti) e di sfaldamento dell'epitelio ghiandolare (cellule epitaliali)
che rivestono un ruolo fondamentale nei meccanismi di difesa attiva della
ghiandola mammaria contro la penetrazione degli agenti patogeni ambientali
esterni — è influenzato dallo stato sanitario della mammella, dal livello
produttivo dell'animale, dal tipo di alimentazione e dalla fase della lattazione.
Il contenuto microbico totale CMT — numero complessivo di microrganismi sia
utili (lattobacilli e lieviti) che dannosi al latte (Coliformi, Clostridi, Psicrotrofi) o
all'uomo (Brucella, Salmonella, Listeria) presenti nel latte già all'atto della
mungitura — è influenzato dallo stato sanitario della mammella, dall'igiene
dell'ambiente e dell'impianto di mungitura e dalla refrigerazione del latte in
azienda.
Il contenuto in sostanze inibenti — derivate da residui di fitofarmaci presenti
negli alimenti, di chemiofarmaci utilizzati nei trattamenti terapeutici agli
animali e di disinfettanti usati in stalla od in ovile è influenzato, oltrechè dal
tipo di farmaco impiegato, dalla specie animale e dalle tecniche di conduzione
dell'allevamento.
LA QUALITÀ DEL LATTE E LA SUA VALUTAZIONE COMMERCIALE
170
Il latte, qualunque sia la sua destinazione d'impiego (consumo diretto o
trasformazione industriale), per poter essere commercializzato, deve possedere,
già alla produzione in azienda, determinati requisiti igienico-sanitari e
fisiologico-qualitativi.
I primi sono legati alla sanità dell'animale in generale (indennità da malattie
infettive, sopratutto da quelle pericolose anche per la salute umana, quali
tubercolosi, brucellosi, salmonellosi e listeriosi) e della mammella in particolare
(dannose per la lavorazione e/o conservazione del latte e dei suoi derivati,
quali le masteopatie).
I secondi sono fondamentali nella determinazione della qualità del latte, la
quale può essere definita, in generale: con la sua composizione chimica
(contenuti lipidico, proteico, lattosico e minerale); con il suo contenuto
citologico (contenuto in cellule somatiche CCS e contenuto microbico totale
CMT); limitatamente ai latti destinati alla caseificazione con le sue
caratteristiche reologiche (tempo di coagulazione r, tempo di formazione del
coagulo K20, consistenza del coagulo A30) e casearie (resa alla trasformazione);
La sanità del latte. La sanità del latte è legata, oltrechè alla sanità
dell'allevamento (in particolare alla indennità da tubercolosi e da brucellosi),
soprattutto alla sanità della mammella, la cui principale affezione è la mastite,
che è uno stato infiammatorio dell'organo causato dalla penetrazione in esso,
attraverso il dotto papillare, di batteri patogeni,che provoca nel latte: aumento
dell'acido lattico a, spese del lattosio; aumento del N totale e delle proteine
sieriche (lattoalbumine e lattoglobuline) e parallela riduzione della caseina e
della sua coagulabilità, con conseguenze ovviamente negative sulla
caseificazione; aumento dei cloruri e del Ca, e conseguente innalzamento del
pH; riduzione del contenuto lipidico e del residuo magro.
Ciò comporta, oltrechè un deprezzamento qualitativo del latte ed un aumento
delle spese veterinarie, sopratutto una riduzione della produzione giornaliera e
per lattazione e nei casi estremi un accorciamento della carriera produttiva per
171
morte o eliminazione dell'animale colpito: l'incidenza economica del danno è
sempre elevata e può raggiungere il 10÷20% della PLV dell'allevamento.
La malattia si presenta con forme diverse (latente, subclinica, clinica, cronica) e
si manifesta con gradi diversi (subacuta, acuta e iperacuta). La sua insorgenza,
la sua diffusione e la sua intensità sono legate: a fattori genetici individuali
(resistenza), quali la conformazione anatomica della mammella (sopratutto
diametro del dotto papillare ed elasticità dello sfintere del capezzolo) e la
produttività dell'animale (livello produttivo e velocità di cessione del latte); a
condizioni igieniche generali, quali la pulizia della mammella e dell'ambiente,
la manutenzione dell'impianto di mungitura (lavaggio) e la sua conduzione
(livello del vuoto, rapporto di pulsazione); al tipo di alimentazione
(concentrazione proteica, concentrazione energetica, rapporto energia/proteina,
equilibrio acido-basico, somministrazione di erbe particolarmente ricche di
estrogeni come le leguminose);
La diagnosi è effettuata con: metodi fisico-meccanici (quali: palpazione della
mammella, che può rivelarne un aumento di volume e di temperatura;
osservazione dei primi schizzi di latte che ne rivela il colore e la consistenza) o
chimici (rilevazione del pH; determinazione del contenuto lipidico, in acido
lattico, in cloruri, in cellule somatiche e in microbi totali; test specifici, quali il
metodo californiano e wisconsiniano) e microbiologici (esami di laboratorio
specifici per l'individuazione dell'agente patogeno).
Gli agenti infettivi (esistono anche masteopatie non infettive che pero'
preludono a quelle infettive) sono prevalentemente Stafilococchi (S. aureus,
responsabile principale della mastite gangrenosa, di difficilissima eradicazione
in quanto si localizza in profondità ed è poco sensibile agli antibiotici; S.
epidermis), Streptococchi (S. agalactiae, dysgalactiae, uberis, fecalis, meno
dannosi degli stafilococchi ma pur sempre dannosi e presenti nella mammella),
Coliformi (Escherichia, Aerobacter, Pseudomonas, Clostridium,
Corinebacterium), gruppi non specifici delle mastiti (Micobatteri, Actinomiceti,
Micoplasmi, Muffe, Lieviti e Virus).
172
La prevenzione consiste principalmente: nell'eliminazione degli animali infetti
non curabili, nell'osservanza scrupolosa delle norme igieniche, sanitarie,
alimentari e di conduzione che ostacolano l'infezione e la diffusione della
malattia (pulizia e disinfezione dell'ambiente, dell'impianto di mungitura e
della mammella), nella somministrazione endomammaria di antibiotici specifici
all'asciugamento dell'animale, nella vaccinazione preventiva possibilmente con
vaccini specifici dell'allevamento (autovaccini).
La terapia consiste principalmente nell'isolamento degli animali colpiti e nella
macellazione di quelli incurabili, nell'asportazione chirurgica dei quarti o
dell'emimammella su animali di particolare valore produttivo, nel trattamento
antibiotico specifico in dosi massive sino a guarigione dell'animale e nel
controllo periodico sistematico dell'allevamento.
La valutazione commerciale del latte
Il pagamento del latte in base alla sua qualità impone quindi la fissazione del
prezzo in funzione delle caratteristiche merceologiche di maggiore rilevanza.
