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Michail Bakunin LA LIBERTÀ DEGLI UGUALI a cura di Giampietro N. Berti elèuthera

Bakunin Liberta Degli Uguali

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Michail Bakunin

LA LIBERTÀ DEGLI UGUALIa cura di Giampietro N. Berti

elèuthera

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© antologico Editrice A coop. sezione ElèutheraCopertina: Gruppo Artigiano Ricerche Visive

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INDICE

Introduzione 7Nota bio-bibliografica 33

I. Dio 39II. Lo Stato 57

III. La libertà 79IV. L’uguaglianza 103V. Scienza e scientismo 133

VI. Socialismo e dittatura 149VII. La rivoluzione sociale 171

VIII. L’Internazionale 201

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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Michail Aleksandrovic Bakunin nasce a Premukhino, presso Tver, nel1814 da genitori appartenenti alla nobiltà russa e di idee liberali. Nel1828 entra nella scuola di artiglieria di San Pietroburgo, ma insofferen-te della vita di guarnigione lascia la carriera militare approdando nel1835 a Mosca dove inizia lo studio della filosofia, specialmente quellatedesca. Attratto da questa passione, nel 1840 si reca a Berlino perapprofondire gli studi. Due anni più tardi aderisce alla sinistra hegelia-na pubblicando un clamoroso saggio, La reazione in Germania, che loobbliga a fuggire in Svizzera. Dal 1844 al 1848 vive soprattutto a Parigidove conosce i maggiori pensatori e rivoluzionari del tempo, daProudhon a Marx. Nello stesso 1848 è tra i promotori del congressoslavo di Praga e l’anno dopo, insieme a Richard Wagner, partecipa atti-vamente all’insurrezione di Dresda. Trasportato nella fortezza di König-stein (Sassonia), dopo parecchi mesi di detenzione preventiva, il 14 gen-naio 1850 viene condannato a morte; in giugno la pena è commutata nelcarcere a vita e, contemporaneamente, il prigioniero è preso in conse-gna dall’Austria. Dapprima è detenuto a Praga e poi (marzo 1851) nellacittadella di Olmütz, dove il 15 maggio 1851 è condannato all’impicca-gione; ma la pena è di nuovo commutata nell’ergastolo. Nelle prigioniaustriache Bakunin è trattato in modo durissimo: ha i ferri ai piedi e allemani e a Olmütz è incatenato alla muraglia per la cintura.

Poco dopo l’Austria lo consegna alla Russia, dove viene rinchiusonella famigerata fortezza di Pietro e Paolo, precisamente nel «rivellinod’Alessio», un cunicolo al cui interno non si può rimanere completa-

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mente eretti. Trasferito nel 1854 a Schlüssebur, tre anni più tardi è esi-liato a vita in Siberia. Nel 1858 sposa una giovane polacca, AntoniaKwiatkowska, e poco dopo, grazie all’intervento del governatore dellaregione, suo parente, si trasferisce a Irkutsk, dove entra al servizio diuna compagnia dell’Amur e, in seguito, di un’impresa mineraria. Nel1861, con il pretesto di un viaggio di affari, fugge a Nikolajevski,imbarcandosi per il Giappone. Da qui raggiunge San Francisco, poiNew York, infine Londra (25 dicembre 1861).

Scoppiata nel 1863 l’insurrezione in Polonia, raggiunge Stoccolmaper tentare di unirsi a una legione russa costituitasi in aiuto ai rivolto-si, ma il progetto non ha seguito. Nella capitale svedese si ricongiungecon la moglie e insieme ritornano a Londra. Dal 1864 al 1867 Bakuninsoggiorna soprattutto in Italia (Firenze e Napoli), anche se continua aviaggiare per l’Europa (visite a Parigi e nuovamente in Svezia).

Stabilitosi in Svizzera alla fine del 1867, l’anno successivo fonda aGinevra l’Alleanza internazionale della democrazia socialista edentra, contemporaneamente, nell’Associazione Internazionale deiLavoratori (Prima Internazionale). Ha inizio da questo momento ilconfronto-scontro con Marx, che riuscirà con inganni a farlo espelleredall’Associazione durante il congresso dell’Aja del 1872.

Nel 1867 e nel 1868 partecipa ai due congressi internazionali dellaLega per la Pace e la Libertà e nel 1869 è presente al quarto congres-so dell’Internazionale svoltosi a Basilea.

Scoppiata nel giugno 1870 la guerra franco-prussiana, si reca insettembre a Lione con la speranza di suscitare una rivoluzione nellecampagne in aiuto a una possibile rivoluzione parigina (cosa cheavverrà nel marzo dell’anno successivo con la Comune).

Dal 1871 al 1872 l’impegno di Bakunin è diretto a costituire un orga-nismo rivoluzionario internazionale, il cui atto di nascita sarà la confe-renza di Saint-Imier nel settembre 1872; conferenza che segna l’inizio«ufficiale» del movimento anarchico internazionale. Nel 1873 partecipaa un tentativo di insurrezione internazionalista in Italia.

In questi stessi anni, e in quelli seguenti, pubblica alcuni scritti fonda-mentali: L’istruzione integrale, Dio e lo Stato, La teologia politica di Maz-zini e l’Internazionale, Lettere ad un francese, Stato e anarchia. Si tratta disaggi decisivi per la storia dell’anarchismo e del movimento operaio esocialista, per cui è stato detto, giustamente, che con Bakunin nasce l’anar-chismo come entità specifica rispetto a ogni altra teoria o movimento.

Muore in un ospedale di Berna il 1° luglio 1876.

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OPERE:

L’Instituut voor Sociale Geschiedenis di Amsterdam ha intrapresoda vari anni la pubblicazione delle opere complete di Bakunin, curateda Arthur Lehning, di cui finora sono usciti i seguenti volumi [traparentesi viene segnalata anche la data delle traduzioni italiane curatedalle Edizioni Anarchismo, Catania]:

Archives Bakounine, I, Michel Bakounine et l’Italie, 1871-1872(deuxième partie), Leiden 1963 [1976].

Archives Bakounine, II, Michel Bakounine et les conflits dansl’Internationale, 1872, Leiden 1965 [1976].

Archives Bakounine, III, Michel Bakounine, Etatisme et anarchie,1873, Leiden 1967 [1977].

Archives Bakounine, IV, Michel Bakounine et ses relations avecSergej Necaev, 1870-1872, Leiden 1971 [1977].

Archives Bakounine, V, Michel Bakounine et ses relations slaves,1870-1875, Leiden 1974 [1977].

Archives Bakounine, VI, Michel Bakounine sur la guerre franco-allemande et la révolution sociale en France, 1870-1871, Leiden 1977[1985].

Archives Bakounine, VII, Michel Bakounine, l’empire knouto-ger-manique et la révolution sociale, 1870-1871, Leiden 1981 [1993].

PRINCIPALI RACCOLTE DI SCRITTI IN LINGUA ITALIANA:

M. Bakunin, La teologia politica di Mazzini e l’Internazionale(1871), Bergamo 1960.

M. Bakunin, Ritratto dell’Italia borghese (1866-1871), Bergamo1961.

M. Bakunin, Scritti napoletani (1865-1867), Bergamo 1963.M. Bakunin, La reazione in Germania, Ivrea 1972.M. Bakunin, Rivolta e libertà, Roma 1973.M. Bakunin, Stato e anarchia e altri scritti, Milano 1968 e successive

edizioni.M. Bakunin, Libertà uguaglianza rivoluzione, Milano 1976 e 1984.M. Bakunin, Organizzazione anarchica e lotta armata (Lettera ad

uno svedese), Ragusa 1978.

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La principale biografia di Bakunin è naturalmente quella di M. Net-tlau, Michael Bakunin. Eine Biographie, London 1896-1900 (litografa-ta in soli 50 esemplari). Cfr. pure J. Steklov, Michail AleksandrovicBakunin. Egho zizn’ i dejatel’nost’ 1814-1876, Moskva-Leningrad1926-1927; H. Iswolsky, La vie de Bakounine, Paris 1930; H.E.Kaminski, Bakunin, Milano 1949; H. Carr, Bakunin, Milano 1977; A.Masters, Bakunin the Father of Anarchism, New York 1974; A.P. Men-del, Michael Bakunin. Roots of Apocalypse, New York 1976.

PER UNA VISIONE D’INSIEME DEL PENSIERO BAKUNINIANO:

G. Maksimov, The Political Philosophy of Bakunin, New York1964; E. Pyziur, The Doctrine of Anarchism of Michael Bakunin, Chi-cago 1968; Bakunin cent’anni dopo, Milano 1977; R.B. Saltman, TheSocial and Political Thought of Michael Bakunin, London 1983; A.Kelly, Mikhail Bakunin. A Study in the Psychology and Politics ofUtopianism, Oxford 1982; P. Marshall, Demanding the Impossible. AHistory of Anarchism, London 1992.

SUL CONCETTO DI LIBERTÀ:

H. Temkinowa, Bakunin i antynomie wolnosci, Warszawa 1964;G.D. Cole, Storia del pensiero socialista, II, Marxismo e anarchismo,Bari 1967; D. Guerin, L’anarchismo dalla dottrina all’azione, Roma1969; F. Brupbacher, Michel Bakunin ou le démon de la révolte, Paris1971; F. Muñoz, Préface a M. Bakunin, La liberté, Paris 1972; M. Nej-rotti, Introduzione a M. Bakunin, Rivolta e libertà, Roma 1973.

SUL CONCETTO DI STATO:

R.M. Cutler, Introduction a Mikhail Bakunin. From out of the Dust-bin, Bakunin’s Basic Writings 1869-1871, Ann Arbor (Michigan)1985; P. Avrich, Introduction a M. Bakunin, God and State, New York1970; J.F. Harrison, Introduction a M. Bakunin, Statism and Anarchy,New York 1976; S. Dolgoff, Introduction a Bakunin on Anarchism,Montréal 1980; G. Rose, Presentazione a M. Bakunin, Dio e lo Stato,

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Pistoia 1970; M. Larizza Lolli, Stato e potere nell’anarchismo, Milano1986.

SULL’INFLUENZA DI HEGEL E FICHTE:

H. Arvon, Bakunin, Milano 1970; D. Settembrini, Il labirinto rivolu-zionario. L’idea anarchica: i fondamenti teorici 1755-1917, Milano1979, vol. I; B.P. Hepner, Bakounine et le panslavisme révolutionnaire,Paris 1950.

SULLA CONCEZIONE RIVOLUZIONARIA:

A. Lehning, Bakunin’s Conceptions of Revolutionary Organisationsand Their Role: A Study of His «Secret Societies», in Essays inHonour of E.H. Carr, London 1974; N. Pirumova, Bakunin, Moskva1970; M. Vuilleumier, L’anarchisme et les conceptions de Bakouninesur l’organisation révolutionnaire, in Anarchici e anarchia nel mondocontemporaneo, Torino 1969; M. Confino, Bakunin et Necaev: lesdébuts de la rupture, «Cahiers du monde russe et soviétique», VII(1966), n. 4; Id., Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l’affareNecaev, Milano 1976; R. Cannac, Aux sources de la révolution russe.Netchaiev du nihilisme au terrorisme, Paris 1961; N. Pirumova, M.Bakunin ili S. Necaev?, «Prometj», 1968, n. 5; F. Venturi, Il populismorusso, Torino 1972; P. Avrich, Bakunin & Necaev, London 1974; P.Pomper, Bakunin, Nechaev and the «Catechism of a Revolutionary»:the Case for Joint Authorship, «Canadian-American Slavic Studies», X(inverno 1976), n. 4; J. Barrué, Bakounine et Netchaïev, Paris 1971;R. Berthier, Bakounine politique. Révolution et contre-révolution enEurope centrale, Paris 1991.

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La rivolta della libertà contro il principio di autorità è primadi tutto la lotta mortale dell’uomo contro Dio perché, in quantotale, Dio incarna il principio di autorità concepito in terminiassoluti. La sua dimensione autoritativa si rinviene nel suo stes-so concetto.

Qui si vede come Bakunin specifichi in termini profondamen-te anarchici il rapporto tra uomo e Dio a partire dal concetto diDio. In quanto estremo concetto metafisico, Dio rappresenta almassimo grado l’autorità non tanto in termini di «contenuto»(Dio padrone del mondo), quanto in termini di forma. Essendo,per l’appunto, concepito dall’uomo in senso assoluto – scioltocioè da ogni determinatezza – esso non può che essere pereccellenza proprio lo stesso principio di autorità elevato allasua massima espressione: infatti il principio, inteso per suastessa natura, è un concetto astratto e Dio è la massima astra-zione pensabile di questo concetto. Prima di essere esistenzadivina, esso è l’archetipo supremo del dominio. Dunque la lottamortale dell’uomo contro Dio è la lotta dell’uomo control’assoluto da lui stesso creato; e con ciò Bakunin fa proprial’antropologia filosofica feuerbachiana secondo la quale, comeè noto, l’iniziale creatore ha finito per sottomettersi alla suacreatura: l’uomo ha trasferito dalla terra al cielo la sua essenzaumana, trasfigurandola in simbologia divina cui rivolge la suaadorazione.

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La lotta mortale dell’uomo contro Dio è dunque giocata suun solo terreno, quello della libertà: precisamente la libertàumana contro la libertà divina. Lotta mortale in quanto se c’èl’una non vi può essere l’altra. Insomma, Dio è negato non per-ché viene proclamata la sua non esistenza, quanto perché la suaesistenza impedisce la libertà dell’uomo. Bakunin è poco inte-ressato a provare che Dio non esiste; egli si preoccupa invecedi dimostrare che, se esiste, l’uomo è perduto. Certo, Bakunin èateo e la sua critica alla religione risente, oltre che della filoso-fia di Feuerbach, anche della interpretazione di Comte; però èanche, allo stesso tempo, più che ateo perché è contro Dio, è,cioè, antiteista, nel senso che la libertà degli uomini sarà com-pleta solo quando avrà distrutto la nefasta finzione di un padro-ne celeste. Infatti, se Dio esiste l’uomo è schiavo; ora, l’uomopuò e deve essere libero: dunque Dio non esiste. Si può notarequi come la distanza che separa l’antiteismo bakuninianodall’ateismo illuministico sia enorme. Specifica infatti l’anar-chico russo, onde non essere frainteso, che egli rovescia lafrase di Voltaire, per cui se Dio esistesse realmente bisognereb-be distruggerlo.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione ita-liana di Dio e lo Stato, RL, Pistoia 1970.

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DIO

[…] Gli idealisti di tutte le scuole, aristocratici e borghesi,teologi, metafisici, politicanti e moralisti, religiosi, filosofi epoeti – non eccettuati gli economisti liberali, sfrenati adoratoridell’ideale – si offendono molto allorché si dice loro chel’uomo, con la sua meravigliosa intelligenza, le sue idee subli-mi, e le sue aspirazioni infinite non è, come del resto tutto ciòche esiste nel mondo, che un prodotto della vile materia.

Noi potremmo rispondere loro che la materia di cui parlano imaterialisti – materia spontaneamente ed eternamente mobile,attiva, produttiva; materia chimicamente o organicamente deter-minata e manifestata con le proprietà o forze meccaniche, fisi-che, animali e intellettuali che le sono necessariamente inerenti– non ha niente in comune con la vile materia degli idealisti.Quest’ultima, prodotto della loro falsa astrazione, è effettiva-mente un’entità stupida, inanimata, immobile, incapace di dar

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vita alla più piccola cosa, un caput mortum, una brutta immagi-ne opposta alla immagine bella che essi chiamano Dio, l’Esseresupremo di fronte al quale la materia, la loro materia, spogliatada loro stessi di ciò che ne costituisce la natura reale, rappresen-ta necessariamente il supremo Nulla. Essi hanno tolto alla mate-ria l’intelligenza, la vita, tutte le qualità determinanti, i rapportiattivi o le forze, il movimento stesso, senza il quale la materianon sarebbe nemmeno pesante, non lasciandole altro chel’impenetrabilità e l’immobilità assoluta nello spazio. Essihanno attribuito tutte queste forze, proprietà e manifestazioninaturali all’Essere immaginario creato dalla loro astratta fanta-sia; poi, invertendo le parti, hanno chiamato questo prodottodella loro immaginazione, questo Fantasma, questo Dio che è ilNulla, «Essere supremo». E per conseguenza necessaria, hannoaffermato che l’entità reale, la materia, il mondo, era il Nulla.Dopo di che vengono a dirci seriamente che questa materia èincapace di produrre qualcosa, e che quindi essa ha dovuto esse-re creata dal loro Dio.

Nell’«Appendice» ho messo a nudo le assurdità veramenteripugnanti alle quali si è fatalmente sospinti dalla concezione diun Dio, sia esso personale, creatore ed ordinatore dei mondi, siaesso impersonale e considerato come una specie di anima divinadiffusa in tutto l’universo, del quale costituirebbe così il princi-pio eterno; o ancora come idea infinita e divina, sempre presen-te ed attiva nel mondo e manifestata dalla totalità degli esserimateriali e finiti. Mi limiterò a trattare un solo punto.

Si concepisce perfettamente lo sviluppo successivo delmondo materiale, al pari di quello della vita organica, animale, edell’intelligenza storicamente progressiva, tanto individualequanto sociale, dell’uomo nel mondo.

È un movimento del tutto naturale dal semplice al composto,dal basso all’alto, dall’inferiore al superiore; un movimentoconforme a tutte le nostre quotidiane esperienze e, di conse-guenza, alla nostra logica naturale, alle leggi proprie del nostrospirito, il quale, non formandosi mai e non potendo svilupparsise non con l’aiuto di queste stesse esperienze, non ne è che lariproduzione cerebrale, o il riassunto riflesso.

Il sistema degli idealisti ci presenta tutto il contrario. È ilrovesciamento assoluto dell’esperienza umana, è la negazione di

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quel buon senso universale e comune che non solo è la condi-zione essenziale di ogni intesa umana, ma che partendo da unaverità così semplice e anticamente conosciuta che due e duefanno quattro, fino alle considerazioni scientifiche più sublimi ecomplesse, non ammettendo mai nulla che non sia severamenteconfermato dall’esperienza e dall’osservazione delle cose e deifatti, costituisce l’unica base seria delle conoscenze umane.

Invece di seguire la via naturale dal basso all’alto, dall’infe-riore al superiore e dal relativamente semplice al più complica-to; invece d’accompagnare saggiamente, razionalmente, il motoprogressivo e reale dal mondo chiamato inorganico al mondoorganico, vegetale, animale, e poi specificamente umano; dallamateria o dall’essere chimico alla materia o all’essere vivente, edall’essere vivente all’essere pensante, gli idealisti, come osses-si ciechi, sospinti dal fantasma divino che hanno ereditato dallateologia, infilano la via assolutamente opposta. Essi vannodall’alto al basso, dal superiore all’inferiore, dal complicato alsemplice. Essi cominciano da Dio, sia come persona sia comesostanza o idea divina, e il primo passo che fanno è un terribilecapitombolo dalle altezze sublimi dell’eterno ideale nel fangodel mondo materiale; dalla perfezione assoluta alla imperfezio-ne assoluta; dal pensiero all’essere, o piuttosto dall’Esseresupremo al Nulla. Quando, come e perché l’Essere divino, eter-no, infinito, il Perfetto assoluto, probabilmente annoiato di sestesso, si sia deciso a questo salto mortale disperato, ecco ciòche nessun idealista, teologo, metafisico, poeta ha mai saputocomprendere né spiegare ai profani. Tutte le religioni passate epresenti e tutti i sistemi di filosofia trascendentale ruotano suquesto unico e iniquo mistero.

Santi uomini, legislatori inspirati, profeti, messia, tutti vihanno cercato la vita e vi hanno trovato la tortura e la morte.Come la sfinge antica, quel mistero li ha divorati, perché nonhanno saputo spiegarlo. Grandi filosofi, da Eraclito e Platonefino a Descartes, Spinoza, Leibnitz, Kant, Fichte, Schelling edHegel, per non parlare dei filosofi indiani, hanno scritto pile divolumi e hanno creato dei sistemi tanto ingegnosi quanto subli-mi, nei quali hanno trattato di sfuggita di molte belle e grandicose e hanno scoperto verità immortali, che però hanno lasciatoquesto mistero, oggetto principale delle loro investigazioni tra-

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scendentali, insoluto come lo era stato in passato. E poiché glisforzi giganteschi dei più grandi geni che il mondo conosce – eche, per trenta secoli almeno, hanno intrapreso sempre di nuovoquesto lavoro di Sisifo – non hanno avuto altro risultato che direndere il mistero ancora più incomprensibile, possiamo noiforse sperare che ci possa essere svelato dalle ordinarie specula-zioni di qualche pedante discepolo di una metafisica artificial-mente riscaldata, in quest’epoca in cui tutti gli spiriti vivi e serisi sono allontanati da questa scienza equivoca, nata da una tran-sazione, certo spiegabile storicamente, tra la stoltezza della fedee la sana ragione scientifica?

È evidente che questo terribile mistero è inspiegabile, vale adire assurdo, perché l’assurdo soltanto non si lascia affatto spie-gare. È evidente che chiunque ne ha bisogno per la sua felicità,per la sua vita, deve rinunciare alla ragione e, ritornando se puòalla fede ingenua, cieca, stupida, deve ripetere con Tertulliano econ tutti i credenti sinceri queste parole che riassumono la quin-tessenza stessa della teologia: Credo quia absurdum. Alloraogni discussione cessa, e rimane soltanto la stupidità trionfantedella fede. Ma ecco subito sorgere un’altra domanda: come puònascere in un uomo intelligente e istruito il bisogno di crederein questo mistero?

Che la credenza in Dio, creatore, ordinatore, giudice, padro-ne, maledicente, salvatore e benefattore del mondo, si sia con-servata nel popolo e soprattutto nelle popolazioni rurali, moltopiù che nel proletariato delle città, è del tutto naturale. Il popolo,sventuratamente, è ancora ignorantissimo e mantenuto nell’i-gnoranza dagli sforzi sistematici di tutti i governi, che la consi-derano con molta ragione come una delle condizioni essenzialidella loro propria potenza. Schiacciato dal suo lavoro quotidia-no, privo di agiatezza, di scambio intellettuale, di letture, infinedi quasi tutti i mezzi e di una gran parte degli incentivi che svi-luppano la riflessione negli uomini, il popolo accetta – quasisempre senza critica e in blocco – le tradizioni religiose che loavviluppano sin dalla tenera età, in tutte le circostanze della suavita, e che artificialmente mantenute nel suo seno da una folla diavvelenatori ufficiali d’ogni specie, preti e laici, si trasformanodentro di lui in una specie di abitudine mentale, troppo spessopiù potente del suo stesso buon senso naturale.

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C’è un’altra ragione che spiega e legittima in qualche modole credenze assurde del popolo. Questa ragione è la condizionemiserabile nella quale si trova fatalmente condannato dall’orga-nizzazione economica della società nei Paesi più civili d’Euro-pa. Ridotto sotto il rapporto materiale al minimo d’esistenzaumana, chiuso nella sua vita come un prigioniero nella sua pri-gione, senza orizzonte, senza uscita e, se si deve credere aglieconomisti, anche senza avvenire, il popolo dovrebbe averel’animo particolarmente angusto e l’istinto piatto dei borghesiper non provare il bisogno di uscirne; ma non ha che tre mezzi:due fantastici e il terzo reale. I primi due sono la taverna e lachiesa, la dissolutezza del corpo o quella dello spirito; la terza èla rivoluzione sociale. Per cui deduco che quest’ultima soltanto,molto più di tutte le propagande teoriche dei liberi pensatori,sarà capace di distruggere completamente le credenze religiosee le abitudini dissolute nel popolo, credenze e abitudini chesono intimamente legate tra loro più di quanto si supponga, eche soltanto la rivoluzione sociale, sostituendo ai godimentiillusori e brutali della sfrenatezza corporale e spirituale le gioiedelicate e reali di un’umanità pienamente realizzata in ciascunoe in tutti, avrà la potenza di chiudere nello stesso tempo tutte letaverne e tutte le chiese.

Fino a quel tempo, il popolo, preso in massa, crederà, e senon ha ragione di credere, ne avrà per lo meno il diritto.

C’è una categoria di persone che, se non credono, devonoalmeno fingere di credere. Sono tutti i tormentatori, tutti glioppressori, e tutti gli sfruttatori dell’umanità: preti, monarchi,uomini di Stato, uomini di guerra, finanzieri pubblici e privati,funzionari d’ogni sorta, poliziotti, gendarmi, carcerieri e carne-fici, monopolisti, capitalisti, usurai, appaltatori e proprietari,avvocati, economisti, politicanti d’ogni colore, fino all’ultimovenditore di droghe, tutti insieme ripeteranno queste parole diVoltaire: «Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo».

Si capisce bene che è necessaria una religione per il popolo.È la valvola di sicurezza.

Esiste infine una categoria assai numerosa di anime onestema deboli che, troppo intelligenti per prendere i dogmi cristianisul serio, li rifiutano uno a uno, ma non hanno il coraggio, né laforza, né la risolutezza necessaria per respingerli in blocco. Esse

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abbandonano alla critica tutte le assurdità particolari della reli-gione, se la ridono di tutti i miracoli, ma si abbarbicano condisperazione all’assurdità principale, fonte di tutte le altre, almiracolo che spiega e legittima tutti gli altri miracoli: all’esi-stenza di Dio. Il loro Dio non è affatto l’Essere forte e potente, ilDio rozzamente positivo della teologia. È un Essere nebuloso,diafano, illusorio, talmente illusorio che si trasforma in Nullaquando si crede di afferrarlo; è un miraggio, un fuoco fatuo chenon riscalda né rischiara. E tuttavia essi lo hanno tanto caro, ecredono che se dovesse sparire sparirebbe con lui ogni cosa.Sono queste le anime incerte, malaticce, disorientate nellaciviltà attuale, che non appartengono né al presente né all’avve-nire; pallidi fantasmi eternamente sospesi tra il cielo e la terra,che occupano perfettamente lo stesso posto fra la politica bor-ghese e il socialismo del proletariato. Esse non si sentono laforza né di pensare sino alla fine, né di volere, né di decidersi anulla, e sprecano il loro tempo e la loro fatica sforzandosi sem-pre di conciliare l’inconciliabile. Nella vita pubblica, costoro sichiamano socialisti borghesi. Nessuna discussione è possibilecon loro né contro di loro. Essi sono troppo malati.

Ma c’è un piccolo numero di uomini illustri di cui nessunooserà parlare senza rispetto, e dei quali nessuno si sognerà dimettere in dubbio la salute vigorosa, né la forza dello spirito, néla buona fede. Basti citare i nomi di Mazzini, Michelet, Quinet,John Mill. Anime generose e forti, grandi cuori, grandi spiriti,grandi scrittori, e il primo di essi rigeneratore eroico e rivoluzio-nario di una grande nazione; essi sono gli apostoli dell’ideali-smo e i competitori, gli avversari appassionati del materialismo,e per conseguenza anche del socialismo, tanto in filosofia quan-to in politica.

Di fronte ad essi bisogna dunque discutere questo problema.

