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Come suonare uno strumento musicale senza farsi male Marco Adorna 1998 Si ricorda che tutto il materiale contenuto in queste pagine e' di proprietà dell'autore, che se ne riserva tutti i diritti di riproduzione. Ne e' viceversa consentita la riproduzione, parziale o totale, e la sua diffusione anche per via telematica ad uso personale dei lettori, purché non a scopo commerciale. 1

Come Suonare Senza Farsi Male

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Come suonare uno strumento musicale senza farsi male

Marco Adorna1998

Si ricorda che tutto il materiale contenuto in queste pagine e' di proprietà dell'autore, che se ne riserva tutti i diritti di riproduzione. Ne e' viceversa consentita la riproduzione, parziale o totale, e la sua diffusione anche per via telematica ad uso personale dei lettori, purché non a scopo commerciale.

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Sommario

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 3

L'approccio musicale alla musica Cos'è uno strumento musicale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 5

Il canto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 9

La musica è qui ed ora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 11

La tecnica: che sarà mai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 13

Rispettate voi stessi: la postura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 15

Non fatevi del male: tensione e rilassamento . . . . . . . . . . . . . . pag. 19

Uomini liberi o servi stressati? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 22

Problemi Gli insegnanti e i maestri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 25

Scuole, esami, concorsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 28

Il virtuosismo obbligatorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31

Aspettative e progetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 35

Traumi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 38

Espressione e creatività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 39

Narcisismo e autoaffermazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 43

La rimozione della vita attraverso la rimozione della morte . . . . . . pag. 44

Musicista professionista: ma che vuol dire? . . . . . . . . . . . . . . pag. 48

Feeling ed emotion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 50

ConclusioniLa dissoluzione dell'Io . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 53

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Premessa

Le considerazioni che seguono si rivolgono soprattutto a tre categorie di persone: a coloro suonano uno strumento musicale, o si accingono a farlo, ai loro insegnanti di strumento e, se si tratta di ragazzi o bambini, ai loro genitori. Lo scopo che si prefigge questo testo è sostanzialmente quello indicato nel titolo: esporre le mie idee sulla didattica dello strumento musicale con l'intento di chiarire alcuni problemi di fondo, con la speranza che ciò possa servire ad evitare alcuni usuali disastri. Non mi addentrerò troppo nello specifico tecnico della didattica dello strumento musicale perché non credo di avere ancora le idee sufficientemente chiare in proposito. In ogni caso credo che i metodi di insegnamento siano estremamente variabili e soggettivi, essendo strettamente legati alle diverse personalità degli insegnanti.Ci sono due motivi che mi hanno finora trattenuto dal rendere pubblico questo scritto. La prima è che le considerazioni qui contenute sono di una impressionante ovvietà e banalità. Sarebbe inconcepibile per un ingegnere scrivere un trattato sull'edilizia al solo scopo di spiegare perché sia opportuno iniziare a costruire le case costruendo delle buone fondamenta. Sarebbe idiota: tutti sanno che si fa così. Non tutti invece sanno come si possa fare per costruire un musicista solido, equilibrato e ragionevolmente felice. La ragione è evidente: tutti hanno a cuore che la loro casa non crolli; viceversa, se crolla un musicista, chi se ne frega!Così, come un architetto che veda dappertutto edifici traballanti, costruiti senza rispettare le più elementari nozioni di statica, trovo che non sia inutile ricordare alcune semplici ovvietà che io considero nozioni di base ma che vedo spesso ignorate, o considerate semplicemente come idee opinabili. Naturalmente le mie idee sono opinabili, ma cerco di confrontarle il più possibile con la realtà. Mi rendo anche conto che molto di quello che leggerete potrà sembrare scritto da un mistico fuori di testa, ma vi assicuro che tutto quello che ho scritto qui ha precisi e puntuali legami con la mia attività quotidiana di insegnamento. Un altro scrupolo che mi assilla è il fatto che esistono molti interessanti libri su questo argomento, per di più scritti da musicisti di grande talento, titolari di splendide carriere. Va però detto che potrebbe essere interessante valutare anche il punto di vista di un musicista un tantino più sfigato, e osservare il mondo dei musicisti visto non dall'alto di una formazione da fanciullo prodigio, coi migliori insegnanti, di una cattedra di conservatorio, di una carriera internazionale, di collaborazioni prestigiose e di insegnamento ad allievi bravissimi (facile quando si possono scartare quelli meno bravi, eh?), ma visto da uno che ha imparato a suonare la chitarra e a leggere la musica da un vecchio violinista ex titolare di un'orchestra da ballo, che è arrivato faticosamente al diploma di strumento dopo parecchio studio come autodidatta, dopo aver smesso completamente di far musica per quasi un quinquennio, che è approdato tardivamente ad insegnanti di livello adeguato, e che si è fatto una gavetta mostruosa (ancora non finita) accettando qualunque (ma proprio qualunque) tipo di lavoro alla sua portata,

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purché attinente al campo musicale, e che ha lavorato spesso (fortunatamente oggi un po' meno) con allievi difficili, a volte già scartati da altri insegnanti e che un giorno sì e uno no pensa che forse sarebbe opportuno cambiar mestiere. Non è il solito folklore dell'autocommiserazione: risparmio anzi a chi legge notizie ulteriori sullo stato del mio umore abituale. Ma, per completezza di informazione, debbo soggiungere che a chi mi chiede "Come va?", abitualmente rispondo: "Non mi lamento: non serve a un cazzo!".In definitiva, i motivi che mi convincono a mettere fuori le mie umili considerazioni sono due: una è la necessità che vedo di aprire una seria riflessione sulle premesse di ordine spirituale (o psicologico che dir si voglia) e anche morale dell'educazione musicale, senza la quale ogni discorso sulla metodologia manca di basi; l'altra è la sofferenza inconsapevole delle proprie ragioni che vedo in molti musicisti, specie tra i più sensibili. Credo che essa derivi da una non indifferente massa di scemenze fuorvianti che ci avvelenano la vita, e che si trasmetteranno alle prossime generazioni, se continueremo ad accettare alcuni presupposti dottrinali come verità incontestabili senza ragionarci su un pochino. Non pretendo di convincere nessuno della validità delle mie ragioni, ma la sofferenza cui accennavo esiste realmente e di questo non si può non prendere atto.Naturalmente moltissime delle idee che esporrò non sono farina del mio sacco: sono anzi pieno di debiti con moltissime persone. Devo citare in particolare il mio amico Paolo, dal quale ho imparato moltissimo, il Maestro Giora Feidman, che con il suo insegnamento ha autorevolmente confermato e precisato con giuste parole e salutari esempi alcune idee che da tempo ronzavano indistintamente nella mia povera testa, oltre ai miei genitori e alla lunga stirpe di morti di fame da cui discendo, che mi hanno trasmesso una specie di buon senso campagnolo con il quale cerco sempre di confrontarmi, perché in definitiva è una forma mentis che non tradisce mai.

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Cos'è uno strumento musicale?

Cos’è uno strumento musicale? Da dove vengono il suono e la musica? La risposta, come spesso accade, è già contenuta nella domanda, più precisamente nel termine "strumento musicale".

struménto (lett. istruménto; arc. instruménto, stroménto, storménto) s. m. l. Arnese (in una accezione che consente per lo più il riferimento ad un certo livello tecnico o, altrimenti, ad una certa tradizione): s. chirurgici; strumenti di tortura; s. rurali ) ( … ) 2. part. Strumenti musicali (o assol. strumenti), tutti i corpi vibranti producenti un suono musicalmente sfruttabile, che nella classificazione più comune e generalmente adottata si dividono in strumenti a fiato (in cui il suono e prodotto dall'urto di una colonna d'aria), strumenti a corda (in cui il suono e prodotto dalla vibrazione di una corda tesa) e strumenti a percussione (nei quali il suono é prodotto da membrane in tensione). 3. fig. Mezzo di cui ci si può attivamente e abitualmente servire per il conseguimento di uno scopo : del1a penna si fece s. di lotta; non vorrei essere s. dell'ambizione altrui ( … )

Questa è la definizione, un po’ approssimativa, ma nella sostanza illuminante, dei signori Devoto&Oli (i miei lessicografi di fiducia). Dunque uno strumento (anche uno strumento musicale) non è di per sé nulla di particolarmente sublime. E’ un arnese, creato per uno scopo specifico, e a volte neppure questo: è qualcosa che può essere usato (per far musica, nel nostro caso), anche se originariamente serviva a tutt’altro : il berimbao, per esempio, forse il più antico strumento a corda, forse il progenitore di tutti gli strumenti a corda non è altro che un arco da caccia, che venne in seguito munito di risuonatore per meglio sfruttare la vibrazione sonora della corda. Presso alcune popolazioni africane si suona un’ "arpa" che altro non è che una grande foglia dallo stelo ripiegato ad arco e legato con due corde. Il didjeridoo degli aborigeni australiani è sostanzialmente un tubo (come del resto sono quasi tutti gli strumenti a fiato). I primi tamburi erano tronchi d’albero. I primi percussionisti di blues per suonare saccheggiavano gli attrezzi di casa e suonavano con l’asse per lavare delle lavandaie mettendosi dei ditali metallici. Io stesso da piccolo nutrivo un’insana passione per i coperchi metallici delle pentole di casa. Certo, i moderni strumenti musicali sono oggetti un tantino più pratici e versatili, ma non c’è niente di sacro o di perfetto in uno strumento musicale. Di per sé un pianoforte da concerto non è più vicino alla perfezione o alla sfera del sublime di quanto non lo sia un pettine munito di carta velina. Persino un violino di Stradivari, se nessuno lo suona, non è altro che un pregevole ed elegante oggetto di ebanisteria. Non che io voglia disconoscere l’importanza dei liutai e della loro arte (alcuni strumenti musicali sono degli oggetti sonori straordinari, impossibili da costruirsi senza una autentica passione per il suono, una ottima preparazione professionale ed una grande tradizione alle spalle), ma non possiamo ignorare il fatto che un buon musicista può fare della musica straordinaria anche con strumenti appena passabili, mentre non esistono (che io sappia) strumenti musicali in grado di trasformare un musicista mediocre in un genio. Naturalmente nessuno strumentista potrà mai esprimersi senza uno strumento

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decente, ma la bontà di uno strumento musicale non sta tanto nell’avere vita propria quanto nel riuscire a tradurre efficacemente in suono il gesto del musicista. Come procurarsi uno strumento adatto?Alla luce di quanto detto, anche il problema della scelta dello strumento si pone in modo molto semplice: al principiante serve uno strumento adatto alla sua persona, e cioè maneggevole ( e quindi di dimensioni opportunamente ridotte, se necessario, per i bambini: non nel caso degli strumenti a tastiera, ma certamente gli strumenti a corda e alcuni strumenti a fiato debbono essere di dimensioni ridotte, oppure venir adattati in vario modo alla ridotta taglia dei bambini) e che risponda adeguatamente all'azione dell'esecutore. Quindi deve essere subito possibile all'esecutore trarre in modo semplice sonorità soddisfacenti. Non deve essere in nessun caso un oggetto sul quale esercitarsi meccanicamente in attesa di passare ad uno strumento di classe superiore "quando si saprà suonare bene". Perciò, pur sapendo che molti tra quelli che iniziano a suonare uno strumento desiderano solo provare e capire se la cosa è di loro gradimento, e quindi desiderano giustamente contenere le spese, va però detto che gli strumenti scomodi o dal suono brutto o insipido non vanno bene, anche se vengono proposti a prezzi allettanti. Inoltre potrebbero essere inadeguati anche alcuni strumenti di gran classe, capaci di produrre sonorità stupende, ma piuttosto scomodi per un musicista alle prime armi, oppure dotati di suono estremamente proiettivo, cioè molto bello per l'ascoltatore ma difficilmente decifrabile per l'esecutore (un esempio: la mia chitarra da concerto ha un suono molto interessante se ascoltata tra i 4 e i 20 metri di distanza, mentre all'esecutore il suono sembra molto più scialbo. Inoltre la tastiera è di dimensioni assolutamente inadatte alla mano di un ragazzino, e per di più è abbastanza difficile da accordare accuratamente: in definitiva, pur essendo un bellissimo strumento, è assolutamente sconsigliabile ad un principiante).Fortunatamente esistono oggi in commercio buoni strumenti dal costo abbastanza contenuto, mentre per gli strumenti più "impegnativi" (per esempio il pianoforte o l'arpa) esistono forme di noleggio con possibilità di acquistare in un secondo tempo detraendo però dal prezzo quanto già versato. Per la scelta converrà fidarsi dell'insegnante. Molto spesso questo non si fa, pensando che quest'ultimo abbia chissà quali losche intese con i negozi di strumenti musicali, e si pensa di risparmiare acquistando senza consultarlo. Il risultato sono molto spesso soldi gettati. In genere infatti l'insegnante non ha nessuna voglia di sputtanarsi proponendo acquisti insoddisfacenti, o di dover lottare con gli strumenti scadenti degli allievi. Tutt'al più può capitare che egli usufruisca di sconti presso i negozi dove manda gli allievi, ma in ogni caso per l'acquirente la cosa non fa nessuna differenza. Naturalmente esistono anche i furbi, ma il punto è un altro: quando avete scelto un insegnante, o vi fidate di lui o lo cambiate: altri tipi di comportamento non portano da nessuna parte.Si consideri inoltre che uno strumento valido, se ben mantenuto, conserva il suo valore nel tempo e quindi potrà essere rivenduto recuperando gran parte della spesa (alcuni strumenti addirittura aumentano di valore nel tempo), mentre i soldi spesi per uno strumento scadente, anche se pochi, saranno comunque buttati via. Fanno eccezione gli strumenti elettronici (tastiere e accessori vari) che, essendo essenzialmente computer dedicati al suono, sono soggetti a drastiche cadute di valore con l'uscita dei modelli più recenti ed evoluti.Perciò, dopo aver cinicamente ridimensionato il ruolo dello strumento musicale,

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dopo aver preso le debite distanze da feticismi di ogni sorta, e dopo aver risolto il problema pratico di procurarcene uno adatto, possiamo porci un po’ più serenamente la domanda:Da dove proviene il suono musicale? Attenzione: non dove si forma: è ovvio che il suono si forma nello strumento; ma da dove proviene? Poniamoci questa domanda come potrebbe fare un bambino: La musica del violino, dove era prima di uscire fuori? La risposta è ovvia: nel violinista!Se lo strumento è solo un tramite, un mezzo è chiaro che il suono musicale gli passa soltanto attraverso, perché in realtà proviene dal musicista: prende forma in esso, ma viene continuamente plasmato dall’esecutore attraverso l’azione del suo corpo che agisce in unione con la sua mente o, se preferite, con la sua anima (ma dov’è che finisce il corpo e comincia l’anima? Io non lo so).Il primo e vero "strumento musicale" è quindi la nostro persona, e si tratta di uno strumento meraviglioso. Per i credenti è un dono di Dio, ma anche atei e miscredenti non potranno negare la persona umana è qualcosa di magnifico e misterioso, capace di fare cose stupende; inoltre di ha una sua affascinante propensione alla perfezione. Si tratta, a guardar bene, di uno strumento perfettamente adatto a fare musica, e tale rimane finché vive, almeno fino a quando non venga seriamente perturbato. L'oggetto fisico che usiamo per produrre il suono ha quindi un'importanza molto relativa, esiste ma deve annullarsi integrandosi con la nostra persona. Esiste e non esiste. Questo è molto ben rappresentato in un bellissimo disegno della mia amica Marta, dove vediamo un violinista che fa una serenata. Il violino è talmente diventato una parte di lui che non lo possiamo nemmeno più vedere.

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La musica quindi è un’emanazione diretta della persona del musicista. Questo fatto è assolutamente evidente negli strumenti a fiato e ad arco, dove il controllo del suono è continuo e continua è l’interazione tra suono e azione del suonatore; altri strumenti, come il pianoforte, la chitarra, l’arpa e le percussioni sembrano soffrire un po’ del fatto che il controllo del suono avviene solo in alcuni istanti ; in altre parole: quando il pianista abbassa un tasto crea un suono che poi avrà vita indipendente: tutta la sua attenzione sarà concentrata nel tocco che abbassa il tasto (più o meno forte, più o meno veloce, più o meno morbido); dopo non sarà più possibile modificare l’evoluzione del suono se non interrompendolo; lo stesso vale per l’arpista; l’organista e il clavicembalista non potranno neppure decidere l’intensità del singolo suono; per il chitarrista le cose vanno un po’ meglio: dopo aver attaccato il suono non può farlo crescere di intensità o modificarne troppo il timbro, ma almeno lo può far vibrare. Tuttavia anche negli strumenti polifonici, dove il musicista non forma il suono in continuazione, ma dà solo alcuni impulsi, il suono è comunque sempre una sua emanazione: il pianista non può modificare il suono, dopo che ha abbassato il tasto, però prima ha scelto quel suono che vuole la sua sensibilità tra mille diversi possibili suoni: il fatto che il singolo suono (la singola nota) non sia modulabile, ma abbia una sua evoluzione indipendente è soltanto una difficoltà (o un vantaggio, a seconda dei casi) in più, che con l’esperienza il musicista saprà superare scegliendo quei suoni che rendano il suo strumento permeabile al canto.