Ai fini della valutazione commerciale del latte devono quindi essere prese in
considerazione: la sanità dell'intero allevamento, dei singoli animali e della
mammella; il contenuto lipidico e proteico del latte; il contenuto in cellule
somatiche; il contenuto microbico totale; la presenza di sostanze estranee
(pesticidi, inquinanti, antibiotici), la refrigerazione del latte in azienda. La sanità
degli allevamenti è certificata con l'assenza dall'allevamento di animali affetti
da malattie infettive, dannose per la salute umana (tubercolosi e brucellosi) e
per la trasformazione e conservazione dei derivati del latte (salmonellosi e
mastite). Il contenuto lipidico e proteico, essendo responsabile della resa alla
caseificazione e della qualità dei formaggi, è particolarmente importante
sopratutto nei latti destinati alla caseificazione e costituiscono gli elementi
principali per la fissazione del prezzo base del latte. Il contenuto in cellule
somatiche ed il contenuto microbico totale non devono superare dei valori
soglia (200.000-500.000/cc e 500.000-1.000.000/cc rispettivamente per la specie
173
bovina ed ovina). La refrigerazione del latte in azienda, indispensabile per
contenere la moltiplicazione batterica e bloccare l'attività enzimatica che altera
le caratteristiche del latte durante il trasporto e/o la caseificazione e dei derivati
durante la maturazione e conservazione, deve essere attuata in tempi (2÷3 h) e
modi (3÷4°C) ben precisi.
LA PRODUZIONE DI CARNE
Mentre per l'attitudine alla produzione del latte esiste, come s'è visto in
precedenza, un parametro che la identifica e la definisce abbastanza
inequivocabilmente ¾ quantità di latte normalizzato Ln (latte con un
determinato contenuto lipidico, specifico per ciascuna specie) prodotto in una
lattazione di durata convenzionale (sempre 305 d per i bovini ed i bufalini;
variabile, in funzione della razza e della successione dei parti, per gli ovini ed i
caprini) da una lattifera adulta (quintipara per i bovini ed i bufalini, quartipara
per gli ovini ed i caprini) ¾ per l'attitudine alla produzione della carne, non
esistendo un parametro univoco di identificazione, si è costretti inevitabilmente
a fare riferimento ai diversi parametri che concorrono a definirne il carattere e
che correntemente vengono individuati nei seguenti 5:
• peso corporeo alla macellazione, indice di conversione alimentare, resa alla
macellazione,
• caratteristiche della carcassa e dei suoi tagli, qualità e composizione della
carne.
Sotto l'aspetto zootecnico, gli animali destinati alla produzione della carne:
· i giovani in accrescimento che eccedono la quota di rimonta dell'allevamento;
· gli adulti a fine carriera produttiva e/o riproduttiva che costituiscono la quota
di riformaobbligatoria;
· gli animali ¾ giovani o adulti ¾ ritenuti non idonei, per qualunque causa
(scarsa capacità produttiva, precario stato di salute, particolare scelta
imprenditoriale), a proseguire nella carriera produttiva e/o riproduttiva.
174
I giovani, prima della macellazione, vengono sottoposti ad ingrassamento:
questo è praticato esclusivamente (lattoni) o prevalentemente (mezzo-lattoni)
con il latte o con un suo succedaneo oppure, dopo lo svezzamento attuato più o
meno precocemente, con alimenti solidi che sono costituiti prevalentemente da
concentrati, insilati e/o fieni (vitelloni, bufalotti, agnelloni e caprettoni).
I primi (lattoni e mezzo-lattoni) qualora siano ingrassati con latte, che
generalmente é quello materno, sono macellati il più precocemente possibile e
quindi a pesi relativamente bassi, a causa della scarsa convenienza economica
dell'allevatore a destinare il latte prodotto in azienda alla trasformazione diretta
in carne (l'indice di conversione del latte in carne, variabile soprattutto con il
suo contenuto energetico e con la potenzialità di accrescimento dell'animale, è
notoriamente infatti molto elevato: kg 10÷12 nella specie bovina, 7÷8 in quella
bufalina, 5÷6 in quella ovina e 7÷8 in quella caprina): è la tecnica solitamente
adottata nella produzione degli agnelli e dei capretti tradizionali da latte e,
sebbene in misura sempre minore, nella produzione dei vitelli di razze rustiche,
sia puri che meticci, e di razze da latte di basso livello produttivo. Qualora
invece gli animali siano ingrassati, anziché con latte, con succedanei del latte (il
cui costo, per l'economicità del loro impiego, non deve superare il 30÷40% del
prezzo di vendita del latte), essi possono essere macellati ad età e pesi superiori
a quelli tradizionali, sfruttando in tal modo per intero la loro capacità di
accrescimento giovanile: è la tecnica adottata nella produzione degli agnelli e
dei capretti pesanti da latte, dei vitelli bovini di razze lattifere e dei vitelli
bufalini.
I secondi (vitelloni, bufalotti, agnelloni e caprettoni) sono invece animali che ¾
dopo essere stati inizialmente allattati con il latte o con un suo succedaneo,
successivamente svezzati più o meno precocemente e infine ingrassati con
alimenti solidi secondo piani alimentari adeguati ¾ vengono macellati ad età e
pesi tipici per le diverse specie e razze: è la tecnica adottata nella produzione
degli agnelloni e dei caprettoni (precoci, tradizionali e pesanti), dei vitelloni
(leggeri, semi-pesanti e pesanti) e dei bufalotti.
175
Gli adulti sono animali a fine carriera produttiva e/o riproduttiva (dopo
l'ultima lattazione, nel caso delle femmine; dopo l'ultima stagione o periodo di
monta, nel caso dei maschi) che vengono macellati dopo essere stati ingrassati o
comunque messi in carne per 1÷2 mesi.
In particolare, e con riferimento alle singole specie, queste categorie sono le
seguenti
· nella specie bovina: il vitello da latte ( tradizionale, leggero e pesante), il
vitellone (leggero, semipesante e pesante), l'adulto (vacca e toro; manza e
giovenca);
· nella specie bufalina: il vitello da latte, il bufalotto, l'adulto;
· nella specie ovina: l'agnello da latte (tradizionale e pesante), l'agnellone
(leggero, tradizionale e pesante), il castrato, l'adulto (pecora ed ariete);
· nella specie caprina: il capretto da latte (tradizionale e pesante), il caprettone,
l'adulto (capra e becco).
Il vitello tradizionale da latte è un vitello dell'età di mesi 5÷7 e del peso
corporeo di kg 180÷200, prevalentemente di sesso femminile; esso, più che un
vitello da latte vero e proprio, è un mezzolattone, in quanto ¾ provenendo
generalmente dall'allevamento estensivo di razze rustiche allevate in purezza o
incrociate con razze da carne oppure dall'allevamento semintensivo delle razze
da latte di basso livello produttivo oppure ancora dalle razze a duplice
attitudine ¾ è stato alimentato solitamente, oltre che con latte, con erba da
pascolo soprattutto nel primo caso e con concentrati soprattutto nel secondo
caso.