Constatiamo innanzi tutto che nessuno degli uomini illustriche ho nominato, né alcun altro pensatore idealista di qualcheimportanza, si è occupato particolarmente della parte logica diquesto problema. Nessuno si è provato a risolvere filosofica-mente la possibilità del salto mortale divino, dalle regioni eternee pure dello spirito al fango del mondo materiale. Costoro

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hanno forse paura di abbordare questa insolubile contraddizio-ne, e disperano di risolverla dopo che i più grandi geni della sto-ria ne rimasero sconfitti, oppure l’hanno considerata come giàsufficientemente risolta? Questo è il loro segreto. Sta il fatto cheessi hanno lasciato da parte la dimostrazione teorica della esi-stenza di un Dio e ne hanno sviluppato soltanto le ragioni e leconseguenze pratiche. Ne hanno parlato come di un fatto uni-versalmente accettato e che, come tale, non può essere piùoggetto di alcun dubbio, limitandosi, per tutta prova, a constata-re questa antichità o universalità della credenza in Dio.

Tale unanimità impotente, secondo l’opinione di molti uomi-ni e scrittori illustri come Joseph de Maistre e il grande patriotaitaliano Giuseppe Mazzini, per citare solo i più rinomati tra essi,vale più di tutte le dimostrazioni della scienza; e se la logica diun piccolo numero di pensatori coerenti e anche molto validi,ma isolati, è loro contraria, tanto peggio, essi dicono, per questipensatori e per la loro logica, perché il consenso generale el’adozione universale e antica di un’idea sono stati in ognitempo considerati come la prova più vittoriosa della sua verità.Il sentimento di tutto il mondo e una convinzione che si trova esi mantiene sempre e dappertutto non potrebbero sbagliarsi. Essidebbono avere la loro radice in una necessità assolutamente ine-rente alla natura stessa dell’uomo. E poiché è stato constatatoche tutti i popoli passati e presenti hanno creduto e credononell’esistenza di Dio, è evidente che coloro che hanno la sventu-ra di dubitarne, qualunque sia la logica che li abbia trascinati neldubbio, sono delle eccezioni, delle anomalie, dei mostri.

Così, dunque, l’antichità e l’universalità di una credenzacostituirebbero, contro ogni scienza e contro ogni logica, unaprova sufficiente e irrecusabile della verità. E perché?

Sino al secolo di Copernico e di Galileo tutti avevano credutoche il sole girasse intorno alla terra. Tutti gli uomini non sierano forse ingannati? E che cosa vi è di più antico e di più uni-versale della schiavitù? L’antropofagia, forse. Dall’origine dellasocietà storica fino ai nostri giorni, vi è stato sempre e ovunquesfruttamento del lavoro forzato delle masse schiave, serve osalariate, da parte di qualche minoranza dominante; vi fu sem-pre oppressione dei popoli da parte della Chiesa e dello Stato.Bisogna forse concludere che questo sfruttamento e questa

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oppressione siano necessità assolutamente inerenti all’esistenzastessa della società umana? Ecco degli esempi che dimostranocome l’argomentazione degli avvocati del buon Dio non provinulla.

Non vi è, in effetti, nulla che sia così universale e così anticoquanto l’assurdo e l’iniquità; al contrario, sono la verità e la giu-stizia che, nello sviluppo delle società umane, sono le meno uni-versali, e le più giovani; e ciò spiega anche il costante fenomenostorico delle inaudite persecuzioni di cui quelli che per primiproclamarono le verità furono e continuano ad essere oggetto daparte dei rappresentanti ufficiali, patentati e interessati delle cre-denze «universali» e «antiche», e spesso anche da parte di quel-le masse popolari che, dopo averli tormentati, finiscono sempreper adottare e far trionfare le loro idee.

Per noi, materialisti e socialisti rivoluzionari, non vi è nullache ci meravigli e che ci spaventi di questo fenomeno storico.Forti della nostra coscienza, del nostro amore per la verità, diquesta passione logica che costituisce da sola una grande forza,fuori dalla quale non c’è pensiero; forti del nostro entusiasmoper la giustizia e della nostra fede incrollabile nel trionfodell’umanità su tutte le bestialità teoriche e pratiche; forti infinedella fiducia e del mutuo appoggio che ci viene dal piccolonumero di quelli che condividono le nostre convinzioni, ci ras-segniamo spontaneamente a tutte le conseguenze di questofenomeno storico, nel quale vediamo la manifestazione di unalegge sociale che è tanto naturale, necessaria e invariabile quan-to tutte le altre leggi che governano il mondo.

Questa legge è una conseguenza logica, inevitabile dell’ori-gine animale della società umana; di fronte a tutte le provescientifiche, fisiologiche, psicologiche, storiche che si sonoaccumulate fino ad oggi, di fronte anche alle prodezze dei tede-schi conquistatori della Francia, che ne danno attualmente unadimostrazione così chiara, non è certamente possibile dubitaredella realtà di detta origine. Ma dal momento in cui si accettacodesta origine animale dell’uomo, tutto si spiega. La storia ciappare allora come la negazione rivoluzionaria del passato, avolte lenta, apatica, pigra, tal’altra appassionata e potente. Essaconsiste precisamente nella negazione progressiva dell’anima-lità primitiva dell’uomo attraverso l’evoluzione della sua uma-

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nità. L’uomo, bestia feroce, cugino del gorilla, ha iniziato il suocammino dalla notte profonda dell’istinto animale per arrivarealla luce dello spirito, e ciò spiega in modo del tutto naturaletutte le sue incertezze passate e ci consola in parte dei suoi erro-ri presenti. Egli è partito dalla schiavitù animale e, attraverso laschiavitù divina, termine transitorio tra la sua animalità e la suaumanità, cammina ora verso la conquista e la realizzazione dellasua libertà umana. Da qui deriva che l’antichità di una credenza,di un’idea, lungi dal provare alcunché a suo vantaggio, deve alcontrario rendercela sospetta. Perché dietro di noi è la nostraanimalità, e davanti a noi la nostra umanità; e la luce umana, lasola che possa riscaldarci e illuminarci, la sola che possa eman-ciparci, renderci degni, liberi, felici e realizzare la fratellanza tranoi, non è mai al principio, ma relativamente all’epoca in cui sivive, sempre alla fine della storia. Perciò non bisogna mai guar-dare indietro, ma sempre avanti, poiché avanti è il nostro sole,avanti la nostra salvezza; e se ci è consentito, pur se utile enecessario rivolgerci indietro per studiare il nostro passato, èsolo per constatare ciò che siamo stati e ciò che non dobbiamopiù essere, ciò che abbiamo creduto e pensato e ciò che nondobbiamo più né credere né pensare, ciò che abbiamo fatto e ciòche non dobbiamo fare mai più.

Questo per quanto concerne l’antichità. Quanto all’universa-lità di un errore, essa prova soltanto la somiglianza, se non laperfetta identità, della natura umana in tutti i tempi e sotto tutti iclimi. E poiché è accertato che tutti i popoli, in tutte le epochedella loro vita, hanno creduto e credono ancora in Dio, dobbia-mo semplicemente concluderne che l’idea divina, nata da noistessi, è un errore storicamente necessario nell’evoluzionedell’umanità e domandarci: perché e come l’idea divina si è pro-dotta nella storia e perché l’immensa maggioranza della specieumana l’accetta ancora attualmente come una verità?

Finché non ci renderemo conto di come l’idea di un mondosoprannaturale o divino si sia prodotta e perché dovesse fatal-mente prodursi nell’evoluzione storica della coscienza umana,avremo un bel dirci scientificamente convinti dell’assurdo diquesta idea, ma non arriveremo mai a distruggerla nell’opinionedella maggioranza, perché non potremo mai attaccarla nelleprofondità stesse dell’essere umano ove è nata. Condannati a

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una sterile lotta, senza scampo e senza fine, dovremo acconten-tarci di combatterla sempre e solo in superficie, nelle sue nume-rose manifestazioni la cui assurdità, appena vinta dai colpi delbuon senso, rinascerà subito sotto una forma nuova e non menoinsensata. Finché la radice di tutte le assurdità che tormentano ilmondo, cioè la credenza in Dio, rimarrà intatta, non mancheràdi produrre nuovi virgulti. È per questo che ai nostri tempi, inalcuni ambienti della più alta società, lo spiritismo tende a inse-diarsi sulle rovine del cristianesimo.

Non soltanto nell’interesse delle masse, ma anche nell’inte-resse della salute del nostro spirito, dobbiamo sforzarci di com-prendere la genesi storica, la successione delle cause che hannosviluppato e prodotto l’idea di Dio nella coscienza degli uomini.Avremo un bel dirci e crederci atei, ma finché non avremo com-preso queste cause, ci lasceremo sempre più o meno dominaredai richiami di questa coscienza universale di cui non avremosvelato il segreto; e data la debolezza naturale dell’individuo,anche del più forte, di fronte all’influenza potentissima dell’am-biente sociale che lo circonda, correremo sempre il rischio diricadere, prima o poi, in un modo o in un altro, nell’abissodell’assurdità religiosa. Gli esempi di queste conversioni vergo-gnose sono frequenti nella società attuale.

Ho detto la ragione principale della grande influenza eserci-tata anche ai nostri giorni dalle credenze religiose sulle masse.Queste inclinazioni mistiche non indicano tanto nell’uomoun’aberrazione dello spirito, quanto un profondo malcontentodel cuore. È la protesta istintiva e appassionata dell’essereumano contro le angustie, le bassezze, i dolori e le vergogne diun’esistenza miserabile. Contro questa malattia, come ho detto,non c’è che un solo rimedio: la rivoluzione sociale.

Nell’«Appendice» ho cercato di esporre le cause che hannopresieduto all’origine e allo sviluppo storico delle allucinazionireligiose nella coscienza dell’uomo. Qui tratterò soltanto la que-stione dell’esistenza di Dio, o dell’origine divina del mondo edell’uomo dal punto di vista della sua utilità morale e sociale, espenderò qualche parola sulla ragione teorica di questa creden-za, allo scopo di spiegare meglio il mio pensiero.

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Tutte le religioni, con i loro dei, i loro semidei e i loro profe-ti, messia e santi, furono create dalla fantasia credula degliuomini non ancora giunti al pieno sviluppo e al pieno possessodelle loro facoltà intellettuali. Di conseguenza, il cielo religiosonon è altra cosa che uno specchio in cui l’uomo, esaltatodall’ignoranza e dalla fede, ritrova la propria immagine, peròingrandita e rovesciata, cioè divinizzata. La storia delle religio-ni, quella della nascita, dell’affermazione e della decadenzadegli dei che si sono succeduti nelle credenze umane, non èdunque altro che lo sviluppo dell’intelligenza e della coscienzacollettive degli uomini. A misura che nel loro cammino storica-mente progressivo, essi scoprono, sia in loro stessi, sia nellanatura esteriore, una forza, una qualità o un qualsiasi grandedifetto, essi li attribuiscono ai loro dei, dopo averli esagerati,ingigantiti oltre misura, come fanno ordinariamente i fanciulli,con un atto della loro fantasia religiosa. Grazie a questa mode-stia e a questa pia generosità degli uomini credenti e creduli, ilcielo si è arricchito delle spoglie della terra; di conseguenza, piùil cielo diveniva ricco, più l’umanità e la terra divenivano pove-re. Così, una volta insediata la divinità, questa fu naturalmenteproclamata la causa, la ragione, l’arbitra e la dispensatrice asso-luta di tutte le cose: il mondo non fu più nulla, essa fu tutto; el’uomo, suo vero creatore, dopo averla tratta dal nulla a suainsaputa, s’inginocchiò davanti ad essa, l’adorò e si dichiarò suacreatura e suo schiavo.

Il cristianesimo è precisamente la religione per eccellenzaperché espone e manifesta, nella sua pienezza, la natura,l’essenza d’ogni sistema religioso, che è l’impoverimento, laservitù, l’annientamento dell’umanità a profitto della divinità.

Poiché Dio è tutto, il mondo reale e l’uomo sono nulla. Poi-ché Dio è la verità, la giustizia, il bene, il bello, la potenza e lavita, l’uomo è la menzogna, l’iniquità, il male, la bruttezza,l’impotenza e la morte. Poiché Dio è il padrone, l’uomo è loschiavo. Incapace di trovare da sé la giustizia, la verità e la vitaeterna, l’uomo non può arrivarvi che per mezzo di una rivela-zione divina. Ma chi dice rivelazione, dice rivelatori, messia,profeti, preti e legislatori, ispirati da Dio stesso; e questi, unavolta riconosciuti come i rappresentanti della divinità sulla terra,come i santi istitutori dell’umanità eletti da Dio per condurla

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sulla via della salvezza, debbono necessariamente esercitare unpotere assoluto. Tutti gli uomini devono loro un’obbedienzapassiva e illimitata, perché contro la Ragione divina non c’èragione umana e contro la Giustizia di Dio non vi è giustizia ter-rena che tenga. Schiavi di Dio, gli uomini devono esserlo anchedella Chiesa e dello Stato, in quanto quest’ultimo è consacratodalla Chiesa.

Fra tutte le religioni che esistono e che sono esistite, il cri-stianesimo ha meglio compreso (non eccettuate neppure le anti-che religioni orientali, le quali non abbracciavano che popolidistinti e privilegiati) la necessità d’abbracciare l’umanità intera;e fra tutte le sette cristiane, fu solo il cattolicesimo romano aproclamarlo e realizzarlo con rigorosa deduzione. Perciò il cri-stianesimo è la religione assoluta, l’ultima religione; perciò laChiesa apostolica e romana è la sola conseguente, legittima edivina.

Non spiaccia dunque ai metafisici e agli idealisti religiosi,filosofi, politici o poeti la seguente affermazione: l’idea di Dioimplica l’abdicazione della ragione e della giustizia umane; essaè la negazione più decisa della libertà umana e comporta neces-sariamente la servitù degli uomini, tanto in teoria che in pratica.

A meno quindi di volere la schiavitù e l’umiliazione degliuomini, come le vogliono i gesuiti, i monaci, i pietisti o i meto-disti protestanti, noi non possiamo e non dobbiamo fare la mini-ma concessione né al Dio della teologia, né a quello della meta-fisica. Colui che, in questo alfabeto mistico, comincia dalla A,dovrà fatalmente finire con la Z; colui che vuole adorare Dio,deve, senza farsi puerili illusioni, rinunciare coraggiosamentealla sua libertà e alla sua umanità.

Se Dio è, l’uomo è schiavo; ora, l’uomo può, deve esserelibero: dunque Dio non esiste.

Io sfido chiunque ad uscire da questo cerchio, e tuttavia biso-gna decidersi e scegliere.

È necessario ricordare quanto e come le religioni istupidisca-no e corrompano i popoli? Esse uccidono in loro la ragione, ilprincipale strumento dell’emancipazione umana, e li riduconoall’imbecillità, condizione essenziale della loro schiavitù. Esse

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disonorano il lavoro umano e ne fanno un contrassegno e unafonte di servitù. Esse uccidono la cognizione e il sentimentodell’umana giustizia, facendo pendere sempre la bilancia dallaparte dei bricconi trionfanti che godono del privilegio della gra-zia divina. Esse uccidono la fierezza e la dignità umane, proteg-gendo solo gli esseri servili e gli umili. Esse soffocano nel cuoredei popoli ogni sentimento di fratellanza umana, colmandolo dicrudeltà divina.

Tutte le religioni sono crudeli, tutte sono fondate sul sangue;perché tutte si adagiano principalmente sull’idea del sacrificio,cioè sul sacrificio perpetuo dell’Umanità all’insaziabile vendettadella Divinità. In questo sanguinante mistero, l’uomo è semprela vittima, e il prete, uomo anch’esso ma uomo privilegiato dallagrazia, è il divino carnefice. Questo ci spiega perché i preti ditutte le religioni, i migliori, i più umani, i più comprensivi,hanno sempre nel fondo del loro cuore – e, se non nel cuore,nella loro immaginazione e nella mente (ed è risaputa l’influen-za formidabile che l’una e l’altra esercitano sul cuore degliuomini) – hanno sempre nei loro sentimenti qualche cosa di cru-dele e di sanguinario.

Tutto ciò i nostri illustri idealisti contemporanei lo sannomeglio degli altri. Essi sono uomini colti che conoscono amemoria la storia delle religioni; e poiché sono uomini viventi,anime compenetrate di amore sincero e profondo per il benedell’umanità, hanno maledetto e stigmatizzato tutti questimisfatti, tutti questi delitti della religione con un’eloquenzasenza pari. Essi ripudiano indignati ogni solidarietà col Diodelle religioni positive, coi rappresentanti passati e presenti sullaterra.

Il Dio che essi adorano, o che credono di adorare, si distingueappunto dagli dei reali della storia perché non è un Dio positivo,per quanto esso sia determinato teologicamente o metafisica-mente. Non è né l’Essere supremo di Robespierre e di J. J.Rousseau, né il Dio panteista di Spinoza e neppure il Dio con-temporaneamente immanente e trascendente e assai equivoco diHegel. Essi si guardano bene dal dargli una qualsiasi determina-zione positiva intendendo molto bene che ogni determinazione

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lo sottoporrebbe all’azione corrosiva della critica. Essi, parlandodi lui, non diranno se sia un Dio personale o impersonale, se hacreato o no il mondo; non faranno nemmeno riferimento allasua divina provvidenza. Tutto ciò potrebbe comprometterlo. Siaccontenteranno di dire: «Dio», e niente di più.

Ma allora che cos’è il loro Dio? Non è neppure un’idea, èun’aspirazione. È il nome generico di tutto ciò che appare lorogrande, buono, bello, nobile, umano. Ma perché non diconoallora: l’uomo? Ah! Perché re Guglielmo di Prussia e Napoleo-ne III e tutti i loro simili sono egualmente uomini: ed ecco ciòche li mette assai in difficoltà. L’umanità reale ci presental’insieme di tutto ciò che vi è di più sublime e di più bello, e ditutto ciò che vi è di più vile e di più mostruoso nel mondo.Come cavarsela? Chiamano l’uno divino e l’altro bestiale, raffi-gurandosi la divinità e l’animalità come i due poli entro i qualicollocano il genere umano. Essi non vogliono o non possonocomprendere che questi tre termini ne formano uno solo e che,separandoli, si distruggono.

Non sono forti nella logica e si direbbe che la spezzino. Ciò lidistingue dai metafisici panteisti e deisti e conferisce alle loroidee il carattere di un idealismo pratico, in quanto poggiano leloro ispirazioni molto meno sullo sviluppo severo del pensieroche sulle esperienze, direi quasi sulle emozioni, tanto storiche ecollettive quanto individuali, della vita. Questo dà alla loro pro-paganda un’apparenza di ricchezza e di potenza vitale, ma soloun’apparenza, perché la vita stessa diventa sterile quando èparalizzata da una contraddizione logica.

La contraddizione è questa: essi vogliono Dio e voglionol’umanità. Si ostinano a mettere insieme due termini che, unavolta separati, non possono più incontrarsi che per distruggersi avicenda. Essi dicono d’un sol fiato: «Dio e la libertà dell’uo-mo», «Dio e la dignità, la giustizia, l’uguaglianza, la fratellanza,la prosperità degli uomini», senza curarsi della logica fatale invirtù della quale, se Dio esiste, tutto ciò è condannato a non esi-stere. Perché se Dio è, egli è necessariamente il Padrone eterno,supremo, assoluto, e se questo Padrone esiste, l’uomo è schiavo;ora se è schiavo, non vi è per lui giustizia, né uguaglianza, néfraternità, né prosperità possibile. Contrariamente al buon sensoe alle esperienze della storia, essi potranno pure rappresentarsi il

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loro Dio animato dal più tenero amore per la libertà umana, maun padrone, per quanto faccia e voglia mostrarsi liberale, restasempre un padrone, e la sua esistenza implica necessariamentela schiavitù di tutto ciò che si trova al di sotto di lui. Dunque, seDio esistesse, non ci sarebbe per lui che un solo mezzo per ser-vire la libertà umana: e questo sarebbe ch’egli cessasse d’esiste-re.

Amante geloso della libertà umana, che considero come lacondizione assoluta di tutto ciò che veneriamo e rispettiamonell’umanità, io rovescio la frase di Voltaire, e dico che se Dioesistesse realmente, bisognerebbe abolirlo.

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II

Come suprema impersonificazione del principio di autoritàsulla terra (come Dio lo è nei cieli), lo Stato è per natura enteassoluto, espressione intrinseca della sovranità tout-court. Inquanto astrazione politica, è la negazione generale dellasocietà e degli interessi positivi delle regioni, dei comuni, delleassociazioni e del più gran numero degli individui.

Il rapporto tra Stato e società è dunque un rapporto alienato,che scaturisce precisamente dalla natura astratta dell’entitàstatale rispetto alla concretezza reale della vita sociale. In virtùdi questo Logos intrinseco, lo Stato esprime la sua profondavocazione nell’espansione interna ed esterna: interna verso lasocietà, esterna verso gli altri Stati sovrani. Verso la societàperché la domina e tende ad assorbirla completamente, versogli altri Stati sovrani perché vorrebbe espandersi a spese loro,con la conseguenza di una permanente tensione di guerra.

Lo Stato, dunque, vive di una contraddizione permanente,derivatagli dalla sua stessa esistenza, che consiste nel tendereall’universale. La sua ragion d’essere si fonda sulla volontà dirappresentare interessi generali: solo a questa condizione, ineffetti, ha senso il suo esistere. E tuttavia questa tendenzaall’astrazione universalizzante è destinata al continuo insucces-so, proprio perché l’autonomia strutturale dello Stato ha unasua separatezza minacciata dal fatto che essa richiama, imme-diatamente, l’esistenza di altri Stati. Così, pur adeguandosi alle

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mutazioni storiche e ai differenti sistemi socio-economici, qua-lunque siano la loro forma e il loro sviluppo, lo Stato mantienela sua ragion d’essere che è sempre, inevitabilmente, una ragio-ne autoritaria e di parte. In quanto antinomia insuperabile –perché pura alienazione rispetto alla vita reale – esso è sempre,nei suoi atti pratici, del tutto inumano, un sistema precostituitorispondente ad una logica solo sua.

Ma in cosa consiste questa nuova etica pubblica sulla qualesi fonda l’autonomia separata dello Stato? Consiste nellasacralizzazione della volontà di potenza, autogiustificantesi invirtù di quella pretesa universalità che costituisce la specificitàe al tempo stesso l’analogia dello Stato rispetto alla Chiesa. Lavolontà di potenza elevata a forma religiosa è la nuova moraledello Stato e questa morale ha un nome preciso: patriottismo, lapassione e il culto dello Stato nazionale. Dunque la moraledello Stato è opposta a quella umana, come la libertà statalerisulta la negazione di quella sociale e la libertà chiesasticanemica di quella individuale.

La critica bakuniniana dello Stato quale massima espressio-ne temporale del principio di autorità investe, per logica conse-guenza, ogni sua manifestazione concreta e particolare. Essa siestende ad ogni Stato, qualunque esso sia, compreso quellodemocratico. Anche questo, infatti, può risolversi in dispotismoperché la democrazia, di per sé, non può dare garanzie di sorta.Bakunin – che con questa analisi anticipa magistralmente laforma novecentesca della democrazia totalitaria, cogliendo per-ciò, implicitamente la diversità sostanziale tra valori liberali evalori democratici – non è naturalmente alieno dal considerarele differenze esistenti tra potere e potere, tra Stato e Stato o, sevogliamo, tra male maggiore e male minore.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dal testo Federali-smo, socialismo, anti-teologismo incluso nel volume Libertàuguaglianza rivoluzione, Antistato, Milano 1976.

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LO STATO

[...] Abbiamo detto che l’uomo non è solamente l’essere piùindividualistico sulla terra, è anche il più sociale. Fu un grandeerrore di Jean-Jacques Rousseau l’aver pensato che la societàprimitiva fosse stata creata da un libero accordo tra i selvaggi.Ma Jean-Jacques non fu l’unico ad averlo detto. La maggioran-za dei giuristi e dei politologi moderni, siano essi della scuola diKant o di ogni altra scuola individualistico-liberale, che nonaccettano l’idea di una società fondata sul diritto divino dei teo-logi, né di una società hegelianamente determinata dalla mag-giore o minore realizzazione di una moralità oggettiva, né dalconcetto naturalistico di una primitiva società animale, accetta-no invece tutti, volenti o nolenti, e per mancanza di ogni altrabase, il tacito accordo o contratto quale punto iniziale.

Secondo la teoria del contratto sociale, gli uomini primitivi,che godevano di libertà assoluta solo in isolamento, sono antiso-

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ciali per natura. Se forzati ad associarsi, essi distruggono vicen-devolmente la loro libertà. Se la lotta è incontrollata, può porta-re al reciproco sterminio. Al fine di non distruggersi completa-mente, essi concludono un contratto, formale o tacito, in base alquale essi abbandonano alcune delle loro libertà per assicurare ilresto. Questo contratto diventa il fondamento della società, omeglio dello Stato, poiché va sottolineato che in questa teorianon c’è posto per la società; solo lo Stato esiste, o più precisa-mente la società è completamente assorbita dallo Stato.

La società è il modo naturale di esistenza della collettivitàumana indipendentemente da ogni contratto. Essa si governaattraverso i costumi o le abitudini tradizionali, ma mai secondole leggi. Progredisce lentamente sotto gli impulsi che ricevedalle iniziative individuali e non attraverso il pensiero o lavolontà dei legislatori. Ci sono molte leggi che la governanosenza che ne sia consapevole, ma queste sono leggi naturaliinterne al corpo sociale, proprio come le leggi fisiche sonointerne ai corpi materiali. Molte di queste leggi sono sconosciu-te ancor oggi; e tuttavia esse hanno governato la società umanafin dalla sua nascita, indipendentemente dal pensiero e dallavolontà degli uomini che componevano la società. Quindi nondevono essere confuse con le leggi politiche e giuridiche procla-mate da un qualche potere legislativo, leggi che si supponesiano la conseguenza logica del primo contratto formulatocoscientemente dagli uomini.

Lo Stato non è affatto un immediato prodotto della natura. Alcontrario della società, non precede il risveglio della ragionenell’uomo. I liberali sostengono che il primo Stato fu creatodalla libera e razionale volontà dell’uomo; gli uomini di destralo considerano il lavoro di Dio. In ogni caso esso domina lasocietà e tende ad assorbirla completamente.

Si potrebbe ribattere che lo Stato, in quanto rappresenta ilbenessere pubblico o l’interesse comune a tutti, restringe lalibertà dei singoli solo per assicurare loro la parte restante. Maciò che resta può essere una forma di sicurezza: non è mailibertà. La libertà è indivisibile; non si può toglierne una partesenza ucciderla tutta. Questa piccola parte che si toglie èl’essenza fondamentale della mia libertà; è la libertà intera.Attraverso un naturale, necessario e irresistibile movimento, la

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mia libertà è concentrata proprio in quella parte, per piccola chepossa essere, che mi si toglie. È la storia della moglie di Barba-blù che aveva un intero palazzo a sua disposizione con piena ecompleta libertà di entrare ovunque, di vedere e toccare ognicosa, ad eccezione di una terrificante piccola camera che il suoterribile marito le aveva proibito di aprire, pena la morte.

Bene, ella si disinteressò di tutti gli splendori del palazzo e ilsuo intero essere si concentrò sulla terribile piccola camera.Aprì la porta proibita, e con buona ragione in quanto la sualibertà dipendeva proprio dal far ciò, mentre la proibizione dientrare era una flagrante violazione precisamente di quellalibertà.