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Il Canto

Quando parliamo di musica come di qualcosa che promana dal musicista e passa attraverso lo strumento, questo qualcosa è il canto. Con la parola canto non intendo affatto la sola melodia, ma voglio indicare qualcosa che si muove dentro di noi, e che mette in moto l'espressione. Perciò anche un ritmo può cantare da dentro di noi o anche un singolo suono, o perfino il silenzio.Quello che noi possiamo ascoltare è il canto della voce o dello strumento, che saranno più o meno vicini al canto dell'anima del musicista. Non sono la stessa cosa, ma debbono procedere il più possibile vicini.Perciò la prima cosa che deve fare il musicista è mettersi in ascolto del proprio canto interiore. E' il modo più diretto (e il solo realmente valido che io conosca) per risolvere tutti i problemi di espressione. Se l'approccio alla musica è esteriore, i problemi si moltiplicano e si complicano: spesso ci si pongono domande di questo tipo: come posso eseguire un pianissimo conservando un bel suono? Come posso suonare con pulizia un passaggio di agilità? Come posso spingere un crescendo fino a suonare veramente fortissimo senza inasprire il suono? Così poste, sono problemi destinati a rimanere di difficilissima soluzione. Imporsi di suonare pianissimo è molto difficile, anche per musicisti molto esperti; viceversa suonare pianissimo perché è questo che ci dice la voce del nostro canto interiore è facile e naturale, e anche se la familiarità col nostro strumento è limitata e ci sentiamo incapaci di effettuare materialmente ciò che vorremmo, la spinta a farlo comunque sarà fortissima, e ci porterà comunque a risolvere i problemi di ordine materiale: viceversa imparare a eseguire un pianissimo solo perché così vuole il nostro insegnante, o solo perché sulla spartito c'è scritto pp sarà una autentica tortura. Provare per credere. Se il musicista non ascolta il canto della sua anima, se si limita ad azionare lo strumento, la sua musica (ma sarà ancora musica?) non varrà nulla, sarà solo rumore che interrompe e sporca il silenzio. E questo significa, col tempo, fare del male a sé stessi e agli altri. Non sto esagerando: il danno che ne viene esiste realmente ed è realmente grande.Ma che fare se la nostra voce interiore tace? Questo caso non è affatto raro, e di solito questo succede quando mettiamo la nostra volontà davanti alla musica, cioè, detto in parole povere, quando cerchiamo di suonare qualcosa per forza. Non bisognerebbe mai farlo. Quando suoniamo, abbiamo solo due possibilità: o suoniamo qualcosa che veramente ci attira e ci piace, o riusciamo a farci piacere (ma piacere veramente!) quel che abbiamo da suonare; in queste condizioni, sicuramente sapremo come suonare con espressione. La terza strada, suonare per forza quel che abbiamo davanti, anche se non suscita alcun canto dentro di noi, è un buon sistema per farsi del male. Meglio non suonare affatto. Questo purtroppo si scontra alcune esigenze pratiche e solleva angosciosi interrogativi: "Mio Dio, come farò, così facendo, allora a passare gli esami conservatoriali? Come farò a svolgere in modo professionalmente corretto il mio mestiere di musicista?" Problemi interessanti, e non di poco peso, ma che non c'entrano in

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realtà nulla con la musica. Voglio però aggiungere che se il nostro canto interiore tace, non è detto che ci troviamo per forza in un vicolo cieco: in realtà non credo esistano musiche che ci possano essere totalmente estranee: tutta la musica è patrimonio della stessa umanità alla quale tutti apparteniamo, e tutti potremmo avere, una volta o l'altra, il feeling giusto per suonare qualunque cosa: ma non certo in qualunque momento della nostra vita e certamente non a comando; d'altra parte come con le persone dalla frequentazione spesso nasce un rapporto, così è anche in musica: dovete suonare Bach e non vi dice nulla? Cominciate ad ascoltare, e a conoscere magari un musicista che lo suoni: se a lui piace ci saranno dei motivi, e siccome entrambi appartenete, come a suo tempo appartenne il buon Johan Sebastian, alla specie homo sapiens è possibile che qualcosa succeda. Certo però che se il musicista in questione, che magari è il vostro insegnante, suona Bach solo perché a suo tempo gli è stato imposto di farlo e solo perché ora ve lo deve insegnare ... .Quanto a coloro che aspirano a diventare musicisti di professione, sarebbe bene che si ricordassero che chi desidera essere un artista non può tirarsi indietro di fronte a nulla di ciò che gli esseri umani hanno prodotto come opere d'arte, poichè queste opere fissano emozioni che non ci possono essere estranee, in quanto siamo tutti esseri appartenenti alla stessa specie; come un romanziere o un attore non potranno mai permettersi di dire : "Io non riuscirò mai a capire cosa possa passare per la mente di uno stupratore" (o di un alcolizzato, di un sadico o di un feticista, di un generale o di un suonatore di controfagotto), così un musicista non potrà permettersi di pensare con leggerezza che le musiche di un certo autore o di un certo periodo storico siano insignificanti o insipide o almeno non prima di aver valutato a fondo la possibilità di essere lui a non aver voluto capire. E se riuscirà a vagliare con sincerità le ragioni di questo suo rifiuto probabilmente apprenderà molto su sé stesso.Voglio dire che di solito c'è sempre una strada che ci può portare la dove qualcun altro è già arrivato. Ma i tempi e i modi per arrivarci non sempre li possiamo decidere noi. Chi ci vuol far credere il contrario forse sta barando. Però se una cosa ci interessa, possiamo metterci in viaggio e poi si vedrà. Mi rendo conto che mi si potrà contestare che tutto ciò non è affatto professionale, e vorrei poter replicare, ma non so farlo perché non sono ancora riuscito a capire bene il significato della parola "professionale". Per ora ho solo il dubbio che sia una presa per i fondelli, ma proverò a parlarne più avanti.

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La musica è qui ed ora

Fin dal primo istante in cui noi tocchiamo uno strumento noi facciamo musica.Il primo suono che il principiante cava dal suo strumento è già musica, e come tale deve essere amato e considerato. Quando un bambino scarabocchia coi colori e osserva rapito il risultato, questo per lui è fonte di godimento, è arte, e nessuno si sognerebbe di criticarlo per le imperfezioni del tratto, e lui stesso non sta affatto pensando che ciò che sta facendo sia un "esercizio" senza valore mediante il quale arriverà un giorno dipingere la Gioconda: credo che sia ragionevole pensare che neppure Leonardo da piccolo, mentre faceva i suoi primi scarabocchi pensasse questo1. Perché in musica le cose dovrebbero essere differenti?Quando il violinista passa l'arco sulle corde per intonarle2 , quando un suonatore di uno strumento a fiato comincia a suonare un po' per "scaldare lo strumento", quando l'orchestra accorda, ecco che la musica sta già iniziando. Leonard Bernstein, presentando Louis Armstrong in occasione di un concerto ebbe a dire di lui : "E' un musicista che anche quando suona solo tre note per scaldarsi, lo fa con tutta l'anima": non è banale che proprio questa, tra le mille cose che avrebbe potuto dire, gli paresse quella più degna di essere sottolineataE' assurdo pensare: " Bene, ora mi esercito a dovere e poi, quando avrò acquisito una tecnica sufficiente, quando conoscerò a fondo il brano che sto studiando, allora suonerò ".E' un approccio assurdo per diversi motivi: intanto in questo modo spessissimo succederà che la "tecnica" (ma cosa sarà poi questa tecnica?) non sarà mai sufficiente, la conoscenza della musica che si studia mai abbastanza approfondita, e in definitiva non ci sentirà mai veramente pronti, e quando si suonerà si avrà sempre la sensazione di essere degli abusivi nel mondo della musica, degli omiciattoli dappoco che tentano inutilmente il confronto con i Grandi Interpreti.Inoltre si prenderà la pessima abitudine di "esercitarsi", cioè di far correre le mani sullo strumento in modo alquanto meccanico, senza prestare attenzione ai suoni che si producono e alla loro espressione. Quando ascolto qualcuno che studia in questo modo mi sembra di ascoltare un attore che reciti in una lingua straniera che non conosce e che si sforzi di imparare a declamare la sua parte alla perfezione, sillaba per sillaba, ritenendo che sia meglio rimandare la comprensione e l'interpretazione del testo a dopo.Con questo non voglio dire che bisogna buttare via le scale e tutti gli esercizi di tecnica. Le scale sono melodie bellissime: ho ascoltato un grande Maestro suonare le scale maggiori, e avrei voluto che non smettesse mai. Molti esercizi di tecnica sono giochi meravigliosi. Ma sono cose da suonare, non attrezzi da culturista per farsi i muscoli.Anche quando si comincia a suonare con lentezza un brano musicale sconosciuto, è sbagliato pensare che ci si stia esercitando per poi poter suonare compiutamente in futuro (oltretutto spesso accade che così facendo questo futuro si allontani indefinitamente). Questo suonare "sottotempo" (ma sottotempo

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rispetto a cosa?) è già musica. Se io studio lentamente, magari fermandomi, bene, questa è la mia musica di oggi. Domani sarà diversa, riuscirò a pensarla con più sintesi e il ritmo si muoverà diversamente, avrò già meditato quelle cose per meditare le quali ora mi fermo; dopodomani sarà ancora diversa (attenzione: diversa e non necessariamente migliore) e così via: forse un giorno sarà buona da suonare in concerto, o forse no, ma intanto ha già comunque un grande valore musicale (magari solo per me: ma non è mica poco!).

1) Non a caso Giordano Bianchi parla di "scarabocchio sonoro", per indicare le primissime esperienze musicali del bambino. 2) Così inizia il Concerto per Violino di Alban Berg, dove all'interprete è richiesto esplicitamente di iniziare a suonare senza altra intenzione di quella di chi sta saggiando le corde, come per intonarle. Anche nella Sequenza per chitarra di Luciano Berio è scritta nella partitura la riaccordatura dello strumento, introdotta anche per motivi funzionali, ma anche e soprattutto perché anche questo è musica.

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La tecnica: che sarà mai?

Che cos'è la tecnica strumentale? Io credo che una buona definizione sia questa: la tecnica musicale è la capacità di riuscire a produrre la sonorità (sia essa un suono o un insieme o una successione di suoni) che si desidera.Da ciò discende che chi non desidera realmente produrre alcun suono non potrà mai avere nessun tipo di tecnica musicale. Potrà avere delle capacità manipolatorie dell'oggetto-strumento, ma fin lì ci arrivano anche una scimmia ammaestrata o un robot. La tecnica musicale spero sia qualcos'altro.(La cosa è di una banalità impressionante. Quasi mi vergognerei a scrivere queste cose, se non fosse per il fatto che guardandomi in giro ... )Quindi la tecnica deriva prima di tutto dal desiderio.E' necessario perciò che esso sia intenso e che si possa poi precisare al punto di rendere possibile un tentativo di realizzazione soddisfacente.Desiderare non è poi una cosa così scontata e semplice: con una grande fantasia e un'immaginazione ben articolata anche i desideri migliorano di qualità; l'importante è però, quando parliamo di suonare uno strumento, che i desideri restino desideri, e che non diventino progetti.E' necessaria quindi una certa finezza nella rappresentazione mentale del suono, ed una vasta esperienza di esso per poter avere dei buoni desideri, ben definiti, affascinanti e, ovviamente, raggiungibili (almeno in parte).Poi verrà tutto il lavoro pratico di sperimentazione ed aggiustamento (e qui non sarà sbagliato avere dei progetti, nel senso di prefigurare una strada adatta alla persona) ma senza la base di partenza del desiderio non sarà possibile far nulla di buono.Riguardo a come questi desideri possano essere realizzati, devo confessare la mia più assoluta ignoranza: vedo che in pratica quel che è vero desiderio (perché dovete sapere che ci sono anche desideri finti : scorze vuote che sembrano frutti saporiti!) finisce quasi sempre per realizzarsi, ma come questo accada continua ad essere un mistero affascinante per me: immagino sia possibile provando e riprovando a suonare finché non si è soddisfatti di quel che succede. Il metodo non è così banale come sembra perché include un passo importante che vorrei mettere in luce: se il musicista, dopo aver lavorato sul brano musicale che sta eseguendo, dopo averne presa la necessaria familiarità, continua ad essere insoddisfatto del risultato, dovrà necessariamente intervenire sullo strumento che emette i suoni, e modificarlo, dopo aver compreso cosa c'è che non va. Ma attenzione: non sto parlando dell'oggetto-strumento (forse dovrà cambiare o modificare anche quello, ma forse no) ma del nostro vero ed unico strumento musicale, cioè la nostra persona. Intervenire sul suono significa infatti intervenire su noi stessi! (vedi capitolo precedente).E qui sarà veramente utile avere un bravo maestro. Da un punto di vista più pratico e generale invece i consigli che posso dare sono tre:

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1.Ascoltate attentamente quello che esce dallo strumento, con la mente il più possibile libera da preconcetti (non fatevi delle idee su come deve essere un bel suono o una buona esecuzione: cercate invece di capire cos'è veramente che vi piace e che non vi piace nella musica che ascoltate, sia quando suonate che quando ascoltate suonare gli altri. Può essere utile usare il registratore, ma non abusatene: meglio imparare ad usare bene le orecchie! ). 2.Usate la vostra intelligenza per risolvere i problemi "fisici" (manualità, respirazione, postura, controllo delle tensioni ecc.). Non accettate supinamente le direttive del vostro insegnante, ma collaborate fattivamente con lui. Per bravo che sia, il vostro insegnante è diverso da voi: è possibile che le soluzioni che vanno bene a lui non vi si adattino o vi si adattino solo parzialmente, e che ne dobbiate trovare altre insieme. 3.Cercate un insegnante di cui vi possiate fidare e fidatevi di lui : risparmierete tempo e fatica: molte esperienze che voi state facendo, lui le conosce già: non cercate di inventare l'acqua calda.I punti 2 e 3 possono forse sembrare in conflitto tra di loro, ma a guardar bene non è vero: al punto 3 non ho scritto solamente "fidatevi del vostro insegnante": leggete bene quello che viene prima.

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Rispettate voi stessi: la postura.

" (...) La mia prima audizione fu la cosa più umiliante della mia vita. Ero convinto che avrei stupito il professore con la mia bravura e invece questi, dopo poche note, mi interruppe. Si avvicinò con aria scandalizzata, mi strappò il violino di mano e cominciò a piegarmi la testa, a drizzarmi la schiena, e a sollevarmi il gomito, fino a farmi male. Sembrava volesse infilarmi a forza in un abito troppo stretto. E solo dopo avermi "modellato" in una posa che a me sembrava grottesca, mi restituì il violino, raccomandandomi, con fare minaccioso, di non muovermi da quella posizione. Potevo anche non suonare, se trovavo difficoltà a farlo, ma guai se azzardavo a spostarmi di un solo millimetro! Da quel giorno, e per tutti i giorni che vennero, nel corso dell'ora di lezione egli fece di tutto fuorché ascoltare la mia musica. Anzi, di solito non si preoccupava neppure di controllarmi: mi voltava le spalle, intento a scrivere o a leggere, oppure guardava dalla finestra, tutto assorto nei suoi pensieri. (...) Ma in realtà mi seguiva come se avesse gli occhi sulla nuca, e di tanto in tanto mi esortava a tenere più in alto il gomito o a drizzare la schiena, cogliendomi, devo dire, puntualmente in fallo. Mi trattava come quelle piante da giardino che, potate a dovere e legate a un palo, devono svilupparsi nel tempo in forma leggiadra ma innaturale. Il violino era un innesto che doveva radicarsi in me, e io dovevo fondermi con lui, sentire le mie vene e i miei nervi diramarsi nel suo duro legno. Per un anno andai a lezione una volta la settimana e mai si parlò di musica, ma solo del modo in cui adattare il corpo alla musica (...)"