Il vitello leggero da latte, dell'età di mesi 4÷5 e del peso corporeo di kg 120÷150,
proveniente dall'allevamento intensivo delle razze specializzate da latte, è
ingrassato solitamente con un succedaneo del latte; questa produzione sta
perdendo via via importanza per l'orientamento dell'allevatore a produrre,
176
grazie alla sua maggiore convenienza economica, un animale più pesante che è
il vitellone.
Il vitello pesante da latte, dell'età di mesi 6÷8 e del peso corporeo di kg 250÷280,
è alimentato, oltre che con succedanei del latte, con farine e concentrati; la sua
produzione è ormai limitata ad un particolare mercato che é quello del sanato
(castrato) piemontese, prodotto quasi esclusivamente in Piemonte con la razza
omonima.
Il vitellone, che costituisce la produzione economicamente più importante e
quantitativamente più consistente della specie, è il giovane svezzato e
ingrassato sino a pesi ed età variabili, in funzione soprattutto della precocità
dell'animale e del tipo di prodotto richiesto dal mercato; esso solitamente é
distinto in: leggero, dell'età di mesi 10÷12 e del peso corporeo di kg 350÷420, in
genere proveniente da razze rustiche in purezza o in incrocio, da razze da latte
soprattutto se di sesso femminile e da razze da carne molto precoci; semi
pesante, dell'età di mesi 12÷15 e del peso corporeo di kg 450÷500, in genere
proveniente da meticci di razze rustiche soprattutto di sesso maschile, da
meticci di razze da latte e da razze a duplice attitudine; pesante, dell'età di oltre
mesi 15 e del peso corporeo superiore a kg 500, in genere proveniente da
meticci di razze da latte oppure da razze a duplice attitudine oppure ancora da
razze da carne in purezza.
L'adulto è costituito prevalentemente da vacche a fine carriera, di età e peso
corporeo molto variabili (rispettivamente anni 8÷12 e kg 400÷700); da tori
anch'essi a fine carriera (età 4÷6 anni e peso corporeo kg 600÷1500); da manze,
da giovenche e da giovani vacche di scarto.
Il vitello bufalino da latte ha un'età di mesi 4÷5 ed un peso corporeo di kg
80÷120; il bufalotto ha un'età di mesi 10÷12 ed un peso corporeo di kg 300÷350;
l'adulto a fine carriera (bufala e toro bufalino) dell'età di 10 e 6 anni e del peso
corporeo di 500÷600 e di 600÷1000 kg, rispettivamente.
L'agnello tradizionale da latte, il cui peso varia principalmente con la razza e
con le esigenze del suo particolare mercato, in Italia è prodotto a pesi sempre
177
più bassi e quasi esclusivamente con razze da latte (kg 8÷10 all'età di 25÷30 d
con razze da latte specializzate; kg 12÷15 all'età di 40÷45 d con razze da carne e
simili). L'agnello pesante da latte è ottenibile soltanto grazie alla tecnica
dall'allattamento artificiale che, per il costo alimentare contenuto, ne valorizza
la potenzialità dicrescita sino a d 45÷60 (kg 10÷12 con animali in purezza; kg
12÷15 con animali meticci). L'agnellone, ottenibile convenientemente soltanto
con le razze da carne o con i loro derivati a causa dell'incapacità delle razze da
latte di raggiungere precocemente pesi elevati, ha età e pesi di macellazione
differenti: leggero o precoce, dell'età di d 90÷100 e del peso corporeo di kg
25÷30, se svezzato ed ingrassato precocemente; tradizionale o semipesante,
dell'età di d 120÷135 e del peso corporeo di kg 35÷40; pesante, dell'età di mesi
5÷6 e del peso corporeo di kg 50÷60, scarsamente diffuso pero' in Italia. L'adulto
(pecora e ariete a fine carriera) ha un età rispettivamente di anni 5¸7 e 4¸5 ed un
peso corporeo di kg 40÷60 e 60÷90. Il castrato o montone, poco richiesto dal
mercato italiano, ha un età di mesi 8÷12 ed un peso corporeo di kg 70÷80.
Il capretto tradizionale da latte ha un età di d 40÷45 ed un peso corporeo di kg
8÷12. Il capretto pesante da latte, ottenibile economicamente soltanto grazie alla
tecnica dell'allattamento artificiale, ha un età di d 50÷60 ed un peso corporeo di
kg 12÷15. Il caprettone, dell'età di d 60÷70 e del peso corporeo di kg 18÷20, è
poco apprezzato però dal consumatore per il suo caratteristico odore ircino.
L'adulto (capra e becco) ha un età rispettivamente di anni 6¸8 e 4¸5 ed un peso
corporeo rispettivamente di kg 40÷60 e 60÷100.
Sotto l'aspetto commerciale, gli animali destinati alla produzione della carne
sono invece raggruppati nel modo seguente:
· nella specie bovina: bovino da latte, vitello al di sotto di kg 220 di peso morto,
alimentato con solo latte o suo succedaneo ed a carne bianca; bovino adulto,
animale svezzato comprendente una delle seguenti 5 categorie: A giovenca,
femmina che non ha mai partorito; E vitellone, maschio giovane intero; C
castrato; B toro, riproduttore oppure bue a fine carriera; D vacca, femmina che
ha partorito almeno una volta;
178
· nella specie bufalina: annutolo, sotto l'anno di età; adulto, oltre l'anno;
· nella specie ovina: agnello da latte, alimentato soltanto con latte o
succedaneo, suddiviso in due categorie (tradizionale < 7 kg; leggero 7¸13 kg di
peso morto); agnellone, giovane svezzato e ingrassato; adulto (pecora e ariete);
· nella specie caprina: capretto da latte, alimentato soltanto con latte o
succedaneo; caprettone, giovane svezzato e ingrassato; adulto (capra e becco).
IL PESO CORPOREO ALLA MACELLAZIONE
Il peso corporeo alla macellazione — che nella produzione della carne è per
l'allevatore il parametro tecnicamente più evidente ed economicamente più
rilevante — è funzione sia del peso alla nascita che dell'incremento ponderale
dalla nascita alla macellazione ed è influenzato, in entrambi i suoi componenti,
da fattori genetici, alimentari e tecnici.