È anche la storia del peccato di Adamo ed Eva. La proibizio-ne di assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene edel male, senza nessun’altra ragione che tale era la volontà delSignore, era atto di dispotismo atroce da parte del buon Signore.Se i nostri primi genitori avessero obbedito, l’intera razzaumana sarebbe rimasta immersa nella più umiliante schiavitù.La loro disobbedienza ci ha emancipati e salvati. Il loro, nel lin-guaggio della mitologia, fu il primo atto di umana libertà.

Ci si potrebbe però chiedere, può lo Stato, lo Stato democra-tico, basato sul libero suffragio di tutti i cittadini, essere la nega-zione della loro libertà? E perché no? Ciò dipenderebbe intera-mente dal potere che i cittadini delegano allo Stato. Uno Statorepubblicano, basato sul suffragio universale, potrebbe esseremolto dispotico, perfino più dispotico di uno Stato monarchico,se col pretesto di rappresentare la volontà di ognuno dovesseaccollare il peso del suo potere collettivo sulla volontà e sullibero movimento di ciascuno dei suoi membri.

Ma supponiamo che lo Stato non restringa la libertà dei suoimembri tranne quando è volta all’ingiustizia e al male; che essoimpedisca ai suoi membri di uccidersi l’un l’altro, di derubarsi,di insultarsi e in generale di farsi del male, mentre concede lamassima libertà di fare il bene. Questo ci riconduce alla storiadella moglie di Barbablù o alla storia del frutto proibito: cos’è ilbene? cos’è il male?

Dal punto di vista del sistema che stiamo esaminando ladistinzione tra bene e male non esisteva prima della conclusionedel contratto, quando ogni individuo stava profondamente

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immerso nell’isolamento della propria libertà o dei suoi dirittiassoluti, senza considerazione alcuna per gli altri uomini eccettoquella dettata dalla sua relativa debolezza o forza; cioè la suacautela e tornaconto.

A quel tempo, sempre seguendo la medesima teoria, l’ego-centrismo rappresentava la suprema legge, l’unico diritto. Ilbene era determinato dal successo, la sconfitta era l’unico male,e la giustizia non era che consacrazione del fatto compiuto, perquanto orribile crudele o infame, esattamente come sono le coseadesso, nella moralità politica che prevale oggi in Europa.

La distinzione tra buono e cattivo, secondo questo sistema,cominciò solo con l’istituzione del contratto sociale. Da qui inavanti ciò che veniva riconosciuto costitutivo dell’interessecomune venne proclamato il bene, e tutto ciò ad esso contrariovenne proclamato il male. I membri contraenti, diventando citta-dini e sottoscrivendo un più o meno solenne impegno, assunseroun obbligo: quello di subordinare i loro interessi privati al benecomune, ad un interesse inseparabile da tutti gli altri.

I loro diritti vennero separati dal diritto pubblico, il solo rappre-sentante del quale, lo Stato, fu quindi investito del potere di repri-mere ogni rivolta illegale dell’individuo, ma anche dell’obbligo diproteggere ognuno dei suoi membri nell’esercizio dei propri dirit-ti, sempre che non contrari al diritto comune.

Esamineremo ora cosa dovrebbe essere lo Stato, così costi-tuito, in relazione agli altri Stati suoi pari, in relazione alla pro-pria popolazione soggetta. Questa analisi ci appare tanto piùinteressante e utile in quanto lo Stato, come qui definito, è pre-cisamente lo Stato moderno, liberato dell’idea religiosa: lo Statolaico o ateo proclamato dai filosofi politici moderni.

Vediamo dunque: in cosa consiste la morale? Lo Statomoderno, come abbiamo detto, nel momento in cui si è liberatodal giogo della Chiesa si è conseguentemente scrollato di dossoil giogo della morale universale e cosmopolita della religionecristiana, senza essere stato ancora penetrato dalla moraledell’idea umanitaria (la qual cosa, sia detto per inciso, mai potràfare senza distruggere se stesso, poiché nella sua esistenza sepa-rata e isolata sarebbe troppo piccolo per abbracciare, per conte-nere, gli interessi e quindi la morale di tutta l’umanità). Gli Statimoderni hanno raggiunto esattamente questo punto. Il cristiane-

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simo serve loro solo come pretesto o come mezzo per ingannarele folle, poiché essi perseguono fini che nulla hanno a che farecon i sentimenti religiosi. I grandi statisti della nostra epoca, iPalmerston, i Muraviev, i Cavour, i Bismarck, i Napoleone, sisono fatti una grossa risata quando il popolo ha preso per buonii loro pronunciamenti religiosi. E ancor più hanno riso quando ilpopolo ha loro attribuito sentimenti, considerazioni e intenzioniumanitarie, ma non hanno mai commesso l’errore di trattare inpubblico queste idee come stupidaggini. Cosa rimane dunque acostituire la loro morale? L’interesse dello Stato e null’altro. Daquesto punto di vista – il quale incidentalmente, tranne pochissi-me eccezioni, è stato quello degli uomini di Stato, degli uominiforti di tutte le epoche e di tutti i Paesi – qualunque cosa condu-ca alla conservazione, alla grandezza, al potere dello Stato, nonimporta quanto sacrilega e rivoltante possa sembrare, quello è ilbene. E, al contrario, qualunque cosa si opponga agli interessidello Stato, per quanto giusta e sacra possa sembrare, quello è ilmale. Tale è la morale e la pratica secolare di tutti gli Stati.

Ed è la stessa cosa per quanto riguarda lo Stato fondato sullateoria del contratto sociale. Secondo questo principio il bene e ilgiusto cominciano solo con il contratto; sono essi stessi, infatti, isuoi reali contenuti e il suo proposito, cioè a dire, l’interessecomune e il diritto pubblico di tutti gli individui che hanno sot-toscritto tale contratto, con l’esclusione di tutti coloro che nerestano fuori. Il contratto, di conseguenza, altro non è se non lapiù grande soddisfazione data all’egocentrismo collettivo diun’associazione speciale e ristretta; questa, essendo fondata sulsacrificio parziale dell’egocentrismo individuale di ognuno deisuoi membri, respinge da sé, come stranieri e nemici naturali,l’immensa maggioranza degli uomini, siano essi organizzati omeno in associazioni analoghe.

L’esistenza di uno Stato sovrano ed esclusivo presupponenecessariamente l’esistenza e, se necessario, provoca la forma-zione di altri Stati similari, poiché è ovviamente naturale che gliindividui al di fuori di esso e da esso minacciati nella loro esi-stenza e nella loro libertà, si associno, a loro volta, contro di lui.Abbiamo così l’umanità divisa in un numero indefinito di Statistranieri, tutti ostili e minacciosi tra loro. Non c’è diritto comu-ne tra loro, né qualsivoglia contratto sociale; altrimenti cesse-

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rebbero di essere Stati indipendenti e diverrebbero membri fede-rati di un solo grande Stato. Ma a meno che tale grande Statonon abbracciasse l’intera umanità, esso si troverebbe a fronteg-giare altri grandi Stati, ognuno federato, ognuno saldo nella suaposizione di inevitabile ostilità. La guerra rimarrebbe la leggesuprema, l’ineluttabile condizione della sopravvivenza umana.

Ogni Stato, federato o meno, cercherebbe quindi di divenirepiù forte, dovrebbe divorare per non essere divorato, conquista-re per non essere conquistato, rendere schiavo per non esserereso schiavo: simili e tuttavia alieni, non potrebbero coesisteresenza la reciproca distruzione.

Lo Stato quindi è la più flagrante, la più cinica, la più com-pleta negazione dell’umanità. Esso frantuma la solidarietà uni-versale di tutti gli uomini sulla terra e li spinge all’associazioneal solo scopo di distruggere, conquistare e rendere schiavi tuttigli altri. Protegge solo i suoi cittadini, e solo entro i suoi confiniriconosce diritti, umanità e civiltà. Poiché non riconosce dirittifuori di sé, si arroga logicamente il potere di esercitare la piùferoce inumanità nei confronti dei popoli stranieri, che può sac-cheggiare, sterminare, o rendere schiavi a volontà. Se talvolta simostra generoso e umano verso di essi, ciò non avviene persenso del dovere, principalmente perché non ha doveri cheverso se stesso, e in subordine solo verso coloro che liberamentelo hanno formato e che liberamente continuano a costituirlo, opersino, come sempre succede alla lunga, verso coloro che sonodivenuti i suoi sudditi. Infatti non esiste una legge internaziona-le, perché mai potrebbe esistere in modo unificante e realisticosenza minare alle fondamenta proprio il principio della sovra-nità assoluta dello Stato. Esso non può avere doveri verso ipopoli stranieri, se quindi tratta un popolo conquistato in manie-ra umana, se lo saccheggia e lo stermina solo a metà, se non loriduce al più basso livello di schiavitù, ciò avviene per cautela,o perfino per pura magnanimità, mai però per senso del dovere:perché lo Stato ha l’assoluto diritto di disporre di un popoloconquistato a sua discrezione.

La flagrante negazione di umanità che costituisce la realeessenza dello Stato è, dal punto di vista dello Stato, il suo supre-mo dovere e la sua più grande virtù. Porta il nome di patriotti-smo e costituisce l’intera morale trascendente dello Stato.

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La chiamiamo morale trascendente perché di norma oltrepas-sa il livello della morale e della giustizia umane, tanto dellacomunità che del singolo individuo, e per la stessa ragione sitrova con queste in contraddizione. Così, offendere, opprimere,depredare, saccheggiare, assassinare o rendere schiavi i propriconcittadini è considerato, ordinariamente, un crimine. Ma nellavita pubblica, dal punto di vista del patriottismo, se queste cosevengono fatte a maggior gloria dello Stato per la conservazionee l’estensione del suo potere, allora tutte si trasformano in dove-re e virtù.

E questa virtù, questo dovere, sono obbligatori per ogni citta-dino patriottico; ci si aspetta da ciascuno l’esercizio dei medesi-mi non solo contro gli stranieri, ma anche contro i propri concit-tadini, membri o sudditi dello Stato come lui, ogniqualvolta laprosperità dello Stato lo richieda. Ciò spiega perché, fin dallanascita dello Stato, il mondo della politica è sempre stato e con-tinua ad essere il palcoscenico della furfanteria e del brigantag-gio senza limiti (che, per inciso, sono altamente considerati, per-ché santificati dal patriottismo, dalla morale trascendente edall’interesse supremo dello Stato). Questo spiega perché l’inte-ra storia degli Stati antichi e moderni altro non sia che una seriecontinua di crimini rivoltanti; perché re e ministri, di ieri e dioggi, di tutti i tempi e di tutte le nazioni – statisti, diplomatici,burocrati e guerrieri – se giudicati secondo la semplice morale egiustizia umana, avrebbero meritato cento, mille volte i lavoriforzati o il patibolo. Non c’è orrore, né crudeltà, sacrilegio ospergiuro, non c’è impostura o compromesso infame, non c’ècinica rapina, violenta spoliazione, squallido tradimento che nonsia stato – e tutt’ora sia – perpetrato dai rappresentanti degliStati, con nessun altro pretesto se non quelle duttili parole cosìconvenienti e pure così terribili: «per ragioni di Stato».

Queste sono davvero parole terribili perché hanno corrotto edisonorato, in seno alle classi dominanti della società, persinopiù uomini del cristianesimo. Non appena queste parole sonopronunciate, tutto diviene silenzio e tutto cessa: onestà, onore,giustizia, diritto, anche la compassione e quindi la logica e ilbuon senso. Il nero diventa bianco, e il bianco nero. Gli attiumani più bassi, le più vili fellonie, i più atroci crimini, diventa-no atti meritori. Il grande filosofo politico italiano Machiavelli

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fu il primo a usare queste parole, o quanto meno il primo a darloro il vero significato e l’immensa popolarità di cui tuttoragodono tra i nostri governanti. Pensatore realistico e positivo, semai ce ne fu uno, fu il primo a capire che gli Stati grandi epotenti si potevano fondare e mantenere solo attraverso il crimi-ne: attraverso tanti grandi crimini e con radicale disprezzo ditutto ciò che va sotto il nome di onestà. Egli ha scritto, spiegatoe provato questi fatti con franchezza terrificante, e poiché l’ideadi umanità era completamente sconosciuta nel suo tempo; poi-ché l’idea di fraternità – non umana ma religiosa – predicatadalla Chiesa cattolica, era a quel tempo, come sempre è stata,solo scandalosa ironia smentita continuamente dalle stesse azio-ni della Chiesa; poiché nessuno, nel suo tempo, neppure sospet-tava che ci fosse una cosa chiamata diritto popolare; poiché ilpopolo era sempre stato considerato una massa inerte e inetta,carne di Stato da essere modellata e sfruttata a discrezione; poi-ché non c’era assolutamente nulla al suo tempo, in Italia o altro-ve, ad eccezione dello Stato, Machiavelli concluse da questifatti, con una notevole dose di logica, che è lo Stato la metasuprema di tutta l’esistenza umana, da servire ad ogni costo. Epoiché l’interesse dello Stato prevaleva sopra ogni altra cosa, unbuon patriota non doveva indietreggiare di fronte a qualunquecrimine per servirlo.

Egli sostiene il crimine, esorta a compierlo, e ne fa la condi-tio sine qua non sia dell’intelligenza politica sia del vero patriot-tismo. Che lo Stato porti il nome di monarchia o di repubblica,il crimine sarà sempre necessario per la sua conservazione e ilsuo trionfo. Lo Stato, senza dubbio, cambierà di direzione e dimeta, ma la sua natura rimarrà la stessa: sempre l’attiva e per-manente violazione della giustizia, della compassione edell’onestà nell’interesse superiore dello Stato.

Sì, Machiavelli ha ragione. Non possiamo più dubitarne dopoun’esperienza di due secoli e mezzo da aggiungere alla sua. Sì,perché è tutta la storia a dircelo: mentre i piccoli Stati sono vir-tuosi soltanto perché deboli, gli Stati potenti si reggono solo sulcrimine.

Ma le nostre conclusioni saranno completamente differentidalle sue, e per un motivo molto semplice. Noi siamo i figlidella rivoluzione, e da essa abbiamo ereditato la religione

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dell’umanità, che dobbiamo fondare sulle rovine della religionedella divinità.

Noi crediamo nei diritti degli uomini, nella dignità e nellanecessaria emancipazione della specie umana. Noi crediamonella libertà e nella fraternità umana fondata sulla giustizia. Inuna parola, crediamo nel trionfo dell’umanità sulla terra. Maquesto trionfo che chiediamo con tutta la forza del nostro desi-derio, che vogliamo affrettare con i nostri sforzi uniti – perché èproprio alla sua natura la negazione del crimine, che è intrinse-camente la negazione dell’umanità – questo trionfo non puòessere raggiunto sino a quando il crimine non cesserà di essereciò che più o meno oggi è ovunque: la base reale dell’esistenzapolitica delle nazioni imbevute e dominate dalle idee delloStato.

Essendo ormai provato che nessuno Stato potrebbe esisteresenza commettere crimini, o quanto meno senza contemplarli eprogettarli, anche quando la sua impotenza dovesse impedirglidi perpetrarli, noi oggi optiamo per la necessità assoluta didistruggere gli Stati. O, se così si decidesse, per la loro radicalee completa trasformazione, di modo che, cessando di esserepoteri centralizzati e organizzati dall’alto verso il basso, in basealla violenza o all’autorità di qualche principio, essi possanoessere ricostruiti – con l’assoluta libertà per ogni gruppo di unir-si o no, e con la libertà, per ognuno di essi e sempre, di lasciareun’unione, anche se in precedenza liberamente accettata – dalbasso verso l’alto, secondo i bisogni reali e le tendenze naturalidei gruppi, attraverso la libera federazione di individui, associa-zioni, comuni, distretti, province e nazioni, tra l’umanità tutta.Tali sono le conclusioni alle quali inevitabilmente si giunge esa-minando le relazioni esterne che i cosiddetti liberi Stati manten-gono con gli altri Stati.

Esaminiamo ora le relazioni mantenute dagli Stati fondati sullibero contratto con i propri cittadini sudditi.

Abbiamo già osservato che escludendo l’immensa maggio-ranza della specie umana da sé, tenendo questa maggioranzafuori dai reciproci impegni e doveri di moralità, di giustizia e didiritto, lo Stato nega l’umanità e, usando quella sua nuova paro-la che è patriottismo, impone ingiustizia e crudeltà quale supre-mo dovere a tutti i suoi sudditi. Esso riduce, mutila, assassina la

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loro umanità, cosicché, cessando di essere uomini, essi possanoessere solo dei cittadini, o più precisamente non possano, attra-verso la successione e connessione storica dei fatti, mai elevarsisopra la dimensione del cittadino, all’altezza dell’essere umano.Abbiamo anche visto che ogni Stato, per timore di esseredistrutto o divorato dagli Stati vicini, deve perseguire l’onnipo-tenza e, una volta divenuto potente, deve operare conquiste. Chiparla di conquiste parla di popoli conquistati, soggiogati, ridottiin schiavitù in qualsivoglia forma o denominazione. La schia-vitù, pertanto, è la necessaria conseguenza dell’effettiva esisten-za dello Stato.

La schiavitù può cambiare di forma e di nome, ma la suaessenza rimane la medesima. La sua essenza può essere espres-sa con queste parole: essere schiavo significa essere costretto alavorare per qualcun altro, proprio come essere padrone signi-fica vivere sul lavoro di qualcun altro. Nell’antichità, propriocome oggi in Asia e in Africa e anche in una parte dell’Ameri-ca, gli schiavi erano chiamati in tutta onestà schiavi. Nel Medioevo presero il nome di servi; oggi essi vengono chiamati salaria-ti. La condizione di quest’ultima classe comporta molta piùdignità ed è meno dura di quella degli schiavi, ma nondimenoessi sono costretti, sia dalla fame sia dalle istituzioni sociali epolitiche, a mantenere altra gente in completo o relativo ozioattraverso il loro eccessivo e faticoso lavoro. Di conseguenza,sono schiavi. E in generale, nessuno Stato, antico o moderno, èriuscito e mai riuscirà a tirare avanti senza il lavoro forzato dellemasse, salariate o schiave che siano, in quanto fondamentoassolutamente necessario dell’ozio, della libertà e della civiltàdella classe politica: i cittadini. Su questo punto, neppure gliStati Uniti d’America possono fino a questo momento costituireun’eccezione.

Tali sono le condizioni interne su cui necessariamente si basalo Stato se si prende in considerazione la sua obiettiva «posizio-ne di gioco», che è la naturale, permanente e ineluttabile ostilitàverso tutti gli altri Stati. Vediamo ora la condizione dei cittadinidi uno Stato risultante da quel libero contratto attraverso cui essiapparentemente costituirono se stessi in Stato.

Lo Stato non solo ha la missione di garantire la sicurezza deisuoi membri da ogni attacco proveniente dall’esterno, ma deve

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anche difenderli all’interno dei confini, alcuni contro gli altri eognuno di essi contro se stesso, poiché lo Stato – ed è questa lacaratteristica più profonda di ogni Stato e di ogni sua ideologia– presuppone che gli uomini siano essenzialmente cattivi e per-versi. Nello Stato il bene, come abbiamo visto, inizia solo conl’instaurarsi del contratto sociale e, dunque, altro non è se non ilprodotto e il reale contenuto del contratto medesimo. Il benenon è il prodotto della libertà. Al contrario, fino a quando gliuomini restano isolati nella loro assoluta individualità, godendodella loro piena libertà naturale alla quale non riconosconoalcun limite se non quello dei fatti, e non della legge, essiseguono una sola legge: quella del loro naturale egocentrismo.Essi si offendono, si maltrattano, si derubano; si limitano nellalibertà di movimento; si divorano a seconda delle proprie intelli-genza, astuzia e risorse materiali, facendo esattamente ciò chegli Stati fanno fra di loro. Secondo questo ragionamento, lalibertà non produce il bene, bensì il male; l’uomo è cattivo pernatura. Ma come è diventato cattivo? È compito della teologiaspiegarlo. Il fatto è che la Chiesa, alla sua nascita, trova l’uomogià cattivo e si assume il compito di renderlo buono, di trasfor-mare cioè l’uomo naturale in cittadino.

A ciò si potrebbe ribattere che, poiché lo Stato è il prodottodi un contratto liberamente concluso dagli uomini, poiché ilbene è il prodotto dello Stato, ne consegue che il bene è il pro-dotto della libertà! Questa conclusione non è per nulla giusta.Lo Stato, secondo questo ragionamento, non è il prodotto dellalibertà, ma al contrario è il prodotto di un volontario sacrificio edi una negazione di libertà. Gli uomini naturali, totalmente igna-ri del diritto, ma esposti nei fatti a tutti i pericoli che minaccianola loro sicurezza in ogni momento, allo scopo di assicurare esalvaguardare tale sicurezza sacrificano o rinunciano, più omeno liberamente, alla propria libertà; e poiché hanno sacrifica-to libertà per sicurezza, diventano in tal modo cittadini, ossiaschiavi dello Stato. Abbiamo quindi ragione ad affermare che,dal punto di vista dello Stato, il bene non è generato dallalibertà quanto piuttosto dalla negazione della libertà.

Non è sorprendente trovare una così stretta corrispondenzatra teologia, ovvero «scienza della Chiesa», e politica, ovvero«scienza dello Stato», trovare una tale concordanza tra due ordi-

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ni di idee e di realtà apparentemente così discordi eppure cosìsimili nel sostenere il medesimo convincimento, e cioè che lalibertà umana deve essere distrutta se gli uomini devono esseremorali, se devono essere trasformati in santi (per la Chiesa) oin cittadini virtuosi (per lo Stato)? Eppure non siamo affattosorpresi da questa peculiare armonia, perché siamo convinti, ecerchiamo di provarlo, che politica e teologia sono due sorellenate dalla stessa fonte e tese agli stessi fini sotto nomi diversi, eche ogni Stato è una Chiesa terrena, proprio come ogni Chiesacon il suo paradiso particolare, dimora del Dio beato e immorta-le, altro non è che uno Stato celeste.

Così lo Stato, come la Chiesa, parte da questo presuppostofondamentale: che gli uomini siano essenzialmente cattivi e che,se abbandonati alla loro libertà individuale, si farebbero a pezzie offrirebbero lo spettacolo della più terribile anarchia, dove ipiù forti sfrutterebbero e massacrerebbero i deboli – tutto il con-trario di quello che avviene nei nostri odierni Stati, inutile dirlo!Lo Stato stabilisce il principio che per fondare l’ordine pubblicooccorre un’autorità superiore; per guidare gli uomini e reprime-re le loro cattive passioni, occorre una direzione e un freno [...].

Allo scopo di assicurare l’osservanza dei principi e della ammi-nistrazione delle leggi in qualsivoglia società umana, occorre checi sia un potere vigilante, regolatore e, se necessario, repressivoalla testa dello Stato. Resta da trovare chi dovrebbe e potrebbeesercitare tale potere.

Per uno Stato fondato sul diritto divino e per l’intervento diun qualsivoglia Dio, la risposta è abbastanza semplice: gli uomi-ni atti all’esercizio di tale potere sono, in primo luogo, i preti e,in secondo luogo, le autorità temporali a ciò consacrate daipreti. Per uno Stato fondato sul libero contratto sociale, la rispo-sta è molto più difficile. In una pura democrazia di uguali –l’insieme dei quali, comunque, è considerato incapace di auto-controllo per quanto concerne il benessere comune, poiché laloro libertà tende naturalmente al male – chi può essere il veroguardiano e amministratore delle leggi, il garante della giustiziae dell’ordine pubblico contro le cattive passioni di chiunque? Inuna parola, chi soddisfa le funzioni dello Stato?

I migliori cittadini, sarebbe la risposta; i più intelligenti e ipiù virtuosi, quelli che capiscono meglio degli altri gli interessi

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comuni della società e la necessità, il dovere di ognuno, disubordinare i propri interessi al bene comune. È infatti necessa-rio che questi uomini siano tanto intelligenti quanto virtuosi; sefossero intelligenti, ma mancassero di virtù, essi utilizzerebberoil bene pubblico per i loro interessi privati, e se fossero virtuosi,ma mancassero di intelligenza, la loro buona fede non sarebbesufficiente a preservare l’interesse pubblico dai loro errori.

È quindi necessario, affinché una repubblica non perisca, cheper tutta la sua durata sia continuamente disponibile un buonnumero di cittadini in possesso sia di virtù che di intelligenza.

Ma questa condizione non può essere facilmente esaudita.Nella storia di ogni Paese le epoche che possono vantare ungruppo consistente di uomini eccezionali sono rare, e rimastefamose attraverso i secoli. Ordinariamente, entro l’ambito delpotere sono gli insignificanti e i mediocri che dominano, esovente, come si è visto nella storia, sono il vizio e la sopraffa-zione a trionfare.

Possiamo quindi concludere che se fosse stato vero quanto èpostulato dalla teoria del cosiddetto Stato liberale o nazionale, ecioè che la conservazione e la durata di ogni società politicadipende dal succedersi di uomini rimarchevoli tanto per la lorointelligenza quanto per la loro virtù, tutte le società oggi esisten-ti avrebbero cessato di esistere molto tempo fa. Se a queste dif-ficoltà – per non dire impossibilità – aggiungessimo quelle chesorgono dalla peculiare decadenza morale insita nel potere,quali le fortissime tentazioni cui sono esposti tutti gli uominiche detengono il potere nelle loro mani, le ambizioni, le rivalità,le gelosie, le cupidigie gigantesche che assalgono giorno e nottecoloro che occupano le posizioni più alte, e contro le quali nél’intelligenza né la virtù possono prevalere, in special modo perquanto riguarda la vulnerabilissima virtù del singolo uomo,meraviglia il fatto che tante società esistano tuttora. Ma passia-mo oltre.

Poniamo che, in una società ideale, esista in ogni periodo unnumero sufficiente di uomini intelligenti e virtuosi che espletidegnamente le principali funzioni dello Stato. Chi li scegliereb-be, chi li selezionerebbe, chi porrebbe le redini del potere nelleloro mani? Sarebbero essi stessi, consapevoli della propria intel-ligenza e virtù, a impossessarsi del potere? Ciò fu fatto da due

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saggi dell’antica Grecia, Cleobolo e Periandro; e nonostante laloro supposta grande saggezza, i Greci applicarono ad essil’odioso nome di tiranni. Ma in quale modo simili uomini siimpadronirebbero del potere? Con la persuasione, o forse con laforza? Se usassero la persuasione, allora diremmo che colui chemeglio può persuadere è colui che è persuaso, e che i miglioriuomini sono esattamente coloro che meno sono persuasi del lorovalore. Anche quando ne sono consapevoli, normalmente trova-no ripugnante imporlo agli altri, mentre i mediocri e i malvagi,sempre soddisfatti di se stessi, non sentono ripugnanza alcunanel glorificarsi. Ma supponiamo pure che il desiderio di servireil proprio Paese abbia ragione della naturale modestia dei veriuomini di valore e li induca ad offrirsi come candidati al suffra-gio dei loro concittadini. Il popolo sceglierebbe sicuramentequesti invece degli ambiziosi, dei parolai, degli intriganti? Seinvece volessero usare la forza, dovrebbero in primo luogoavere a disposizione una forza capace di aver ragione della resi-stenza di un intero partito. Essi otterrebbero il potere attraversouna guerra civile, che finirebbe con un partito d’opposizionebattuto ma ancora ostile.

Per prevalere, i vincitori dovrebbero persistere nell’uso dellaforza. E quindi una libera società diverrebbe uno Stato dispoticofondato e mantenuto sulla violenza, nel quale si potrebbero tro-vare molte cose degne di approvazione, ma mai la libertà.