Non permettete a nessuno di farvi niente di simile. Siamo uomini liberi: il nostro corpo merita il massimo rispetto, dobbiamo volergli bene e non dobbiamo permettere a nessuno di avvilirlo con le catene dello schiavo.Questa è una lezione di musica come viene descritta da Paolo Maurensig nel romanzo "Canone Inverso" (ci hanno fatto anche un film, ma non l'ho ancora visto). Il romanzo è ambientato tra le due guerre, e naturalmente da allora molte cose sono cambiate nella didattica musicale e nessuno si sogna più di far lezione in questo modo ( ma proprio nessuno?).Vi prego però di notare che l'insegnante descritto da Maurensig non è né uno stupido né un ingenuo né un incapace. " ...in realtà mi seguiva come se avesse gli occhi sulla nuca, e di tanto in tanto mi esortava a tenere più in alto il gomito o a drizzare la schiena, cogliendomi, devo dire, puntualmente in fallo"Questo musicista è semplicemente un conservatore. I suoi obiettivi non sono né banali né insignificanti: lo strumento si deve effettivamente "radicare" nel musicista. Ma è giusto lavorare su questo fuori dalla musica? Ed è giusto farlo applicando modelli astratti di postura, nel completo disprezzo dell'individualità del corpo, delle abitudini e, in definitiva, della persona del musicista?Fino all'epoca di Mozart i musicisti indossarono la livrea del servitore. Questa "uniforme" (e vi prego di riflettere su tutti i significati della parola "uniforme") la dice lunga su come venisse considerata la professione (anzi il "mestiere": la professione in realtà iniziò quando Mozart e altri iniziarono a buttare la livrea alle ortiche e a considerarsi liberi professionisti e non più servitori di un padrone specifico).

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Questo vivere il mestiere all'interno di una rigida struttura gerarchica naturalmente veniva interiorizzato molto in profondità (io credo che la realtà del potere possa esistere solo perché è dentro di noi, oltre che fuori) e aveva dei riflessi inevitabili sull'insegnamento. Ma ancora oggi, benché gli spazi di libertà siano aumentati, si può vivere la musica restando più o meno all'interno del nostro sistema di potere (che naturalmente è molto diverso da quello settecentesco ed ha un'aria più simpatica, ma non per questo ha effetti meno devastanti). La linea di confine non sta più tra chi accetta supinamente di vestire la livrea del servo e chi cerca la libertà attraverso la strada del libero professionista, ma corre forse oggi tra chi cerca di essere un uomo libero (che poi magari è anche musicista) e chi aspira solamente a divenire un "buon professionista". Il professionista, anche se millanta la sua indipendenza, non è altro che un nuovo servo, non più di un padrone specifico, ma pur sempre schiavo del mercato. Nessuno oggi può prescindere completamente dall'economia di mercato, ovviamente, ma c'è una bella differenza tra esserne coscienti e asservirsi supinamente a ciò che questo fatto comporta (sia detto con tutta la brutalità necessaria: mangiare merda solo perché non c'è altro non è lo stesso che credere che sia buona o che sia l'unico nutrimento possibile). Cosa c'entra tutto questo con l'insegnamento di uno strumento? Basta osservare due insegnanti far lezione, uno dei quali abbia l'anima dello schiavo e l'altro no, per rendersi conto delle differenze. La principale di esse starà nel rispetto della persona dell'allievo, a cominciare dal suo corpo.Quando si suona uno strumento, la postura deve essere naturale e rilassata, e questo significa che la pratica strumentale non dovrà stravolgere i nostri normali atteggiamenti, ma dovrà armonizzarsi con essi. Ogni persona ha un diverso modo di stare in piedi o seduta, e queste abitudini non sono casuali, ma rispecchiano le differenze individuali in fatto di struttura fisica e di atteggiamento nei confronti del mondo esterno (cioè soprattutto nei confronti di persone e oggetti che, guarda caso, sono le principali entità con le quali ci si rapporta nel fare musica).I termini-chiave che o fin qui usato, e sul cui significato sarà bene indagare sono due: postura e atteggiamento.A chiarirci le idee ancora una volta basta il vocabolario:

Postura s.f. 1 lett. Posizione, positura: la corretta p. delle mani sulla tastiera ¨ Part., in fisiologia, l'atteggiamento abituale di un animale, determinato dalla contrazione di gruppi di muscoli scheletrici che si oppongono alla gravità. 2. arc. Accordo segreto (lat. Positura)

Atteggiamento s.m. 1. Disposizione della persona o di una sua parte, movenza, espressione, solitamente in rapporto con una determinata condizione spirituale (a. supplichevole, minaccioso), talvolta assunta a bella posta per imporsi esteriormente agli altri: a. ispirato, stregonesco ecc. ¨ Fig., studiata ed ostentata presa di posizione psicologica : Ha degli a. da superuomo che lo rendono antipatico ¨ Reazione consapevole che implica un proposito o una linea di condotta : quale sarà l'a. di Parigi dopo gli ultimi fatti di Algeria? ¨ Caratteristica fondamentale di un fatto di vita artistica o morale: quanto è diverso l'a. religioso del Manzoni da quello di Dante! 2. In ostetricia il rapporto di posizione tra le varie parti del feto.

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Il termine atteggiamento sembra voglia unire indissolubilmente il corpo umano alla sua dimensione spirituale e alla pratica della comunicazione: ciò che tu sei nella tua vera essenza, ciò che vuoi essere, e ciò che vuoi far credere di essere è rivelato dalla disposizione del tuo corpo. Nel sentire comune della cattolicissima Lingua Italiana dunque, l'atteggiamento è qualcosa che attiene al corpo ma è legato all'anima, anche se con delle implicazioni dottrinali che francamente non condivido: gli animali, che l'anima non ce l'hanno (o bella, ma allora che si chiamano "animali" a fare? Qui c'è qualcosa che non va...) hanno una postura mentre il feto ha un atteggiamento, visto che lui, l'anima, ce l'ha! Bene, atteggiamento è una parola molto usata, mentre il termine postura è una parola per addetti ai lavori, che ha ben poco corso nel linguaggio comune. Ora, siccome generalmente il linguaggio comune la sa più lunga dei tecnici, dei filosofi e degli insegnanti di musica (che sono forse tra le persone in assoluto più stupide), sarà forse utile tener sempre presente, quando si parla della posizione del corpo del musicista, che oltre alla postura esiste anche l'atteggiamento, e che quest'ultimo è una forma di profondo rispecchiamento reciproco tra corpo e anima (o psiche o mente, se preferite: per me fa lo stesso).La postura è sempre in relazione ad un atteggiamento. Si capisce bene allora che chiedere ad una persona di assumere posizioni che non le sono abituali ha un significato molto più vasto di quanto non si pensi.L'insegnante dovrà rispettare i normali atteggiamenti dell'allievo e cercare il modo di inserirvi armonicamente lo strumento.Non si vede perché una persona dovrebbe di punto in bianco stravolgere il proprio modi di sedersi solo perché sta imbracciando un violino o una chitarra, o sta seduta davanti a un pianoforte. Beninteso, col tempo è probabile che la postura si modifichi, ma questo avverrà perché sarà cambiato l'atteggiamento! L'insegnante perciò dovrà guidare un processo, non imporre un modello.Però attenzione: siccome l'atteggiamento non è un fatto solamente mentale ma coinvolge globalmente la persona, sarà bene che chi sta imparando a suonare uno strumento provi a variare la sua solita postura, sperimentando come posture differenti inneschino diversi atteggiamenti perché se è vero che la mente influenza il corpo è anche vero il contrario. Chiunque può osservare questo su di sé: se qualcosa ci avvilisce, la nostra schiena si curva, lo sguardo si abbassa e al nostra persona sembra volersi chiudere e rimpicciolire, e succede il contrario quando qualcosa ci rende felici: il passo torna elastico, i muscoli ritrovano tono e il nostro corpo sembra volersi espandere nello spazio. Questo lo sanno tutti, ma forse non tutti tengono nella giusta considerazione il processo opposto: provate a stare seduti per un paio d'ore con la schiena curva, su una sedia scomoda che vi costringa a posizioni innaturali, magari guardando alla tivù il Maurizio Costanzo Show, e vedete un po' se poi non vi sentirete un po' più tristi!. E' vero inoltre che la posizione del corpo di chi suona è determinata anche da criteri di funzionalità all'azione che si dovrà svolgere, ma anche in questo esiste una gradualità: non è certo produttivo che l'insegnante richieda all'allievo che deve solo imparare, poniamo a cavare qualche bel suono dal proprio strumento, una postura delle mani e del corpo adatta all'azione di un concertista. La posizione in rapporto allo strumento evolverà da sola, purché l'insegnante guidi il processo appianando i problemi che man mano si pongono, e anticipando appena la soluzione di quelli che sono imminenti. Faccio un esempio semplicissimo: un chitarrista esperto non guarda praticamente mai la propria mano destra e

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raramente la sinistra: chi inizia a suonare invece, nel primissimo periodo di studio, vuole vedere dove mette le dita: bene, che guardi pure! Questo gli farà cambiare la posizione dello strumento e del corpo, ma sarebbe assurdo pretendere che così non fosse. In seguito, si cambierà: ma non sarà possibile all'inizio lavorare con la stessa postura del chitarrista più esperto che non guarda la mai le proprie mani.Quando poi il musicista è un bambino, ancora di più è necessario rispettarlo nelle sue differenze dall'adulto: se noi accettiamo che un bambino parli da bambino, giochi da bambino, scriva con grafìa infantile e, in definitiva pensi e agisca come quel bambino che è, perché mai dovremmo pretendere che quando suona uno strumento suoni come un adulto? Ma è esattamente questo che gli chiediamo, quando pretendiamo da lui una impostazione tecnica e un tipo di esecuzione "standard", conformi alle nostre aspettative di adulti! Non vorrei però essere frainteso: non è che all'allievo tutto debba essere consentito: è perfettamente inutile che acquisisca abitudini contrarie alla dinamica dell'esecuzione musicale, dalle quali poi dovrà liberarsi con fatica. Per evitare questo esiste però una strada molto semplice: basterà che l'allievo impari subito a confrontare tutto ciò che fa coi risultati sonori che ne derivano, Col tempo mi vado convincendo che il modo più semplice di ottenere una buona impostazione tecnica da un allievo è quello di chiedergli delle buone sonorità, facendogli notare come i risultati possano variare a seconda del diverso modo di agire sullo strumento e del diverso modo di essere dell'esecutore. Viceversa precetti ed esercizi dati senza interazione con l'ascolto (cioè con la musica) funzionano poco. In questo contesto anche un bambino potrà capire come diverse posture sottendano differenti atteggiamenti e diano risultati sonori differenti, oppure facilitino od ostacolino il raggiungimento del risultato desiderato, e potrà regolarsi di conseguenza.

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Non fatevi del male: tensione e rilassamento

Uno degli ostacoli che moltissime persone (specie dalla preadolescenza in poi: i bambini generalmente se la cavano meglio, finché non trovano qualcuno che li rovina) incontrano nel far musica è la presenza di una eccessiva tensione muscolare che impedisce la naturalezza dei movimenti necessari a suonare, e rende difficoltose anche le azioni più semplici.Tuttavia io credo che generalmente il problema sia mal posto: coloro che si domandano "Come posso conseguire un grado soddisfacente di rilassamento in una situazione critica come quella dell'esecuzione musicale, nella quale non mi sono consentiti errori?" credo che si siano già posti nella condizione di non poter in nessun modo risolvere il problema. Infatti l'inghippo sta proprio lì, nel raffigurarsi il far musica come "una situazione critica nella quale non sono consentiti errori."Se osserviamo i soggetti affetti e afflitti da questo tipo di problematiche, in genere notiamo che spesso le medesime persone che hanno atteggiamenti di disagio e di tensione quando si accostano allo strumento, in altre situazioni manifestano una motricità assolutamente normale: svolgono normalmente complesse attività manuali, e sono magari eccellenti sportivi.Per migliorare la situazione di queste persone è possibile lavorare su due fronti: da un lato si possono proporre esercizi adatti a diminuire la tensione (respirazione, rilassamento, training autogeno e quant'altro possa servire allo scopo), ma è evidente che difficilmente si otterranno risultati veramente buoni dal punto di vista del "benessere musicale" della persona perché si sta lavorando solo sui sintomi e non sulle cause del problema.Sarà meglio invece far qualcosa a livello più profondo, cercando favorire la scoperta , da parte del musicista, delle radici dell'ansia che crea la tensione.Quello che vorrei sottolineare è che spesso il maggiore ostacolo è rappresentato dal fatto che la situazione di ansia e tensione in rapporto alla pratica strumentale viene accettata a priori come un dato costitutivo e ineliminabile dell'esperienza musicale. Spessissimo questo problema viene subìto passivamente: il musicista non fa che ripetere a sé stesso: "mah, io sono fatto così, sono uno che si emoziona facilmente, è logico che io cada in uno stato di eccessiva tensione quando devo suonare, anche se ad ascoltare ci sono solo poche persone, o magari anche se non c'è nessuno. Tutto quello che posso fare è cercare di combattere questo lato del mio carattere avvalendomi di tutti gli espedienti a mia disposizione: posso controllare la respirazione, la tensione muscolare, impormi volontariamente un certo grado di rilassamento ...".Orbene, bisogna pure che qualcuno lo dica: QUESTE SONO TUTTE STRONZATE!E' vero, esistono esercizi che possono indurre un certo grado di rilassamento: vanno benissimo per imparare a rilassarsi a fondo, addormentarsi velocemente e dormire meglio, ma da soli non servono granché per fare musica.Quello che invece provoca miglioramenti sostanziali è cambiare il proprio atteggiamento.

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In sostanza bisogna riuscire a comprendere che si sta vivendo l'esperienza del suonare in un modo che è condizionato da un precedente vissuto di tipo traumatico: bisogna riuscire a dire a sé stessi: "Evidentemente, quando io suono penso di avere dinanzi a me un compito difficilissimo, al quale mi ritengo inadeguato, e che tuttavia ritengo di dover svolgere alla perfezione; ovviamente un tale atteggiamento è fonte più di angoscia che di piacere. Tuttavia, quali che ne siano le cause, è un atteggiamento modificabile!".Se si riesce ad arrivare a questa difficile sincerità (e qui il maestro può e deve giocare il difficile ruolo della levatrice) sarà allora possibile ritrovare il piacere di far musica (chiunque può trarre piacere dal far musica, purché autorizzi sé stesso a farlo) semplicemente ritrovando tutte quelle belle cose che ci avevano attirato verso di essa (sicuramente esistono e ci sono piaciute: altrimenti perché avremmo voluto suonare?) ed evitando di porci compiti superiori alle nostre forze del momento (il che non esclude il fatto che ciò che oggi ci è difficoltoso e ci farebbe solo disperare, magari domani sarà alla nostra portata e ci darà gioia: o magari no, ma questo non deve essere un problema!).Generalmente, chi suona divertendosi non ha grossi problemi per le eccessive tensioni muscolari, questa è la verità. E chi suona con gusto non si chiede mai : "ma io sarò abbastanza bravo?", perché evidentemente la domanda non ha senso: a me piacciono tantissimo le patate fritte ma non ricordo di essermi mai chiesto se io fossi in grado di mangiarle con lo stile necessario, o se fossi abbastanza veloce ed accurato. Se cominciassi a pensare cose del genere, mi sa che mi andrebbero di traverso. Bene, non fatevi andare la musica di traverso. Tutto qua.L'errore consiste proprio nel considerare l'angoscia un fatto ineliminabile dal far musica, così come le tensioni che ne derivano. Se invece accettiamo questa premessa, non ci resta altro che lavorare sul controllo delle tensioni: una specie di anestesia del corpo e dell'anima che però non dà grandi risultati: ho attraversato personalmente questi problemi e devo dire di non essere mai riuscito a combinare molto semplicemente controllando il respiro o la tensione muscolare: è vero che riuscivo ad essere meno teso, ma finivo per assomigliare ad uno zombie: non mi sentivo più così tanto a disagio, ma non è che neanche mi divertissi: mi allontanavo semplicemente da me stesso. E alla fine non ero mai contento. E se questo lo considerate un buon risultato, vi consiglio un clistere gigante, banda di stitici!Ovviamente il problema non si risolve dall'oggi al domani: chi deve ritrovare il piacere di far musica, deve smontare un bel po' di sovrastrutture mentali che glielo impediscono, e deve rimettersi a giocare: fino a che non capisce che giocare è importante, e bisogna trovare il tempo per farlo e per rivivere tutto quello che era stato appreso sotto forma di dovere sotto l'aspetto del gioco non potrà mai vivere bene la sua esperienza di strumentista. Non è una breve passeggiata: bisogna essere disposti a tornare indietro un bel po' di più di quel che si vorrebbe, e bisogna avere la fortuna di trovare l'aiuto delle persone giuste.Queste tipo di persone dovrebbero essere gli insegnanti: ma è realistico pensare che chi ha fatto il danno possa portare la soluzione? Ho parlato prima di traumi subiti in relazione alla pratica strumentale: da chi sono stati innescati? Di solito i principali responsabili vanno ricercati o tra i genitori, o tra gli insegnanti, e più spesso ancora c'è una specie di associazione a delinquere tra le due categorie. Spesso infatti, credendo di cercare un insegnante adatto ai loro figli i genitori finiscono per scegliere un insegnante che agisca sui figli nello stesso modo che è

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loro abituale. L'unica parola di speranza ce la dà, come al solito, il buon senso incorporato al linguaggio. In Inglese suonare si dice play, in francese jouer. Queste parole significano anche giocare .Non è mai troppo tardi per rimettersi a giocare.

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Uomini liberi o servi stressati?