Il peso dell'animale alla nascita dipende: dalla specie (kg 30¸50 nei bovini e nei
bufalini e 3¸5 negli ovini e nei caprini); dalla razza (generalmente le razze da
carne hanno pesi superiori a quelle da latte e queste a quelle rustiche); dal sesso
(i maschi superano le femmine mediamente del 10÷15%); dall'ordine di parto (i
figli di pluripare superano quelli delle primipare del 5÷10%); dal tipo di parto (i
singoli pesano più dei bigemini e questi più dei trigemini); dalla stagione di
parto (i nati nel semestre inverno-primaverile pesano più di quelli estivo-
autunnali); dalla durata della gravidanza della madre (una gestazione piu'
lunga comporta un piu' elevato peso alla nascita); dal tipo di alimentazione (in
particolare dal livello nutritivo della razione complessiva) della madre
nell'ultima fase della gravidanza (ultimo terzo); infatti il ritmo di accrescimento
prenatale, essendo molto basso sia nella fase embrionale che in quella fetale
iniziale e diventando consistente soltanto nella fase fetale finale (g/d 300¸400
nei bovini e nei bufalini e 40¸50 negli ovini e nei caprini), è ovviamente legato,
oltreché ad aspetti genetici (l'ereditabilità del carattere è infatti del 20÷30%),
sopratutto al livello nutritivo della razione materna nell'ultimo mese (ovini e
caprini) o negli ultimi 2 mesi (bovini e bufalini) di gravidanza, in particolare
179
alla quantità di concentrati somministrati. L'importanza economica di un alto
peso alla nascita è rilevante però soltanto se si considera l'elevata correlazione
che esiste, a parità di altre condizioni, fra il peso alla nascita e la frequenza delle
distocie, questo può diventare un fattore addirittura negativo, soprattutto in
alcune condizioni aziendali (allevamento di razze da carne o simili predisposte
naturalmente alle distocie; conduzione estensiva della mandria o del gregge;
carenza di assistenza al parto) nelle quali l'allevatore deve tendere ad ottenere
invece animali, oltreché ben conformati, di modesto peso alla nascita, anche se
quelli più pesanti sono più vitali ed hanno ritmi di accrescimento superiori.
L'incremento ponderale o aumento del peso corporeo dalla nascita alla
macellazione è il risultato congiunto di due fenomeni fisiologici fra loro
inscindibili ma che si realizzano con una sfasatura temporale: l'aumento delle
dimensioni corporee dell'animale (accrescimento dimensionale somatico) e la
variazione di forma, di struttura e di composizione degli organi dell'animale
(accrescimento differenziale strutturale o sviluppo); tanto l'uno quanto l'altro
trovano la loro espressione sintetica e la loro misurazione quantitativa nel ritmo
di accrescimento.
Il fenomeno dell'accrescimento ¾ che inizia con la fecondazione e termina, di
fatto, con il raggiungimento dell'età adulta (5÷6 anni nei bovini e nei bufalini,
4÷5 negli ovini e nei caprini), attraversando la fase prenatale o uterina (vita
embrionale e vita fetale) e quella post-natale (vita produttiva) ¾ è caratterizzato:
inizialmente, dalla prevalenza della componente dimensionale somatica, cui è
legata la crescita delle tre parti del corpo dell'animale (in successione temporale,
tessuto osseo e cartilagineo, tessuto muscolare e tessuto adiposo);
successivamente, dalla prevalenza della componente strutturale, cui è legata la
differenziazione percentuale degli organi e la diversificazione della
composizione dei tessuti (contenuto idrico, lipidico, proteico e minerale).
L'incremento ponderale complessivo che ne deriva è funzione sia del ritmo di
accrescimento che dell'età di macellazione.
180
Il ritmo di accrescimento ¾ come s'è detto, espressione sintetica e misura
quantitativa del fenomeno dell'accrescimento ¾ può essere espresso sia in
valore assoluto come kg (per le specie bovina e bufalina) o g (per le specie ovina
e caprina) di incremento ponderale giornaliero, sia in valore relativo come kg (o
g ) di incremento giornaliero per q (o kg) di peso corporeo dell'animale:
Il ritmo di accrescimento purtroppo subisce sempre un rallentamento, a volte
eccessivo, durante la fase dello svezzamento (fase di passaggio dalla
alimentazione lattea a quella solida e non necessariamente di separazione del
giovane dalla madre) e quando le condizioni sanitarie ed alimentari
dell'animale non sono perfette; esso però può essere recuperato, almeno
parzialmente (accrescimento compensativo), qualora ad un periodo di
ipoalimentazione e/o di stress segua uno di ripristino ottimale delle condizioni
alimentari e/o sanitarie.
Il ritmo di accrescimento non è nè uguale nè costante, nello stesso animale, per i
diversi tessuti, organi ed apparati; questi presentano infatti un accrescimento
differenziale che è il responsabile della diversificazione strutturale dell'animale:
normalmente le ossa crescono più rapidamente ed anticipatamente dei muscoli
e questi dei depositi adiposi, con conseguente diversificazione temporale fra i
ritmi di sviluppo dei tessuti scheletrico, muscolare ed adiposo (accrescimento
ad onde).
Questa diversificazione di sviluppo fra tessuti, sempre presente in tutte le
specie e le razze, può essere più o meno accentuata in funzione della precocità
dell'animale, che é la sua capacità di raggiungere più o meno precocemente sia
le dimensioni somatiche (precocità somatica) che la struttura corporea
(precocità strutturale) dello stato adulto. A seconda della loro precocità, le razze
vengono classificate in: precoci (le razze rustiche e alcune razze da latte), medie
(alcune razze da latte e le razze a duplice attitudine), tardive (le razze da carne).
La precocità ha rilevante importanza pratica in quanto concorre a determinare
l'età ottimale di macellazione: ad esempio, bovini caratterizzati da prolungato
ritmo di accrescimento e da lentezza di maturazione strutturale debbono essere
181
necessariamente macellati a pesi molto elevati e debbono quindi essere destinati
alla produzione del vitellone pesante; bovini con caratteristiche opposte
debbono essere invece destinati alla produzione del vitellone leggero.
L'età di macellazione, responsabile anch'essa del peso alla macellazione, varia
in funzione del ritmo di accrescimento e quindi della precocità dell'animale (ad
esempio, le femmine debbono essere macellate prima dei maschi) e delle
particolari esigenze del mercato (alcuni mercati preferiscono gli animali leggeri
a quelli pesanti, altri gli animali da latte a quelli svezzati ed ingrassati). Talvolta
però l'allevatore è costretto, per ragioni tecniche o per particolari condizioni del
mercato, a macellare gli animali anticipatamente oppure posticipatamente
rispetto all'età tecnicamente ottimale.
L'INDICE DI CONVERSIONE ALIMENTARE
L'indice di conversione alimentare, che è il più importante parametro di stima
della convenienza economica di qualsiasi produzione zootecnica, è la quantità
di alimento (comunque espressa: kg di sostanza secca o, meglio, cal o J di
energia netta) mediamente consumata dall'animale per ogni kg di incremento
di peso corporeo; è normalmente espresso in UFL oppure in UFC/kg di
incremento.