Se vogliamo mantenere la pretesa di un libero Stato chesegue a un contratto sociale, dobbiamo presumere che la mag-gioranza dei suoi cittadini abbia avuto la cautela, il discernimen-to e il senso di giustizia necessari a eleggere i più meritevoli e ipiù capaci, e metterli a capo del governo. Ma se un popolo hamostrato queste qualità, non una sola volta e per caso, ma sem-pre nella sua esistenza, in tutte le elezioni fatte, non significhe-rebbe che il popolo, come massa, ha raggiunto un tale grado dimoralità e cultura che non ha più bisogno di governo né diStato? Un tale popolo non si trascinerebbe in un’esistenza dis-sennata, dando libero sfogo a tutti i suoi istinti; giustizia e ordi-ne pubblico sorgerebbero spontanei e naturali dalla sua vita. LoStato cesserebbe di essere il suo guardiano, l’educatore, chiprovvede e regola la società. Avendo rinunciato a tutto il suopotere repressivo, e assumendo quella posizione subordinata

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che gli ha assegnato Proudhon, lo Stato diventerebbe un meroufficio d’affari, una specie di ufficio contabile a carico dellasocietà.

Non c’è dubbio che una tale organizzazione politica, omeglio una tale riduzione di azione politica a favore della libertàdella vita sociale, sarebbe un gran beneficio per la società, ma innessun modo soddisferebbe gli irriducibili campioni dello Stato.Per essi lo Stato, in quanto gestore della vita sociale, dispensato-re di giustizia e regolatore di ordine pubblico, è una necessità.In altre parole, sia che l’ammettano o meno, sia che chiamino sestessi repubblicani, democratici o perfino socialisti, sempredevono avere a disposizione un popolo più o meno ignorante,immaturo, incompetente, o per dirla fuori dai denti, una speciedi «canaglia» da governare. Ciò permette loro, senza far violen-za al loro nobile altruismo e alla loro modestia, di tenere per sé iposti più prestigiosi, e così dedicarsi sempre al bene comune,naturalmente. Come guardiani privilegiati dell’umano gregge,forti della loro virtuosa dedizione e della loro intelligenza supe-riore, nello spingere avanti il popolo e, per il suo bene, repri-merlo, essi sarebbero nella posizione di tosare discretamente ilgregge a proprio beneficio.

Ogni teoria logica e franca dello Stato è fondata essenzial-mente sul principio di autorità; che è l’idea eminentemente teo-logica, metafisica e politica secondo cui le masse, sempre inca-paci di governarsi da sole, devono sottomettersi al beneficogiogo di una saggezza e di una giustizia loro imposte, in unmodo o nell’altro, dall’alto. Imposta in nome di cosa e da chi?L’autorità che come tale è rispettata dalle masse può proveniresolo da tre fonti: forza, religione o azione di un’intelligenzasuperiore. Poiché stiamo discutendo la teoria dello Stato fondatosul libero contratto, dobbiamo rimandare la discussione su que-gli Stati fondati sull’autorità dualistica di religione e forza, e peril momento confinare la nostra attenzione all’autorità basata suun’intelligenza superiore che, come sappiamo, è sempre rappre-sentata da minoranze.

Che cosa vediamo in tutti gli Stati passati e presenti, anche inquelli dotati delle istituzioni più democratiche come gli StatiUniti d’America e la Svizzera? L’effettivo autogoverno dellemasse, nonostante la pretesa secondo cui il popolo regge tutto il

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potere, il più delle volte resta una finzione. Sono sempre mino-ranze, infatti, a governare. [...]

In Svizzera, nonostante tutte le rivoluzioni democratiche chevi hanno avuto luogo, il governo è ancora nelle mani dei bene-stanti, della classe media, dei pochi privilegiati che sono ricchi,oziosi e istruiti. La sovranità del popolo – un termine che, inci-dentalmente, detestiamo, poiché ogni sovranità è per noi dete-stabile – o l’autogoverno delle masse è qui null’altro che unafinzione. Secondo la legge il popolo è sovrano, ma non nei fatti.Poiché esso è necessariamente occupato nel lavoro quotidianoche non lascia tempo libero, e quindi, se non totalmente igno-rante, ha una cultura nettamente inferiore a quella della classemedia e proprietaria, è costretto a lasciare la pretesa sovranitànelle mani della classe media. Il solo vantaggio che il popolotrae dalla situazione, sia in Svizzera sia negli Stati Uniti d’Ame-rica, è che le minoranze ambiziose, i cacciatori di potere politi-co, non possono raggiungere il potere se non corteggiandolo,adeguandosi alle sue instabili passioni – che a volte possonoessere malvagie – e nella maggioranza dei casi imbrogliandolo.

Nessuno creda che criticando i governi democratici s’intendadimostrare una nostra preferenza per la monarchia. Siamo fer-mamente convinti che la più imperfetta delle repubbliche siameglio della più illuminata delle monarchie. In una repubblicaci sono almeno brevi periodi in cui il popolo, anche se sempresfruttato, non è oppresso; nelle monarchie l’oppressione ècostante. Il regime democratico, inoltre, introduce gradualmentele masse alla partecipazione alla vita pubblica, cosa questa chenon si verifica mai in una monarchia. Cionondimeno, se prefe-riamo la repubblica, dobbiamo riconoscere e proclamare chequalunque forma di governo ci sia, fino a che la società umanacontinuerà ad essere divisa in classi differenti, risultanti da dise-guaglianze ereditarie di occupazione, ricchezza, educazione ediritti, ci sarà sempre un governo ristretto a una classe e l’inevi-tabile sfruttamento delle maggioranze da parte di minoranze.

Lo Stato altro non è se non questa dominazione e questosfruttamento, ben regolato e sistematizzato. Cercheremo di pro-varlo esaminando le conseguenze del governo delle masse daparte di una minoranza intelligente e dedita al suo compitoquanto si voglia, in uno Stato ideale fondato sul libero contratto.

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Una volta che le condizioni del contratto siano state accetta-te, non resta che metterle in pratica. Supponiamo che un popoloriconosca la propria incapacità a governare, ma abbia comunquesufficiente capacità di giudizio da affidare l’amministrazionedegli affari pubblici ai cittadini migliori. All’inizio questi indivi-dui sono stimati non per la loro posizione sociale, ma per le lorobuone qualità. Sono stati eletti dal popolo perché sono i piùintelligenti, capaci, saggi, coraggiosi e i più attivi fra essi. Poi-ché vengono dalla massa del popolo, dove si suppone che tuttisiano uguali, essi non costituiscono ancora una classe separata,ma un gruppo di uomini privilegiati soltanto dalla natura, e perquesta sola ragione eletti dal popolo.

Il loro numero è necessariamente molto limitato, perché intutti i tempi e in tutte le nazioni il numero degli uomini dotati diqualità tanto notevoli da costringere automaticamente unanazione al rispetto unanime è molto piccolo, come ci insegnal’esperienza. Quindi, anche a costo di fare una cattiva scelta, ilpopolo sarà costretto a eleggere i suoi governanti fra loro.

Ecco dunque una società già divisa in due categorie, anche senon ancora in due classi. Una è composta dall’immensa mag-gioranza dei suoi cittadini, che liberamente si sottomette algoverno di coloro che ha eletto; l’altra è composta da un piccolonumero di uomini dotati di attributi eccezionali, riconosciuti eaccettati come eccezionali dal popolo, ai quali è stato affidato ilcompito di governare. Poiché questi uomini dipendono dal suf-fragio popolare, essi all’inizio non possono essere distinti dallamassa dei cittadini, tranne che per quelle qualità che ne racco-mandarono l’elezione, e sono naturalmente i cittadini più utili epiù attivi fra tutti. Essi non richiedono ancora privilegio alcunoné speciali diritti, tranne quello di espletare, secondo la volontàpopolare, le speciali funzioni loro affidate. Inoltre, essi non sonoin alcun modo diversi dall’altra gente, sia per stile di vita cheper il modo di guadagnarsi da vivere, cosicché una perfettauguaglianza esiste ancora fra tutti.

Può questa uguaglianza essere mantenuta per un certotempo? Noi sosteniamo di no, e ci è abbastanza facile provarlo.

Nulla è più pericoloso, per la moralità personale di un uomo,dell’abitudine al comando. Gli uomini migliori e più intelligenti,privi di egoismo, generosi e puri, sempre e inevitabilmente

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saranno corrotti dall’esercizio del potere. Due sentimenti, ine-renti all’esercizio del potere, mai mancheranno di produrre que-sta corruzione: disprezzo per le masse e, per l’uomo che regge ilpotere, un esagerato senso del proprio valore.

«Le masse, nell’ammettere la propria incapacità di governarese stesse, mi hanno eletto come loro capo. Nel far ciò hannochiaramente proclamato la loro inferiorità e la mia superiorità.E in questa grande folla di uomini, tra i quali non riesco a trova-re quasi nessuno che sia mio eguale, io sono il solo capace diamministrare gli affari pubblici; il popolo ha bisogno di me, nonpuò andare avanti senza i miei servizi, mentre io basto a mestesso. Essi devono dunque obbedirmi per il loro bene, e io,degnandomi di comandarli, creo la loro felicità e il loro benes-sere».

Ce n’è abbastanza per far girar la testa a chiunque e corrom-perne il cuore, per gonfiare chiunque d’orgoglio, non è vero?Avviene così che il potere e l’abitudine al comando diventinofonti di aberrazioni, sia intellettuali che morali, anche per i piùintelligenti e i più virtuosi tra gli uomini.

Ogni morale umana (e cercheremo più avanti di dimostrarel’assoluta validità di questo principio, lo sviluppo, la spiegazio-ne, la più ampia applicazione del quale costituisce l’effettivosoggetto di questo saggio), ogni morale individuale e collettivasi fonda essenzialmente sul rispetto per l’umanità. Cosa inten-diamo con rispetto per l’umanità? Intendiamo il riconoscimentodel diritto umano e della dignità di ogni uomo, qualunque sia larazza, il colore, il grado di sviluppo intellettuale e perfino qua-lunque sia la sua morale. Ma se quest’uomo è stupido, cattivo omeritevole di disprezzo, posso io rispettarlo? Naturalmente, seegli è tutto ciò, mi è impossibile rispettare la sua fellonia, la suastupidità e la sua brutalità; esse mi sono ripugnanti e accendonola mia indignazione. Prenderò, se necessario, le più energichemisure contro di esse, fino al punto di ucciderlo se non ho altromodo per difendere la mia vita, il mio diritto e qualunque altracosa ritenga preziosa e degna. Ma anche in mezzo alla lotta piùviolenta, amara e perfino mortale tra noi, io devo rispettare ilsuo carattere umano. La mia stessa dignità di uomo dipende daquesto. Ma se egli manca di riconoscere questa dignità in altri,devo io riconoscerla in lui? Se è una specie di belva feroce o,

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come qualche volta succede, addirittura peggio di una bestia, ilriconoscere la sua umanità non sarebbe mera finzione da partenostra? No, perché qualunque sia la sua attuale degradazionemorale e intellettuale, se organicamente non è né idiota né matto– nel qual caso dovrebbe essere trattato più come un malato checome un criminale – ma è in pieno possesso delle sue facoltà edell’intelligenza concessagli dalla natura, la sua umanità, nonimporta quanto mostruose le sue deviazioni possano essere, esi-ste comunque. Esiste come capacità potenziale, per tutta la vita,di innalzarsi e giungere a consapevolezza della propria uma-nità, anche se ci fossero poche possibilità di un radicale cam-biamento delle condizioni sociali che hanno fatto di lui ciò cheè.

Se si prende la scimmia più intelligente, con le più favorevolipredisposizioni, e la si mette nell’ambiente migliore e più uma-nizzato, mai si riuscirà a farne un essere umano. Se si prende ilcriminale più incallito, o l’uomo dalla mente più povera, a menoche non esistano lesioni organiche causa di idiozia e insanità, lacriminalità dell’uno e l’incapacità dell’altro a sviluppare lacoscienza della propria umanità e dei propri doveri umani nonsono errori imputabili a loro, né dovuti alla loro natura; sonosoltanto il prodotto dell’ambiente sociale in cui sono nati e cre-sciuti.

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III

La dimensione positiva e anarchica della libertà consiste nelpieno sviluppo e nel completo godimento di tutte le facoltà e lepotenzialità umane di ognuno attraverso la società, che è neces-sariamente precedente al sorgere del suo pensiero, della suaparola e della sua volontà. E infatti l’uomo realizza la sua uma-nità solo per mezzo degli sforzi collettivi di tutti i membri, pas-sati e presenti, della società, base e punto d’avvio dell’esistenzaumana.

Dunque la dimensione positiva della libertà è eminentementecollettiva; il suo ruolo, però, consiste nel potenziare la libertàindividuale, non nell’indicare all’uomo le direzioni e il sensoultimo della sua azione, la cui natura rimane irriducibilmentesoggettiva e perciò immune da ogni codificazione di senso pro-veniente da fonte esterna. Di qui una delineazione radicale delrapporto tra libertà individuale e contesto sociale, tra impulsoesistenziale ed etica pubblica. Poiché, infatti, la libertà indivi-duale e collettiva è l’unica creatrice dell’ordine umano, ne deri-va che da essa nasce l’assoluto diritto di ogni uomo o donnaadulti di non cercare per le proprie azioni altre conferme chequelle della propria coscienza e della propria ragione, di nondeterminarle che per mezzo della propria volontà e di essernequindi, prima di tutto responsabili solo verso se stessi e poi neiconfronti della società di cui fanno parte, ma solo in quantoconsentono liberamente di farne parte. Il che significa, in altri

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termini, che se la società è pre-esistente all’individuo – conl’ovvia conseguenza che la libertà non può essere cercata primao fuori di essa – non è però nella sua esistenza che va cercata lanatura ultima della libertà, la cui ragione è invece annidatanella coscienza del singolo individuo responsabile verso se stes-so e poi nei confronti della società di cui fa parte per liberascelta. In questo senso – un senso perfettamente anarchico – leprerogative della libertà individuale sono costitutive del signifi-cato sociale e universale della libertà stessa. Sono, cioè, irridu-cibili ad ogni ulteriore specificazione della ragion d’essere diuna società libera.

La cifra sociale della libertà costituisce in realtà la sua cifrastorica, in quanto è il riconoscimento dell’accumulo progressi-vo della coscienza che la libertà ha di sé attraverso il travaglioincessante del tempo. La libertà si fa, la libertà diviene perché èuna costruzione umana; essa è carica di tutto il passato, anzi, neè il più alto e nobile distillato.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti da Dio e lo Stato,pubblicato nel volume Rivolta e libertà, Editori Riuniti, Roma1973 e dal Catechismo rivoluzionario pubblicato nel volumeLibertà uguaglianza rivoluzione, Antistato, Milano 1976.

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LA LIBERTÀ

[...] Io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri chemi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. Lalibertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione dellamia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la con-ferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertàdegli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che micircondano, e più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa,profonda e ampia diviene la mia libertà. È invece proprio laschiavitù degli uomini a porre una barriera alla mia libertà, o,che è lo stesso, è la loro bestialità a negare la mia umanità; per-ché, di nuovo, posso dirmi veramente libero solo quando la mialibertà, o, che è lo stesso, quando la mia dignità di uomo, il miodiritto umano, che consiste nel non obbedire a nessun altrouomo e nel determinare i miei atti in conformità con le mie con-vinzioni, mediate attraverso la coscienza ugualmente libera di

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tutti, solo quando la mia libertà e la mia dignità mi ritornanoconfermate dall’assenso di tutti. La mia libertà personale, cosìconvalidata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito.

Si vede dunque che la libertà, così com’è concepita dai mate-rialisti, è un fatto molto positivo, complesso ed eminentementesociale: essa infatti può realizzarsi solo nella società e con lamassima uguaglianza e solidarietà di tutti.

Nella libertà si possono distinguere tre momenti di sviluppo,tre elementi, il primo dei quali è di carattere decisamente positi-vo e sociale: esso consiste nel pieno sviluppo e nel completogodimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialitàumane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione scientificae la prosperità materiale, tutte cose che l’uomo può acquisiresolo con il lavoro collettivo, fisico e intellettuale, muscolare enervoso, di tutta la società. Il secondo elemento o momento dellalibertà è negativo. È il momento della rivolta dell’individuo con-tro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale.

Si tratta, in primo luogo, della rivolta contro la tirannia delsupremo fantasma della teologia, contro Dio. È evidente chefinché avremo un padrone in cielo saremo schiavi sulla terra. Lanostra ragione e la nostra volontà saranno parimenti annullate.Finché saremo convinti di dovere a Dio un’obbedienza assoluta,e davanti a Dio non è possibile altro tipo di obbedienza, dovre-mo necessariamente sottometterci in modo passivo e senza laminima critica alla sacra autorità dei suoi intermediari e dei suoieletti: i messia, i profeti, i legislatori per divina ispirazione, gliimperatori, i re e tutti i loro funzionari e ministri, rappresentantie servitori consacrati delle due grandi istituzioni che si impon-gono, in quanto istituite da Dio stesso, come guida degli uomini:la Chiesa e lo Stato. Ogni autorità temporale o umana discendedirettamente dall’autorità spirituale o divina. Ma l’autorità è lanegazione della libertà. Dio, o piuttosto la finzione di Dio, èdunque la consacrazione e la causa intellettuale e morale di ognischiavitù sulla terra; e la libertà degli uomini sarà completa soloquando essa avrà distrutto la nefasta finzione di un padroneceleste.

Si tratta, in secondo luogo, della rivolta contro la tiranniadegli uomini, contro l’autorità individuale e sociale rappresenta-ta e legalizzata dallo Stato. A questo punto è necessario inten-

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dersi bene e a tal fine bisogna istituire una distinzione moltonetta tra l’autorità ufficiale, e quindi tirannica, della societàorganizzata come Stato e l’influenza e l’azione naturale dellasocietà non ufficiale su ciascuno dei suoi membri.

La rivolta contro l’influenza naturale della società è moltopiù difficile per l’individuo che non la rivolta contro la societàufficialmente organizzata, contro lo Stato, sebbene sia spessoaltrettanto inevitabile quanto quest’ultima. La tirannia sociale,che è spesso opprimente, gravosa e funesta, non presenta quelcarattere di violenza imperativa, di dispotismo legalizzato e for-male che è proprio dell’autorità dello Stato. La tirannia socialenon s’impone come una legge alla quale ogni individuo è obbli-gato a sottomettersi sotto pena d’incorrere in una sanzione giuri-dica. La sua azione è più dolce, insinuante, impercettibile, ma èanche più potente di quella dell’autorità statale. Essa domina gliuomini con i costumi, le tradizioni, i sentimenti, i pregiudizi, leabitudini tanto della vita materiale quanto di quella dello spiritoe del cuore, ossia con tutto ciò che chiamiamo opinione pubbli-ca. Questa tirannia avvolge l’uomo sin dalla nascita, lo pervade,lo penetra e crea la base stessa della sua esistenza individuale,così che ognuno ne è in qualche modo, in misura maggiore ominore e spesso senza nemmeno sospettarlo, complice contro sestesso. Da ciò consegue che, per ribellarsi all’influenza che lasocietà esercita naturalmente su di lui, l’uomo deve almeno inparte rivoltarsi contro se stesso, perché con tutte le sue tendenzee aspirazioni materiali, intellettuali e morali egli non è altro cheil prodotto della società. Di qui l’immenso potere esercitatodalla società sugli uomini.

Dal punto di vista della morale assoluta, cioè dal punto divista del rispetto umano (e dirò tra poco che cosa intendo conqueste parole), il potere della società può essere tanto beneficoquanto dannoso. È benefico quando tende allo sviluppo dellascienza, della prosperità materiale, della libertà, dell’uguaglian-za, della fraterna solidarietà tra gli uomini; è dannoso quando hatendenze contrarie. Se un uomo nasce in una società di brutisarà, tranne rare eccezioni, un semibruto; se invece nasce in unasocietà governata dai preti, diventerà un idiota, un baciapile; inuna banda di ladri probabilmente un ladro; nelle file della bor-ghesia, uno sfruttatore del lavoro altrui; e se ha la sventura di

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nascere tra i semidei che governano la terra – nobili, principi,figli di re – sarà, a seconda delle sue capacità, dei suoi mezzi edella sua potenza, un asservitore dell’umanità, un tiranno. Intutti questi casi, perché l’individuo diventi umano, è indispensa-bile che si rivolti contro la società che l’ha visto nascere.

Ma, lo ripeto, la rivolta dell’individuo contro la società èmolto più difficile della rivolta contro lo Stato. Lo Stato èun’istituzione storica, una forma sociale transitoria come laChiesa stessa di cui è fratello cadetto, ma non possiede affatto ilcarattere fatale e immutabile della società, che precede ogni svi-luppo dell’umanità e che, pienamente partecipe dell’onnipoten-za delle leggi, dell’azione e delle manifestazioni dei fenomeninaturali, costituisce il fondamento stesso dell’esistenza umana.L’uomo, dopo aver fatto il primo passo verso l’umanità, dopoaver cominciato a diventare una persona umana, cioè un essereche più o meno parla e pensa, nasce nella società come la formi-ca nel suo formicaio e l’ape nel suo alveare. L’uomo non scegliela società, ne è invece il prodotto, ed è fatalmente sottomessoalle leggi di natura che regolano gli inevitabili sviluppi dellasocietà nello stesso modo in cui obbedisce a tutte le altre legginaturali. La società, come la natura, precede e al tempo stessosopravvive a ogni individuo; essa è eterna come la natura, omeglio, nata sulla terra, durerà tanto a lungo quanto il mondo.Una rivolta radicale contro la società è quindi impossibile perl’uomo come la rivolta contro la natura, poiché la società umanaaltro non è se non l’ultima grande manifestazione o creazionedella natura sulla terra; e un individuo che volesse mettere incausa la società, cioè la natura in generale e la sua propria natu-ra in particolare, si porrebbe per ciò stesso al di fuori di ognireale esistenza, si lancerebbe nel nulla, nel vuoto assoluto, nellamorta astrazione, in Dio. Domandarsi se la società sia un bene oun male è pertanto impossibile come domandarsi se la natura,l’essere universale, reale, unico, supremo, assoluto sia un bene oun male; la società è molto di più di tutto questo: è un immensofatto positivo e originario, che precede ogni coscienza, ogniidea, ogni giudizio intellettuale e morale; è il fondamento stessosu cui fatalmente si sviluppa per noi ciò che chiamiamo bene emale.

Lo stesso non si può dire dello Stato. E non esito ad afferma-

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re che lo Stato è un male, ma un male storicamente necessario,altrettanto necessario nel passato quanto necessaria sarà presto otardi la sua completa estinzione; un male necessario come labestialità primitiva e le elucubrazioni teologiche degli uomini.Lo Stato non è la società, ma una sua forma storica tanto brutalequanto astratta. È nato storicamente in tutti i Paesi dal connubiotra violenza, rapina e saccheggio, in breve la guerra, la conqui-sta e gli dei creati dalla fantasia teologica delle nazioni. Sindalle sue origini esso è stato, e continua tuttora ad essere, la san-zione divina della forza bruta e dell’iniquità trionfante. Anchenei Paesi più democratici, come gli Stati Uniti d’America e laSvizzera, lo Stato è la puntuale consacrazione del privilegio diuna minoranza e del reale asservimento della maggioranza.

La rivolta contro lo Stato è molto più facile perché nella natu-ra stessa dello Stato c’è qualcosa che provoca la rivolta. Lo Statoè l’autorità, la forza, l’ostentazione della forza e l’infatuazioneper essa. Lo Stato non tenta di persuadere, di convertire, e tuttele volte che lo fa opera con estrema mala grazia; non è infattinella sua natura il persuadere, bensì l’imporre, il costringere.Sebbene tenti di mascherare questa sua natura dietro la violazio-ne legale della volontà degli uomini, esso è pur sempre la nega-zione permanente della loro libertà. Persino nell’imporre il benelo Stato è nocivo e corruttore proprio perché opera un’imposi-zione, e tutte le imposizioni provocano la legittima rivolta dellalibertà. Nel momento stesso in cui è imposto, dal punto di vistadella vera morale, della morale umana, non certo di quella divi-na, dal punto di vista del rispetto umano e della libertà, il bene sitrasforma in male. La libertà, l’etica e la dignità umane consisto-no appunto nel fatto che l’uomo opera il bene non perché glivenga imposto, ma solo perché lo vuole e lo ama.

La società non s’impone in modo formale, ufficiale, autorita-rio, ma in modo naturale; e proprio per questo la sua azionesull’individuo è incomparabilmente più potente di quella delloStato. Essa crea e plasma tutti gli individui che nascono e si svi-luppano nel suo seno, nei quali trasfonde, dal primo giorno divita sino a quello della morte, tutta la sua natura materiale,morale e intellettuale. La società, per così dire, si individualizzain ciascuno di loro. L’individuo umano reale è talmente poco unessere universale e astratto che ogni individuo, nel momento

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stesso in cui si forma nel ventre materno, è già determinato ecaratterizzato da un gran numero di cause e fattori materiali,geografici, climatici, demografici, igienici e quindi economici,che costituiscono specificamente la natura materiale propria sol-tanto della sua famiglia, classe, nazione, razza. E in quanto letendenze e le attitudini degli uomini dipendono dall’insieme ditutte queste influenze esterne o fisiche, ogni uomo nasce conuna natura o un carattere individuale materialmente determina-to. Di più, data la costituzione relativamente superiore del cer-vello umano, ogni uomo nascendo ha in sé, pur se in gradodiverso, non idee e sentimenti innati, come pretendono gli idea-listi, ma la capacità insieme materiale e formale di conoscere,pensare, parlare e volere. In sé reca soltanto la facoltà di forma-re e sviluppare le idee, insieme, come ho già detto, ad una capa-cità d’azione esclusivamente formale, senza alcun contenuto.Questo contenuto sarà dato all’uomo dalla società.

Non è questa la sede per ricercare come si siano formate leprime nozioni e le prime idee, che nelle società primitive sono inbuona parte del tutto assurde. Tutto ciò che possiamo dire conpiena fondatezza è che in origine le idee non sono state create insolitudine e spontaneamente dallo spirito miracolosamente illu-minato di individui ispirati, ma invece attraverso il lavoro collet-tivo, molto spesso impercettibile, dello spirito di tutti i compo-nenti di quelle società, spirito di cui le personalità più spiccate,gli uomini di genio, hanno fornito soltanto la più fedele e feliceespressione, poiché questi uomini, come Molière, hanno sempre«preso il bene ovunque lo trovassero». È stato quindi il lavorointellettuale collettivo delle società primitive a creare le primeidee, che da principio sono state semplici constatazioni, natural-mente molto imperfette, dei fatti naturali e sociali e considera-zioni scarsamente razionali su tali fatti. Hanno avuto inizio cosìtutte le rappresentazioni e intuizioni, tutti i pensieri umani. Illoro contenuto, lungi dall’essere creato da un’azione spontaneadello spirito umano, è stato originariamente prodotto dal mondoreale, tanto esteriore che interiore. Lo spirito dell’uomo, cioè illavoro o il funzionamento assolutamente organico e quindimateriale del suo cervello, stimolato dalle impressioni tantoesteriori che interiori trasmesse mediante i nervi, si è limitato adesplicare un’azione formale, consistente nel comparare e combi-

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nare le impressioni suscitate dalle cose e dai fatti in sistemi verio falsi. Sono nate così le prime idee. Attraverso la parola, leidee, o meglio le prime rappresentazioni, si sono precisate e con-solidate, passando da un individuo all’altro; le rappresentazioniindividuali si sono quindi incontrate, modificate, integrate reci-procamente e, fondendosi più o meno in un sistema unico,hanno plasmato la coscienza comune, il pensiero collettivo dellasocietà. Il pensiero trasmesso da una generazione all’altra e ulte-riormente sviluppato attraverso un lavoro secolare costituisce ilpatrimonio intellettuale e morale di una società, di una classe, diuna nazione.