Ci sono alcune considerazioni che vorrei farei allo scopo di chiarire quanto detto nei due precedenti capitoli. E' possibile che i problemi relativi alla postura e al rilassamento siano in qualche modo riconducibili a quelle problematiche di cui si parla tanto oggi raccogliendole sotto il termine "stress". Cosa significhi il termine non mi è troppo chiaro. Credo che, parlando dei problemi dati dallo stress si voglia alludere a quel malessere psicofisico che si manifesta quando la tensione che viene indotta in noi dalle necessità della vita quotidiana sia eccessiva e soprattutto incessante: è infatti quest'ultima caratteristica che la rende così logorante. Fin qui credo siamo tutti d'accordo. Ora si potrebbe anche essere indotti a pensare che un individuo sia tanto più stressato quante più attività debba svolgere in breve tempo, e che sia il fatto di dover gestire il sovrapporsi e l'intersecarsi di tutte queste attività a generare lo stress. Si ritiene infatti che la vita moderna, caratterizzata dal moltiplicarsi e dal sovrapporsi di impegni in tempi brevi sia altamente stressante e certamente è così, ma forse c'è qualche non trascurabile dettaglio da chiarire. Osservando me stesso ho notato che quella sensazione di affanno e di malessere caratteristica dello stress non è in me legata solamente al fatto di trovarmi in una particolare condizione (carico di lavoro pesante, molti impegni nella giornata, problemi in famiglia ecc. ecc.) ma quanto al fatto di essere in una condizione nella quale non sto volentieri. Mi spiego meglio: mi trovo a volte a vivere in modo assai sereno periodi di lavoro intenso e caotico, mentre in altri periodi carichi di lavoro anche minori mi fanno stare male. Ma allora dov'è la differenza? C'è un passo rivelatore ne "Il profumo", bellissimo romanzo di Patrick Süskind. La dove descrive le tribolazioni di Maître Baldini, profumiere parigino sull'orlo del fallimento, che manda avanti tra mille difficoltà la sua bottega, cercando di barcamenarsi tra i clienti e la concorrenza, assillato dalla costante preoccupazione di non farcela e dal rimpianto del passato successo. Sicuramente possiamo dire che si tratta di un individuo stressato.

( … ) Baldini si alzò. Aprì le imposte e il suo corpo s'immerse fino alle ginocchia nella luce della sera e rosseggiò come una fiaccola incandescente che stia per spegnersi. Vide il bordo rosso scuro del sole dietro al Louvre e i più tenui bagliori sui tetti d'ardesia della città. Sotto di lui il fiume scintillava come oro, le navi erano scomparse. E probabilmente si stava levando il vento, perché la superficie dell'acqua era battuta dalle raffiche che parevano incresparla di squame, e qua e lì e sempre più vicino c'era un luccichio, come se un'enorme mano stesse spargendo sull'acqua milioni di luigi d'oro, e per un attimo sembrò che la corrente del fiume avesse cambiato direzione: scorreva verso Baldini, una fiumana scintillante d'oro puro. Gli occhi di Baldini erano umidi e tristi. Per un attimo restò immobile e osservò lo splendido spettacolo. Poi, d'un tratto, spalancò la finestra, aprì le imposte e gettò fuori il flacone con il profumo di Pélissier, facendogli descrivere un ampio arco nell'aria. Lo vide piombare in acqua e lacerare per un attimo il tappeto scintillante. Aria fresca affluì nella stanza. Baldini tirò il fiato e s'accorse che il suo naso si stava liberando. Poi richiuse la finestra, Quasi nello stesso momento calò la notte,

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tutt'a un tratto. L'immagine della città e del fiume scintillanti d'oro si fossilizzò in un profilo grigio-cenere. Di colpo nella stanza si era fatto buio. Baldini continuò a stare nella stessa posizione di prima e a guardare fisso oltre la finestra. "Non manderò nessuno domani da Pélissier", disse, e con entrambe le mani strinse forte la spalliera della sedia. " Non lo farò. Non farò neppure il mio giro per i salotti. Domani andrò invece dal notaio e venderò la mia casa e il mio negozio. Questo farò. E basta!". Aveva assunto un'espressione caparbia da ragazzo, e a un tratto si sentì molto felice. Era di nuovo il Baldini di un tempo, giovane, coraggioso, e deciso come sempre a tener testa al destino..., anche se tener testa in questo caso significava soltanto ritirarsi. E quand'ancbe! Non restava comunque altro da fare. Lo stupido tempo non lasciava altra scelta. Dio ci dà tempi buoni e cattivi, ma non vuole che in tempi cattivi ci lagniamo e ci lamentiamo, bensì che diamo prova di essere forti. E Lui aveva inviato un segnale. L'immagine illusoria della città dorata rosso-sangue era stata un ammonimento: agisci, Baldini, prima che sia troppo tardi! La tua casa è ancora solida, i tuoi magazzini sono ancora pieni, puoi ancora ottenere un buon prezzo per il tuo negozio che va declinando. Le decisioni stanno ancora a te. Invecchiare modestamente a Messina non è stato proprio lo scopo della tua vita, ma e pur sempre più onorevole e più gradito a Dio che non andare in rovina pomposamente a Parigi. Che i Brouet, i Galteau e i Pélissier trionfino tranquillamente. Giuseppe Baldini sgombra il campo. Ma lo fa di propria volontà e senza piegarsi! Adesso era proprio fiero di sé. E infinitamente sollevato. Per la prima volta dopo anni non sentiva più sulla schiena il crampo del subalterno, che gli tendeva la nuca e gli aveva marcato le spalle sempre più devotamente, e stava dritto senza sforzo, libero e leggero, ed era felice. Respirava (…) senza fatica. ( ... ) . Baldini aveva cambiato vita e si sentiva meravigliosamente bene. Ora sarebbe salito da sua moglie e l'avrebbe messa a parte delle sue decisioni, poi si sarebbe recato in pellegrinaggio a Notre-Dame e avrebbe acceso una candela di ringraziamento a Dio per la benevola indicazione e per l'incredibile forza di carattere che Egli aveva concesso a lui, Giuseppe Baldini. Con uno slancio quasi giovanile si gettò la parrucca sulla testa calva, s'infilò la giacca blu, afferrò il candeliere che stava sul tavolo e lasciò lo studio. (…)

Ora Baldini sta bene: non è più stressato. Come mai? "Il crampo del subalterno!": ecco la miglior definizione che io conosca delle tensioni provocate dallo stress, perché sta proprio lì la vera causa: non essere i veri autori e i veri responsabili dei doveri che ci pressano, ma doverli accettare come un'imposizione! Quando pensiamo ed agiamo da uomini liberi e non da servi raramente siamo stressati, anche con un mare di impegni ed anche in un mare di guai: saremo stanchi morti, quello sì, ma non è la stessa cosa. Cosa c'entra tutto ciò con la didattica strumentale? Ho parlato nei capitoli precedenti dell'ansia che crea tensioni di vario tipo. Da dove viene quest'ansia? Già negli anni '30 Piaget, affrontando i grandi temi della didattica, faceva alcune interessanti osservazioni che credo siano ancora valide oggi. Ecco una paginetta illuminante:

Ma, se il fenomeno del rispetto presenta in questo modo un’innegabile unità funzionale, possiamo, per astratto, distinguere al meno due tipi di rispetto (di cui il secondo costituisce una sorta di caso limite del primo). C’è innanzitutto il rispetto che chiameremo unilaterale, perché implica un’ineguaglianza tra co1ui che rispetta e colui che è rispettato: è il rispetto del piccolo per il grande, del bambino per l’adulto o del fratello minore per il maggiore. Questo rispetto, il solo al quale normalmente si pensa, e quello su cui Bovet ha specialmente insistito, comporta una soggezione inevitabile da parte del superiore nei confronti del l’inferiore: è dunque caratteristico di una prima forma di rapporto sociale che chiameremo. Ma esiste, in secondo luogo, un tipo di rispetto che possiamo definire mutuo, perché gli individui che sono in contatto si considerano uguali e si rispettano reciprocamente. Questo rispetto non implica quindi

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nessuna soggezione e caratterizza un secondo tipo di rapporto sociale che chiameremo cooperazione. Questa cooperazione costituisce l’essenza delle relazioni tra bambini o tra adolescenti nel contesto di un gioco regolato, di un’organizzazione di self-government o di una discussione sincera e ben condotta. Questi due tipi di rispetto ci sembrano spiegare l’esistenza delle due morali di cui si osserva continuamente l’opposizione nel bambino. Per generalizzare, possiamo dire che, andando di pari passo con il rapporto di soggezione morale, il rispetto unilaterale conduce, come Bovet ha ben notato, a un risultato specifico che è il sentimento del dovere. Ma così, come risultato della sollecitazione adulta sul bambino, il dovere originario rimane essenzialmente eteronomo. Al contrario, la morale che risulta dal mutuo rispetto e dai rapporti di cooperazione può essere caratterizzata da un sentimento diverso, il sentimento del bene, più interno alla coscienza, e il cui ideale di reciprocità tende à divenire interamente autonomo. Consideriamo qualche esempio di queste opposizioni a cominciare dalla sottomissione alle regole, a quello spirito di disciplina nel quale Durkheim vede il primo elemento della moralità. Quando si studia da vicino, per osservazione sistematica dei suoi giochi spontanei o interrogandolo sulla coscienza delle regole, la maniera in cui il bambino di età differenti si sottomette a una disciplina, quale l’insieme delle regole del gioco, non si può non rimanere colpiti dalla differenza di reazioni dei piccoli e dei grandi. I piccoli, dai cinque gli otto anni circa, accettano le regole dei maggiori per rispetto unilaterale, e le assimilano a un compito prescritto dall’adulto stesso: le considerano intangibili e sacre. Tuttavia, pur imponendosi così tanto alle coscienze, le regole ne restano estranee e non sono infatti osservate che molto male. I grandi, al contrario, creano essi stessi le regole, in cooperazione, e le osservano grazie al mutuo rispetto: queste regole autonome arrivano a partecipare della loro personalità e rimangono da loro scrupolosamente seguite.

(Tratto da: Cinquième congrès international d'éducation morale, Paris, 1930, compte rendu et rapport général, Paris, Alcan, 1930)

Esistono dunque due distinti meccanismi mentali ai quali è possibile far appello nell'educazione. Non so cosa ne pensino gli specialisti, ma la mia sensazione è i meccanismi psicologici legati ai due processi che Piaget chiama rapporto di soggezione e rapporto di cooperazione continuino a coesistere anche oltre l'infanzia e l'adolescenza, e che i nostri rapporti sociali si basino tanto sull'uno quanto sull'altro. Quale dei due privilegiare dipende da quali scopi si vogliano conseguire. Non voglio trarre conclusioni di tipo generale, ma dalla mia piccola esperienza di insegnamento ho imparato che l'insegnamento della musica deve passare più attraverso la cooperazione e l'attivazione delle risorse dell'allievo che attraverso l'imposizione della volontà dell'insegnante. Naturalmente quest'ultima ha un suo peso a anche grande, ma non può essere il fattore dominante, nel processo educativo. Non lo dico per pregiudizi di tipo ideologico, ma per aver constatato in pratica la semplice imposizione della volontà dell'insegnante non funziona bene, e alla lunga crea tutti quei problemi ai quali ho accennato in precedenza. Naturalmente anche la valutazione dell'importanza delle problematiche che ho fin qui discusso dipende dal tipo di obiettivi che ci si pone nel corso del processo educativo. Meglio creare uomini liberi o servi stressati? Naturalmente nessuno li chiama così, ma sentirete viceversa parlare di "formazione professionale adeguata alle necessità della struttura produttiva" o di "successo" o di "carriera", o anche di "salutare competizione".Salutare competizione! Il punto è che i "perdenti" spesso si sono giocati qualcosa di più della posta della tombola, mentre i "vincenti" hanno vinto sì, ma a che prezzo?

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Gli insegnanti e i maestri

Insegnanti e maestri: con questi due termini intendo due diversi ruoli che quasi sempre convivono nella stessa persona.Mi spiego con un esempio: se qualcuno dei miei allievi di chitarra viene da me con un problema specifico già ben configurato ("Prof., questo arpeggio non mi viene bene, come devo fare?") mi sta semplicemente chiedendo di fornire una consulenza per rimuovere un ostacolo sulla sua strada, che però è ben chiara e definita. Se io riesco ad aiutarlo dando le giuste indicazioni, magari proponendo delle esercitazioni adeguate, ma più spesso portando la sua attenzione su qualcosa (magari un minuscolo ma significativo dettaglio) che gli sfugge in quel momento, ho svolto il ruolo dell'insegnante.Quando invece qualcuno viene da me spinto soltanto da un generico desiderio di far musica, motivato soltanto da una vaga consapevolezza che questo far musica avrà degli effetti positivi sulla sua persona, e mi formula una sorta di richiesta indistinta e globale, allora toccherà a me fare da levatrice alla consapevolezza di queste necessità e a questi desideri, e proporre un percorso da seguire che sia adeguato alla persona dell'allievo, mentre lui non avrà un'idea chiara di dove questo percorso lo porterà (oppure non ne avrà che un'idea parziale o, a volte, del tutto erronea). Qui dovrò svolgere il ruolo del maestro, ruolo che si protrarrà fino al momento in cui l'allievo non sarà ben consapevole di sé, e quindi indipendente.In realtà però le cose non sono così semplici da distinguere.Succede che dietro richieste generiche ci siano idee e percorsi già ben definiti, anche se non dichiarati ("Voglio imparare a suonare la chitarra per accompagnare il mio amico che canta le canzoni di Vasco Rossi, ma al prof. non lo dico perché mi sembra uno troppo serio, e magari non approva") o viceversa vengano prospettati dei problemi "tecnici" che di tecnico non hanno nulla, ma denunciano qualche forma di "malessere musicale". Se per esempio qualcuno mi chiedesse "Come devo impostare la mano destra per far risaltare questa linea melodica?" e l'azione della sua mano destra non avesse in realtà nessun particolare difetto dovuto a cattive abitudini, sarebbe allora ovvio come non ci sia nessuna correzione della manualità da fare, ma casomai si tratti del problema (ben più complesso) di cambiare qualcosa nel suo modo far musica: in questo caso, nonostante la richiesta fosse stata fatta formalmente all'insegnante, la risposta dovrebbe venire dal maestro.L'insegnante può avvalersi di metodologie diverse, e sceglierle sperimentandole e confrontandone l'efficacia. Questi metodi di lavoro possono provenire da fonti diverse, o essere frutto di elaborazioni personali, e sta alla sua intelligenza decidere quali usare e come usarli. Oltretutto, quando essi si accordino al suo modo di fare, può cambiarli con relativa facilità.Il maestro viceversa non ha altro materiale da insegnare che sé stesso e la propria esperienza come è stata rielaborata fino a quel momento. Si intuisce subito che questo comporta un livello di coinvolgimento ben diverso. Il maestro deve mettersi in gioco fino in fondo e questo comporta innanzitutto il fatto che dovrà sapersi

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accettare, con tutti i propri pregi, difetti e problemi personali. E questo, come si può facilmente constatare, non è da tutti.Tutti gli insegnanti però, volenti o nolenti, finiscono per essere anche dei maestri, anche se non tutti ne hanno la consapevolezza, e questo può creare serie difficoltà, perché in questo caso l'insegnante corre il rischio di riversare tutti i suoi problemi sugli allievi senza alcun controllo e senza nessun filtro, e soprattutto senza rispetto per la individualità della persona dell'allievo, e corre il rischio di replicare nell'allievo la parte peggiore di sé stesso. Uno dei motivi della mia stima per il mio insegnante di perfezionamento è stato fare la conoscenza dei suoi allievi: sono tutti diversi tra di loro e nessuno di essi gli assomiglia troppo. Eppure tutti abbiamo imparato molto da lui (e a quanto pare ognuno ha imparato delle lezioni un po' diverse) Altri insegnanti si rifiutano assumere il ruolo del maestro. Quando l'insegnante, nel momento in cui l'allievo avanza delle richieste alle quali solo il maestro può rispondere, cerca di esimersi dall'assumere questo ruolo, generalmente lo fa o perché non ha capito la richiesta dell'allievo, o perché intuisce che seguire l'allievo nelle sue esigenze lo porterebbe su un terreno sul quale non si sente sicuro, e in questo caso generalmente e non è neppure disposto a confessarlo. Personalmente ritengo preferibile la sincerità: a volte un bel "Non so" vale di più del rifugiarsi dietro a rassicuranti nozioni di tecnica strumentale. Mi spiego meglio: qualunque insegnante, se ha una decente tecnica manuale, può riuscire ad eseguire quello che ad un normale allievo potrebbe venire in mente di voler suonare. Ciò non significa però che sappia come suonare il brano in questione, anche perché quella musica potrebbe non interessarlo per niente. In questi casi, secondo me è meglio essere sinceri: "Mi dispiace ma questa musica non la conosco" (il che non esclude "Vediamo un po' che roba è": magari è della buona musica che ancora non conoscevamo) oppure: "Mi dispiace ma questa musica io non la so suonare: ho provato a leggerla, ma non mi dice nulla" (attenzione: non "questa musica non vale niente" : come possiamo esserne sicuri? A chi non è mai successo di ascoltare un brano che giudicava insipido e di trovarlo invece gradevole o addirittura bello, grazie ad una bella esecuzione?). Può anche darsi che l'allievo voglia uscire dall'ambito delle nostre competenze: anche qui è meglio non barare ("Prof., mi insegna a suonare la chitarra elettrica? Come si usa il distorsore?". Forse è meglio rispondere : "Sai, io con la chitarra elettrica non sono mica tanto bravo: se proprio vuoi puoi andare a lezione dal mio amico Antonio che è un vero rockettaro scatenato" piuttosto che : "Ma la chitarra elettrica non vale niente! Il rock? Cosa ti viene in mente, quella non è musica!"); se la chitarra elettrica era solo una cosa del momento, può darsi che poi l'allievo torni; se invece è una autentica passione, allora gli serve veramente un insegnante diverso, e se lo trova sarà tanto meglio per tutti e in questo non c'è niente di male visto che non tutti gli insegnanti vanno bene indistintamente per tutti gli allievi e viceversa).In questo modo, oltre a istituire una relazione onesta con l'allievo, gettiamo le basi per la sua futura emancipazione: è normale che per l'allievo l'insegnante diventi un po' un mito, ma deve essere altrettanto normale che a un certo punto il mito crolli, se l'allievo deve crescere. Anche questa è un'ovvietà, naturalmente, ma anche se a parole siamo tutti d'accordo, è facile rilevare come esistano parecchi insegnanti che nei fatti si regolino in modo da difendere innanzitutto il proprio prestigio, a qualunque prezzo.