Esso varia in funzione principalmente: della specie (le specie bovina e bufalina
hanno ovviamente indici più elevati delle specie ovina e caprina ; della razza (le
razze da carne hanno indici più bassi di quelle da latte e queste di quelle
rustiche, grazie al loro differente ritmo di accrescimento); del sesso (i maschi
hanno indici più bassi delle femmine, grazie alla loro maggiore capacità di
trasformazione alimentare); dell'età (gli animali giovani hanno ritmi di
accrescimento più elevati e conversioni alimentari più favorevoli di quelli meno
giovani o adulti); del peso corporeo (l'animale con l'avanzare dell'età e del peso
destina una quota alimentare progressivamente crescente al proprio
mantenimento); dello stato di ingrassamento; del piano alimentare; della
tecnica di ingrassamento (animali liberi ma mantenuti in recinti ristretti ed
182
alimentati razionalmente crescono più di altri mantenuti in condizioni opposte);
delle condizioni igienico-sanitarie generali
Il piano alimentare, può essere costante per tutto l'ingrassamento oppure
differenziato nel tempo. Il livello nutritivo, che è il rapporto fra l'energia totale
ingerita dall'animale e quella strettamente necessaria al suo mantenimento, è
considerato basso quando è inferiore a 1,5; moderato fra 1,5÷2; alto oltre 2;
talvolta è espresso empiricamente come quantità di concentrati somministrati
per q di peso corporeo dell'animale (kg/q 0,5 - 1,0 - 1,5, rispettivamente).
LA RESA ALLA MACELLAZIONE
La resa alla macellazione è il rapporto percentuale fra il peso morto (carcassa,
comunque preparata) ed il peso vivo (peso corporeo, comunque rilevato)
dell'animale macellato: R= PM/PVx100.
Poiché però sia il sistema di macellazione dell'animale che il tipo di
preparazione commerciale della sua carcassa variano in funzione della specie
animale, dell'età di macellazione ed anche delle consuetudini locali, esistono
espressioni diverse di questo rapporto che possono ingenerare qualche
confusione sulla corretta interpretazione del parametro, la cui esatta
valutazione è di fondamentale importanza per l'allevatore soprattutto ai fini
economici della fissazione del prezzo di vendita dell'animale; occorre pertanto
definire esattamente i due termini (denominatore e numeratore) del rapporto.
Il peso vivo può essere espresso come: peso lordo (peso dell'animale nelle
condizioni ordinarie dell'allevamento, ossia sazio e dissetato: in pratica, dopo il
pasto, la pascolata e l'abbeverata); peso stallato (peso dell'animale stallato,
mantenuto cioè a digiuno alimentare e idrico da almeno 12 ore; peso netto
(peso dell'animale privato di tutto il contenuto gastroenterico; tale peso
ovviamente non può essere determinato che a posteriori, ossia dopo la
macellazione, detraendo dal peso lordo oppure dal peso stallato il peso del
contenuto gastrointestinale residuo).
183
Il peso morto può essere espresso come: peso in carcassa (peso dell'animale
privato del sangue, della testa, della pelle, dei visceri ad eccezione dei reni e del
grasso perirenale, della coda, della parte distale degli arti e sezionato prima in
mezzene e poi in quarti;
Nella pratica commerciale per resa alla macellazione si intende di norma la resa
in carcassa, a digiuno, a freddo (resa commerciale); nella pratica sperimentale la
resa netta, in carcassa, a freddo (resa netta).
La resa alla macellazione è influenzata da fattori genetici, alimentari e tecnici.
I principali fattori genetici sono: la specie (la specie bovina ha di norma una resa
maggiore di quella bufalina e la specie ovina superiore a quella caprina, per la
superiore attitudine alla produzione della carne delle prime due specie rispetto
alle seconde); la razza (le razze specializzate per la produzione della carne
hanno una resa superiore a quelle a duplice attitudine, queste a quelle
specializzate da latte e queste ultime a quelle rustiche; i meticci derivati da
razze da carne hanno una resa intermedia fra la razza incrociante da carne e la
razza incrociata da latte oppure rustica); il sesso (il maschio ha una resa sempre
superiore alla femmina).
Il principale fattore alimentare è il piano alimentare adottato dato, come s'è
detto, dal susseguirsi dei livelli nutritivi praticati (moderato-alto, alto-
moderato, alto-alto) nelle varie fasi dell'ingrassamento: il livello alto comporta
maggiori rese.
I principali fattori tecnici sono: l'età ed il peso di macellazione (i giovani
rendono più degli adulti; i giovani da latte più di quelli svezzati ed ingrassati,
per il diverso sviluppo relativo dell'apparato digerente in generale e dei
prestomaci in particolare); lo stato di ingrassamento (la resa è superiore negli
animali finiti rispetto a quelli semifiniti; negli animali stabulati rispetto a quelli
bradi); le performances di macellazione (precisione, puntualità e professionalità
degli addetti alla macellazione); le condizioni generali degli animali (quelli
stressati dal trasporto e/o dall'affaticamento hanno rese inferiori a quelli
macellati in condizioni ottimali).
184
La macellazione consiste nello stordimento, nel dissanguamento, nella
scuoiatura, nella eviscerazione e nella sezionatura dell'animale in 2 mezzene o
in 4 quarti.
Lo stordimento (praticato normalmente nelle specie bovina e bufalina e talvolta
omesso negli adulti delle specie ovina e caprina) consiste nella frattura dei seni
frontali per mezzo di una pistola con proiettile captivo oppure nell'applicazione
di corrente elettrica a basso voltaggio e ad alto amperaggio in un apposito
locale del mattatoio.
Il dissanguamento, che segue immediatamente allo stordimento e alla
sistemazione dell'animale in posizione verticale, consiste nella iugulazione
(recisione dei grossi vasi — giugulari e carotidi — del collo) dell'animale (nei
capretti e negli agnelli da latte la iugulazione è praticata con l'animale in
posizione orizzontale e spesso, seppure illegalmente, anche senza precedente
stordimento).
La scuoiatura consiste nella asportazione della pelle, di solito previa
insufflazione di aria con un compressore per facilitarne il distacco dal corpo
dell'animale (questa operazione non è effettuata soltanto nei capretti da latte
che sono preparati sottopelle o alla caprettina).
La eviscerazione consiste nell'asportazione di tutti i visceri, ossia degli organi
sessuali maschili (pene e testicoli) nei maschi e femminili (apparato genitale
femminile e mammella con relativo grasso) nelle femmine, degli organi della
cavità toracica (esofago, cuore, polmoni e trachea), del diaframma, degli organi
della cavità addominale (rumine-reticolo, omaso, abomaso, intestino, fegato,
milza e pancreas, ad eccezione dei reni e delle capsule perirenali); nella
preparazione alla romana ed alla caprettina (agnelli e capretti da latte) non
vengono asportati nè i visceri prediaframmatici, né parte dell'intestino digiuno,
nè il peritoneo, utilizzati tradizionalmente dal consumatore nella preparazione
di pietanze speciali (cordula etc).