Ogni nuova generazione trova già pronto, sin dalla nascita,tutto un mondo di idee, immagini e sentimenti, che essa ricevein eredità dai secoli passati. Questo mondo non si presenta albambino nella sua forma ideale, come un sistema di rappresen-tazioni e idee, come una religione, come una dottrina: il bambi-no sarebbe incapace di accoglierlo e concepirlo in questa forma;il mondo delle idee si impone a lui come un mondo di fatti per-sonificati, concretati nelle persone e nelle cose che lo circonda-no, come un mondo che parla ai suoi sensi attraverso tutto ciòche egli intende e vede sin dai primi giorni di vita. Le idee e lerappresentazioni umane, essendo state in origine semplici pro-dotti dei fatti reali, naturali e sociali, nel senso che ne sono stateil riflesso o la ripercussione nel cervello umano, la riproduzioneper così dire ideale e più o meno razionale di tali fatti attraversol’organo assolutamente materiale del pensiero umano, hannoacquistato più tardi, dopo essersi affermate come detto sopranella coscienza collettiva di una data società, la capacità di dive-nire a loro volta cause produttive di nuovi fatti, non propriamen-te naturali ma sociali. Le idee e le rappresentazioni umane giun-gono a modificare e trasformare, molto lentamente è vero, l’esi-stenza, le abitudini e le istituzioni umane, in breve tutti i rappor-ti sociali degli uomini; e in quanto si personificano nei fatti quo-tidiani della vita di tutti, diventano concreti e tangibili per tutti,anche per i bambini. Per questa via le idee e le rappresentazionis’impadroniscono a fondo di ogni nuova generazione sindall’inizio. Quando giunge all’età in cui propriamente incomin-cia il lavoro del pensiero, necessariamente accompagnato dauna rinnovata critica, la nuova generazione trova in se stessa,

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come nella società che la circonda, tutto un mondo già pronto dipensieri e rappresentazioni che le servono da punto di partenza ele forniscono in qualche modo la materia prima per il suo lavorointellettuale e morale. Le idee tradizionali e correnti sono cosìnumerose che i metafisici – ingannati dal fatto che esse, prove-nendo dall’esterno, penetrano e si imprimono impercettibilmen-te nel cervello dei bambini, prima ancora che questi ultimi sianopervenuti alla coscienza di sé – le chiamano erroneamente ideeinnate.

Tali sono le idee generali o astratte sulla divinità e sull’ani-ma, idee completamente assurde ma inevitabili, fatali nello svi-luppo storico dello spirito umano, che pervenendo solo moltolentamente, dopo secoli, alla conoscenza razionale e critica di sestesso e delle sue proprie manifestazioni, muove sempredall’assurdo per arrivare alla verità, muove sempre dalla schia-vitù per conquistare la libertà. Le idee sancite dall’ignoranzauniversale e dalla stupidità dei secoli, nonché – e tanto vantag-giosamente per loro – dall’interesse delle classi privilegiate,riscuotono un consenso così generale che oggi nessuno potrebbepronunciarsi contro di loro apertamente, e con un linguaggiopopolare, semplice e chiaro, senza provocare l’indignazionedelle masse e senza incorrere nel pericolo di esser lapidatodall’ipocrisia borghese. Accanto a queste idee totalmente astrat-te, ma sempre in intima relazione con loro, l’adolescente trovanella società e, per effetto dell’onnipotente influenza esercitatadalla società sulla sua infanzia, anche in se stesso un gran nume-ro di altre rappresentazioni e idee molto determinate che tocca-no più da vicino la vita concreta dell’uomo, la sua esistenzaquotidiana. Tali idee riguardano la natura e l’uomo, la giustizia,i doveri e i diritti degli individui e delle classi, le convenienzesociali, la famiglia, la proprietà, lo Stato e i rapporti degli uomi-ni fra di loro.

Tutte queste idee che l’individuo trova, nascendo, personifi-cate nelle cose e negli uomini e che si imprimono nel suo spiritoattraverso l’educazione e l’istruzione ricevute, ancor prima diessere giunto alla coscienza di se stesso, egli le ritrova più tardiconfermate, spiegate, commentate dalle teorie, che sono espres-sione della coscienza universale o del pregiudizio collettivo, eda tutte le istituzioni religiose, politiche ed economiche della

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società di cui fa parte. Ed egli ne è talmente intriso che, sia onon sia personalmente interessato a difenderle, ne diventa invo-lontariamente, per tutte le sue abitudini materiali, intellettuali emorali, il complice.

Ciò di cui bisogna stupirsi non è dunque l’onnipotente azioneche queste idee, espressione della coscienza collettiva dellasocietà, esercitano sulla massa degli uomini, ma al contrario ilfatto che in questa massa si trovino individui che hanno lavolontà e il coraggio di combatterle. La pressione della societàsull’individuo è immensa e non esiste un carattere così forte, oun’intelligenza così possente, che possa dirsi al riparo dagliattacchi di questa influenza tanto dispotica quanto irresistibile.

Questa influenza attesta come meglio non si potrebbe ilcarattere sociale dell’uomo. La coscienza collettiva di una datasocietà, personificata tanto nelle grandi istituzioni pubblichequanto in tutti i particolari della vita privata, sembra costituire ilfondamento di ogni teoria sorta in questa società ed essere comel’ambiente, il clima intellettuale e morale, nocivo ma assoluta-mente necessario a tutti i membri della società. Tale coscienzadomina gli uomini e nello stesso tempo li sostiene, unendoli traloro in rapporti consuetudinari e necessariamente determinatidalla sua azione, dando a ciascuno la sicurezza, la certezza,costituendo per tutti la condizione suprema dell’esistenza e perla maggioranza la banalità, il luogo comune, la routine.

È dunque evidente che, se fosse dotato di un’anima immorta-le, nonché dell’infinità e della libertà inerenti a quest’anima,l’uomo sarebbe un essere eminentemente antisociale. E se eglifosse sempre stato saggio, preoccupato esclusivamente della suaimmortalità, avrebbe avuto l’intelligenza di disprezzare tutti ibeni, tutti gli affetti e tutte le vanità di questa terra; non sarebbemai uscito dallo stato d’innocenza o d’imbecillità divina e maisi sarebbe organizzato in una società. In poche parole, Adamoed Eva non avrebbero mai assaggiato il frutto dell’albero dellascienza, e noi saremmo vissuti tutti come bestie in quel paradisoterrestre che Dio ci aveva assegnato per dimora. Ma dal mo-mento che ha voluto conoscere, civilizzarsi, umanizzarsi, pensa-re, parlare e godere dei beni materiali, l’uomo è stato costretto a

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uscire dalla sua solitudine e ad organizzarsi in società. Egli,infatti, nella misura in cui è interiormente infinito, immortale elibero, è altresì esteriormente limitato, mortale, debole e dipen-dente dal mondo circostante.

Dal punto di vista della sua esistenza terrena, non fittiziaquindi ma reale, la massa degli uomini offre uno spettacolo cosìdegradante, così tristemente povero d’iniziativa, volontà e intel-ligenza, che bisogna esser davvero dotati di una grande capacitàd’illusione per rinvenirvi un’anima immortale e l’ombra di unqualsiasi libero arbitrio. Gli uomini ci appaiono come esseriassolutamente e fatalmente determinati: determinati innanzitutto dalla natura circostante, dalla configurazione del suolo e datutte le condizioni materiali della loro esistenza; determinati dainnumerevoli rapporti politici, religiosi e sociali, dai costumi,dagli usi, dalle leggi, da tutto un insieme di pregiudizi o pensierielaborati pian piano nei secoli e che essi nascendo trovano giàpronti in quella società di cui non sono affatto i creatori, madapprima i prodotti e poi, più tardi, gli strumenti.

Su mille uomini se ne trova a mala pena uno di cui si possadire, e per di più da un punto di vista non assoluto ma relativo,che la sua volontà e il suo pensiero sono autonomi. L’immensamaggioranza degli individui, non soltanto fra la massa ignorantema anche nell’ambito della classe colta e privilegiata, vuole epensa solo ciò che il mondo circostante vuole e pensa. Gli uomi-ni credono, beninteso, di volere e pensare autonomamente, main realtà non fanno che riprodurre servilmente, consuetudinaria-mente, con modificazioni impercettibili e irrilevanti, il pensieroe la volontà di altri. Questo servilismo e questa consuetudina-rietà, fonti inestinguibili del luogo comune, quest’assenza diogni senso di rivolta nella volontà e di ogni spirito d’iniziativanel pensiero sono le cause principali della desolante lentezzadello sviluppo storico umano. Per noi, materialisti o realisti, chenon crediamo né all’immortalità dell’anima né al libero arbitrio,questa lentezza, per quanto desolante, è un fatto naturale. Partitodalla condizione di gorilla, l’uomo giunge assai difficilmentealla coscienza della propria umanità e alla realizzazione dellapropria libertà. Originariamente egli non può avere né talecoscienza né tale libertà: nasce come una bestia feroce e schiavae perviene alla propria umanità ed emancipazione solo

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nell’ambito della società, che necessariamente precede il sorge-re del suo pensiero, della sua parola e della sua volontà; l’uomorealizza la sua umanità solo per mezzo degli sforzi collettivi ditutti i membri, passati e presenti, della società, che è, di conse-guenza, la base e il punto naturale d’avvio dell’esistenza umana.Da ciò consegue che l’individuo realizza la propria libertà indi-viduale, cioè la propria personalità, solo integrandosi con tuttigli individui che lo circondano; e la realizza solo attraverso illavoro e la potenza collettiva della società, al di fuori della qualecontinuerebbe ad essere la più stupida e miserabile fra tutte lebestie feroci che esistono sulla faccia della terra. Nel sistemamaterialistico, il solo naturale e logico, la società, lungidall’infirmare e dal circoscrivere la libertà degli individui, èessa stessa a crearla. La società è la radice, l’albero, e la libertàne è il frutto. Di conseguenza, in ogni epoca l’uomo deve ricer-care la libertà non all’inizio ma al termine della storia, e si puòdire che la reale e completa emancipazione di ogni essereumano è la vera grande meta, il fine supremo della storia.

Completamente diverso è il punto di vista degli idealisti. Nelloro sistema l’uomo è in origine un essere libero e immortale,che finisce per diventare uno schiavo. In quanto spirito libero eimmortale, infinito e completo in se stesso, l’uomo non ha biso-gno della società; ne consegue che, se egli si organizza nellasocietà, può farlo solo a costo di una rinuncia o perché dimenti-ca e perde la coscienza della propria immortalità e libertà. Inquanto essere contraddittorio, interiormente infinito nello spiritoma esteriormente dipendente, carente, l’uomo è costretto adassociarsi non per soddisfare i bisogni della propria anima, maper sostentare il proprio corpo. La società nasce quindi dalsacrificio degli interessi e dell’indipendenza dell’anima di fron-te agli spregevoli bisogni del corpo. Per l’individuo interior-mente libero e immortale la società è una sventura, una schia-vitù, una rinuncia almeno parziale alla propria originaria libertà.

È ben nota la frase sacramentale che, nel gergo di tutti isostenitori dello Stato e del diritto, esprime questa sventura equesto sacrificio, questo primo passo fatale verso la servitùumana. L’individuo, che gode di una completa libertà nellostato di natura, cioè prima di divenire membro di una qualsivo-glia comunità, entrando nella società sacrifica una parte di que-

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sta libertà perché la società gli garantisca tutto il resto. A chichieda chiarimenti su tale affermazione si replica di solito conun’altra frase: «La libertà di ogni essere umano deve averecome solo limite la libertà di tutti gli altri esseri umani».

Niente di più giusto, in apparenza. Eppure, questa teoria con-tiene in nuce tutta la teoria del dispotismo. Conformementeall’idea fondamentale di tutti gli idealisti delle varie scuole, econtrariamente a tutti i fatti reali, l’uomo ci appare come unessere assolutamente libero in quanto, e solo in quanto, rimaneal di fuori della società; di conseguenza, la società, considerata eintesa unicamente come società giuridico-politica, cioè comeStato, è la negazione della libertà. Ecco il risultato ultimodell’idealismo, le cui tesi, come si vede, sono diametralmenteopposte a quelle del materialismo, per il quale, conformementea ciò che avviene nel mondo reale, la libertà individuale scaturi-sce dalla società come una conseguenza necessaria dello svilup-po collettivo dell’umanità.

La definizione materialistica, realistica, collettivistica dellalibertà, totalmente opposta a quella degli idealisti, è la seguente:l’uomo diventa uomo e perviene sia alla coscienza che alla rea-lizzazione della propria umanità soltanto nella società e attraver-so l’azione collettiva di questa società nella sua interezza;l’uomo si emancipa dal giogo della natura esterna solo attraver-so il lavoro collettivo o sociale, che consente di trasformare lasuperficie terrestre in un luogo favorevole allo sviluppo umano.Senza quest’emancipazione materiale non c’è e non può esserciemancipazione intellettuale e morale. L’uomo non può emanci-parsi dal giogo della sua natura, non può cioè subordinare gliistinti e i movimenti del suo corpo alla volontà del suo spiritosempre più sviluppato, se non per mezzo dell’educazione edell’istruzione; ma l’una e l’altra sono fatti eminentemente,esclusivamente, sociali, poiché fuori della società l’uomo sareb-be stato in eterno una bestia selvaggia o un santo, cioè pressap-poco la stessa cosa. L’uomo isolato, infine, non può averecoscienza della libertà. Essere libero significa per l’individuoessere riconosciuto, considerato e trattato come tale da un altroindividuo, da tutti gli individui che lo circondano. La libertà nonscaturisce dall’isolamento, ma dai rapporti reciproci; non dallaseparazione, ma al contrario dall’unione; la libertà di ogni indi-

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viduo è infatti soltanto il riflesso della sua umanità o del suodiritto umano nella coscienza di tutti gli uomini liberi, suoi fra-telli, suoi eguali.

Io posso dirmi e sentirmi libero solo in presenza degli altriuomini e in rapporto con loro. Dinanzi a un animale di una spe-cie inferiore non sono né libero né uomo, perché l’animale nonpuò concepire e quindi riconoscere la mia umanità. Io stessosono umano e libero soltanto nella misura in cui riconosco lalibertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano. Solorispettando la loro umanità rispetto la mia stessa umanità. Unantropofago che mangia il suo prigioniero, trattandolo come unabestia selvaggia, non è un uomo ma una bestia. Un padrone dischiavi non è un uomo ma un padrone. In quanto non riconoscel’umanità dei suoi schiavi, egli non riconosce la sua stessa uma-nità. Tutta la società antica ce ne fornisce la prova: i Greci, iRomani non si sentivano liberi come uomini, non si considera-vano tali in virtù del diritto umano; essi si ritenevano dei privi-legiati in quanto Greci, in quanto Romani, soltanto all’internodella propria patria fino a che essa rimaneva indipendente, nonasservita ma asservitrice di altri Paesi, in virtù della specialeprotezione accordata loro dagli dei; essi non si stupivano affatto,né credevano di avere il diritto e il dovere di ribellarsi, quando,vinti, cadevano essi stessi in schiavitù.

La logica inesorabile che mi dettano queste parole è troppoevidente perché vi sia bisogno di trattare più estesamente l’argo-mento. E mi pare impossibile che gli uomini illustri dei quali hocitato i nomi, tanto celebri e giustamente rispettati, non ne sianostati colpiti e non abbiano percepito la contraddizione nellaquale cadono quando parlano insieme di Dio e della libertàumana. Per superare una così evidente contraddizione, hannoquindi dovuto ritenere che tale incongruenza, o iniquità logica,fosse praticamente necessaria per il bene stesso dell’umanità.

Forse, parlando della libertà come di una cosa che è per lororispettabile e cara, essi la comprendono in modo diverso daquello in cui la concepiamo noi materialisti e socialisti rivolu-zionari. Difatti non ne parlano mai senza aggiungervi subitoun’altra parola, quella di autorità, una parola e una cosa che noidetestiamo con tutta la forza dei nostri cuori.

Che cos’è l’autorità? È forse la potenza inevitabile delle leggi

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naturali che si manifestano nel concatenamento e nella succes-sione dei fenomeni del mondo fisico e del mondo sociale? Infat-ti la rivolta contro queste leggi, è non soltanto negata, maimpossibile. Possiamo misconoscerle o non conoscerle ancora,ma non possiamo violarle perché costituiscono la base e le con-dizioni stesse della nostra esistenza; perché esse ci avviluppano,ci penetrano, regolano tutti i nostri movimenti, i nostri pensieri,e anche quando crediamo di eluderle, non facciamo altro chemanifestare la loro onnipotenza.

Noi siamo assolutamente schiavi di queste leggi. Ma non vi ènulla d’umiliante in simile schiavitù. Mentre la schiavitù suppo-ne un padrone esterno, un legislatore che si trova al di fuori dicolui al quale si comanda, queste leggi, al contrario, non sono aldi fuori di noi: esse ci appartengono e costituiscono il nostroessere, tutto il nostro essere, sia corporeo sia intellettuale emorale; non viviamo, non respiriamo, non facciamo, non pen-siamo, non vogliamo che per esse. Fuori di esse, non siamonulla, non esistiamo. Da dove ci verrebbe dunque il potere e ilvolere di ribellarci contro di esse?

Di fronte alle leggi naturali, non c’è per l’uomo che una solalibertà possibile: ed è di riconoscerle e applicarle sempre più,conformemente allo scopo, cui egli tende, d’emancipazione o diumanizzazione collettiva e individuale. Queste leggi, una voltariconosciute, esercitano un’autorità che non è mai discussa dallamassa degli uomini. Bisogna essere un pazzo, o un teologo, oper lo meno un metafisico, un giurista o un economista borghe-se, per ribellarsi contro la legge per cui due volte due fannoquattro. Bisogna avere la fede per supporre che non ci si bruceràcol fuoco e che non si annegherà nell’acqua, a meno che non siricorra a qualche espediente che è ugualmente fondato su qual-che altra legge naturale. Ma queste rivolte, o piuttosto questitentativi, e queste folli supposizioni di una rivolta impossibile,rappresentano una assai rara eccezione, perché in generale sipuò dire che la massa degli uomini, nella vita giornaliera, silascia governare quasi esclusivamente dal buon senso, ossiadall’insieme delle leggi naturali generalmente riconosciute.

La gran disgrazia è che un’enorme quantità di leggi naturali,già constatate come tali dalla scienza, rimangono sconosciutealle masse popolari, grazie alle premure di questi governi tutela-

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ri che esistono, come si sa, solo per il bene dei popoli. C’è unaltro inconveniente, ed è che la maggior parte delle leggi natura-li, inerenti allo sviluppo della società umana e tanto necessarie einvariabili quanto le leggi che governano il mondo fisico, nonsono state debitamente constatate e riconosciute dalla scienzastessa.

Una volta riconosciute prima dalla scienza e poi, mediante unampio sistema di educazione e di istruzione popolari, fatteentrare nella coscienza di tutti, la questione della libertà saràperfettamente risolta. Anche gli autoritari più recalcitrantidovranno riconoscere che in tal caso non vi sarà bisogno né diorganizzazione, né di direzione, né di legislazione politica: trecose che pur se emanate dalla volontà del sovrano o, quanto aquesto, dalla votazione di un parlamento eletto a suffragio uni-versale, e pur se conformi al sistema delle leggi naturali – il chenon fu e non sarà mai – sono sempre e comunque funeste e con-trarie alla libertà delle masse, perché impongono un sistema dileggi esterne e, di conseguenza, dispotiche.

La libertà dell’uomo consiste unicamente in questo: obbedirealle leggi naturali, perché le ha riconosciute egli stesso come talie non perché gli siano state esteriormente imposte da una qual-siasi volontà estranea, divina o umana, collettiva o individuale.

[Da ciò conseguono le fondamentali norme e i principalicomportamenti pratici dell’esercizio sociale della libertà –N.d.C.].

Sostituendo il culto di Dio col rispetto e l’amore per l’uma-nità noi affermiamo la ragione umana come unico criterio diverità. La coscienza umana come base della giustizia. La libertàindividuale e collettiva come unica creatrice dell’ordine umano.

La libertà è l’assoluto diritto di ogni uomo o donna adulti dinon cercare per le proprie azioni altre conferme che quelle dellapropria coscienza e della propria ragione, di non determinarleche per mezzo della propria volontà e di esserne quindi respon-sabili prima di tutto verso se stessi e poi nei confronti dellasocietà di cui fanno parte, ma solo in quanto consentono libera-mente di farne parte.

Non è affatto vero che la libertà di un uomo sia limitata da

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quella di tutti gli altri. L’uomo è realmente libero solo nellamisura in cui la sua libertà, liberamente riconosciuta e riflessadalla libera coscienza di tutti gli altri, trova conferma del suoestendersi all’infinito nella loro libertà. L’uomo non è veramen-te libero che tra uomini ugualmente liberi, e poiché è libero soloin quanto umano, la schiavitù di un solo uomo sulla terra, essen-do un’offesa al principio stesso di umanità, è una negazionedella libertà di tutti.

Dunque la libertà di ciascuno non si realizza che nella ugua-glianza di tutti. La realizzazione della libertà nell’uguaglianzadi fatto e di diritto è la giustizia.

Per gli uomini non c’è che un solo dogma, una sola legge,una sola base morale, e questa è la libertà. [...]

Esclusione assoluta di ogni principio di autorità e di ragiondi Stato. La società umana, che è stata alle origini un fatto natu-rale, anteriore alla libertà e al risveglio del pensiero umano, eche è divenuta più tardi un fatto religioso, organizzato secondoil principio dell’autorità divina e umana, deve ricostituirsi oggisulla base della libertà, la quale deve diventare il solo principiocostitutivo della sua organizzazione tanto politica che economi-ca. L’ordine sociale deve essere il risultato del maggior sviluppopossibile di tutte le libertà collettive e individuali.

Di conseguenza l’organizzazione politica ed economica dellavita sociale non deve più andare, come oggi, dall’alto in basso edal centro alla periferia, secondo un principio di unità e di cen-tralizzazione forzata, bensì dal basso in alto e dalla periferia alcentro, secondo un principio d’associazione e di libera federa-zione.

Organizzazione politica. È impossibile determinare unanorma concreta, universale e obbligatoria per lo sviluppo inter-no e per l’organizzazione politica delle nazioni, dato che l’esi-stenza di ciascuna nazione è subordinata a una quantità di con-dizioni storiche, geografiche ed economiche differenti che nonpermetteranno mai di stabilire un modello d’organizzazione chesia ugualmente valido e accettabile da tutte. Un’impresa delgenere, assolutamente priva d’utilità pratica, danneggerebbed’altronde la ricchezza e la spontaneità della vita che prosperanella infinita diversità e, ancora peggio, sarebbe contraria allostesso principio della libertà. Tuttavia ci sono delle condizioni

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essenziali, assolute, senza le quali la realizzazione pratica el’organizzazione della libertà saranno sempre impossibili.

Queste condizioni sono:• l’abolizione radicale di ogni religione ufficiale e di tutte le

Chiese privilegiate, pagate e mantenute dallo Stato. Libertàassoluta di coscienza e di propaganda per ciascuno, con lafacoltà illimitata di elevare quanti templi si vogliano alle propriedivinità, quali che siano, e di pagare e mantenere i preti dellapropria religione;

• le Chiese, intese come corporazioni religiose, non godrannodi nessuno di quei diritti politici che saranno attribuiti alle asso-ciazioni produttive, non potranno né ereditare né possedere deibeni in comune eccetto le loro case e i luoghi di culto; e nonpotranno mai occuparsi dell’educazione dei bambini, dalmomento che l’unico scopo della loro esistenza è la sistematicanegazione della morale, della libertà, e la stregoneria a scopo dilucro;

• l’abolizione di monarchia e repubblica;• l’abolizione delle classi, dei ceti, dei privilegi e di ogni spe-

cie di distinzione. Uguaglianza assoluta di diritti politici pertutti, uomini e donne; suffragio universale;

• l’abolizione, dissoluzione e bancarotta morale, politica,burocratica e giuridica dello Stato tutelare, trascendente, cen-tralista, doppione e alter ego della Chiesa e, come tale, causapermanente di impoverimento, di abbrutimento e di asservimen-to dei popoli; l’abolizione di tutte le università di Stato, poichéla cura dell’istruzione pubblica deve appartenere esclusivamenteai comuni e alle libere associazioni; l’abolizione della magistra-tura di Stato: tutti i giudici dovranno essere eletti dal popolo;l’abolizione dei codici civili e penali attualmente in vigore inEuropa perché, essendo tutti in egual modo ispirati al culto diDio, dello Stato, della famiglia consacrata religiosamente o poli-ticamente e della proprietà, sono contrari al diritto umano e per-ché il codice della libertà non potrà essere usato che dalla solalibertà; l’abolizione delle banche e di tutte le altre istituzioni dicredito dello Stato; l’abolizione di ogni amministrazione centra-le, della burocrazia, degli eserciti permanenti, dei corpi di poli-zia;

• l’elezione immediata e diretta di tutti i funzionari pubblici,

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giudiziari e civili, come pure di tutti i rappresentanti e i consi-glieri nazionali, provinciali e comunali da parte del popolo, valea dire mediante il suffragio universale di tutti gli individui,uomini e donne maggiorenni;

• la riorganizzazione interna di ciascun Paese prendendocome punto di partenza e come base la libertà assoluta degliindividui, delle associazioni produttive e dei comuni.

Diritti individuali:• diritto per ciascuno, uomo o donna, dalla nascita fino alla

maggiore età, di essere completamente mantenuto, custodito,protetto, allevato, istruito a spese della società in tutte le scuolepubbliche elementari, medie, superiori, industriali, artistiche escientifiche;

• uguale diritto per ciascuno d’essere consigliato e sostenutoquanto più possibile dalla società all’inizio della carriera, sceltaliberamente da ogni individuo una volta maggiorenne; dopodi-ché la società, avendolo dichiarato assolutamente libero, noneserciterà più su di lui alcuna sorveglianza né autorità e, decli-nando ogni responsabilità nei suoi confronti, non gli dovrà piùche il rispetto e, in caso di necessità, la protezione della sualibertà;

• libertà assoluta e completa per ciascun individuo maggio-renne, sia esso uomo o donna, d’andare e venire, di professareapertamente ogni possibile opinione, d’essere fannullone o labo-rioso, morale o immorale, di disporre in una parola della propriapersona e dei propri beni senza renderne conto a nessuno;libertà di vivere sia onestamente con il proprio lavoro, che sfrut-tando vergognosamente la carità e la fiducia privata, sempre chequesta carità e questa fiducia vengano da individui maggiorennie siano volontarie;

• libertà illimitata di svolgere ogni tipo di propaganda con leparole, con la stampa, nelle riunioni pubbliche o private,senz’altro freno che il naturale e salutare potere dell’opinionepubblica; libertà assoluta d’associazione, non escluse quelle cheavranno come scopo la distruzione della libertà individuale epubblica.