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In altri casi l'insegnante pensa sia meglio (è più comodo!) mantenersi sempre distaccato e neutrale; questo avviene solitamente quando l'insegnamento viene vissuto come attività di ripiego. Il guaio è che però questa situazione viene vissuta dall'allievo come una mancanza di disponibilità. Quali che siano i motivi, così facendo l'insegnante in realtà insegna la propria assenza: insegna la possibilità di una relazione umana vuota. E non mi dilungo a sottolineare quanto questo sia grave: chi può capire avrà già afferrato, a e chi non può capire ulteriori spiegazioni non diranno nulla.

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Scuole, esami, concorsi ...

Scuole

A proposito delle scuole non è il caso di dilungarsi troppo, data la vastità dell'argomento e, tutto sommato, allo stato attuale delle cose, la sua relativa irrilevanza: si incontrano persone meravigliose in scuole orrende e viceversa. Sarebbe bello che almeno laddove viene speso denaro pubblico ci fosse un po' più di controllo sulla qualità di ciò che viene fatto. Salvo il fatto che non vedo chi potrebbe controllare senza fare altri disastri: oggi come oggi la situazione mi sembra tale per cui chi ha buone e sane idee in testa (o perlomeno quelle che io giudico tali) non arriverà mai a dirigere niente in questo campo, perché difficilmente riuscirà ad essere appoggiato dai politici, e tanto meno dalla maggioranza della popolazione, che di musica non capisce quasi nulla. E allora forse è preferibile l'attuale disinteresse delle istituzioni al controllo di qualche idiota incompetente (attenzione ... ho scritto queste righe qualche tempo fa, e ora mi sembra di sentire che forse gli idioti stanno arrivando ... speriamo bene). Quindi, mentre passano quei due-trecento anni necessari per la formazione musicale di massa, direi che con le strutture scolastiche l'unica cosa da fare è cercare di barcamenarsi alla meglio. Purtroppo non è possibile farne a meno, dato che l'insegnamento individuale (leggi lezioni private) manca di alcuni indispensabili strumenti didattici (possibilità di far musica d'insieme, organizzazione di spettacoli musicali, interscambi tra allievi ed insegnanti ecc.).Ciò premesso, ecco la mia opinione sulle scuole di musica di ogni ordine e grado: queste scuole sono ovviamente fatte da persone e quindi è dal buon rapporto tra esse e dal buon rapporto che costoro hanno con la musica che nasce il buon funzionamento di una scuola.Chi sono i soggetti in causa? AllieviInsegnantiGenitori degli allievi non adultiPersonale non docente (inservienti, segreteria, direzione, in ordine decrescente di importanza)Amici, nemici e concittadini vari, che oltretutto formano il pubblico (come si potrebbe fare musica senza un pubblico?) Le soluzioni strutturali (quante ore di lezione? Singole? In gruppo? Quali i costi? Quali le entrate della scuola? ecc. ecc.) possono essere le più diverse, purché siano guidate da buoni criteri generali. Quali siano questi criteri è ovviamente discutibile. Le mie idee personali sono quelle che sto esponendo, e so benissimo che non incontrano consensi universali.Da parte mia sono generalmente disposto a collaborare anche con persone che abbiano punti di vista differenti. L'unica cosa sulla quale sono abbastanza

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intransigente è che all'interno di una scuola di musica la cosa principale deve essere la persona dell'allievo. Attenzione: non la formazione musicale dell'allievo, ma la sua persona. Chi si iscrive ad una scuola di musica deve richiedere ad essa alcuni fondamentali requisiti: 1.I costi non devono essere traumatici per il bilancio famigliare. Questo, oltre che per ragioni ovvie, deve servire a lasciar respirare allievi, genitori e insegnanti. E' possibilissimo che un ragazzo, magari realmente appassionato alla musica e realmente dotato, per un certo periodo (magari un semestre) non combini un granché: ora, se questo periodo è costato troppi soldi, la cosa diventa un po' pesante per tutti. 2.Gli insegnanti devono essere adeguatamente preparati, cosa difficile da valutare soprattutto per chi si iscrive ai corsi inferiori. Quello che l'aspirante allievo, e/o i suoi genitori possono fare è di frequentare un po' l'ambiente prima di iscriversi: andare ai saggi di fine anno, magari chiedere qualche lezione di prova (molte scuole danno alcune lezioni che l'allievo pagherà soltanto se decide poi di iscriversi) e cercare di capire che aria tira. 3.L'organizzazione generale della scuola deve funzionare. Una scuola di musica deve cioè essere una vera scuola e non un'associazione dove alcuni insegnanti fanno le loro lezioni, in modo assolutamente simile alle loro lezioni private. Altrimenti, meglio le lezioni private (l'insegnante in genere non le denuncia al fisco, così lui guadagna un po' di più e l'allievo paga un po' meno. Se una scuola si riduce ad essere un luogo per lezioni private, sarà, oltre che inutile, anche più dispendiosa). Una scuola deve fare dell'attività culturale (organizzare concerti, conferenze ecc.) promuovere il dialogo tra docenti ed allievi, anche di corsi diversi, promuovere la formazione e l'aggiornamento dei propri insegnanti, e cercare di seguire gli allievi più efficacemente di come potrebbe il singolo insegnante. Esami e Concorsi Anche gli esami (e aggiungiamoci pure i concorsi) sono faccende relativamente insignificanti dal punto di vista della musica.Possono viceversa diventare un ostacolo quando diventano un obiettivo.Voglio dire che a un bravo allievo, che sappia suonare bene e ami il suo strumento non farà alcun male andare a farsi una suonatina anche davanti a una commissione d'esame (dopo che ne avrà fatte tante altre in posti più divertenti) e portarsi a casa un pezzo di carta dove sta scritto che lui è un musicista. Questo farà tanto contenti i suoi genitori, i suoi insegnanti e il direttore della scuola e, se l'allievo fa parte dei corsi più avanzati, forse (n.b.: forse) aver fatto un bell'esame o aver vinto un concorso prestigioso lo aiuterà un poco (molto poco) se vorrà fare il musicista di mestiere. Ma non cambierà nient'altro.L'importante è che il superamento degli esami non diventi un l'obiettivo principale e la sola motivazione per l'attività musicale. Come ho già spiegato, quando il

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dovere prevale sul gioco, in musica le cose cominciano a non andare più bene, nonostante per un bel po' magari le apparenze mostrino il contrario. In questa situazione si finisce veramente per farsi del male, o per abbandonare la musica, o tutt'e due, e poi per cosa? Per dei pezzi di carta che, se qualche decennio fa potevano aprire qualche sbocco nel mondo del lavoro, oggi valgono sempre meno. Certo, servono ancora, ma chi ha un minimo di talento, poca fretta, e ama realmente la musica ci arriverà senza problemi, mentre chi si pone come obiettivo primario il conseguimento del titolo di studio rischia grosse delusioni. Voglio dire proprio grosse, di quelle in grado di avvelenare un bel po' di anni di vita, tanto per intenderci. Non sto scherzando: gente segnata a fondo da queste cose ce n'è abbastanza: vediamo se è possibile limitare i danni per il futuro.

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Il virtuosismo obbligatorio.

Virtuoso antico termine, ancora in uso, con il quale si definisce l'interprete che ha raggiunto grande perfezione tecnica // V. da camera indicava, nel periodo barocco, il musicista al servizio privato delle corti e dei nobili

Also spracht Garzantina (nome affettuoso con cui è nota l'Enciclopedia della Musica Garzanti, datole forse per le sue doti di affabilità di linguaggio e per la socievolezza del suo costo.) Bisogna però aggiungere che il significato del termine virtuoso è un po' cambiato, nel corso del tempo, col mutare del rapporto tra il musicista e il suo pubblico. Nel settecento e nell'ottocento succedono in questo campo un paio di cosette interessanti, una bella e una brutta (secondo me, naturalmente) La cosa bella è che la cerchia degli ascoltatori di musica colta si allarga: vengono aperti nuovi teatri, esplode il fenomeno del melodramma (oddìo, questa cosa del melodramma non so se veramente sia stata una faccenda così bella per la musica, ma, come si suol dire: "Ai posteri ...") e quella musica colta che era stata appannaggio esclusivo dell'aristocrazia ora diventa accessibile anche alla borghesia dell'epoca. Per la prima volta si forma quello che oggi chiamiamo pubblico. Un musicista barocco mai avrebbe pensato di avere un pubblico, ma piuttosto degli ascoltatori (non è la stessa cosa: sembra, ma ...); nel Rinascimento poi l'idea era piuttosto quella di far musica insieme, piuttosto che di dividersi rigidamente tra chi suona e chi ascolta. Ora però questo nuovo pubblico è mediamente molto meno preparato ad ascoltare la musica che gli viene proposta. Succede che i musicisti di musica colta per la prima volta si trovano davanti un pubblico di persone che della loro musica capisce poco. Mi spiego meglio: nel Rinascimento l'idea ispiratrice era quella del far musica insieme: tutti (beninteso tutti quelli che facevano parte di una ristretta cerchia di aristocratici) dovevano essere almeno un po' musicisti per poter godere pienamente anche solo dell'ascolto. C'erano naturalmente cortigiani più o meno bravi, c'erano anche dei virtuosi ma l'idea di fondo era la condivisione di un linguaggio e di un sentire comuni. Nel sei-settecento le cose cambiano un poco, i musicisti si specializzano, nasce il teatro musicale, ma finché la platea resta quella aristocratica, si tratta di ascoltatori che in buona parte condividono il gusto dei musicisti ed hanno una buona preparazione musicale: questi ascoltatori aristocratici magari non sarebbero in grado di sostituirsi agli esecutori, (e sicuramente non vorrebbero: ormai il musicista è diventato un servo!) ma sono comunque spesso musicisti dilettanti essi stessi. E dilettante non ha ancora significato riduttivo: semplicemente questi signori, magari musicalmente dotatissimi, sono destinati ad altre carriere. Comunque questi ascoltatori sono ancora molto vicini ai loro musicisti, dal punto

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di vista della valutazione estetica. La situazione cambia radicalmente con la presenza a teatro (sempre più numerosa) e nelle sale da concerto (molto meno importante, specie in Italia) di questo nuovo "pubblico", che oltre alla borghesia includerà gradualmente tutte le classi sociali. Il guaio è che questi nuovi ascoltatori, oltre a capirci poco, di musica, non è che abbiano poi questa gran voglia di migliorare. Sarebbe inconcludente ed assurdo attribuire i motivi di questo blocco ad una vaga tendenza alla pigrizia di massa. Io credo che ci siano ragioni più articolate delle quali dirò meglio più avanti. Comunque sia, al musicista della tradizione colta diventa sempre più difficile comunicare: egli sente che il suo linguaggio non passa. In attesa che se ne formi uno nuovo, più adeguato, e che la sensibilità del pubblico migliori, non gli resta che stupire e per far questo usa tutte le armi a sua disposizione. Da qui la dimensione teatrale della musica ed il virtuosismo estremo di quei musicisti che se lo possono permettere (non tutti possono, ovviamente). Naturalmente i grandi musicisti dell'ottocento hanno fatto cose meravigliose anche in questa situazione, e sono riusciti a costruire musica bellissima proprio lavorando proprio su questo contesto (forse che le più belle rose non si concimano con la merda?); infatti non tutto il male vien per nuocere: sicuramente il fenomeno dei virtuosi ha portato alla scoperta di nuove risorse della tecnica strumentale, e la necessità di "colpire al cuore" questo nuovo pubblico ha enormemente accelerato lo sviluppo del linguaggio musicale. Tuttavia io credo che, tutto sommato, il rapporto tra musicista e pubblico abbia preso, dopo il rinascimento, una gran brutta piega. E spiace dirlo, ma, anche se molte cose sono cambiate, stiamo ancora qua a dibatterci in queste (diciamo) acque. Si sono affermanti altri generi musicali, ma anche in essi l'ascolto della musica stenta molto ad affermarsi al di fuori due queste due dimensioni, teatrale e virtuosistica. Vedi sotto la noticina esplicativa.

Pare dunque che un certo grado di virtuosismo sia divenuto irrinunciabile per il musicista professionista. E questo passi: purtroppo anche chi decide di dedicarsi alla carriera di solista conserva la perniciosa abitudine di mangiare tre volte al giorno: pertanto dovrà trovarsi del lavoro, e chi vuol fare il concertista dovrà imporsi al suo pubblico a suon di velocissimi sedicesimi e trentaduesimi ben eseguiti. Il guaio è che il modello educativo adatto a formare un brillante virtuoso viene propinato in modo indiscriminato a tutti, anche a quelli che di virtuoso non avranno mai altro che una sana vita di rinunce. Sulla base di questo modello, i conservatori sfornano ogni anno centinaia di diplomati, temprati alle più ardue vette della pratica strumentale (o perlomeno, questa sarebbe l'idea). Cosa fanno questi baldi giovani dopo il diploma? Pochissimi fuoriclasse, dotati di grande talento, grande tenacia, qualche conoscenza, e un po' di culo faranno davvero il concertismo. Tutti gli altri (compresi molti fuoriclasse sfigati, che benché assai talentuosi non abbiano né appoggi né fortuna, dei quali, lo dico a scanso di equivoci per chi non mi conosce, io non sento di far parte) o rimanderanno il problema lavoro (sempre che se lo possano permettere) frequentando corsi di perfezionamento dove perlopiù si perfezioneranno nella loro prospettiva di disoccupati full-time, o faranno altri lavori che con la musica non c'entrano nulla, o, se desiderano rimanere in qualche modo nell'ambiente musicale, dovranno rassegnarsi ad una gavetta mostruosa, consistente nell'