La sezionatura (inesistente nella preparazione alla caprettina e soltanto parziale
in quella alla romana) consiste nell'asportazione: della testa, con separazione fra
185
l'occipitale e l'atlante; della parte distale degli arti, tagliati quelli anteriori al
ginocchio (articolazione carpico-metacarpica) e quelli posteriori al garretto
(articolazione tarsico-metatarsica), della coda (vertebre caudali); nella
successiva suddivisione della carcassa così ottenuta prima in due mezzene
secondo il piano sagittale mediano e successivamente, normalmente dopo il
raffreddamento, in quattro quarti secondo un taglio variabile regionalmente ma
quasi sempre a pistola; i quarti anteriori comprendono quindi le regioni del
collo, del garrese, del petto, del costato, della spalla, del braccio, del gomito,
dell'avambraccio, del fianco e dell'addome; quelli posteriori le regioni del
dorso, del lombo, della groppa, della coscia, della natica e della gamba e
costituiscono i tagli migliori
Oltre ai quattro quarti, dagli animali macellati si ottiene il cosiddetto quinto
quarto, che è costituito dalle frattaglie edibili (testa con cervella e lingua; coda;
cuore, polmoni e diaframma; fegato, milza e pancreas; stomaci; midollo; timo)
ed i sottoprodotti della macellazione (sangue, pelle, grasso; corna, unghie e
crini; budella, vescica; ossa e carnicci vari) che sono utilizzati dalle varie
industrie di trasformazione.
LE CARATTERISTICHE DELLA CARCASSA E DEI SUOI TAGLI
La bontà di una carcassa è legata soprattutto alla quantità di masse muscolari e
di depositi adiposi in essa presente: la sua valutazione commerciale, non
sempre di facile effettuazione, non può quindi prescindere da una obbiettiva
quantificazione di questi elementi; allo scopo sono pertanto presi in
considerazione, anche su indicazione delle disposizioni comunitarie,
principalmente tre elementi: la conformazione, lo stato di ingrassamento o
adiposità, la resa in tagli pregiati.
La conformazione della carcassa, che è identificata con lo sviluppo del suo
profilo in generale e delle sue tre parti essenziali (coscia, schiena, spalla) in
particolare, è valutata, a livello comunitario, in 6 classi commerciali (SEUROP)
le cui caratteristiche sono le seguenti
186
- S (Superiore): Profilo superconvesso, sviluppo muscolare con doppia groppa,
coscia, schiena e spalla superconvesse e superspesse (riservata di fatto agli
animali eccezionali di razze da carne);
- E (Eccellente): Profilo molto convesso, sviluppo muscolare eccezionale, coscia
molto arrotondata, schiena larghissima e spessissima, spalla molto arrotondata;
- U (Ottima): Profilo convesso, sviluppo muscolare abbondante, coscia
arrotondata, schiena larga e spessa, spalla arrotondata;
- R (Buona): Profilo rettilineo, sviluppo muscolare buono, coscia sviluppata,
schiena spessa, spalla sviluppata;
- O (Media): Profilo leggermente concavo, sviluppo muscolare medio, coscia
mediamente sviluppata, schiena media, spalla quasi piatta;
- P (Mediocre): Profilo molto concavo, sviluppo muscolare ridotto, coscia poco
sviluppata, schiena stretta, spalla piatta.
Poiché ciascuna di queste 6 categorie può a sua volta essere suddivisa in 3
sottoclassi (1-; 1; 1+), possono aversi complessivamente 18 tipi di carcasse.
Le misurazioni vengono eseguite in parte sull'animale vivo al momento della
macellazione, in parte dopo la macellazione sulla carcassa refrigerata. Le prime
consistono nella rilevazione: dell'altezza al garrese, alla croce e del torace; della
lunghezza del tronco e della groppa; della larghezza della groppa e del torace;
della circonferenza del torace; dello spessore della pelle. Le seconde nella
rilevazione: della lunghezza della carcassa e della coscia, della profondità del
torace, della larghezza sia massima che minima della coscia.
Lo stato di ingrassamento o adiposità della carcassa, individuabile con la
quantità di grasso presente sia al suo esterno (arto posteriore, dorso, torace,
addome, arto anteriore) che costituisce il grasso di copertura, sia al suo interno
(bacino, rene, diaframma, costole, petto e apofisi dorsali) che costituisce il
grasso interno, è valutato in 5 classi (1, 2, 3, 4, 5) suddivisibili, a loro volta,
ciascuna in tre sottoclassi (-, 0, +) per complessivi 15 possibili tipi codificati dal
MAF (attualmente MIPAF) nel modo seguente:
187
1. ingrassamento molto scarso: copertura di grasso inesistente sia all'esterno che
all'interno;
2. ingrassamento scarso: copertura di grasso sottile con muscoli visibili;
3. ingrassamento medio: copertura dei muscoli toracici con lievi depositi al loro
interno;
4. ingrassamento buono: copertura abbondante dei muscoli toracici e discreta
degli altri ;
5. ingrassamento ottimo: copertura abbondante di tutti i muscoli con
infiltrazioni di grasso.
La resa in tagli o pezzature pregiate, in cui le mezzene ed i quarti sono
suddivisi anche se in maniera differente da regione a regione, hanno
grandissimo rilievo nella valutazione delle caratteristiche delle carcasse. Sotto
l'aspetto anatomico (Pezzatura anatomica), la carcassa è costituita dai tagli dei
quarti anteriori e da quelli dei quarti posteriori. I tagli del quarto anteriore (sino
all'ultima vertebra dorsale, seguendo il margine caudale dell'ultima costola)
sono rappresentati: dalla spalla (scapola, omero e muscoli annessi),
dall'avambraccio (radio-ulna, carpo e relativi muscoli), dal collo (vertebre
cervicali e relativi muscoli), dalla punta di petto e petto (sterno, parte inferiore
delle costole e muscoli annessi), dalla bistecca (vertebre dorsali, due terzi delle
costole e muscoli costali relativi, muscoli toracici). I tagli del quarto posteriore
(dalla prima vertebra lombare seguendo il margine superiore dell'ultima
costola) sono rappresentati: dal lombo (regione lombare e relativi muscoli),
dall'addome (muscoli addominali), dalla coscia (vertebre sacrali e prima
coccigea, bacino, femore, rotula e muscoli annessi), dalla gamba (tibia, fibula,
tarso e relativi muscoli).
Sotto l'aspetto commerciale (Pezzatura commerciale) le pezzature principali
sono:
• Spalla, sottospalla, petto, punta di petto, collo, costola, per i quarti anteriori;
• Filetto, arrosto, girello, fesa, noce, scamone, per i quarti posteriori.
188
Tutte le caratteristiche della carcassa sono funzione, oltre che del piano
alimentare e quindi dello stato di ingrassamento, soprattutto del tipo genetico
dell'animale (specie e razza, sesso ed età). Le razze da carne forniscono quarti
posteriori e quindi tagli pregiati (filetto, girello, arrosto) in quantità superiore
alle razze a duplice attitudine, queste alle razze da latte, queste ultime alle
rustiche: l'incidenza del quarto posteriore sulla mezzena infatti oscilla
mediamente fra 60÷40%, quella dei tagli di prima qualità su quelli totali fra
35÷15%. I maschi sono in genere superiori alle femmine e gli animali meno
giovani migliori di quelli più giovani.