La libertà non può e non deve difendersi che per mezzo dellalibertà, ed è un pericoloso controsenso volerla pregiudicare conlo specioso pretesto di proteggerla; e poiché la morale non ha

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altra origine, altro stimolo, altra causa, altro fine che la libertà,tutte le restrizioni che sono state imposte a quest’ultima alloscopo di proteggere la prima si sono sempre volte a danno dellamorale. La psicologia, la statistica e tutta la storia ci provanoche l’immoralità individuale e sociale è stata sempre la conse-guenza necessaria di una cattiva educazione pubblica e privata,dell’assenza o dello svilimento dell’opinione pubblica – che nonpuò esistere, svilupparsi e moralizzarsi se non per mezzo dellasola libertà – e soprattutto di un’organizzazione eccessiva dellasocietà.

L’esperienza insegna, ci dice l’illustre statistico Querelet, chei delitti sono sempre preparati dalla società e che i malfattorisono soltanto i fatali strumenti che li eseguono. È dunque inutileopporre all’immoralità sociale i rigori di una legislazione cheinvaderebbe la libertà individuale. L’esperienza ci insegna alcontrario che il sistema repressivo e autoritario, lungi dall’averarginato il dilagare dell’amoralità sociale, l’ha sempre profonda-mente e largamente incentivato in tutti i Paesi che ne sono staticolpiti, e che la morale pubblica e privata è sempre aumentata odiminuita in rapporto all’allargarsi o al restringersi della libertàdegli individui. Per moralizzare quindi la società attuale dobbia-mo cominciare innanzi tutto a distruggere da cima a fondo tuttaquesta organizzazione politica e sociale fondata sulla disegua-glianza, sul privilegio, sull’autorità divina e sul disprezzo perl’umanità; e dopo aver ricostruito la società sulle basi della piùcompleta uguaglianza, della giustizia, del lavoro, di un’educa-zione razionale ispirata al rispetto per l’uomo, dobbiamo affi-darla in custodia all’opinione pubblica e darle per anima lalibertà più assoluta.

Tuttavia la società non deve restare completamente disarmatacontro gli individui parassiti, malvagi e nocivi. Poiché il lavoroè la base di tutti i diritti politici, la società, come la provincia ola nazione, ciascuna nella rispettiva giurisdizione, potrà privarnetutti quegli individui maggiorenni che, non essendo ammalati,invalidi o vecchi, vivranno a spese della carità pubblica o priva-ta, fermo restando l’obbligo di restituirglieli non appena essiricominceranno a vivere del proprio lavoro.

Poiché la libertà di ciascun uomo è inalienabile, la societànon accetterà mai che un qualsiasi individuo alieni giuridica-

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mente la propria libertà o che con un contratto l’impegni neiconfronti di un altro su una qualsiasi base che non sia quelladella più completa uguaglianza e reciprocità. Essa non potràperò impedire che un uomo o una donna, privi di ogni sentimen-to di dignità personale, si mettano, per mezzo di un contratto sti-pulato con un altro, in un rapporto di servitù volontaria; però liconsidererà come individui che vivono della carità privata percui saranno esclusi dal godimento dei diritti politici per tutta ladurata di questa servitù.

Tutte le persone che avranno perso i diritti politici sarannoparimenti private del diritto di allevare e di tenere i propri figli.In caso di inadempienza di un impegno liberamente assunto,oppure in caso di attentato, aperto o provato, contro la proprietà,contro la persona e soprattutto contro la libertà di un cittadino,sia indigeno che straniero, la società infliggerà al reo, indigenoo straniero, le pene stabilite dalle sue leggi. [...]

Abolizione assoluta di tutte le pene umilianti e crudeli, dellepunizioni corporali, e della pena di morte in quanto consacrataed eseguita dalla legge. Abolizione di tutte le pene a termineindefinito o tanto lungo da non lasciare alcuna speranza o alcu-na possibilità reale di riabilitazione; il delitto va infatti conside-rato come una malattia e la punizione come una cura piuttostoche come una vendetta della società.

Ogni individuo condannato dalle leggi di una qualsiasisocietà – comune, provincia o nazione – conserverà il diritto dinon sottomettersi alla pena che gli sia stata comminata se dichia-ra di non voler più fare parte di quella società. Ma in questo casoessa avrà a sua volta il diritto di espellerlo dal suo seno e didichiararlo escluso dalla sua garanzia e protezione. Ricadutocosì sotto la legge naturale, per la quale vale «l’occhio perocchio, dente per dente», almeno sul territorio occupato da que-sta società, il reietto potrà essere derubato, maltrattato e persinoucciso senza che essa se ne curi. Ciascuno potrà disfarsenecome di una bestia nociva, mai però asservirlo né impiegarlocome schiavo. [...]

Ciò riguarda l’avvenire e, quanto a noi, possiamo porre oggisolo questo principio assoluto: qualunque ne sia il fine, tutte leassociazioni, come tutti gli individui, devono godere d’unalibertà assoluta. La società o una sua qualunque parte – comu-

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ne, provincia o nazione – non ha il diritto di impedire agli indi-vidui liberi di associarsi liberamente per un qualsiasi scopo, reli-gioso, politico, scientifico, industriale, artistico, o anche persfruttare degli ingenui e degli sciocchi, a condizione che nonsiano minori. La lotta contro i ciarlatani e le associazioni perni-ciose appartiene unicamente all’opinione pubblica. Ma lasocietà ha il dovere di rifiutare la garanzia sociale, il riconosci-mento giuridico e i diritti politici e civili ad ogni associazione,come corpo collettivo, che nella definizione dei propri scopi,regolamenti e statuti sia contraria ai principi fondamentali dellasua Costituzione e i cui membri non siano tutti posti su una based’uguaglianza e reciprocità perfetta; senza per questo poterneprivare i singoli membri per il solo fatto di partecipare a orga-nizzazioni non riconosciute dalla garanzia sociale. La differenzatra le associazioni regolari e quelle irregolari è dunque questa: leassociazioni giuridicamente riconosciute come corpi collettiviavranno a questo titolo il diritto di perseguire davanti alla giusti-zia sociale tutti gli individui, membri di esse o estranei, comepure le altre associazioni regolari, che non abbiano tenuto fede aimpegni con esse contratti. Le associazioni non riconosciutegiuridicamente non avranno affatto tale diritto in quanto corpocollettivo per cui, a questo titolo, non potranno essere sottopostead alcuna responsabilità giuridica in quanto tutti i loro impegnidovranno essere considerati nulli da una società che non avràsanzionato la loro esistenza collettiva; cosa però che non potràesimere ciascuno dei suoi membri dagli impegni che abbia potu-to assumere individualmente. [...]

Base di tutta l’organizzazione politica di un Paese deve esse-re il comune assolutamente autonomo, rappresentato sempredalla maggioranza dei voti di tutti gli abitanti, uomini e donnemaggiorenni, alle stesse condizioni.

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IV

È centrale, nella riflessione bakuniniana sull’uguaglianza, iltema del lavoro, inteso non come semplice erogazione di ener-gia umana in rapporto ad un sistema economico, ma come rela-zione e condizione di un essere umano rispetto ad un altro. Illavoro richiama immediatamente il problema dell’uguaglianza,come questa, a sua volta, non può che rimandare a quello dellalibertà e dunque alla lotta contro il dominio. In altri termini, illavoro (non importa quale ne sia la natura: intellettuale, psico-logica, manuale, fisica in senso lato) definisce innanzi tutto laposizione degli individui nell’ordine sociale, concepito ovvia-mente come un insieme, per cui non è possibile definire unaqualunque posizione nella scala gerarchica se non in rapportoa tutte le altre. Visto in questo senso, il lavoro presenta uncampo di indagine autonomo, in quanto ogni forma economicastoricamente data presenta sempre la sua gerarchia.

Bakunin, pertanto, analizza la divisione gerarchica del lavoroe specificamente la sua forma verticale più evidente: quella fralavoro manuale e lavoro intellettuale, divisione che costituisce asuo giudizio la causa costante e principale della diseguaglianzasociale e quindi delle classi. Tale separazione deriva dal monopo-lio della scienza e, in generale, dal monopolio di ogni conoscenzasocialmente utile ai fini del comando economico e politico.L’analisi della divisione gerarchica del lavoro permette di risalirealla struttura che sta alla base del principio di autorità e di gerar-

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chia, descrivendone e identificandone le componenti costanti e lesue forme caratteristiche, gli elementi che per la loro natura strut-turale si ripresentano e si concretizzano nelle differenti societàstoriche, assumendo di volta in volta le forme socio-economichead esse inerenti e l’apparato politico che le vivifica e le giustifica.

Questa indagine, se da una parte si specifica attraversol’investigazione dell’aspetto storico e quindi variabile dello sfrut-tamento – così come si presenta nella società capitalistico-bor-ghese – dall’altra individua un metodo di comprensione di ognisocietà autoritaria. In altri termini, per il pensiero bakuninianola società capitalistico-borghese non è la causa della disegua-glianza sociale fra gli uomini e quindi dello sfruttamentodell’uomo sull’uomo, ma è solo una forma storica, succeduta adaltre, assunta dalla divisione gerarchica del lavoro sociale, verafonte strutturale di ogni società autoritaria. La proprietà borghe-se, come qualsiasi altra forma di proprietà, è insomma l’effettoultimo, il materiale godimento dei privilegi, consolidati e difesidallo Stato. I privilegi hanno molteplici origini materiali, la piùimportante delle quali è il sapere. Si può dire così, in un certosenso, che lo sfruttamento economico è sempre un effetto varia-bile della diseguaglianza e dell’autorità, un effetto variabile, cioè,della distribuzione ineguale e gerarchica del potere.

Si comprende ora come si configuri nel pensiero dell’anar-chico russo l’abolizione delle classi: essa non può che scaturiredall’abolizione della divisione gerarchica del lavoro e dalla con-seguente socializzazione universale del sapere. Nasce così lavisione bakuniniana dell’istruzione integrale quale propedeuticaall’integrazione del lavoro manuale ed intellettuale in ogniuomo e donna. Se, infatti, si accetta la premessa che fino a quan-do vi saranno due o più livelli di istruzione per i vari strati dellasocietà, ci saranno necessariamente delle classi, si deve conclu-dere che solo con l’istruzione integrale uguale per tutti, tesa aportare ogni individuo ai gradi più elevati della conoscenza, sipuò realizzare l’uguaglianza.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dal Catechismorivoluzionario e da L’istruzione integrale inclusi nel volumeLibertà uguaglianza rivoluzione, Antistato, Milano 1976.

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L’UGUAGLIANZA

[...] Organizzazione sociale. Senza uguaglianza politica nonc’è libertà politica reale, ma l’uguaglianza politica sarà possibilesolo quando si avrà l’uguaglianza economica e sociale.

L’uguaglianza non implica il livellamento delle differenzeindividuali, né dell’identità intellettuale, morale e fisica degliindividui. Queste differenze di capacità e di forze, queste diver-sità di razza, nazione, sesso, età e individualità, lungi dall’essereun male sociale, costituiscono al contrario la ricchezza dell’uma-nità. L’uguaglianza economica e sociale non implica peraltro illivellamento delle fortune individuali in quanto prodotto dellacapacità, dell’energia produttiva e dell’economia di ciascuno.

L’uguaglianza e la giustizia richiedono un’organizzazionedella società tale che ogni essere umano quando nasce vi trovi,per quel che dipende dalla società, uguali mezzi per svilupparsidurante l’infanzia e l’adolescenza fino alla maggiore età, dap-

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prima per quanto riguarda l’educazione e l’istruzione e, piùtardi, per poter esercitare quelle diverse forze che la natura avràriunito in ciascuno per il lavoro.

Questa uguaglianza del punto di partenza, che è un’esigenzadi giustizia per tutti, sarà inattuabile fino a che esisterà il dirittodi eredità. [...]

Abolizione del diritto di eredità. Finché sussisterà questodiritto la differenza ereditaria delle classi, delle posizioni, deibeni, in una parola la diseguaglianza sociale e il privilegio, sus-sisteranno di fatto se non di diritto. Ma secondo una legge ine-rente alla società, la diseguaglianza di fatto produce sempre ladiseguaglianza di diritto, e la diseguaglianza sociale diventanecessariamente diseguaglianza politica. E senza la disegua-glianza politica, abbiamo detto, non è possibile la libertà nelsenso universale, umano, veramente democratico di questaparola; la società rimarrà sempre divisa in due parti diseguali,delle quali l’una, immensa, comprendente tutta la massa popola-re, sarà oppressa e sfruttata dall’altra. Dunque, il diritto di ere-dità è contrario al trionfo della libertà, e se la società vuoldiventare libera deve abolirlo. [...]

Una volta abolita la ripugnante diseguaglianza del diritto dieredità rimarrà sempre, ancorché diminuita in modo considere-vole, la diseguaglianza che risulterà dalla differenza delle capa-cità, delle forze e dell’energia produttiva degli individui; maquesta differenza, se non potrà mai sparire completamente, èdestinata a diminuire progressivamente per l’influenza di unsistema di organizzazione sociale e di educazione egualitario;inoltre, una volta abolito il diritto di eredità, essa non peserà piùsulle future generazioni.

Dal momento che il lavoro è il solo produttore della ricchez-za, ciascuno è indubbiamente libero sia di morire di fame che diandare a vivere nei deserti o nelle foreste tra le bestie, ma chiun-que voglia vivere nell’ambito della società deve guadagnarsi lavita con il proprio lavoro, se non vuol essere considerato unparassita o un ladro che sfrutta il bene, vale a dire il lavoroaltrui.

Il lavoro è la base fondamentale della dignità e del dirittoumani. Infatti è unicamente con il lavoro libero e intelligenteche l’uomo, diventando creatore e conquistando al di sopra del

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mondo esterno e della propria animalità la sua umanità e il suodiritto, crea il mondo civilizzato. Il disonore addebitato al lavo-ro nel mondo antico, nella società feudale, e in buona misuraanche in quello attuale (malgrado le frasi che sentiamo ripetereogni giorno sulla sua dignità), questo stupido disprezzo dellavoro ha due origini: la prima è la convinzione propria agliantichi, e che persino oggi conta ancora dei partigiani occulti,secondo cui per dare a una parte della società umana i mezzi perumanizzarsi con la scienza, l’arte, la conoscenza e l’eserciziodel diritto è necessario che un’altra parte, naturalmente piùnumerosa, si voti al lavoro come schiava.

Questo principio fondamentale della civiltà antica fu la causadella sua rovina. La città, corrotta e disorganizzata dalla privile-giata scioperatezza dei cittadini ed erosa per altro versodall’azione impercettibile, lenta ma costante, di quel mondodiseredato di schiavi, morali malgrado la schiavitù e in possessodella loro forza originaria, dall’azione salutare del loro stessolavoro pur se forzato, cadde sotto i colpi dei popoli barbari daiquali provenivano in origine la maggior parte degli schiavi.

Il cristianesimo, la religione degli schiavi, distruggerà piùtardi l’antica diseguaglianza solo per crearne una nuova. Il pri-vilegio della grazia e dell’elezione divina sancirà la disegua-glianza prodotta naturalmente dal diritto di conquista e separeràdi nuovo la società umana in due campi: la canaglia e la nobiltà,i servi e i padroni, attribuendo a questi ultimi il nobile eserciziodelle armi e del governo e non lasciando ai servi che il lavoro,non solo svilito ma anche maledetto. La stessa causa producenecessariamente i medesimi effetti: la nobiltà snervata e corrottadal privilegio dell’ozio cadde nel 1789 sotto i colpi dei servi,lavoratori in rivolta uniti e forti. Fu allora proclamata la libertàdel lavoro, la sua riabilitazione di diritto; solo di diritto, perchédi fatto il lavoro rimane ancora disonorato e asservito.

Dato che l’origine prima di questo asservimento, cioè ildogma della diseguaglianza politica degli uomini, è stata sop-pressa dalla grande rivoluzione, si deve attribuire l’attualedisprezzo per il lavoro alla separazione che s’è andata creando,e che ancor oggi permane in tutta la sua forza, tra il lavorointellettuale e il lavoro manuale, il quale, riproducendo in unaforma nuova la vecchia diseguaglianza, divide ancora il mondo

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sociale in due campi: la minoranza privilegiata, oggi non per laforza della legge ma per quella del capitale, e la maggioranzadei lavoratori forzati, non più a causa dell’iniquo diritto del pri-vilegio legale ma della fame. Effettivamente oggi la dignità dellavoro è già riconosciuta teoricamente e l’opinione pubblicaammette che è disonorevole vivere senza lavorare. Ma dato cheil lavoro umano considerato nella sua totalità si divide in dueparti – l’una interamente intellettuale e dichiarata esclusivamen-te nobile, che comprende le scienze, le arti (e nell’industrial’applicazione di scienze e arti), l’ideare, il concepire, l’inventa-re, il progettare, nonché il governo e la direzione gerarchicadelle forze operaie; e l’altra solo manuale, ridotta a un’azionepuramente meccanica, senza intelligenza, senza idee – approfit-tando di questa legge economica e sociale della divisione dellavoro i privilegiati del capitale, compresi quelli che per lapochezza delle loro capacità individuali ne sarebbero i menoautorizzati, s’impadroniscono della prima, lasciando al popolola seconda. Ne derivano tre grandi malanni: uno per questi pri-vilegiati del capitale; l’altro per le masse popolari; e il terzo, cheprocede dall’uno e dall’altro, per la produzione delle ricchezze eper il benessere, la giustizia e lo sviluppo intellettuale e moraledi tutta quanta la società.

Il male di cui soffrono le classi privilegiate è questo: mono-polizzando la parte migliore nella ripartizione delle funzionisociali, si condannano in realtà a un ruolo sempre più meschinonel mondo intellettuale e morale. È perfettamente vero che unacerta misura di agiatezza è assolutamente necessaria per lo svi-luppo della mente, delle scienze e delle arti; ma dev’essereun’agiatezza guadagnata, risultata dalla sana fatica del lavoroquotidiano, una giusta agiatezza il cui raggiungimento, dipen-dendo unicamente dal grado di energia, di capacità e di buonavolontà dell’individuo, sia socialmente uguale per tutti. Ogniagio privilegiato, al contrario, lungi dall’irrobustire l’intelligen-za, la snerva, la corrompe e l’uccide.

Tutta la storia ci prova, a parte qualche rara eccezione, che leclassi privilegiate per fortuna e posizione sono sempre state lemeno produttive dal punto di vista intellettuale: le più grandiscoperte nella scienza, nelle arti e nell’industria sono quasi sem-pre state l’opera di uomini che nella loro gioventù sono stati

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costretti a guadagnarsi la vita con un duro lavoro. La naturaumana è tale che la propensione al male viene sempre rafforzatada circostanze esterne e che la moralità dell’individuo dipendemolto più dalle condizioni della sua esistenza e dall’ambiente incui vive che dalla sua volontà. Da questo punto di vista, comeda ogni altro, la legge della solidarietà sociale è inesorabile, dimodo che per moralizzare gli individui bisogna occuparsi nontanto della loro coscienza quanto della natura della loro esisten-za sociale; e non c’è alcun altro elemento moralizzatore, né perla società né per l’individuo, se non la libertà nella più perfettauguaglianza. Prendete il democratico più sincero e mettetelo suun trono qualsiasi: se non ne discende immediatamente, diven-terà immancabilmente una canaglia. Un uomo che abbia nataliaristocratici, se non sente disprezzo e odio per il proprio sangue,se non si vergogna di essere aristocratico, sarà necessariamenteun uomo tanto nocivo quanto vuoto, nostalgico del passato, inu-tile nel presente e appassionato avversario dell’avvenire. Pari-menti il borghese, figlio prediletto del capitale e dell’agiatezzaprivilegiata, converte i suoi agi in scioperatezza, in corruzione,in dissolutezza, oppure se ne serve come di una terribile armaper asservire maggiormente la massa lavoratrice, e così finiràcon il sollevare contro di sé una rivoluzione più tremenda diquella del 1789. Il male di cui soffre il popolo è ancora piùfacilmente individuabile: lavora per gli altri e il suo lavoro,privo di libertà, di soddisfazioni e d’intelligenza, lo depriva, loschiaccia e lo uccide. È obbligato a lavorare per gli altri perché,nato nella miseria e privo di qualsiasi istruzione e di qualsiasieducazione razionale, moralmente schiavo per via delle influen-ze religiose, viene buttato nella vita disarmato, screditato, senzainiziativa e senza volontà propria. Forzato dalla fame fin dallapiù tenera infanzia a guadagnarsi la sua misera esistenza, devevendere la sua forza fisica, il suo lavoro, alle condizioni piùdure. Ridotto alla disperazione dalla miseria, qualche volta siribella, ma sprovvisto di quell’unità e di quella forza che dà ilpensiero, mal guidato, il più delle volte tradito e venduto daisuoi capi, e non sapendo quasi mai contro chi prendersela per imali che sopporta e così colpendo quasi sempre a vuoto, almenofino ad ora ha fallito nelle sue rivolte e, stanco di una lotta steri-le, è sempre ricaduto sotto la vecchia schiavitù. Questa schiavitù

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durerà finché il capitale, rimanendo fuori dal raggio d’azionecollettiva delle forze lavoratrici, le sfrutterà, e finché l’istruzio-ne, che in una società ben organizzata dovrebbe essere impartitaa tutti, ampliando solo l’interesse di una classe privilegiata attri-buirà a quest’ultima tutta la parte intellettuale del lavoro e nonlascerà al popolo che la brutale applicazione delle sue forze fisi-che asservite, condannandolo a professare delle idee che nonsono le sue. Per questa ingiusta e funesta distorsione il lavorodel popolo, divenuto un lavoro puramente meccanico e simile aquello di una bestia da soma, è disonorato, disprezzato e pernaturale conseguenza defraudato di ogni diritto. Ne risulta, daun punto di vista politico, intellettuale e morale, un maleimmenso per la società. La minoranza che gode del monopoliodella scienza viene, proprio a causa di questo privilegio, colpitaal cuore e nell’intelletto a un tempo, sino a istupidire a forzad’istruzione, perché non c’è niente di tanto nocivo e sterilequanto un’intelligenza patentata e privilegiata. Dall’altra parte ilpopolo, totalmente sprovvisto di scienza, schiacciato da un lavo-ro quotidiano meccanico fatto più per abbrutire che per svilup-pare la sua naturale intelligenza, mancando di quella luce chepotrebbe illuminargli la via del suo riscatto, si dibatte violente-mente nella sua prigione forzata, e poiché ha sempre dalla sua laforza derivante dal numero mette spesso in pericolo l’esistenzastessa della società.

È quindi necessario modificare l’iniqua divisione creatasi trail lavoro manuale e il lavoro intellettuale. La stessa produzioneeconomica della società ne soffre grandemente, l’intelligenzaseparata dall’azione fisica si snerva, inaridisce, avvizzisce, men-tre la forza corporale dell’umanità, separata dall’intelligenza,s’abbrutisce, e in questa condizione di artificiale separazionenessuna delle due produce la metà di quel che può, di quel chepotrà produrre allorché riunite in una nuova sintesi sociale for-meranno una sola azione produttiva. Quando l’uomo di scienzalavorerà e l’uomo del lavoro penserà, il lavoro intelligente elibero potrà considerarsi il maggior titolo di gloria per l’uma-nità, la base della sua dignità, del suo diritto, la manifestazionedel potere umano sulla terra. E l’umanità sarà fatta.

Il lavoro intelligente e libero sarà necessariamente un lavoroassociato. Libero sarà ciascuno di associarsi o di non associarsi

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per il lavoro, ma non c’è alcun dubbio che, eccettuati i lavorid’immaginazione per i quali la natura esige la concentrazionedell’intelligenza individuale, in tutte le imprese industriali eanche scientifiche o artistiche che ammettono per loro natura illavoro comune, l’associazione sarà da tutti preferita; e per lasemplice ragione che l’associazione moltiplica in manierastraordinaria le forze produttive di ognuno e ognuno, diventan-do membro e cooperatore di un’associazione produttiva, conminor tempo e molto meno fatica guadagnerà molto di più.Quando le associazioni dei liberi produttori includeranno nelproprio seno, come membri cooperatori, accanto alle forze lavo-ratrici emancipate dall’istruzione generalizzata, tutte quelle par-ticolari intelligenze necessarie a ogni impresa; quando combi-nandosi tra loro liberamente, secondo i propri bisogni e la pro-pria natura, superando prima o poi tutte le frontiere nazionali,esse formeranno un’immensa federazione economica con unparlamento informato dai dati sempre più numerosi, precisi eparticolareggiati di una statistica mondiale quale oggi non puòancora farsi, e che combinando l’offerta con la domanda potràgovernare, determinare e ripartire tra i diversi Paesi la produzio-ne dell’industria mondiale, per cui non ci siano più o quasi crisicommerciali e industriali, stagnazioni forzate, disastri, dolori,capitali dispersi: allora il lavoro umano, emancipazione di tutti edi ciascuno, rigenererà il mondo.

La terra, con tutte le sue ricchezze naturali, è proprietà ditutti, ma sarà posseduta solo da coloro che la coltiveranno.

La donna, diversa dall’uomo ma non inferiore a lui, intelli-gente, lavoratrice e libera come lui, viene dichiarata a lui ugualenei diritti come in tutte le funzioni e i doveri politici e sociali.

La famiglia legale – non quella naturale – fondata sul dirittocivile e sulla proprietà è abolita. Il matrimonio religioso e civileviene sostituito dal matrimonio libero. Due individui maggio-renni e di sesso diverso hanno il diritto di unirsi e di separarsisecondo la propria volontà, i loro reciproci interessi e i bisognidel loro cuore, senza che la società abbia il diritto d’impedire laloro unione e di mantenerla contro la loro volontà. Quando ildiritto di eredità sarà abolito e l’educazione di tutti i bambinisarà assicurata dalla società, spariranno tutte le motivazionifinora avanzate a giustificare la consacrazione politica e civile

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dell’indissolubilità del matrimonio, e l’unione dei due sessidovrà essere restituita alla sua completa libertà, che anche qui,come sempre e dappertutto, è la condizione sine qua non dellavera morale. Nel matrimonio libero l’uomo e la donna dovrannoparimenti godere di un’assoluta libertà. Né la violenza della pas-sione, né i diritti liberamente concessi in passato potranno esse-re addotti a pretesto per qualsiasi attentato dell’uno contro lalibertà dell’altro, e ogni attentato del genere sarà considerato undelitto.

Dal momento in cui una donna attende un figlio, e sino aquando non lo avrà dato alla luce, essa ha diritto a una sovven-zione da parte della società, versata non a favore della donna madel figlio. Ogni madre che vorrà nutrire e allevare i suoi figlidovrà sempre essere rimborsata dalla società di tutto il costo delmantenimento e della fatica che dedica loro.

La domanda prioritaria che dobbiamo porci è questa: l’eman-cipazione della massa lavoratrice potrà essere completa fintantoche l’istruzione ricevuta da questa massa sarà inferiore a quelladata ai borghesi, o fintanto che ci sarà, in generale, una qualun-que classe, numerosa o meno, destinata per nascita ai privilegidi un’educazione superiore e di un’istruzione più completa?