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accettare qualunque tipo di lavoro disponibile: soprattutto insegnamento (ma non solo del proprio strumento, bensì di qualunque cosa a qualunque livello e a qualunque tipo di studente: dalla propedeutica musicale negli asili nido alla direzione di coro per le università della terza età), ma anche fare il piano-bar, suonare nei nigths o fare musica da ballo ("Orchestra spettacolo La Vera Romagna", tanto per capirci); i pianisti possono fare gli accompagnatori nelle lezioni di danza, organisti, flautisti, violinisti, cantanti suoneranno ai matrimoni; chi ha talento per questo genere di cose potrà fare l'arrangiatore ecc. ecc. Navigare in questo variopinto mondo del precariato presenta però alcuni problemi: innanzitutto manca del tutto la preparazione necessaria: Domande ricorrenti in alcune situazioni tipiche: Ok, io so suonare un po' la chitarra: ma da che parte si comincia per insegnare ad un altro a suonare? Cazzo, adesso che ci penso: nessuno si è mai preoccupato di farmi sapere qualcosa in merito! Bambini dai 5 ai 12 anni: dove sono le istruzioni per l'uso? E soprattutto: come si spengono? Come si fa ad accompagnare un cantante che canta a orecchio e non ha nemmeno uno straccio di spartito da farmi leggere? Come faccio a suonare quattro ore consecutive in un'orchestra spettacolo che non si ferma mai? Leggo tutto? (roba da emicrania cronica; e quando spengono tutte le luci in sala? Che c... leggo al buoi?) Vado a orecchio? (e come si fa? Mai suonato Mozart a orecchio, io!) Piano bar: sono le ore 01.45 e un distinto signore decisamente ubriaco insiste perché gli suoni una canzone della quale: 1) non ricorda il titolo 2) non ricorda l'autore 3) non riesce a citare neppure un verso intelligibile ma soprattutto 4) continua a cantarmi (ovviamente è stonato come una campana) in un orecchio quello che lui sostiene sia il refrain mentre io sto suonando un'altra cosa!. Cosa si fa in questi casi? E' lecito il ricorso alla violenza? Oltre ai danni che fa e che subisce chi si trova in queste situazioni senza nessuna preparazione (e cioè praticamente tutti: come ci si prepara a questi lavori, che oltretutto sono diversissimi tra loro e spesso precari, e quindi ti capitano tra capo e collo senza preavviso?), c'è anche da dire che poche sono le persone dotate del senso dell'umorismo necessario a uscire indenni da queste esperienze. Perlopiù si esce da queste cose con la netta sensazione di essere degli imbecilli incapaci (il che non è vero: si è soltanto degli sprovveduti totalmente inesperti) oppure si rifiutano in blocco: che cazzo, io sono un pianista, mica un _____________ (inserire il termine appropriato alla circostanza scegliendo tra: maestra d'asilo, assistente sociale, animatore da villaggio turistico, musicista di strada, saltimbanco, pezza da piedi, guitto da avanspettacolo, altro a scelta). L'unica svolta possibile, per come la vedo io, è quella di scegliere qualcuna di queste attività, tutte per altro degne di rispetto se svolte con coscienza, e di approfondirne pian piano le tematiche, senza pretendere troppo da sé stessi, e cercare più occasioni possibili di lavoro in quel settore, preparandosi, come già detto, a una gavetta mostruosa. Occasionalmente poi capiterà anche di fare il lavoro per cui si è studiato, e cioè suonare il proprio strumento ricevendo un cachet adeguato, ma non c'è da contarci troppo. Quasi tutti i musicisti che conosco (e non crediate che siano tutti scarsi come me: alcuni sono realmente bravissimi) campano di insegnamento e/o altro, e suonano perché amano suonare, percependo compensi decisamente

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inadeguati, a volte al limite del ridicolo. Purtroppo la realtà attuale non offre molto di più. Fondamentale non lasciarsi abbattere dalla situazione e superare un altro grave ostacolo: il complesso del grande artista mancato ("O sono come Pollini o sono una merda" e tertium non datur, come direbbe quel pirla di Aristotele). Ovviamente, questo ulteriore handicap è di tipo mentale non nasce dal nulla, ma è perlopiù frutto di quel percorso educativo di cui sopra, che di per sé sarebbe anche rispettabile, ma che ha sbagliato completamente mira. Fin qui abbiamo visto i disastri che un certo tipo di scelta didattica provocano a coloro che scelgono di abbracciare la musica come mestiere. Ma non basta: assurdità ulteriore è che il modello educativo della Formazione del Grande Interprete Virtuoso e Cazzuto viene spesso esteso anche a chi nel far musica non uscirà mai da un ambito amatoriale. Quali sono i motivi di questa scelta? : non sarà che l'insegnante tende a replicare indiscriminatamente sé stesso, e lui magari è realmente un vero virtuoso, o vorrebbe (ahia!) esserlo?. Ovviamente, se parlate con gli insegnanti vi diranno che non è vero niente, 'sto fatto non esiste, che sanno benissimo che gli allievi sono tutti diversi tra loro e che solo a pochi si addice una carriera nel campo musicale, ecc. ecc. . Ma sotto sotto, l'idea di avere tra i nostri allievi il Paganini del futuro ci intriga un po' tutti, per molte ragioni: perché se è bravo, l'allievo farà la reputazione del maestro, per prendersi una rivincita dalla vita, (come i padri che pensano che i figli debbano avere tutto ciò che a loro è mancato. Vedi sotto la noticina malvagia), oppure anche credendo in buona fede di fare il bene dell'allievo, salvo il fatto però di essersi magari sbagliati completamente nel valutarlo. Una spia di ciò è l'atteggiamento di sufficienza che gli insegnanti assumono spesso nei confronti degli allievi meno dotati o meno motivati allo studio della musica, come se fossero delusi da queste persone che si rifiutano di conformarsi al modello proposto. E se fosse il modello ad essere sbagliato? E se anche l'idea di proporre un modello fosse sbagliata? Di musicisti formati in modo stupidamente tradizionale ne abbiamo già più di quanti ne occorrano, e questo è un dato di fatto. Allora non si potrebbe provare a lasciar vivere gli allievi e vedere cosa ne viene fuori? Magari esce anche della buona musica.

Noticina esplicativa Intendiamoci: non è che io pensi che da un certo punto in poi la comunicazione tra artista e pubblico sia del tutto scomparsa, anche perché è comunque rimasta una certa parte di pubblico capace di ascolto competente e realmente partecipativo (cioè dotato di sensibilità e intelligenza musicale; e intendo usare la parola intelligenza col suo significato originale: capacità di capire). Dico solo che chi ha voluto continuare ad esprimersi in modo semplice e diretto anziché stupire con giochi di prestigio o roboanti e tromboneschi istrionismi ha avuto, da un certo momento in poi, sempre maggiori difficoltà. E non sto parlando tanto di repertorio quanto di atteggiamento espressivo (voglio dire che è possibile suonare anche un capriccio di Paganini con espressione e semplicità, o viceversa eseguire anche Mozart in modo stupidamente pomposo. Il problema che mi pongo è un altro: chi riuscirà meglio a sopravvivere? Il violinista semplice e sincero o il direttore d'orchestra artefatto ed asservito al pubblico ed al mercato?)

Noticina malvagia A tal proposito: ai genitori che insistono a mandare i loro riluttantissimi figli a lezione col solo motivo che a loro sarebbe tanto piaciuto suonare uno strumento ma non hanno mai potuto, vorrei dire: ma perché non ci andate voi a lezione, invece di scassare gli impuberi maroni della vostra prole?

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Aspettative e progetti

Zoltan Kodaly sosteneva che l'esperienza musicale, e quindi anche l'educazione musicale, hanno inizio nove mesi prima della nascita.

Esperienze recenti hanno dimostrato che i neonati riconoscono suoni e musiche ascoltate durante la vita intrauterina.

Generalmente lo studio di uno strumento musicale non inizia prima del quinto anno di vita, ma molto spesso viene rimandato perlomeno ai sette-otto anni, ma spesso oltre. Conosco anche insegnanti che non accettano allievi più piccoli di questa età perché ritengono improduttivo iniziare troppo precocemente.

In ogni caso le prime esperienze scolastiche di attività musicale avvengono (ma non sempre) verso i 4 anni, quando non siano rimandate all'inizio della Scuola Elementare (6 o 7 anni).

Da quanto sopra emerge chiaramente che c'è un periodo assai lungo che va dal concepimento al terzo-quarto anno di età durante il quale la formazione musicale del bambino è assolutamente lasciata al caso. Inoltre questo periodo si prolunga, nella maggior parte dei casi fino al sesto anno di età e in una buona percentuale va anche oltre.Durante questi anni la possibilità che l'individuo possa avere esperienze di ascolto, manipolazione del suono e possa vivere l'esperienza sonora in un contesto affettivo adatto dipende essenzialmente dal caso. Tipicamente i figli di musicisti, che ascoltano e vivono la musica fin da piccoli, si dimostrano decisamente più dotati dei loro coetanei. Io non credo che abbiano ereditato dai genitori un patrimonio genetico più musicale: è più plausibile pensare che abbiano vissuto un'esperienza musicale precoce che agli altri è mancata.In conseguenza di ciò è inevitabile che tra coloro che desiderino imparare a suonare uno strumento musicale ci siano grandissime disparità, relativamente alle abilità necessarie (capacità di ascolto, concentrazione, abilità ritmica e motoria ecc. ecc.). Mi rendo conto che questo fatto sia assai imbarazzante in un paese che si professa civile e democratico, ma le cose stanno così.All'età di sei-sette anni gli handicap in questione sono ancora in parte recuperabili (fino a che punto non saprei dire esattamente), ma più si procede con l'età più diventa difficile metterci una pezza. Il vero guaio è che, mentre le condizioni degli individui sono assai diverse, le loro aspettative puntano in genere tutte (con vero spirito democratico) al massimo: il genitore medio, che non si è mai sognato di portare il figlio di dieci anni almeno una volta a un concerto, che ascolta raramente musica, non canta e non invoglia il figlio a cantare, un bel giorno, magari dopo aver sentito suonare il figlio dei vicini di casa, si presenta ad una scuola di musica e si aspetta ( siccome paga! ) che qualcuno trasformi il suo figliolo nel Paganini del 2000. Se la cosa non si realizza in breve tempo, è evidente

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che il ragazzo "non è portato per la musica". Questo è forse il caso limite, ma non è sicuramente il più tragico: in breve il ragazzino abbandonerà lo strumento e amen: milioni di persone vivono felici senza musica: persino i sordi trovano a volte la strada della felicità.I veri guai toccano invece a quelle persone che hanno doti musicali medie, con le quali potrebbero benissimo convivere felicemente, e si aspettano invece di conseguire gli stessi risultati dei loro compagni di corso ai quali la sorte ha dato la possibilità di un migliore sviluppo musicale in età precoce. Costoro in genere iniziano un'affannosa rincorsa: se Tizio suona già i pezzi in programma per il terzo anno, perché io devo essere ancora fermo al secondo? Eccetera, eccetera, magari per una vita.E il guaio ulteriore è che a volte la rincorsa riesce! E' in realtà possibilissimo che un individuo meno dotato raggiunga gli stessi traguardi scolastici e professionali di un piccolo genio, ma in che modo? Il prezzo in realtà è molto salato: il distacco dalla dimensione gioiosa e ludica della musica e quindi, la perdita del vero contatto con essa. Fino a non capire più bene cosa si stia facendo. Non è raro il caso di persone che, dopo essere arrivate a traguardi impegnativi nello studio musicale (magari il compimento inferiore o medio, a volte addirittura il diploma) non hanno più toccato lo strumento per anni! O di professionisti in carriera colti da improvvise crisi di depressione. Sono disastri inevitabili in musica quando si anteponga la volontà al desiderio.Si creano spesso situazioni che portano a questo: quando l'allievo è bravino, succede spesso (per vari motivi) che gli insegnanti e i genitori si lascino tentare a spingerlo oltre le sue possibilità del momento, per cercare di seguire un percorso già programmato negli anni, scandito da esami e concorsi. Finché la cosa procede tranquillamente, non c'è niente di male: se un allievo ha facilità nel suonare e può mettere insieme un buon programma d'esame divertendosi, sarebbe anche stupido non approfittare della circostanza. Ma quando la faccenda comincia a trasudare angosce, allora è sicuramente il caso di tirare i remi in barca. Non ci si dovrebbe mai mettere nella situazione di dover scegliere tra viver bene la musica o riuscire a fare un esame, o vincere un concorso o anche, più semplicemente, far contenti insegnante e genitori. Detto così sembra facile, e a parole siamo probabilmente tutti d'accordo ma in pratica si verificano spesso delle situazioni che ci portano quasi insensibilmente verso questo genere di problemi. In particolare l'insegnante si trova spesso nella condizione di dover decidere se spingere o frenare l'allievo. Purtroppo non è facile decidere, anche perché l'insegnante è inevitabilmente coinvolto anche a livello emotivo. E non basta una vita per farsi un'esperienza tanto solida da essere sicuri di aver tenuto una condotta appropriata alla situazione.In realtà una soluzione ci sarebbe anche: e se lasciassimo perdere esami, concorsi, punteggi e tutte queste str ... anezze? Io ho sempre un po' di timore ne tirare fuori questo tipo di argomentazione: mi sembra già di sentire la vocina di qualche stronzetto/a amante dell'essere inconfutabile che dice: "Eh già, col tuo mediocrissimo curriculum, che altro vorresti proporre? A te andrebbe benissimo se non ci fossero i concorsi: non ne hai mai vinto uno!" (verissimo! Però va anche detto che non ho mai nemmeno partecipato) e in effetti, che potrei ribattere? Preferisco allora citare le parole di un musicista che non può essere certo tacciato di mediocrità. Ecco un frammento di un'intervista rilasciata da Pepe Romero nel 1993:

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D: "La nuova generazione di chitarristi è passata attraverso le dure selezioni dei concorsi internazionali; che cosa pensa di questo tipo di promozione musicale?"

R: " Credo sia davvero un peccato che i concorsi debbano esistere Sono all'antitesi della musica. La musica non è un giocattolo, ma uno strumento per raggiungere Dio. La musica unisce, i concorsi dividono".

(Intervista pubblicata sul numero 40/41 di Seicorde, luglio-settembre 1993)

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Traumi

Se avete letto il capitolo precedente, avrete già capito cosa c'è scritto in questo.Quando si esce dalla strada del gioco e della espressione per imboccare quella del dovere e della ansia da performance, nel far musica possono succedere due cose: o ci si annoia o ci si fa del male (o tutt'e due).Dipende dal tipo di rapporto affettivo che si è andato instaurando con la musica. Se di essa vi importa poco, nel momento in cui diventerà un dovere e non più un piacere, la abbandonerete e amen, e il danno sarà limitato alla perdita di qualcosa che avrebbe potuto diventare importante ma che non conoscete troppo bene. Come quando non si rivede più una persona simpatica, ma che non ci sia particolarmente intima.Se invece il rapporto con la musica è profondo, nel momento in cui qualcuno ci forza ad andare oltre le nostre possibilità, nel modo descritto nel capitolo precedente, i guai diventano un bel po' più seri.Si cominciano ad accumulare esperienze negative (chi ha assistito a qualche saggio di scuola di musica sa bene a cosa alludo: allievi in preda al panico che sfornano esecuzioni insipide senza capire nemmeno bene cosa sono lì a fare; o esami di strumento affrontati con la sola forza della disperazione) .Queste esperienze sono particolarmente dannose per il fatto che generalmente chi le subisce non capisce cosa sta succedendo, e finisce per addossarsi la colpa dei suoi insuccessi e della sua sofferenza anche quando (quasi sempre) in realtà è il suo insegnante ad aver sbagliato.Il vero guaio è che, quando il rapporto con la musica è importante e profondo, questo tipo di trauma colpisce a fondo tutta la persona. Da lì insicurezze e tensioni, senso di inferiorità eccetera eccetera, che finiscono per danneggiare la persona in tutte le sue attività, anche al di fuori del far musica.Come se ne esce? Con difficoltà: ne ho già scritto in precedenza.Che altro dire? Forse solo questo: è più semplice cercare di evitare questo tipo di traumi che risolvere i problemi che essi creano.

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Espressione e creatività

Si mette spesso l'accento, nella didattica moderna, sul termine “creatività”. Pare che il discente (che schifo di parola!) debba essere creativo ad ogni costo. Sia pure rincoglionito, ma creativo.Non è che io sia contrario alla creatività, ma credo sia necessario chiarire alcune cose.Innanzitutto, per quel che ne so io, dosi massicce di creatività non sono una necessità dell'uomo in quanto individuo, mentre lo sono dell'uomo in quanto specie.L'espressione di sé è invece assolutamente necessaria a qualunque essere umano.Questo è evidentissimo tra i musicisti: ci sono grandissimi esecutori che non hanno praticamente mai composto nulla, ed hanno per tutta la vita suonato musiche composte da altri, raggiungendo però un altissimo grado di espressività.Questo significa che è spessissimo possibile (sempre no, ma spessissimo sì) esprimere se stessi riconoscendosi in forme escogitate da altri, senza creare nulla di nuovo.Succede però, col passare del tempo e col mutare delle condizioni ambientali, che gli individui fatichino sempre di più a riconoscersi nelle forme musicali fissate dai compositori del passato, ed è qui che intervengono creativamente i compositori.Non è che i compositori siano una casta esoterica di mistici specializzati : chiunque può imparare a scrivere musica. In realtà però si dedicano a questa attività solo quelli che ne avvertono la necessità personale e il fatto è che sono oggettivamente pochi (quelli bravi poi sono ancora meno). Generalmente i compositori forniscono nuove opere, più adatte allo spirito del tempo, e i musicisti spessissimo ci si ritrovano così bene che non ritengono necessario comporre da sé la propria musica, anzi riconoscono spesso che il compositore ha soddisfatto proprio alcune delle loro esigenze meglio di quanto essi stessi avrebbero saputo fare (il fatto che magari il compositore sia morto da qualche centinaio di anni non cambia nulla : a volte un genio di duecento anni fa riesce a esserci più utile di tanti pirlotti contemporanei).Dal punto di vista della specie umana, l'opera dei compositori è assolutamente indispensabile, perché fornisce i giusti mezzi per l'autoespressione di molti, che forse non sarebbero in grado di comporre da sé cose altrettanto valide, e/o che trovano più conveniente utilizzare queste forme di espressione, trovandole perfettamente adatte a sé stessi.Credo che la creatività stessa dei compositori sia anche espressione di una mancanza, la spinta a colmare una lacuna nel pensiero della specie umana in un particolare momento storico.Ora, come si può facilmente notare, gli individui che scelgono la strada della creatività di alto livello (di alto livello non in senso di alta qualità, ma perché secondo me la creatività può intervenire a livelli diversi, chiarirò meglio in seguito) sono molto pochi.