LA QUALITÀ E LA COMPOSIZIONE DELLA CARNE
La carne è costituita dal muscolo, dal grasso e, per alcuni tagli, anche dalle ossa
e dai tendini: il muscolo, costituito prevalentemente di acqua (75÷80%), di
proteine (15÷20%) e di lipidi (2÷3%), è formato da tessuto muscolare (fibre
muscolari di varia lunghezza e spessore composte da numerosissime miofibrille
contrattili), da tessuto connettivo (dato prevalentemente dal collagene
responsabile principale della tenerezza della carne) e da tessuto adiposo
intramuscolare.
Essa deriva dalla evoluzione, dopo la morte dell'animale, dei suoi costituenti
principali ed in particolare del tessuto muscolare, la cui struttura e la cui
composizione subiscono una serie di processi di maturazione: modificazioni
fisiche, quali la rigidità cadaverica per il consumo dell'ATP; trasformazioni
biochimiche, quali l'idrolisi del glicogeno e la riduzione del pH, indispensabile
per la buona conservazione della carne; fenomeni di idrolisi e di ossidazione,
sia a carico delle proteine ed in particolare della mioglobina, sia a carico dei
lipidi intra e intermuscolari; calo ponderale per evaporazione, la cui entità
dipende dall'umidità, dalla temperatura e dalla ventilazione. La velocità di tali
processi dipende sopratutto dal tipo di muscolo, dall'età, dallo stato di
ingrassamento e dalla temperatura di refrigerazione.
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La carne — che può essere consumata fresca (entro 5÷6 d, purchè conservata a T
di 5÷6°C), refrigerata (entro 15÷20 d, purchè conservata a T di 1¸2°C), congelata
(entro 6 mesi, purchè conservata a T di -18°C) e surgelata (congelamento rapido
in 4 h), oltrechè essiccata, insaccata, affumicata, salata e inscatolata — presenta
qualità organolettiche, composizione chimica e rese allo spolpo molto variabili
in funzione di diversi fattori (specie, razza, sesso, età e peso di macellazione;
piano alimentare e stato di ingrassamento; provenienza e tecnica di
allevamento; taglio commerciale e stato di maturazione o frollatura).
Le caratteristiche organolettiche della carne che interessano il consumatore e
che quindi concorrono a definirne il valore commerciale ossia il prezzo di
vendita sono principalmente: il colore, la tenerezza, il sapore e l'odore.
Il colore, essendo la caratteristica percepita più immediatamente dal
consumatore, costituisce il primo criterio di valutazione e quindi di giudizio sul
prezzo di vendita; esso varia in funzione: della specie (nella specie bufalina è
più scuro che in quella bovina; nella specie ovina più che in quella caprina),
della razza (nelle razze da carne è più chiaro che in quelle da latte e rustiche),
del sesso (nei maschi è più scuro che nelle femmine), dell'età di macellazione
(negli adulti è più scuro che nei giovani), del tipo di alimentazione (negli
animali svezzati è più scuro che in quelli a carne bianca), della distanza dalla
macellazione (schiarisce con il passare del tempo), del tipo di conservazione
(hanno effetto soprattutto la temperatura, l'umidità e la ventilazione), delle
condizioni di macellazione (gli stress provocano colore scuro). Alla sua
definizione concorrono sopratutto: l'intensità, la lucentezza o luminosità e la
persistenza o stabilità. L'intensità è data dalla quantità e dallo stato di
ossidazione di pigmento presente nella fibra muscolare, il quale è rappresentato
quasi esclusivamente dalla mioglobina — cromoproteina formata da globina
(gruppo proteico) e da Fe (gruppo prostetico) che conferisce il colore — in
quanto con il dissanguamento l'emoglobina si riduce a poco più del 10%; essa
può essere quantificata rilevando il contenuto in Fe mioglobinico della carne. La
luminosità è data dalla lucentezza ed è misurata con lo spettro-fotometro. La
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persistenza, variabile con il muscolo, è la stabilità o resistenza del colore al
trattamento termico.
La tenerezza, che è la resistenza alla masticazione od al taglio, è funzione della
specie, della razza, del sesso, dell'età e peso di macellazione, nonchè dello stato
di ingrassamento dell'animale, ed è migliorabile, entro certi limiti, con le
modalità di macellazione e di raffreddamento, con la maturazione e la
frollatura; essa è legata, oltreché alle caratteristiche originarie (quantità e qualità
del tessuto connettivo e struttura delle miofibrille), anche alle modalità di
cottura (durata, temperatura e tipo di riscaldamento). Può essere valutata
soggettivamente con la masticazione o indirettamente con apposite analisi
dinamometriche.
Il sapore, che è dato dall'insieme delle sensazioni olfattive e gustative
all'assaggio, deriva dai corpi volatili o solubili presenti nella carne (composti
azotati, carboidrati e trigliceridi).
L'odore, che varia in funzione della specie, del sesso, dell'età e del tipo di
alimentazione, nonchè del tipo ed intensità di cottura, dovebbe essere fragrante
o, al massimo, leggermente acidulo.
La composizione chimica della carne viene determinata analiticamente su
porzioni di muscoli campione (ad esempio: lunghissimo dorsale,
semimembranoso, semitendinoso, lungo vasto etc): di solito sono rilevati il
valore calorico o energetico mediante bomba calorimetrica, il contenuto in
acqua (sia di costituzione che di ritenzione), in proteine ed eventualmente nei
diversi aminoacidi, in grasso ed eventualmente la serie acidica dei suoi acidi
grassi.
La resa allo spolpo è data dalla percentuale di muscolo, di grasso, di ossa +
tendini della carcassa e dipende principalmente dalla specie, dalla razza, dal
peso ed età di macellazione, dal piano alimentare e stato di ingrassamento
dell'animale.
LE PRODUZIONI MINORI
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Le produzioni minori sono: la produzione di lana, limitatamente alla specie
ovina; la produzione di pelli; la produzione di letame, limitata quasi
esclusivamente alle specie bovina e bufalina.
LA PRODUZIONE DI LANA
La lana, che è la copertura pilifera della pelle della specie ovina ed il cui
costituente chimico fondamentale è la cheratina , è costituita dal vello (parte più
esterna e grossolana, composta prevalentemente da peli provenienti dai follicoli
primari) e dal sottovello (parte più interna e sottile, composta prevalentemente
da filamenti provenienti dai follicoli secondari). A seconda della prevalenza in
essa di questi due componenti, la lana è classificata, sotto l'aspetto
merceologicocommerciale nelle seguenti classi: tessile, intermedia, da
materasso.
I principali parametri che ne definiscono la qualità sono:
- la finezza o diametro della fibra, attualmente misurata elettronicamente su
tutto il bioccolo, che può variare da 10 a 50m;
- la lunghezza, misurata sul filamento disteso, che può variare da cm 5÷10 a
20÷30;
- la resistenza alla trazione, alla torsione ed alla flessione, particolarmente
importanti nell'industria tessile per la filatura;
- la increspatura e l'elasticità; la leggerezza e la morbidezza; la coibenza e la
conduttività; la lucentezza e la colorabilità; la omogeneità e la densità.