Ma porre questa questione non equivale a risolverla? Non èevidente che fra due uomini dotati di un’intelligenza naturalepressoché uguale colui che saprà di più – cioè quello che avrà lamente più aperta grazie alla scienza e che avendo meglio capitol’interdipendenza dei fatti naturali e sociali, ovvero le leggidella natura e della società, coglierà più facilmente e più ampia-mente la natura dell’ambiente in cui si trova – sarà più libero,che sarà anche in pratica più abile e più forte dell’altro?

Chi sa di più dominerà naturalmente chi sa di meno; equand’anche inizialmente non esistesse fra due classi che questasola differenza d’istruzione e d’educazione, questa differenzaprodurrebbe in poco tempo tutte le altre, il mondo umano siritroverebbe nelle condizioni attuali, sarebbe cioè diviso nuova-mente in una massa di dominati e in un piccolo numero didominanti, e i primi lavorerebbero, come oggi, per i secondi.

Si capisce allora perché i socialisti borghesi chiedano soltan-

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to un po’ d’istruzione per il popolo, un po’ di più di quella chericeve adesso, mentre noi democratici socialisti chiediamol’istruzione integrale, tutta l’istruzione, tanto completa quanto èconsentito dal potenziale intellettuale del secolo, affinché al disopra della massa lavoratrice non possa trovarsi più alcuna clas-se cui sia possibile saperne di più e possa quindi, proprio perchépiù sapiente, dominarla e sfruttarla.

I socialisti borghesi vogliono la conservazione delle classiperché, secondo loro, ciascuna dovrebbe rappresentare una dif-ferente funzione sociale: una per esempio la scienza, l’altra illavoro manuale; noi, al contrario, vogliamo l’abolizione definiti-va e completa delle classi, l’unificazione della società e l’ugua-glianza economica e sociale di tutti gli esseri umani sulla terra.Essi vorrebbero, sempre però conservandole, ridurre, addolcire,imbellire la diseguaglianza e l’ingiustizia, queste basi storichedella società attuale, mentre noi vogliamo distruggerle. Ne risul-ta chiaramente che non è possibile alcuna intesa, né conciliazio-ne o coalizione, fra i socialisti borghesi e noi.

Ma, si dirà, ed è l’argomento che di solito ci viene opposto eche i signori dottrinari di ogni colore ritengono un argomentoirresistibile, è impossibile che tutta quanta l’umanità si dedichialla scienza: morirebbe di fame. Bisogna dunque che mentre gliuni studino gli altri lavorino per produrre le cose necessarie pervivere, prima per se stessi e poi anche per gli uomini che si sonoconsacrati esclusivamente ai lavori concettuali. Perché questiultimi non lavorano solamente per sé: le loro scoperte scientifi-che, oltre al fatto di allargare la mente umana, non miglioranoforse la condizione di tutti gli esseri umani, nessuno escluso,quando si applicano all’industria e all’agricoltura e, in generale,alla vita politica e sociale? Le loro creazioni artistiche non arric-chiscono la vita di tutti quanti?

No, niente affatto. Il maggior rimprovero che facciamo allascienza e alle arti è precisamente quello di diffondere i lorobenefici e di far sentire la loro influenza su una piccolissimaparte della società, lasciando fuori e di conseguenza danneg-giando l’immensa maggioranza.

Quel che è già stato detto con tanta ragione sul prodigiososviluppo dell’industria, del commercio, del credito, in una paro-la della ricchezza sociale, nei Paesi più civili del mondo moder-

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no, si può dire oggi sui progressi della scienza e delle arti. Que-sta ricchezza è assolutamente esclusiva e col tempo lo diventasempre di più, concentrandosi in un numero sempre più piccolodi mani e respingendo gli strati inferiori della classe media, lapiccola borghesia, nel proletariato, così che lo sviluppo di que-sta ricchezza è in rapporto diretto con la crescente miseria dellemasse lavoratrici.

Ne risulta che l’abisso che separa la minoranza beata e privi-legiata dai milioni di lavoratori che la mantengono con il lavorodelle proprie braccia si allarga ogni giorno di più, e che i fortu-nati, gli sfruttatori del lavoro popolare, sono tanto più feliciquanto più i lavoratori diventano miseri. Basta confrontare lafavolosa opulenza del mondo aristocratico, finanziario, com-merciale e industriale dell’Inghilterra con la miserabile situazio-ne dei lavoratori dello stesso Paese. Si rilegga quella lettera cosìsemplice e così straziante scritta poco tempo fa da un intelligen-te e onesto orafo di Londra, Walter Dugan, che si è avvelenatovolontariamente con la moglie e i sei bambini soltanto per sot-trarsi alle umiliazioni della miseria e alle torture della fame, e sisarà ben costretti a riconoscere come questa tanto vantata civiltànon sia altro, dal punto di vista materiale, che oppressione erovina per il popolo.

Lo stesso vale per i moderni progressi della scienza e dellearti. Questi progressi sono immensi! Sì, è vero. Ma più sonograndi e più divengono una causa di schiavitù intellettuale equindi anche materiale, una causa di miseria e di inferiorità peril popolo, perché allargano sempre di più quell’abisso che giàsepara l’intelligenza popolare da quella delle classi privilegiate.Oggi, dal punto di vista della capacità naturale, la prima è evi-dentemente meno stucchevole, meno logorata, meno sofisticatae meno corrotta dalla necessità di dover difendere interessiingiusti, e perciò essa è naturalmente più potente dell’intelligen-za borghese; ma in compenso quest’ultima dispone di tutte learmi della scienza, e queste armi sono formidabili.

Succede spesso che un operaio di grande intelligenza siacostretto a tacere davanti a uno stolto acculturato che lo superanon per l’intelletto, che non ha, ma per quella istruzione di cuil’operaio è sprovvisto e che l’altro ha potuto avere perché, men-tre la sua stoltezza si sviluppava scientificamente nelle scuole, il

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lavoro dell’operaio lo vestiva, lo alloggiava, lo nutriva e gli for-niva tutto il materiale, maestri e libri, necessario alla sua istru-zione.

Sappiamo benissimo che il livello di scienza spettante a cia-scuno non è uguale nemmeno all’interno della classe borghese.Anche là c’è una scala determinata non dalla capacità degli indi-vidui ma dalla maggiore o minore ricchezza dello strato socialein cui sono nati: ad esempio, l’istruzione che ricevono i figlidella piccolissima borghesia, appena superiore a quella che glioperai riescono a darsi da soli, è quasi niente a confronto diquella che la società elargisce alla media e alta borghesia. Perciòche cosa vediamo? La piccola borghesia, che è oggi legata allaclasse media da un lato per una vanità ridicola e dall’altro per lasua concreta dipendenza dai grandi capitalisti, si trova quasisempre in una situazione più miserabile e ancora più umiliantedel proletariato. Per cui quando parliamo di classi privilegiatenon designamo mai questa povera piccola borghesia che se aves-se un po’ più di intelligenza e di cuore non indugerebbe a unirsia noi per combattere la grande e media borghesia che oggi laschiaccia non meno di quanto schiacci il proletariato.

E se lo sviluppo economico della società dovesse continuareancora per una decina d’anni in questa direzione, cosa che delresto ci pare impossibile, vedremmo anche la maggior partedella media borghesia cadere prima nell’attuale situazione dellapiccola borghesia, per poi andare a perdersi nel proletariato,sempre a causa di quella fatale concentrazione della proprietà inun numero sempre più limitato di mani che avrà l’infallibilerisultato di dividere in modo definitivo il mondo sociale in unapiccola minoranza, esageratamente opulenta, sapiente, domi-nante e in un’immensa maggioranza di proletari miserabili,ignoranti e schiavi.

C’è un fatto che dovrebbe imporsi a tutte le menti consapevo-li, a tutti coloro cui stia a cuore la dignità umana e la giustizia,vale a dire la libertà di ciascuno nell’uguaglianza e per l’ugua-glianza di tutti. Ed è che tutte le invenzioni dell’intelligenza,tutte le grandi applicazioni della scienza all’industria, al com-mercio e, in generale, alla vita sociale, hanno fino ad ora avvan-taggiato soltanto le classi privilegiate, oltre che la potenza degliStati, questi eterni protettori di tutte le iniquità politiche e sociali

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– mai le masse popolari. Ci basta fare l’esempio delle macchineperché ogni lavoratore e ogni sincero fautore dell’emancipazio-ne del lavoro ci dia ragione.

Con quale forza si sostengono ancora oggi le classi privile-giate, con tutta la loro agiatezza insolente e tutti i loro iniquigodimenti, contro la più che legittima indignazione delle massepopolari? Forse per mezzo di una forza che sarebbe loro pro-priamente inerente? No, unicamente per mezzo della forza delloStato, nel quale, d’altronde, i loro figli ricoprono oggi, comehanno sempre fatto, tutte le funzioni dominanti e finanche tuttele funzioni medie e inferiori, salvo quelle di lavoratori e di sol-dati. E che cosa costituisce oggi, principalmente, la potenzadegli Stati? La scienza.

Sì, la scienza. Scienza di governo, di amministrazione, escienza di tosare il gregge popolare senza farlo gridare troppo o,qualora incominciasse a gridare, scienza di imporgli il silenzio,la pazienza e l’obbedienza per mezzo di una forza scientifica-mente organizzata; scienza di ingannare e di dividere le massepopolari, di mantenerle sempre in una salutare ignoranza affin-ché non possano mai, aiutandosi mutualmente e riunendo i lorosforzi, creare una forza capace di rovesciare gli Stati; scienzamilitare soprattutto, con tutte le sue armi perfezionate e queiformidabili strumenti di distruzione che «fanno meraviglie»;scienza del genio, infine, che ha creato le navi a vapore, le ferro-vie e i telegrafi: le ferrovie che utilizzate dalla strategia militaredecuplicano la potenza difensiva e offensiva degli Stati; i tele-grafi che trasformando ogni governo in un Briareo con cento,mille braccia, fornendogli la possibilità di essere presente, diagire e di colpire ovunque, creano la centralizzazione politicapiù formidabile che sia mai esistita al mondo.

Chi può allora negare che tutti i progressi della scienza, senzaalcuna eccezione, abbiano portato finora solo all’aumento dellaricchezza delle classi privilegiate e del potere degli Stati, adanno del benessere e della libertà delle masse popolari, delproletariato? Ma si obietterà: forse che le masse popolari non neapprofittano anche loro? Non sono tanto più civili nella nostrasocietà di quanto non lo siano mai state nei secoli passati?

A ciò risponderemo con un’osservazione di Lassalle, il famo-so socialista tedesco. Per giudicare sui progressi delle masse

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lavoratrici dal punto di vista della loro emancipazione politica esociale non si deve assolutamente confrontare il loro livellointellettuale in questo secolo con il loro livello intellettuale neisecoli passati. Bisogna invece considerare se, a partire daun’epoca data e dopo aver constatato la differenza allora esi-stente fra queste e le classi privilegiate, le masse lavoratriciabbiano progredito nella stessa misura di quelle. Perché se i pro-gressi rispettivi sono stati uguali, la distanza intellettuale che lesepara oggi dal ceto privilegiato sarà la stessa; se il proletariatoprogredisce di più e più velocemente dei privilegiati questadistanza sarà necessariamente divenuta minore; ma se, al con-trario, il progresso è più lento e quindi inferiore a quello delleclassi dominanti durante lo stesso tempo, questa distanza saràmaggiore: l’abisso che li separava sarà divenuto più largo,l’uomo privilegiato più forte, il lavoratore più dipendente, piùschiavo di quanto non fosse nell’epoca presa come punto di rife-rimento.

Se partiamo insieme, nello stesso momento, da due puntidiversi, voi cento passi davanti a me, se fate sessanta passi ogniminuto e io soltanto trenta, trascorsa un’ora la distanza che ciseparerà non sarà più di cento ma di millenovecento passi.

Questo esempio dà un’idea assolutamente corretta dei pro-gressi rispettivi della borghesia e del proletariato. Fin qui i bor-ghesi hanno marciato sulla via della civiltà più rapidamente deiproletari non perché la loro intelligenza fosse di natura superiorea quella di questi ultimi – oggi si potrebbe a ragione affermarel’opposto – ma perché l’organizzazione economica e politicadella società è stata fino ad ora tale che solo i borghesi hannopotuto istruirsi, perché la scienza è esistita solo per loro e perchéil proletariato è stato condannato a una tale ignoranza forzatache se esso malgrado tutto avanza, e i suoi progressi sono indub-bi, non è certo grazie alla società ma suo malgrado.

Riassumiamo. Nell’attuale organizzazione della società i pro-gressi della scienza sono stati la causa dell’ignoranza relativadel proletariato, così come i progressi dell’industria e del com-mercio sono stati la causa della sua miseria relativa. Progressiintellettuali e progressi materiali hanno quindi contribuito inegual misura ad aumentare la schiavitù. Che cosa ne risulta?Che noi dobbiamo rifiutare e combattere questa scienza borghe-

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se così come dobbiamo rifiutare e combattere la ricchezza bor-ghese.

Combatterle e respingerle nel senso che, distruggendo l’ordi-ne sociale che ne fa il patrimonio di una o più classi, dobbiamorivendicarle in quanto bene comune di tutti.

Abbiamo dimostrato che fino a quando ci saranno due o piùlivelli d’istruzione per i vari strati della società, ci sarannonecessariamente delle classi, vale a dire dei privilegi economicie politici per un piccolo numero di fortunati e la schiavitù e lamiseria per la stragrande maggioranza. Membri dell’Associazio-ne internazionale dei lavoratori, noi vogliamo l’uguaglianza, epoiché la vogliamo, dobbiamo volere anche l’istruzione integra-le uguale per tutti.

Ma se tutti sono istruiti chi vorrà lavorare? ci viene doman-dato. La nostra risposta è semplice: tutti devono lavorare e tuttidevono essere istruiti.

A questo punto ci viene spesso ribattuto che questa integra-zione del lavoro manuale con il lavoro intellettuale non potràottenersi che a danno dell’uno o dell’altro: i lavoratori manualisaranno dei cattivi scienziati e gli scienziati saranno sempredegli operai veramente scadenti. Sì, ma solo nella società attualein cui il lavoro manuale e il lavoro dell’intelligenza sono ambe-due falsati dall’isolamento completamente artificiale al qualesono stati entrambi condannati.

Ma noi siamo convinti che nell’essere vivente completoognuna di queste due attività, muscolare e nervosa, dev’esseresviluppata in egual misura e che, lungi dal nuocersi a vicenda,ciascuna deve sostenere, allargare e rafforzare l’altra: la scienzadello scienziato diventerà più feconda, utile e ampia quando loscienziato non ignorerà più il lavoro manuale, mentre il lavorodell’operaio istruito sarà più intelligente e quindi più produttivodi quello dell’operaio ignorante.

Ne consegue che nello stesso interesse del lavoro, come inquello della scienza, non ci devono più essere né operai néscienziati, ma solo uomini.

Si arriverà allora a questo risultato, e cioè che gli uominioggi inglobati nel mondo esclusivo della scienza per la loro

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superiore intelligenza – i quali una volta installati in questomondo cedono alla necessità di una posizione interamente bor-ghese, piegando tutte le loro invenzioni all’esclusivo profittodella classe privilegiata di cui fanno parte – una volta divenutirealmente solidali con tutti, e solidali non in modo figurato o aparole ma di fatto con il lavoro, adatteranno altrettanto necessa-riamente le scoperte e le applicazioni della scienza all’interessedi tutti, e primariamente all’alleggerimento e all’elevazione dellavoro, la sola base legittima e reale della società umana.

È possibile e perfino molto probabile che nel periodo di tran-sizione più o meno lungo che seguirà inevitabilmente la grandecrisi sociale, le scienze più avanzate cadano in maniera conside-revole al di sotto del loro attuale livello; è altrettanto indubbioche il lusso e tutte quelle cose che costituiscono le raffinatezzedella vita debbano scomparire per molto tempo dalla società,per riapparire – non più come godimenti esclusivi ma solo comeun’elevazione della vita di tutti – solo dopo che la società avràconquistato il necessario per tutti.

Ma questa eclissi temporanea della scienza superiore sarà poiuna disgrazia così grande? Ciò che la scienza perderà in sublimeelevatezza non sarà compensato dall’allargamento della suabase?

Indubbiamente ci saranno meno scienziati illustri, ma nellostesso tempo ci saranno meno ignoranti. Non avremo più questopugno di uomini che toccano il cielo ma, in compenso, milionidi uomini cammineranno in modo più umano sulla terra: nientesemidei, niente schiavi. I semidei e gli schiavi si umanizzerannoinsieme, i primi discendendo un po’ e i secondi salendo molto.Non ci sarà più posto allora né per la divinizzazione né per ildisprezzo. Tutti si daranno la mano e una volta riuniti, tuttimuoveranno con nuovo slancio verso ulteriori conquiste nellascienza come nella vita.

Per cui, anziché paventare questa eclissi della scienza,d’altronde assolutamente momentanea, noi la invochiamo contutti i nostri voti, perché essa avrà l’effetto di umanizzare gliscienziati e i lavoratori manuali insieme, di riconciliare la scien-za con la vita.

E siamo convinti che, una volta conquistata questa nuovabase, i progressi dell’umanità supereranno in breve, sia nella

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scienza che nella vita, tutto quanto abbiamo visto sinora e tuttoquel che oggi possiamo immaginare.

Ma qui si affaccia un’altra questione: tutti gli individui hannouguali capacità di elevarsi allo stesso grado di istruzione? Imma-giniamo una società organizzata secondo il sistema più egualita-rio possibile e nella quale tutti i bambini abbiano fin dalla nasci-ta il medesimo punto di partenza sia dal punto di vista economi-co e sociale che da quello politico, e cioè, in termini assoluti,uguale mantenimento, uguale educazione, uguale istruzione; nonci saranno fra queste migliaia di piccoli individui infinite diffe-renze di energia, di tendenze naturali, di attitudini?

Ecco il grande argomento dei nostri avversari, borghesi purie socialisti borghesi. Lo credono irresistibile. Proviamo allora adimostrare loro il contrario. Innanzi tutto con quale diritto sirifanno al principio delle capacità individuali? Ci sarebbe forseposto per il loro sviluppo in una società che continuasse adavere come base economica il diritto ereditario? Evidentementeno, perché fino a quando esisterà l’eredità l’avvenire dei bambi-ni non sarà mai il risultato delle loro capacità e della loro ener-gia individuale: sarà, prima di ogni altra cosa, il prodotto dellecondizioni economiche – della ricchezza o della miseria – delleloro famiglie.

Gli ereditieri ricchi ma stupidi riceverebbero comunqueun’istruzione superiore; i figli più intelligenti del proletariatocontinuerebbero a ricevere in eredità l’ignoranza, proprio comeavviene oggi.

Non è allora un’ipocrisia parlare, tanto per l’attuale societàquanto per un’ipotetica società riformata ma pur sempre basatasulla proprietà individuale e il diritto ereditario, non è un’infametruffa, ripeto, parlare di diritti individuali fondati su capacitàindividuali?

Oggi si parla tanto di libertà individuale e tuttavia ciò chepredomina non è affatto l’individuo umano, l’individuo in gene-rale, ma è l’individuo privilegiato per la propria posizione socia-le; è quindi la posizione, la classe. Che un individuo intelligentedella borghesia provi soltanto a ergersi contro i privilegi econo-mici di questa classe egregia e vedrà quanto questi ottimi bor-ghesi, che adesso si riempiono la bocca di libertà individuale,rispetteranno la sua!

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E ci vengono a parlare di capacità individuali! Ma non vedia-mo ogni giorno le migliori capacità operaie e borghesi costrettea cedere il passo e perfino a chinare la fronte davanti alla stupi-dità degli ereditieri del vitello d’oro? La libertà individuale, nonprivilegiata ma umana, le capacità reali degli individui, nonpotranno avere il loro pieno sviluppo che nella completa ugua-glianza. Solo quando ci sarà l’uguaglianza delle condizioni dipartenza per tutti gli uomini della terra – salvando comunque isuperiori diritti della solidarietà, che è e resterà sempre la princi-pale matrice di tutti i fatti sociali, dell’intelligenza umana comedei beni materiali – si potrà allora dire, con le buone ragioni cheoggi mancano, che ogni individuo è figlio delle proprie opere. Eda qui ne deriviamo che affinché le capacità individuali riescanoa prosperare e non siano più impedite dal produrre i loro fruttioccorre, prima d’ogni altra cosa, che tutti i privilegi individuali,sia economici che politici, siano fatti scomparire, vale a dire chetutte le classi siano abolite. Occorre che scompaia la proprietàindividuale e il diritto ereditario. Occorre il trionfo economico,politico e sociale dell’uguaglianza.

Ma una volta che l’uguaglianza abbia trionfato e si sia stabil-mente consolidata, non ci sarà più alcuna differenza fra le capa-cità e i gradi d’energia dei diversi individui? Ci sarà invece,forse non nella misura che ha oggi, ma indubbiamente ci saràsempre.

È una verità divenuta proverbiale – e che con ogni probabi-lità non cesserà mai d’essere una verità – che sullo stesso alberonon ci siano mai due foglie identiche. A maggior ragione ciòsarà sempre vero riguardo agli uomini, dato che gli uomini sonoesseri molto più complessi delle foglie. Ma questa diversitàlungi dal rappresentare un danno è, al contrario, come ha moltobene osservato il filosofo tedesco Feuerbach, una ricchezzadell’umanità.

Grazie ad essa l’umanità diviene un tutto collettivo in cui cia-scuno completa tutti e ha bisogno di tutti; di modo che questainfinita diversità degli individui umani è la causa stessa, la baseprincipale, della loro solidarietà, nonché un argomento onnipo-tente a favore dell’uguaglianza. In fondo, anche nell’odiernasocietà quando si eccettuino due categorie umane, gli uomini digenio e gli idioti, e quando si trascurino differenze create artifi-

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cialmente dall’influenza di mille cause sociali come educazione,istruzione, posizione economica e politica, diversificate nonsolo in ogni strato della società ma quasi in ogni famiglia, sidovrà riconoscere che dal punto di vista delle capacità intellet-tuali e dell’energia morale per la stragrande maggioranza gliuomini si rassomigliano molto o quanto meno si equivalgono,perché la debolezza di ognuno sotto un aspetto è quasi semprecompensata da una forza equivalente sotto un altro aspetto, percui diventa impossibile dire che un uomo tolto da questa massasia molto superiore o inferiore all’altro.

Nella loro immensa maggioranza gli uomini non sono identi-ci ma equivalenti e perciò uguali.

Non rimangono quindi disponibili per l’argomentazione deinostri avversari che gli uomini di genio e gli idioti.

Si sa che l’idiotismo è una malattia fisiologica e sociale. Nondeve essere quindi trattata nelle scuole ma negli ospedali; eabbiamo il diritto di sperare che l’introduzione di un’igienesociale più razionale – e soprattutto più preoccupata della salutefisica e morale degli individui di quella oggi esistente – e diun’organizzazione egualitaria della nuova società riusciranno afar scomparire completamente dalla faccia della terra questadannata malattia così umiliante per la specie umana.

In quanto agli uomini di genio si deve innanzi tutto osservareche fortunatamente, o se si vuole disgraziatamente, essi nonsono mai entrati nella storia se non come rarissime eccezioni atutte le regole conosciute; e non si organizzano le eccezioni.

Noi comunque speriamo che la società futura trovi inun’organizzazione realmente pratica e popolare della sua forzacollettiva il mezzo per rendere questi grandi geni meno necessa-ri, meno schiaccianti e più efficacemente benefici per tutti. Per-ché non si deve mai dimenticare l’acuta affermazione di Voltai-re: «C’è qualcuno che ha maggior ingegno del genio più grande,ed è tutta la gente».

Si tratta quindi di organizzare questa gente per mezzo dellapiù grande libertà fondata sulla più completa uguaglianza eco-nomica, politica e sociale, per cui non si debbano più temere levelleità dittatoriali e l’ambizione dispotica degli uomini digenio.

In quanto a produrre uomini di genio per mezzo dell’educa-

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zione è meglio non pensarci. D’altra parte, fra tutti gli uomini digenio conosciuti nessuno o quasi si è rivelato tale nella suainfanzia, nella sua adolescenza e nemmeno nella sua prima gio-vinezza. Si sono piuttosto manifestati come tali solo nella loromaturità, e moltissimi sono stati riconosciuti solo dopo la morte,mentre tanti geni mancati, proclamati esseri superiori durante laprima giovinezza, hanno poi finito la loro carriera nella piùassoluta nullità.

Non sarà mai nell’infanzia o nell’adolescenza che si potrannodunque determinare le superiorità e le inferiorità relative degliuomini, né il grado delle loro capacità, né le loro inclinazioninaturali. Tutte queste cose si manifestano e si determinano solocon lo sviluppo degli individui, e dato che ci sono nature preco-ci e altre lentissime, quantunque nient’affatto inferiori e spessoperfino superiori, nessun maestro di scuola potrà prevederel’avvenire e il tipo di occupazione che i bambini sceglierannouna volta giunti all’età della libertà.

Ne consegue che la società, prescindendo dalla differenzareale o fittizia delle inclinazioni e delle capacità e non disponen-do di mezzi per determinare, né di diritti per imporre, la futuracarriera dei bambini, deve a tutti un’educazione e un’istruzioneassolutamente uguali.

L’istruzione di ogni grado dev’essere uguale per tutti e dun-que integrale, cioè preparare ogni bambino dei due sessi sia allavita del pensiero che a quella del lavoro affinché tutti possanodiventare in egual misura persone complete.

La filosofia positiva che ha detronizzato dalle menti le favolee le fantasticherie della metafisica, ci permette di scorgere quelche deve essere in avvenire l’istruzione scientifica.

Questa avrà la conoscenza della natura per base e la sociolo-gia per coronamento. L’ideale non sarà più quello del dominio edella violenza sulla vita, com’è sempre stato in tutti i sistemimetafisici e religiosi, ma piuttosto rappresenterà l’estrema e piùbella espressione del mondo reale. Cessando d’essere un sognodiventerà esso stesso una realtà.

Dato che nessuna mente per possente che sia è capace diabbracciare nella loro specializzazione tutte le scienze, mentre

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peraltro è assolutamente necessaria una conoscenza generale ditutte le scienze per lo sviluppo completo della mente, l’insegna-mento si dividerà naturalmente in due parti: la parte generale,che darà sia gli elementi principali di tutte le scienze, senzaalcuna eccezione, sia la conoscenza non superficiale e del tuttoconcreta del loro insieme, e la parte specialistica, necessaria-mente suddivisa in diversi gruppi o facoltà, ognuna delle qualiabbraccerà in tutta la loro specificità un certo numero di scienzeche, per loro stessa natura, sono destinate a completarsi.

La prima parte, la parte generale, sarà obbligatoria per tutti ibambini; essa costituirà, per così dire, l’educazione umana delloro intelletto che sostituirà completamente la metafisica e lateologia e li condurrà nello stesso tempo ad un punto d’osserva-zione abbastanza elevato perché raggiunta l’adolescenza possa-no scegliere, con una buona conoscenza dei fatti, la facoltà spe-cialistica che meglio corrisponderà alle loro tendenze naturali,alle loro preferenze.