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Ciònondimeno, è giusto che tutti i bambini e i ragazzi ne facciano esperienza, e ne conoscano le tecniche: sissignore, esistono delle tecniche in grado di produrre nuove opere d'arte, e chiunque le può apprendere. Ma è soprattutto utile che chi studia acquisisca una mentalità creativa, spregiudicata ed indipendente: solo chi non accetta a priori le idee contenute nella musica scritta da altri ne potrà poi valutare e apprezzare ( quando è il caso) la grandezza .Come ogni bravo scolaro, il musicista deve imparare a leggere e a scrivere.Non tutti quelli che hanno letto Manzoni ovviamente sono diventati romanzieri, ma chi ha provato a scrivere un semplice raccontino capisce molto meglio la differenza che c'è tra Manzoni e, poniamo, la prosa del tigì. Chiunque, se vuole, può imparare a comporre una canzone o fuga o una sinfonia: basta impadronirsi del linguaggio e applicare alcune regole che di per sé generano la composizione: pensate che Mozart (almeno, mi sembra fosse Mozart: dovrei controllare) compilò una tabella mediante la quale, assemblando in modo diverso gli elementi melodici proposti, si potevano generare non so più quanti valzer: non più difficile di uno schema di parole incrociate.Persino programmando opportunamente un computer si può creare nuova musica.I dadaisti non erano poi così scemi quando proponevano procedimenti di scrittura come questo:

Prendete un giornale.Prendete le forbici.Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderateper la vostra poesia.Ritagliate l'articolo.Ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che compongonol'articolo e mettetele in un sacco.Agitate delicatamente.Tirate poi fuori un ritaglio dopo l'altro disponendoli nell'ordinein cui sono usciti dal sacco.Copiate scrupolosamente.La poesia vi somiglierà.Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, benché incompresa dal volgo.

(Triatan Tzara - Per fare una poesia dadaistada Litterature, n. 15, luglio-agosto 1920)

Lo stesso giochino si potrebbe fare con le note al posto delle parole. La cosa buffa è che il risultato sonoro, in mano a un buon interprete, potrebbe anche essere eccellente.Ma allora perché non siamo tutti come Beethoven? Secondo me, la forza dei grandi compositori è la loro capacità di gestire il processo creativo ad un livello tale da poterlo indirizzare in direzioni ben precise, escogitando anche, se necessario (e queste nuove necessità da dove vengono? Non tutti i compositori lo fanno: perché?) nuove regole compositive e nuovi linguaggi.Ma il punto cruciale è che Mozart, Bach, Beethoven e tutti gli altri grandi che hanno cambiato il modo di far musica rispetto alla tradizione dei loro tempi, non

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lo hanno fatto per il gusto di stupire, ma perché ne sentivano la necessità.Hanno cambiato le regole del gioco musicale per adattarlo alle necessità pratiche e spirituali del momento. Questo implica una comprensione profonda (non necessariamente esplicitata a sé stessi in modo perfettamente razionale) dello sviluppo del pensiero umano fino al momento del loro presente e la capacità di estrapolarne il futuro.Questo non è da tutti: tutti possiamo fare il giochino dadaista delle forbici e del giornale, ma è evidente che l'essenza della creatività di alto livello non è questa.

Macro-creatività, micro-creatività e ri-creazione Vorrei chiarire che non credo che la semplice esecuzione musicale sia un processo completamente staccato dall'aspetto creativo: la creatività di cui abbiamo parlato sopra agisce a livello macroscopico, cioè interessa strutture formali piuttosto grandi: c'è poi la micro-creatività, più legata alla pratica esecutiva, ed esistono molti livelli intermedi.Il musicista di jazz improvvisa e qualcosa del genere facevano anche i musicisti del rinascimento e del barocco: in questi casi l'esecutore non gestisce la struttura complessiva del brano, ma ne crea le frasi e i periodi seguendo tracce ritmico-armoniche: è evidente che si tratta (nei casi migliori) di interventi altamente creativi che operano però a un livello formale più basso di quelli attuati dal compositore.Il musicista di musica classica suona (in genere) tutte le note esattamente come sono scritte: tuttavia ci sono ancora molte cose che deve gestire autonomamente perché non sono annotate in partitura o lo sono solo in modo approssimativo (per esempio l'esatta velocità del ritmo, l'esatta intensità della dinamica, il timbro, importanti elementi del fraseggio ecc.). Anche qui sono necessari interventi personali e creativi, che interessano però solo un livello formale ancora più basso.Anche chi esegue una partitura estremamente precisa e dettagliata deve comunque fornire una personale materialità del suono. Più scendiamo nel livello formale, più distinguere tra creatività ed autoespressione è veramente difficile: siccome infatti non esistono due esseri umani identici, è evidente che chi suona porta comunque un suo personale contributo che rende l'esecuzione unica, ed questo non può che essere un contributo creativo ed espressivo insieme : esiste un livello materico di produzione sonora nel quale io non posso avvalermi di insegnamenti ed esperienze altrui, perché non mi si adattano: io non posso fisicamente suonare come uno che sia più grasso o più magro o più alto o più basso di me, e nemmeno come uno più o meno emotivo o intelligente, o più vecchio o più giovane, o con un altro percorso esperienziale: devo pertanto inventarmi il mio modo di suonare: se cerco di seguire quello di un altro non avrò mai risultati veramente buoni (anche se, se sono furbo, cercherò di arraffare idee a destra e a sinistra: ma dovrò poi sempre sperimentarle e adattarle a me) e questa sarà comunque una attività creativa ed espressiva insieme. E' attraverso questa attività di espressione creativa (o, se preferite, creazione espressiva, per me fa lo stesso) che la musica viene continuamente ri-creata dall'esecutore. Voglio sottolineare che questo genere di autoespressione creativa è un bel po' più

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laborioso da praticare e da insegnare di quanto non sia il giochino dadaista del giornale, al quale ho spesso la sensazione che si preferisca, per molti motivi, fermarsi nella didattica. Se però si vuole fare qualcosa di veramente utile per l'allievo è assolutamente necessario insegnare a mettere la creatività al servizio dell'espressione.

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Narcisismo ed autoaffermazione

Come il colesterolo: se ce n'è in giro troppo blocca la circolazione del sangue. Se il desiderio di affermare sé stessi (perché ovviamente ci si trova fichissimi) prevale, finisce per falsificare e/o bloccare l'espressione diretta di sé, che dovrebbe costituire l'essenza stessa del far musica.Attenzione: non è che si faccia musica meglio se si ha una cattiva immagine di sé o l'autostima in ribasso (anche se questa sindrome è stranamente comune a molti musicisti, tra i quali, ahimè, devo annoverare anche il sottoscritto) .Semplicemente, quando si fa musica, non bisognerebbe proprio pensare a sé stessi. Mi spiegherò meglio più avanti, ma per ora voglio sottolineare come questi atteggiamenti allontanino da sé stessi e col tempo portino, nonostante le apparenze sembrino mostrare un perfetto benessere da asino idiota, a gravi infarti dell'anima.Anche questo è un argomento sul quale non amo dilungarmi: chi ha capito non ha bisogno di altre spiegazioni, e chi non crede a quel che ho scritto non potrà certo essere convinto a parole.

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La rimozione della vita attraverso la rimozione della morte

In Italia per trecento anni sotto i Borgia ci sono stati guerra, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, avevano cinquecento anni di pace e democrazia. E cosa hanno prodotto? L'orologio a cucù. Orson Welles Gli svizzeri, dopo aver inventato l'orologio a cucu', si sono presi tre secoli di riposo. Gérard de Villiers

Perché moltissimi grandi musicisti sono ebrei, zingari, o provengono dal terzo mondo? Perché sono così pochi gli svizzeri? (svizzeri svizzeri, non cittadini naturalizzati). Perché i poveri del terzo mondo, che vivono nella miseria più assoluta, ti salutano sorridendo e noi europei, che abbiamo tutto siamo sempre o incazzati o depressi? Ho visto un documentario (sulla tivù svizzera, pensa un po’) che mostrava la vita di un gruppetto di niňos de rua (che sarebbero quei bambini brasiliani di cui nessuno si occupa e che vivono per strada): bene, questi cantavano, e cantavano bene, e non andavano di sicuro né al conservatorio né al CSM (forse qualcuno di loro un giorno ci andrà a insegnare, se non lo ammazzano prima). Perché da noi non si canta quasi più nella vita di tutti i giorni, sul lavoro, per strada?Perché le nostre famiglie si sono ristrette, le nostre case sono diventate piccole e ben separate tra loro? Perché gli anziani non vivono più con noi? Perché la gente sente il bisogno di andare a fare a botte allo stadio? Perché ci sono così tanti drogati (lo so, tossicodipendenti fa più fine) e il record del tasso dei suicidi è detenuto dai paesi più ricchi?Insomma, come mai il benessere economico ci ha portato così tanto malessere spirituale?Naturalmente io non mi sento in grado di rispondere compiutamente a queste domande, e posso soltanto esprimere una mia opinione, ma qualche cosa occorrerà dire perché queste problematiche non si possono ignorare in quanto, oltre alla loro importanza intrinseca sono profondamente attinenti alla musica.Cominciamo dalla Svizzera. Vorrei chiarire innanzitutto che la Svizzera della quale parlerò è più un paese-archetipo che un luogo reale: so benissimo che le generalizzazioni che farò in seguito sono rozze ed approssimative, ma mi interessa di più lanciare la discussione su alcune dinamiche psicosociali che rubare il lavoro agli storici. Parlerò quindi di questa mitica Svizzera, anche se molte delle considerazioni che seguono si adattano a tutti i paesi industrializzati. La Confederazione Elvetica ha storicamente scelto una strada di pace e neutralità che per alcuni versi le fa onore. Ma come ha iniziato? Nel tardo medioevo e nel primo rinascimento, l’Europa è perennemente in guerra. Cosa fanno gli Svizzeri?

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Bene - si dicono - visto che siamo in ballo, balliamo, ma evitiamo di fare guerra in casa nostra, piuttosto forniamo mercenari al miglior offerente e teniamo tutti i casini fuori. In seguito, pensano bene di diventare il salvadanaio del mondo, così nessuno andrà a dar loro fastidio (è ovvio, se i soldi di tutti sono nello stesso posto, chi cerca di fregarseli sarà fermato dagli altri che sicuramente si alleeranno per impedirlo: così nessuno nemmeno ci prova ).Nel frattempo scoprono l’orologeria, e questo crea in loro una certa forma mentis che applicano con grande efficacia al buon funzionamento della società e delle istituzioni. Inoltre salvaguardano la mentalità del paesano, che condivide con gli altri le scelte della gestione dei beni comuni, ed è così che vivono la politica. Una bellezza, se non fosse che tutto ciò discende da un peccato originale, che è, a mio parere, questo: tutto ciò che è disordine, sofferenza, morte (la guerra, le malattie incurabili, l’anarchia dei sentimenti) viene rimosso : fuori dai confini del paese (che siano gli altri ad ammazzarsi fra di loro) le malattie rinchiuse nelle migliori cliniche del mondo (dove le visite dei parenti durano esattamente quanto stabilito dal medico e dove la sofferenza viene il più possibile ridotta, e ciò è bene, ma anche il più possibile nascosta). Questa rimozione della sofferenza ma soprattutto del disordine diventa una mentalità che si fonda sulla rimozione delle emozioni.Ora, la riduzione di un certo tipo di dolore è sicuramente positiva: personalmente, sono felicissimo che andare dal dentista oggi non sia più una faccenda così dolorosa come nel secolo scorso. Non è neppure un male che esistano farmaci in grado di evitarci di passare gli ultimi momenti della nostra vita soffrendo come cani. Ma è giusto cercare di ridurre la sofferenza legata a un lutto, o a un abbandono, o semplicemente alla consapevolezza di fatti spiacevoli? Insomma è giusto ridurre la percezione di quello che Montale ha chiamato il male di vivere? Questo però è quanto viene fatto quotidianamente (e mica solo dagli svizzeri, ma in genere nei paesi industrializzati), sostanzialmente in due modi.Spesso si va per via farmacologica, magari sotto controllo (o meglio: con la complicità del) medico (signora, non riesce a dormire? Ecco qua, prenda una compressa di queste la sera. Crisi di angoscia, depressione? Non si preoccupi, non è niente: dieci gocce di questo in un bicchier d’acqua e vedrà che le passa), oppure anche col fai da te, che poi comporta abuso di farmaci, oppure etilismo e tossicodipendenze varie.L’altra strada della riduzione della sofferenza è l’educazione alla repressione e quindi alla rimozione di sentimenti ed emozioni. Qui forse sono gli uomini ad essere più colpiti delle donne (però le cose stanno un po’ cambiando, per fortuna) perché vengono educati precocemente in questo senso (il vero uomo non piange!).A una certa età, quasi tutti cominciamo a pensare, quando ci accade qualcosa di spiacevole, che comunque non sia un fatto importante, che non ci ha poi fatto così tanto male, anzi forse questa cosa non è mai esistita nella realtà e che in ogni caso prima ce ne scordiamo e meglio sarà, perché questo ci consentirà di essere più efficienti nelle nostre attività. In altre parole, veniamo educati, e ci autoeduchiamo a far prevalere la mente razionale sulla mente emozionale (mi scuso per la rozzezza del mio linguaggio in campo psicologico: non sono del mestiere) completamente a spese della seconda, senza cercare un’integrazione tra le due. (Questa seconda tendenza oggi forse è un po’ in calo, ma la mia sensazione è che sia stata soltanto sostituita dalla soluzione farmacologica di cui sopra).

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Questo ci può portare, in alcune attività, ad una maggiore efficienza, ma il prezzo da pagare è però alquanto salato: noi possiamo "programmarci" ad ignorare quello che proviene dai centri cerebrali legati alle emozioni, ma non ci riesce altrettanto bene di farlo in modo selettivo. In altre parole: quanto più ci abituiamo ad ignorare il dolore (fino ai più piccoli dispiaceri) tanto più chiudiamo la strada alla gioia. Giunti a questo punto, ci accorgiamo che dalla vita non sembra arrivare più nulla di piacevole, o che comunque per provare piacere abbiamo bisogno di stimoli sempre maggiori e, ahinoi, i grandi stimoli dell’esistenza provengono spesso dagli azzardi ed eventi emozionalmente ambigui: se ci innamoriamo ce ne può venire una grande gioia, ma anche un grande dolore: possiamo essere respinti o abbandonati; finiremo comunque per separarci dalle persone che amiamo: se non ci abbandonano, comunque moriranno, o moriremo noi. Se mettiamo in cantiere un progetto che ci sta veramente a cuore, la sua riuscita sarà una grande gioia, ma sappiamo che potrà anche fallire indipendentemente dalla nostra volontà, o perché non siamo stati abbastanza abili, o magari solo per sfortuna. Allora, siccome andare verso l’ignoto ci fa troppa paura (e questo accade perché è il dolore che temiamo troppo) non troviamo di meglio che cercare dei "surrogati esistenziali garantiti a basso contenuto di dolore" (dai quali finiremo per diventare dipendenti e che ci stimoleranno sempre meno) in grado procurarci dell’euforia; e se non ci riusciamo cadiamo nella depressione , e la nostra vita diventa un’altalena tra questi due stati, più o meno aiutata e bilanciata dall’uso di farmaci più o meno appropriati .Questi "surrogati esistenziali" naturalmente non sono solo le droghe. C’è la tivù, e in genere ciò che oggi si chiama fiction, che smercia grandi emozioni a basso costo, avremo probabilmente in futuro sistemi di realtà virtuale a prezzi popolari.Poi si può fare sesso senza innamorarsi sia ricorrendo all’opera di oneste/i professioniste/i che semplicemente barattando il proprio piacere con l’altrui. Si possono fare viaggi "emozionanti", impensabili dai nostri nonni, anche questi garantiti senza pericoli reali, ci si può "innamorare" di qualcosa che non ci respingerà, e cioè un oggetto: un’automobile, o una casa, o una barca a vela o qualsiasi altra cosa che ci possa sedurre (a sedurci naturalmente non è l’oggetto in sé, ma l’opera di altri "onesti professionisti": i pubblicitari).Le droghe e tutte queste altre cose hanno qualcosa in comune: si possono comprare. Questo è il grande equivoco: siccome negli ultimi tempi scienza e tecnica sono andati alla grande, risolvendoci un mucchio di problemi di ordine materiale migliorandoci notevolmente l’esistenza, abbiamo cominciato a pensare (tutto da soli? O ci ha aiutato qualcuno? E chi?) che siccome possiamo comprare un paio di scarpe, un televisore o perfino un’automobile (oggetto di grande libidine!) allora possiamo comprarci anche un pezzo di felicità (per comprare una grande felicità naturalmente ci vogliono tanti soldi, ed è per questo che noi, che ne abbiamo pochi (colpa del governo, troppe tasse) siamo sempre incazzati: fila il ragionamento, no?(lo so, lo so, ho messo due parentesi una dentro l'altra. E allora?)).Eccoci allora sofferenti di una specie di paralisi dell’anima, malattia endemica nei paesi industrializzati. Niente dolore, niente gioia, niente morte ma anche, soprattutto, niente vita: un’anestesia tra la culla e la bara. Poca anima, poca musica. Ecco il problema degli svizzeri.Viceversa gli Ebrei o gli Zingari, che non hanno mai voluto rinnegare e

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dimenticare le sofferenze del loro popolo, hanno dato al mondo grandi musicisti e grandi artisti.Così è anche per i popoli del terzo mondo, che oggi sono i veri poveri, dove dolore e sofferenza sono sotto gli occhi di tutti, e nessuno può vivere ignorandoli. A loro si adatta quello che ha scritto da qualche parte disse Bukowskj: "Solo i poveri conoscono il senso della vita: i ricchi possono solo tirare ad indovinare" (o forse era Hemingway? Non so perché ma ogni tanto quei due li confondo. Comunque appena recupero la citazione esatta ve la schiaffo qua. A proposito: se vi interessa leggere qualcosa vagamente in argomento, guardate che il buon Ernst non ha scritto solo Il vecchio e il mare, ma anche Avere e non avere) . Se suonare uno strumento vuol dire cavare un canto dalla propria anima, allora vuol dire anche muovere sentimenti dentro di noi. Può essere anche doloroso, e può essere che non sempre lo vogliamo fare, come fa un cavallo che in una gara di salto a volte rifiuta l’ostacolo. Ma ne abbiamo bisogno, perché suonare è un modo per vivere e condividere i nostri sentimenti. Se non fosse per questo bisogno non ci saremmo mai sobbarcati l’impegno di suonare uno strumento (è un’attività che effettivamente richiede un forte investimento in termini di tempo, impegno e denaro). Questo è quanto ogni musicista prima o poi deve riuscire a dirsi.