La qualità della lana è influenzata dal clima (T, U, L), dall'alimentazione
(concentrazione energetica e proteica della razione, presenza di aminoacidi
solforati) e dalla tosatura (frequenza e distanza di tosatura). Una produzione
pilifera — impropriamente considerata lana anche se costituita da fibre
lunghissime (sino a cm 25 di lunghezza) e sottilissime (intorno ai 15 μm di
diametro) — è quella fornita dalle razze Angora e Mongolica (che è
denominata, rispettivamente, Mohair e Kashmir) della specie caprina che viene
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utilizzata, in tutto il mondo, per la preparazione di filati finissimi di
grandissimo valore commerciale.
LA PRODUZIONE DI PELLI
La pelle, la cui incidenza sul peso vivo dell'animale e sulla sua carcassa è
rispettivamente del 8÷10% e del 15÷20%, viene utilizzata quasi esclusivamente
nell'industria conciaria nella produzione del cuoio (sopratutto nella specie
bovina), per la fabbricazione di pelletterie (quali scarpe, borse etc.) e di tappeti
(sopratutto nella specie ovina e caprina) per l'arredamento. Il suo valore
commerciale è legato alla sua qualità, che viene identificata con la sua
grandezza e robustezza e soprattutto con la sua integrità.
LA PRODUZIONE DI LETAME
Il letame, che è l'insieme degli escrementi (feci e urine) dell'animale e della
paglia (lettiera) spesso fermentati, assume importanza economica, di fatto,
soltanto nella specie bovina, sia per la entità della produzione che per le sue
caratteristiche; esso è reimpiegato direttamente in azienda per la fertilizzazione
dei terreni oppure è utilizzato nell'industria floricola e serricola, soprattutto se
conservato alla stato solido. La sua qualità dipende dal suo contenuto in
sostanza secca e in elementi fertilizzanti (N, P, K) e dall'assenza di residui
inquinanti (detersivi, microbi, sostanze tossiche).
La quantità annualmente prodotta in una stalla (o in un ovile) dipende dalla
consistenza dell'allevamento, dalla ingestione alimentare degli animali, dalla
composizione e digeribilità degli alimenti, dalla quantità di paglia impiegata
come lettiera e dal sistema di conservazione della massa prodotta: ad esempio,
nei bovini, nell'ipotesi di un peso corporeo medio unitario di q 5 (3÷7), di un
livello di ingestione alimentare medio del 3% (2÷4), di una escrezione fecale del
30% (20÷40) della s.s. ingerita e di un contenuto idrico globale della massa
(acqua fecale + urine + acqua di rifiuto della stalla) dell'80% (70÷90), la quantità
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annualmente prodotta (in 300 giorni di raccolta) è mediamente di q 67,5 (45÷90),
corrispondente a 13,5 q (9¸18) di sostanza secca per capo allevato.
Sale e impianti di mungitura
Sala lineare a tandem (2+2) Sala lineare a spina di pesce (5+5)
Sala lineare a tandem (2+2) Sala lineare a spina di pesce (5+5)
Sala lineare trasportata (12+12)
Sala a piattaforma mobile (18)
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Tecniche ed accorgimenti per migliorare la qualità delle produzioni in
allevamento.
La mungitura è la pratica di stimolazione delle ghiandole mammarie della
femmina delle specie appartenenti alla classe dei mammiferi, atta a prolungare
la produzione di latte negli animali anche dopo lo svezzamento del piccolo. In
particolare, tale metodo viene applicato su animali, come le mucche, le capre, le
pecore e le asine, per ricavare latte, utile non solo per essere bevuto, ma anche
per la fabbricazione di formaggi. La mungitura può essere compiuta in due
modi: manualmente o meccanicamente: La mungitura a mano viene realizzata
massaggiando e tirando delicatamente verso il basso i capezzoli della femmina,
raccogliendo poi il latte dentro un secchio.
La mungitura meccanica viene invece progettata per l'estrazione del latte
sfruttando il vuoto d'aria. Gli aspiratori della macchina vengono applicati sui
capezzoli, dopodiché, alternando il vuoto alla normale pressione dell'aria,
raccolgono il latte senza danneggiare le mammelle.
Come gli uomini, i bovini devono avere un’alimentazione adatta ed equilibrata
per evitare problemi di salute, ritardi di crescita o disturbi vari. Per questo
motivo molto spesso gli allevatori si appoggiano ad alimentaristi per studiare e
somministrare ai loro animali un’alimentazione giusta ed equilibrata.
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E’da sottolineare che, nell’ambito dell’allevamento, non parliamo di “dieta” ma
di “razione alimentare“.
Prima di entrare nei dettagli della razione, bisogna ricordare che i bovini sono
dei mammiferi appartenenti alla categoria dei ruminanti. Significa che hanno
tre prestomaci (rumine, reticolo e omaso) e uno stomaco (abomaso), come
d’altronde anche gli ovini e i bufali. Questa caratteristica gli permette di
digerire la cellulosa e quindi degradare ed utilizzare le fibre di cui l’uomo non
sarebbe in grado di nutrirsi. Si capisce quindi perché l’alimentazione dei bovini
si basa sui foraggi, alimenti ricchi di fibre e sfruttabili solo da loro. I foraggi più
utilizzati nell’alimentazione dei bovini sono l’erba, il fieno, la paglia, l’insilato
di mais o d’erba. In effetti i monogastrici (un solo stomaco) come il maiale o
l’uomo non sono in grado di degradare la cellulosa: le fibre ingerite non
producono nessun’energia.I ruminanti sono un anello chiave della catena
alimentare in quanto rappresentano il passaggio tra proteine vegetali e proteine
animali.
Infatti i bovini mangiano erba, foraggi e cereali e li trasformano in proteine
animali di alto valore biologico per l’anello successivo della catena alimentare,
l’uomo.
Una buona razione deve prevedere apporti sufficienti ed equilibrati di energia,
proteine, grassi, minerali e vitamine. Anche se i foraggi sono la base
dell’alimentazione dei bovini, spesso non sono sufficienti per coprire i
fabbisogni dell’animale quindi bisogna aggiungere:
Alimenti ricchi di Energia: quelli più energetici sono i cereali tra cui il mais, il
grano, l’orzo e le polpe di barbabietole ottenute dopo estrazione dello zucchero;
Alimenti ricchi di Proteine: le fonti principali di proteine, importanti per la
costituzione dei muscoli, sono la soia, il girasole e il pisello;
Grassi: se gli alimenti considerati fin’ora non contengono abbastanza grassi,
l’allevatore deve aggiungerne una piccola quantità nella razione;
Minerali e Vitamine: sono essenziali per tutti gli esseri viventi e quindi anche
per gli animali, vengono aggiunti per completare la razione.