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Musicista professionista: ma che vuol dire?

Oddìo, che cosa degradante il sesso a pagamento!Oh si! Ma dove sta la degradazione? Nel sesso o nel pagamento?

Non capisco. Per quanto mi sforzi non riesco a capire cosa significhi "professionista".Provate a pensare a un albero, o a un cane, o a un tricheco. Sarà un albero professionista quello lì? O no? E il tricheco? Sarà un tricheco professionista o dilettante? E tu? Sei un uomo dilettante o un uomo professionista? Ha senso tutto questo discorso? No!Quei musicisti che definiamo "professionisti" di solito sono quelli che hanno scelto di vivere dedicandosi a tempo pieno alla musica, mentre quelli che definiamo "dilettanti" svolgono anche altre attività. Ma questa è l'unica differenza, ed è assolutamente irrilevante. Se ascoltate suonare questi due tipi di persone, non riuscirete a capire dalla loro musica chi siano i professionisti e chi i dilettanti: è possibile che chi si dedica a tempo pieno alla musica sia un po' più bravo (ha più esperienza), ma non è detto. Esistono dilettanti più bravi di molti professionisti. Ma allora dove sta la differenza?L'equivoco nasce dal fatto che, quando si parla di professionismo, si comincia a pensare alla musica come ad una merce, cosa che non è, a al musicista "professionista" come una prostituta, che fa per denaro ciò che si dovrebbe fare per amore. E lo fa anche se non gli piace.Io non ci sto. Non accetto di ragionare su queste cose in termini di denaro! Non c'è nulla di più convenzionale e simbolico del denaro: esso assume né più ne meno che l'importanza che noi collettivamente siamo disposti a dargli. E se noi morti di fame continueremo ad attribuirgli tutto il peso che gli diamo oggi, sarà solo un enorme autogoal!Certo, io ricevo del denaro (sempre troppo poco) quando faccio lezioni e quando suono. Ma non è che chi paga possa comprare la lezione o il concerto. Io accetto i soldi perché devo vivere, non perché penso di aver venduto qualcosa. Mi irrita anche molto l'atteggiamento di chi pensa che le lezioni gli siano dovute per il fatto di aver pagato: io dico sempre agli allievi: tu hai diritto alla lezione se ti stai dando da fare e stai cercando di imparare, e allora hai diritto ad essere aiutato, ma non puoi pensare di aver diritto al mio tempo solo perché paghi! Come si fa a pensare di comprare il tempo di una persona? Quanti soldi vale un minuto? Se invece accettiamo di trattare la musica sia una merce, allora dovremmo accettare anche ciò che ne deriva e cioè:la musica migliore è quella che si vende più facilmente;quindi il livello musicale consigliabile è il più elementare possibile, o comunque va appiattito sulle capacità di ascolto del consumatore che si assume come target (target? Ho scritto proprio target? Oddìo, quando uno comincia a farsi prendere la mano dal marketing comincia anche a parlare imbecillese!);

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il musicista deve cercare di comunicare esattamente ciò che l'ascoltatore desidera sentirsi dire;la personalità e l'anima del musicista sono irrilevanti;non è possibile alcun atto di comunicazione emotiva tra musicista e ascoltatore: il coinvolgimento emotivo che vada al di là del semplice piacere è potenzialmente dannoso al commercio, in quanto può introdurre elementi di dolore e sofferenza che renderebbero il prodotto-musica sgradito ad una larga parte del pubblico dei consumatori.

Dovremmo cioè accettare che la musica non sia più musica. Eppure c'è chi sta al gioco, e motiva la sua posizione parlando di realismo: "Viviamo in un'economia di mercato e non possiamo prescindere da questo dato di realtà. Io sono un professionista e devo stare nel mercato". Ma cos'è il realismo? Possiamo dire che realismo sia il fatto di non perdere il contatto coi dati della realtà confondendoli con i propri desideri e le proprie paure? Benissimo! Sono d'accordo. Ma cosa sono i dati della realtà?Ora io penso che ci sia una bella differenza tra la fisica e l'economia.La fisica è una scienza che ha per oggetto una realtà che non dipende dalla nostra volontà: la struttura della materia resterà sempre quella che è, sia che mi piaccia o che io la detesti.Ma non venitemi a dire che gli indici della borsa (sì, con la b minuscola! Cos'ha fatto fin ora per meritarsi la B maiuscola?) sono determinati da leggi di natura! L'economia applicata è più una superstizione che una scienza! Se smettessimo di crederci smetterebbe di esistere! Se cominciassimo a ragionare pensando alle persone e ai loro bisogni invece che in termini di domanda, offerta e leggi di mercato, cambierebbero un bel po' di cose. In meglio.Ma allora perché invocare a ogni piè sospinto il realismo? A che serve se non per giustificare il fatto di essere, sotto sotto, un po' troie? Ecco! Trovato! Lo sapevo che l'avrei trovato se mi fossi impegnato a fondo! Eccolo, il vero significato della parola "professionista": troia.

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Feeling & emotion

Con i due termini del titolo voglio indicare due importanti atteggiamenti mentali assai rilevanti nell'attività artistica in genere e perciò anche nel far musica.Ho preferito mantenere i termini in inglese perché la loro traduzione (sentimento ed emozione) non corrisponde bene a ciò che voglio indicare. Inoltre la materia è alquanto complessa e delicata, e non sono troppo sicuro di riuscire a districarmene con chiarezza. Perciò, se non ci capirete niente forse non sarà tutta colpa vostra. Cercherò di spiegarmi con un esempio: immaginate che suoni il campanello di casa vostra. Andate ad aprire e davanti a voi sta una persona che conoscete bene da anni e con la quale avete condiviso importanti esperienze. Cosa provate? Ora immaginate invece che, in un'altra occasione, aprendo la porta, vi troviate di fronte ad una persona sconosciuta. Anche in questo caso proverete una qualche forma di emozione, immagino (che ve ne rendiate conto o meno non importa).E' evidente che le due situazioni muovono la vostra mente in modo assai differente. Nel primo caso, alla percezione immediata di chi vi sta davanti si sovrapporranno sentimenti di vario tipo derivanti dalle esperienze legate a questa persona, forse ricordi ed immagini. Addirittura potrebbe succedere che tutti questi elementi si sovrappongano alla reale immagine che state vedendo, distorcendone la percezione, in modo anche rilevante, ed è perfino possibile che voi vediate questa persona assai diversa da quello che è in quel momento (più bella o più brutta, più alta o più bassa, più magra o grassa ecc.) e che interpretiate i suoi gesti e le sue parole in modo diverso da quel che fareste se appartenessero ad un'altra persona. Questo insieme di pensieri si presenta spesso in modo indistinto e tende a restare a metà strada tra l'inconscio e la mente cosciente. Finché se ne sta lì lo chiameremo "emotion".Nel secondo caso viceversa prevale la percezione del momento che vi dà immediatamente delle sensazioni più o meno gradevoli. Naturalmente quasi sempre alle sensazioni seguono immediatamente pensieri, magari non troppo chiari e coscienti, fondati su pregiudizi, che ci portano a comportarci (citrulli che non siamo altro!) come se conoscessimo già un po' la persona in questione. Ma se riusciamo a limitarci alle sensazioni immediate (cosa non sempre facile) possiamo avere un'idea di ciò che vorrei definire "feeling".Queste due categorie naturalmente non si applicano solo alle persone, ma a qualunque oggetto capace di provocarci emotivamente, e perciò anche alla musica. Tutti sappiamo quanto sia diverso ascoltare per la prima volta un brano musicale o riascoltarne uno già noto, ma non è questo che interessa sottolineare qui. Cerchiamo invece di capire qualcosa di più riguardo all'esecutore.Io credo che un'esecuzione musicale difficilmente sarà buona se sarà troppo dominata dall'emotion e non abbastanza aperta al feeling.Penso cioè che il musicista debba far musica nella situazione in cui si trova, e cioè in quel determinato ambiente, che ha una sua particolare acustica (ma

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anche un suo arredamento ed illuminazione e temperatura ed un suo odore!), con quei particolari ascoltatori, e con il se stesso di quel giorno lì. Altrimenti tanto varrebbe ascoltare una registrazione!Questo ha dei risvolti notevoli sul metodo di studio che si adotta. Se quello che cerchiamo è la freschezza del feeling non ha ovviamente senso che lo studio di un brano musicale consista nel fissare una volta per tutte ogni dettaglio di esso.Beninteso è chiaro che se eseguo un brano di musica classica dovrò suonare esattamente le note scritte, aumentare il suono se c'è scritto crescendo, eseguire un allegro più rapidamente di un adagio ecc. ecc., ma tutti sappiamo che esistono innumerevoli modi di eseguire un crescendo e forse quello che va bene suonando per gli amici il lunedì non sarà altrettanto buono per il concerto di martedì e viceversa (e viceversa!). Chi di voi penserebbe di decidere in anticipo fin nei minimi dettagli il modo con il quale bacerà la sua donna (o il suo uomo)? Assurdo no? E' una cosa che si fa, come viene viene e va sempre bene purché sia fatta con naturalezza, seguendo l'emozione del momento. Questo è feeling.Viceversa, decidere in anticipo ogni dettaglio e programmare la seduzione è un po' da troie, se mi passate l'espressione.Ma allora, perché comportarsi in modo così puttanesco con la musica? Le motivazioni possono essere varie: insicurezza, paura, sete di potere (se "sete di potere" vi sembra eccessivo potete leggere "eccessivo desiderio di autoaffermazione". Va meglio così, stiticucci miei?).Messa in questi termini la faccenda sembra assai semplice: chi sa suonare col giusto feeling del momento è un bravo ragazzo e invece chi si è programmato l'esecuzione nei minimi dettagli allo scopo di far bella figura è uno stronzo egocentrico senza cuore (e se ce l'ha ce l'ha di sasso).Le cose sono però alquanto mescolate: chi si è troppo programmato l'esecuzione non lo ha sempre fatto allo stesso modo con il quale si programma un computer, dando cioè delle istruzioni da seguire passo passo, ma lo ha fatto sull'onda di quel minestrone fatto di ricordi, sentimenti ed altro che ho chiamato emotion, e ritiene perciò di suonare con vero sentimento. Quello che però a volte si scambia (e più spesso di quanto non si voglia ammettere) per genuino sentimento altro non è che una specie di crosta "sentimentale" derivata da varie fonti: esecuzioni ascoltate dello stesso brano, suggerimenti di qualche insegnante, il ricordi che associamo a quel brano musicale o a sue particolari esecuzioni ecc. ecc. . Col tempo questa crosta diventa rigida come una glassa e si traduce in indicazioni tanto perentorie quanto inconsapevoli: "qui rallenta come faceva Segovia", "qui rendi il suono un po' aspro, come hai fatto quella volta là, che era venuto così bene", "qui fa' un bel fortissimo, che si senta fino in fondo alla sala (e se stai suonando solo per tre amici a casa tua, chi se ne frega: il brano funziona così e basta)" ma anche: "qui pensa all'allegria di Arlecchino", "qui deve essere triste come quella volta che è morto il gatto" oppure "brillante come un albero di Natale" o "triste come una triste distesa di cenere color grigio topo morto". Naturalmente nessuno pensa coscientemente queste cose mentre sta suonando (almeno spero), ma sotto sotto ... .Siccome poi tutto ciò è stato elaborato (a volte perfino in buonafede) con lo scopo di interpretare le intenzioni emotive di ciò che si sta suonando, chi lo fa pensa di essere lì a suonare col cuore in mano, grande artista e sensibile interprete, senza rendersi conto che sta soltanto eseguendo ciò per cui si è programmato (o per cui

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altri l'hanno programmato: direttori d'orchestra, insegnanti ecc.). Il fatto poi che oltre ai movimenti necessari per suonare abbia programmato anche il colore emotivo dei suoi pensieri non sposta la questione che è la seguente: l'esecuzione musicale deve essere un atto interamente programmato e predefinito? Io penso di no, anzi, la bravura del musicista spesso consiste nella sua capacità di lasciare libertà all'espressione del momento, conservando nello stesso tempo con rispetto l'identità musicale di ciò che sta eseguendo.Credo che suonare debba essere un atto semplice e quotidiano, pervaso sì di sentimento, ma un sentimento dello stesso tipo che il contadino prova mungendo la sua mucca: una cosa buona, semplice e quotidiana, sempre un po' la stessa ma sempre un po' diversa, che tutti possono fare e tutti possono capire.

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La dissoluzione dell'Io

Quello che vorrei dire in questo capitolo è molto semplice se lo si afferra subito. Viceversa è quasi impossibile capire. Perciò non mi dilungherò.Non v'è chi non sappia che l'Io è solo una parte della nostra mente. Bene, la sensazione che ho maturato col tempo è che, nel momento dell'esecuzione musicale, sia anche la più inutile.Intendo cioè dire che nel momento in cui il musicista fa musica, questo accadimento dovrebbe essere un fatto impersonale, quasi indipendente dalla sua volontà.Non ci sono pensieri più dannosi alla esecuzione musicale di quelli che contengono la prima persona singolare. Non appena mi vien fatto di pensare cose come :"Ecco, sto suonando!" oppure "devo suonare più piano", "Devo andare più veloce", "Devo schiarire il suono", ma anche "Perbacco, sto suonando bene!" o "Che schifo che faccio", ecco che la musica comincia a diventare meno buona.Viceversa, se riesco a pensare alla musica che sto suonando come qualcosa che va avanti da sola, si crea quella specie di magia che è una buona esecuzione (buona in quanto poetica; non sarò certo io a considerare buona la mia abilità strumentale). Perché questo accada è un mistero, ma quello che mi appare chiaro è che la volontà dell'Io sia una specie di veleno per l'esecuzione musicale.Non è che nella musica tutto sia istinto: l'analisi, le decisioni da prendere in merito all'interpretazione e alla tecnica sono tutte cose necessarie, ma che devono essere completamente concluse prima che la musica inizi. Quando la musica inizia l'Io deve tirarsi da parte e l'esecutore deve trasformarsi in una specie di animale che produce musica esattamente come un melo produce le mele, e cioè senza una gran coscienza di sé.Anche paura e desiderio sono istanze dell'Io e la musica funziona tanto meglio quanto meno esse sono presenti. Se volete migliorare il vostro modo di suonare, non cercate di togliere di mezzo la vostra paura di sbagliare: togliete il vostro Io di scena e non ci saranno più problemi. Come si fa? Non lo so esattamente, ma so che succede. So anche che a volte non succede. E però so anche una terza cosa: quando succede è meglio. Forse il fatto che succeda o no dipende da come ci si è preparati, argomento che costituisce in definitiva l'oggetto di questo scritto.

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