Accadrà indubbiamente che talvolta gli adolescenti nello sce-gliere la loro specializzazione scientifica, influenzati da qualchecausa secondaria esterna o anche interiore, si sbaglierannooptando in un primo momento per una facoltà e per un avvenireche non saranno quelli più corrispondenti alle loro attitudini. Mapoiché siamo partigiani non ipocriti ma sinceri della libertàindividuale; poiché in nome di questa libertà detestiamo di tuttocuore il principio di autorità come tutte le possibili manifesta-zioni di questo principio divino, antiumano; poiché detestiamo econdanniamo, con tutta la profondità del nostro amore per lalibertà, l’autorità paterna e quella del maestro di scuola; poichégiudichiamo entrambe corruttrici e funeste, proprio perchél’esperienza di ogni giorno ci prova che il padre di famiglia e ilmaestro di scuola, a dispetto della loro saggezza scontata e pro-verbiale, o proprio a causa di quella, si sbagliano sulle capacitàdei loro figli ancora più facilmente dei figli stessi, e questo per-ché – secondo quella legge assolutamente umana, incontestabi-le, fatale, per cui ogni uomo che ha potere non può evitare diabusarne – il maestro di scuola e i padri di famiglia nel determi-nare l’avvenire dei giovani interrogano molto più le proprie pre-ferenze che le tendenze naturali di questi; poiché, infine, glierrori commessi dal dispotismo sono sempre più funesti e irre-

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parabili di quelli commessi dalla libertà, noi sosteniamo controtutti i tutori ufficiali, ufficiosi, paternalistici e pedanti del mondola libertà piena e completa dei giovani di scegliere e determinareil proprio avvenire.

Se si sbagliano, lo stesso errore che avranno commesso ser-virà loro da efficace insegnamento per il futuro, e con la guidadell’istruzione integrale ricevuta potranno facilmente ritornaresulla via indicata dalla propria natura.

I giovani, come gli uomini maturi, diventano saggi per leesperienze che fanno da sé, mai per quelle fatte dagli altri.

Nell’istruzione integrale a lato dell’insegnamento scientificoo teorico dev’esserci necessariamente l’insegnamento industria-le o pratico. Soltanto così si formerà l’uomo completo: il lavora-tore che capisce e che conosce.

Analogamente all’insegnamento scientifico anche l’insegna-mento industriale si dividerà in due parti: l’insegnamento gene-rale, quello che deve dare ai giovani l’idea complessiva e laconoscenza pratica di base di tutte le industrie, nessuna esclusa,oltre all’idea del loro insieme che costituisce la civiltà propria-mente materiale, la totalità del lavoro umano; e la parte speciali-stica divisa in gruppi di industrie maggiormente collegate fraloro.

L’insegnamento generale deve preparare gli adolescenti ascegliere liberamente il gruppo specialistico di industrie e, fraqueste, quella particolare verso cui sentono maggiore attitudine.Appena entrati in questa seconda fase dell’insegnamento indu-striale faranno sotto la guida dei loro insegnanti il primo appren-distato di vero lavoro.

A lato dell’insegnamento scientifico e industriale ci sarànecessariamente anche l’insegnamento pratico o, piuttosto, unaserie di successive esperienze di morale non divina ma umana.La morale divina è fondata su due principi immorali: il rispettodell’autorità e il disprezzo dell’umanità. La morale umana alcontrario si fonda sul disprezzo dell’autorità e sul rispetto dellalibertà e dell’umanità. La morale divina considera il lavorocome un’umiliazione e un castigo; la morale umana vi vedeinvece la suprema condizione della felicità e della dignitàumane. La morale divina per necessaria conseguenza approda auna politica che riconosce diritti soltanto a coloro che per la loro

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posizione economicamente privilegiata possono vivere senzalavorare. La morale umana non ne accorda che a coloro chevivono per mezzo del lavoro; essa giudica che solo con il lavorol’uomo diventa tale.

L’educazione dei bambini partendo dall’autorità deve succes-sivamente sfociare nella più completa libertà. Da un punto divista positivo intendiamo per libertà il pieno sviluppo di tutte lefacoltà che si trovano nell’uomo e, da un punto di vista negati-vo, l’assoluta indipendenza della volontà di ognuno di fronte aquella degli altri.

L’uomo non è affatto e non sarà mai libero rispetto alle legginaturali, di fronte alle leggi sociali; le leggi suddivise in questedue categorie per maggior comodità scientifica in realtà com-pongono una sola e medesima categoria, perché sono tutte, inegual misura, leggi naturali, leggi fatali che costituiscono la basee la condizione stessa di ogni esistenza, di modo che nessunessere vivente potrebbe rivoltarsi contro di esse senza suicidarsi.

Ma si devono pur distinguere queste leggi naturali da quelleleggi autoritarie, arbitrarie, politiche, religiose, penali e civiliche le classi privilegiate nel corso della storia hanno sempre sta-bilito allo scopo di sfruttare il lavoro delle masse lavoratrici e alfine esclusivo di imbavagliarne la libertà; leggi che con il prete-sto di una morale fittizia sono sempre state la fonte della piùprofonda immoralità. Per cui obbedienza involontaria e inevita-bile a tutte quelle leggi che indipendentemente da qualsiasivolontà umana sono la vita stessa della natura e della società;ma anche indipendenza il più possibile assoluta di ognuno difronte a tutte quelle volontà umane collettive e individuali chevogliano imporre non la loro naturale influenza ma la lorolegge, il loro dispotismo. Anche l’influenza naturale che gliuomini esercitano gli uni sugli altri è una di quelle condizionidella vita sociale contro cui la rivolta sarebbe tanto inutile quan-to impossibile.

Questa influenza è la base stessa, materiale, intellettuale emorale della solidarietà umana.

L’individuo umano, prodotto della solidarietà, cioè dellasocietà, pur se sottomesso alle sue leggi naturali può benissimo,influenzato da sentimenti provenienti dall’esterno, in specialmodo da una società straniera, reagire contro la sua fino a un

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certo grado, e tuttavia non sarebbe capace di uscirne senzaentrare subito in un altro ambiente solidale sottoponendosi cosìa nuove influenze. Perché per l’uomo la vita al di fuori di ognisocietà e di ogni influenza umana, l’assoluto isolamento, è lamorte intellettuale, morale e anche materiale. La solidarietà nonè solo un prodotto ma la madre dell’individualità, e la persona-lità umana può nascere e svilupparsi soltanto nella societàumana. La somma delle influenze sociali dominanti, espressadalla coscienza solidale o generale di un gruppo umano più omeno vasto, si chiama opinione pubblica. E chi non conoscel’azione onnipotente esercitata dall’opinione pubblica su tutti gliindividui? L’azione restrittiva delle leggi più draconiane non èniente al suo confronto. È dunque questa l’educatrice per eccel-lenza degli uomini. Da qui risulta che al fine di moralizzare gliindividui occorre prima di tutto moralizzare la società stessa,umanizzarne l’opinione o coscienza pubblica.

Abbiamo detto che per moralizzare gli uomini occorre mora-lizzare l’ambiente sociale.

Il socialismo, fondato sulla scienza obiettiva, respinge inmodo assoluto la teoria del libero arbitrio; esso sostiene chequanto viene definito come vizio e virtù dagli uomini è il pro-dotto dell’azione combinata di natura e società. La natura, inquanto azione etnologica, fisiologica e patologica, crea quellefacoltà e quelle disposizioni che si dicono naturali, mentrel’organizzazione sociale le sviluppa, oppure ne arresta o ne falsalo sviluppo. Tutti gli individui, senza eccezione, sono in ognimomento della loro vita ciò che la natura e la società ne hannofatto.

Soltanto in virtù di questa fatalità naturale e sociale la scien-za statistica è possibile.

Questa scienza non si accontenta di constatare e di enumera-re i fatti sociali, essa ne ricerca i legami e la correlazione conl’organizzazione della società. La statistica criminale per esem-pio rileva che in un dato Paese, in una data città, in un periododi dieci, venti, trent’anni e anche più, se nessuna crisi politica esociale è intervenuta a mutare le tendenze della società, lo stes-so crimine e lo stesso tipo di delitto si riproduce ogni anno pres-

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soché nella stessa proporzione; e cosa ancor più notevoleall’incirca con la stessa incidenza annua: per esempio il numerodi avvelenamenti, di omicidi con arma da taglio o da fuoco,oppure il numero di suicidi con questo o quel mezzo, è quasisempre uguale. [...]

Questa periodica ripetizione degli stessi fatti sociali nonpotrebbe prodursi se le inclinazioni intellettuali e morali degliuomini e gli atti della loro volontà avessero per fonte il liberoarbitrio. Ma il termine libero arbitrio o non ha alcun senso osignifica che l’individuo umano si determina spontaneamente dasé, al di fuori di ogni influenza esterna, tanto naturale che socia-le. Se così fosse, se tutti gli uomini non derivassero che da semedesimi, allora nel mondo ci sarebbe il più grande disordine;ogni solidarietà fra gli uomini diventerebbe impossibile e tuttiquei milioni di volontà assolutamente indipendenti le une dallealtre urtandosi tra loro tenderebbero necessariamente a distrug-gersi, finendo per riuscirci se non ci fosse sopra di loro la dispo-tica volontà della divina provvidenza che «le conduce mentre siagitano» e che, annientandole tutte insieme, impone a questaconfusione umana l’ordine divino.

E infatti vediamo, spinti fatalmente da una tale logica, tutti idifensori del principio del libero arbitrio riconoscere l’esistenzae l’azione di una divina provvidenza.

È questa la base di tutte le dottrine teologiche e metafisiche,un sistema magnifico che ha lungamente rallegrato la coscienzaumana e che visto da lontano, dal punto di vista del pensieroastratto o dell’immaginazione religiosa e poetica, sembra effetti-vamente pieno di armonia e di grandiosità.

Ma è una vera disgrazia che la realtà storica corrispondente aquesto sistema sia sempre stata orribile e che il sistema in sestesso non possa reggere la critica scientifica.

In effetti sappiamo che fino a quando il diritto divino haregnato sulla terra l’immensa maggioranza degli uomini è statabrutalmente e spietatamente sfruttata, tormentata, oppressa,decimata; sappiamo come ancor oggi è sempre in nome delladivinità teologica o metafisica che ci si sforza di costringere lemasse popolari alla schiavitù; e non può essere altrimenti per-ché, dal momento in cui il diritto divino è una volontà divinache governa il mondo, la natura e la società, la libertà umana

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viene completamente annullata. La volontà dell’uomo è neces-sariamente impotente alla presenza della volontà divina. Checosa ne risulta? Questo: che per voler difendere la libertà meta-fisica astratta o fittizia dell’uomo, il libero arbitrio, si è costrettia negare la sua libertà reale. Davanti all’onnipotenza e all’onni-presenza divine, l’uomo è schiavo. Distrutta, in generale, lalibertà dell’uomo per mezzo della provvidenza divina non rima-ne nient’altro che il privilegio, vale a dire gli speciali dirittiaccordati dalla grazia divina a quell’individuo, a quella gerar-chia, a quella dinastia, a quella classe.

Nello stesso tempo la provvidenza rende qualunque scienzaimpossibile, il che vuol dire che essa è solo e semplicemente lanegazione della ragione umana, oppure che per ammetterlaoccorre rinunciare al proprio senso comune. Dal momento che ilmondo è governato dalla volontà divina non si deve più ricerca-re il collegamento naturale dei fatti, ma una serie di manifesta-zioni di quella volontà suprema di cui i decreti, come dice lasacra scrittura, sono e devono restare sempre imperscrutabili perla ragione umana, altrimenti perderebbero il loro carattere divi-no.

La divina provvidenza non è soltanto la negazione di ognilogica, poiché qualsiasi logica implica una necessità naturale equesta necessità sarebbe contraria alla libertà divina, ma dalpunto di vista umano è il trionfo del non-senso. Coloro chevogliono credere devono quindi rinunciare sia alla libertà chealla scienza; e lasciandosi sfruttare e bastonare dai privilegiatidel buon dio, ripetere con Tertulliano: credo perché è assurdo,aggiungendo queste altre parole, logiche quanto le prime: evoglio l’iniquità. In quanto a noi, che rinunciamo volontaria-mente alla felicità di un altro mondo e che rivendichiamo ilcompleto trionfo dell’umanità su questa terra, confessiamoumilmente di non capire niente della logica divina e ci accon-tentiamo della logica umana fondata sull’esperienza e sullaconoscenza della connessione dei fatti sia naturali che sociali.Questa esperienza, accumulata, coordinata e ragionata che chia-miamo scienza ci dimostra che il libero arbitrio è una finzioneimpossibile; che ciò che si chiama volontà è soltanto il prodottodell’esercizio di una facoltà nervosa, così come la nostra forzafisica a sua volta è solo il prodotto dell’esercizio dei nostri

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muscoli; e che perciò sia l’una che l’altra sono prodotti dellavita naturale e sociale, vale a dire delle condizioni fisiche esociali in mezzo a cui è nato ogni individuo e in cui continua asvilupparsi. E dunque ribadiamo che ogni uomo, in qualsiasimomento della propria vita, è il prodotto dell’azione combinatadella natura e della società, e da ciò proviene chiaramente laverità di quanto abbiamo prima annunciato: che per moralizzaregli uomini occorre moralizzare l’ambiente sociale. Per moraliz-zarlo c’è un solo mezzo: quello di farvi trionfare la giustizia,vale a dire la più completa libertà di ognuno nella più perfettauguaglianza di tutti. […]

Gli uomini privilegiati dimostrano una scarsa propensione alasciarsi moralizzare o, il che è lo stesso, a riconoscere l’ugua-glianza, per cui temiamo fortemente che il trionfo della giustizianon possa effettuarsi se non per mezzo della rivoluzione sociale.Per il momento ci limiteremo a proclamare la verità, d’altrondeevidente, che fino a quando l’ambiente sociale non si sarà mora-lizzato, la morale degli individui sarà impossibile. Affinché gliuomini siano morali, e cioè uomini completi nel vero significatodi questa parola, occorrono tre cose: una nascita sana, un’istru-zione razionale e integrale accompagnata da un’educazione fon-data sul rispetto del lavoro, della ragione, dell’uguaglianza edella libertà, e un ambiente sociale in cui ogni individuo umano,godendo della propria piena libertà, sia realmente, di diritto e difatto, uguale a tutti gli altri.

Esiste questo ambiente? No. Lo si deve quindi creare.Se nell’ambiente esistente si riuscissero a fondare delle scuo-

le che dessero ai propri allievi l’istruzione e l’educazione piùperfette che si possano immaginare, perverrebbero queste acreare degli uomini giusti, liberi, morali? No, perché uscendodalla scuola si troverebbero in mezzo a una società diretta daprincipi del tutto opposti; e dato che la società è sempre piùforte degli individui, essa non tarderebbe a dominarli, vale adire a corromperli. Più ancora, la stessa fondazione di tali scuoleè impossibile nell’attuale ambiente sociale.

Proprio perché la vita sociale abbraccia tutto, essa permeatanto le scuole come la vita delle famiglie e di tutti gli individuiche ne fanno parte. I maestri, i professori, i genitori sono tuttimembri di questa società e tutti più o meno da quella istupiditi o

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corrotti. Come potrebbero dare agli allievi quel che manca aloro stessi?

La morale si predica utilmente solo con l’esempio e dato chela morale socialista è esattamente l’opposto della morale attuale,i maestri, in qualche misura necessariamente dominati daquest’ultima, dovrebbero comportarsi davanti ai loro allievi inmaniera contraddittoria con quel che predicherebbero loro. Dun-que l’educazione socialista è impossibile nelle scuole e nellefamiglie attuali.

Ma anche l’istruzione integrale è ugualmente impossibile: iborghesi non vogliono affatto che i loro figli diventino dei lavo-ratori, mentre i lavoratori sono privati di tutti i mezzi per dare aipropri figli l’istruzione scientifica.

Ammiro moltissimo quei buoni socialisti borghesi che ci gri-dano ogni momento: «Prima istruiamo il popolo e dopo emanci-piamolo». Noi al contrario diciamo: che esso si emancipi primadi tutto e che poi s’istruisca da sé.

Chi è infatti che dovrebbe istruire il popolo? Voi?Ma voi non lo istruite, voi lo avvelenate cercando di inculcar-

gli tutti i pregiudizi religiosi, storici, politici, giuridici ed econo-mici che garantiscono, a suo discapito, la vostra esistenza e allostesso tempo uccidono la sua intelligenza, indeboliscono la suaindignazione legittima e la sua volontà! Voi lasciate che vengaannientato dal suo lavoro quotidiano e dalla sua miseria, e poigli dite: «Istruisciti!». Ci piacerebbe proprio vedervi, voi e ivostri figli, istruirvi dopo tredici, quattordici, sedici ore di lavo-ro avvilente con la miseria e l’incertezza del domani per tuttaricompensa.

No signori, nonostante tutto il rispetto che abbiamo per ilgrande problema dell’istruzione integrale, noi dichiariamo cheoggi essa non è il maggiore problema per il popolo, non è laquestione prioritaria. La prima questione è quella della suaemancipazione economica, la quale genera subito la sua eman-cipazione politica e immediatamente dopo la sua emancipazioneintellettuale e morale.

Conseguentemente, adottiamo in pieno la risoluzione votatadal Congresso di Bruxelles (1867): «Riconoscendo che per ilmomento è impossibile organizzare un insegnamento razionale,il Congresso invita le diverse sezioni a istituire corsi pubblici

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seguendo un programma d’insegnamento scientifico, professio-nale e produttivo, vale a dire un insegnamento integrale, perovviare il più possibile all’insufficienza dell’istruzione che oraricevono i lavoratori. Resta fermo che la riduzione delle ore dilavoro è considerata una condizione pregiudiziale indispensabi-le».

Sì, indubbiamente i lavoratori faranno tutto quanto è in loropotere per darsi tutta l’istruzione possibile nelle condizionimateriali in cui attualmente si trovano. Ma senza lasciarsi fuor-viare dai richiami di sirena dei borghesi e dei socialisti borghesi,essi concentreranno i loro sforzi innanzi tutto sulla grande que-stione della loro emancipazione economica, che dev’essere lamadre di tutte le altre emancipazioni.

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V

Per comprendere i termini politici e sociali della criticabakuniniana allo «scientismo», bisogna partire dalla sua anali-si del processo di divinizzazione subìto dalla scienza nel corsodel secolo XIX. Tale processo è dovuto al fatto che, come qual-siasi altro campo dell’operare umano, l’attività scientifica èsuscettibile di sviluppi alienanti. È una possibilità che si dà se sirovescia il rapporto di dominazione-dipendenza tra essa el’uomo in modo tale che questi, originariamente soggetto-crea-tore, si trasforma in oggetto-creatura; così, invece di essere lascienza al servizio dell’uomo, è l’uomo che si pone al serviziodella scienza (e da qui la possibilità di applicare, in un certosenso, il paradigma feuerbachiano della religione anche a que-sto campo). La causa di tale rovesciamento, da cui scaturisce ilprocesso divinizzante, va ricercata nel limite stesso intrinsecoalla scienza: l’astrazione. Questa non può cogliere l’individua-lità concreta degli esseri reali e viventi.

Bakunin non soggiace quindi ai miti del positivismo, inquanto distingue la scienza dalla sua ideologizzazione; e per-ciò predica la rivolta della vita e della libertà contro il gover-no del sapere scientifico. Egli individua la possibilità della suadivinizzazione nel momento in cui si opera una dicotomia fracorpo sociale e corpo scientifico, fra vita reale e vita intellet-tuale, fra masse ed élite. A giudizio di Bakunin, insomma, lascienza per alcune correnti filosofiche e politiche – non ultimo

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il marxismo – non sarebbe altro che l’equivalente laico dellareligione, allo stesso modo in cui lo Stato, come abbiamo visto,non è che l’equivalente laico della Chiesa.

Infatti la scienza, secondo Bakunin, ha per certi aspetti uncarattere più mistificante della religione. In virtù della sua ano-nimità e universalità, in virtù, cioè, del suo stesso limite intrinse-co, l’astrazione, essa esprime un potere puro che si presentaindiscutibile e insindacabile, sia per il suo carattere «obiettivo»,sia perché da tale carattere discende e si prefigura un’immagine«democratica» che è difficilmente contestabile. Di qui la possi-bilità di un uso ed abuso del potere della scienza che per la suaestensibilità non trova riscontro in nessun altro potere storicoprecedente: i suoi ambiti appartengono ai massimi gradi dellaconoscenza umana. Ecco perché la società propugnata dai san-simoniani, dai comtiani e, in genere, da tutti i socialisti autorita-ri, sarebbe per Bakunin una mostruosità ancora peggiore delcapitalismo, in quanto la vita reale degli individui e della collet-tività – irriducibile ad ogni piano e ad ogni schematizzazione –si troverebbe senza alcuna libertà di movimento.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione ita-liana di Dio e lo Stato, RL, Pistoia 1970.

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SCIENZA E SCIENTISMO

[...] Respingo forse ogni autorità? Lungi da me questo pen-siero. Allorché si tratta di stivali, ricorro all’autorità del calzo-laio; se si tratta di una casa, di un canale o di una ferrovia, con-sulto quella dell’architetto o dell’ingegnere. Per ogni scienzaparticolare mi rivolgo a chi ne è cultore. Ma non mi lascioimporre né il calzolaio, né l’architetto, né il sapiente. Li ascoltoliberamente e con tutto il rispetto che meritano le loro intelli-genze, il loro carattere, il loro sapere, riservandomi nondimenoil mio diritto incontestabile di critica e di controllo. Non miaccontento di consultare una sola autorità specializzata, ma neconsulto parecchie; confronto le loro opinioni e scelgo quellache mi pare la più giusta. Ma non riconosco alcuna autoritàinfallibile, neppure per le questioni del tutto specialistiche; diconseguenza, per quanto rispetto possa avere per l’onestà e lasincerità del tale o del tal altro individuo, non ho fede assoluta

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in alcuno. Una fede simile sarebbe fatale per la mia ragione, perla mia libertà e per lo stesso buon risultato delle mie iniziative;essa mi trasformerebbe immediatamente in uno stupido schiavo,in uno strumento della volontà e degli interessi altrui.

Se m’inchino davanti all’autorità degli specialisti, e midichiaro pronto a seguirne, in certa misura e per il tempo che mipare necessario, le indicazioni ed anche la direzione, è perchéquesta autorità non mi è imposta da alcuno, né dagli uomini, néda Dio. Altrimenti la respingerei con orrore e me ne infischiereidei loro consigli, della loro direzione e della loro scienza, aven-do la certezza che essi mi farebbero pagare con la perdita dellamia libertà e della mia dignità, le briciole di verità, avviluppatedi molte menzogne, che potrebbero elargirmi.

Io m’inchino davanti all’autorità degli specialisti perché èimposta dalla mia propria ragione. Ho coscienza di poterabbracciare in tutti i suoi dettagli e sviluppi positivi solo unapiccolissima parte della scienza umana. La più eccelsa delleintelligenze non basterebbe per abbracciare il tutto. Dal chederiva, per la scienza come per l’industria, la necessità delladivisione e dell’associazione del lavoro. Ricevo e dò, ecco lavita umana. Ognuno è autorità dirigente e ognuno a sua volta èdiretto. Non dunque autorità fissa e costante, ma scambio conti-nuo di autorità e di subordinazioni vicendevoli, temporanee esoprattutto volontarie.

Questa stessa ragione mi vieta dunque di riconoscereun’autorità fissa, costante e universale perché non vi è uomouniversale che sia capace di abbracciare in quella ricchezza diparticolari, senza la quale l’applicazione della scienza alla vitanon è possibile, tutte le scienze e tutti gli ambiti della vita socia-le. E se una tale universalità potesse mai trovarsi realizzata in unuomo solo, ed egli volesse servirsene per imporre la sua auto-rità, bisognerebbe scacciare tale uomo dalla società, perché lasua autorità ridurrebbe inevitabilmente tutti gli altri alla schia-vitù e alla imbecillità. Non penso che la società debba maltratta-re gli uomini di genio come essa ha fatto sino ad oggi, ma nonpenso neppure ch’essa debba troppo ingrassarli, né soprattuttoaccordare loro privilegi o diritti esclusivi. E ciò per tre ragioni:innanzi tutto perché accade spesso di scambiare un ciarlatanoper un uomo di genio; poi perché, con un sistema di privilegi, si

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può trasformare un vero uomo di genio in un ciarlatano, cor-rompendolo e rimbecillendolo; e infine perché la società sidarebbe così un padrone assoluto.

Riassumendo, noi riconosciamo l’autorità assoluta dellascienza perché la scienza non ha altro oggetto che la riproduzio-ne mentale, riflessa e più sistematica possibile delle leggi natura-li inerenti alla vita materiale, intellettuale e morale del mondofisico e di quello sociale, i quali costituiscono di fatto un solo eidentico mondo naturale. Al di fuori di questa unica autoritàlegittima perché razionale e conforme alla libertà umana, dichia-riamo tutte le altre autorità menzognere, tiranniche e funeste.

Riconosciamo l’autorità assoluta della scienza, ma respingia-mo l’infallibilità e l’universalità dei suoi rappresentanti. Nellanostra chiesa – mi sia permesso di servirmi per un momento diquesta espressione che d’altronde detesto: la Chiesa e lo Statosono le mie due bestie nere – come in quella protestante noiabbiamo un capo, un Cristo invisibile, la scienza; e come i pro-testanti, anzi più coerenti di loro, noi non vogliamo sopportarené papa, né concilio, né conclavi di cardinali infallibili, névescovi e neppure preti. Il nostro Cristo si distingue dal Cristoprotestante e cristiano perché quest’ultimo è un essere persona-le, il nostro è impersonale; il Cristo cristiano, già definito in unpassato eterno, si presenta come un essere perfetto, mentre ilcompimento e la perfezione del nostro Cristo, la scienza, sononell’avvenire: il che equivale a dire che non si realizzerannomai. Riconoscendo solo l’autorità assoluta della scienza assolu-ta, non impegniamo affatto la nostra libertà.

Con queste parole, scienza assoluta, intendo la scienza vera-mente universale che riprodurrebbe idealmente, in tutta la suaestensione e i suoi infiniti dettagli, l’universo, il sistema o lacoordinazione di tutte le leggi naturali che si manifestano nellosviluppo incessante dei mondi. È evidente che questa scienza,obiettivo sublime di tutti gli sforzi dello spirito umano, non sirealizzerà mai nella sua pienezza assoluta. Il nostro Cristoresterà dunque eternamente incompiuto, e questo deve tempera-re molto l’orgoglio dei suoi rappresentanti patentati fra noi.Contro questo Dio-figlio, in nome del quale essi pretenderebbe-ro imporci la loro insolente e pedantesca autorità, noi faremoricorso al Dio-padre che è il mondo reale, la vita reale di cui il

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Dio-figlio non è che l’espressione purtroppo imperfetta e delquale siamo i rappresentanti immediati, noi esseri reali cheviviamo, lavoriamo, combattiamo, amiamo, desideriamo, godia-mo, soffriamo.

Ma pur respingendo l’autorità assoluta, universale ed infalli-bile degli uomini di scienza, c’inchiniamo volentieri davantiall’autorità rispettabile, anche se relativa, molto transitoria e cir-coscritta, dei rappresentanti delle scienze particolari, non chie-dendo di meglio che consultarli di volta in volta, riconoscentis-simi per le indicazioni preziose che vorranno darci, a condizioneche essi le accettino anche da noi sulle cose e nelle occasioni incui ne sappiamo più di loro. In generale, non domandiamo dimeglio che vedere gli uomini dotati di una grande cultura, esoprattutto di un grande cuore, esercitare su di noi un’influenzanaturale e legittima, liberamente accettata e mai imposta innome di una qualsiasi autorità ufficiale, celeste o terrena. Noiaccettiamo tutte le autorità naturali e tutte le influenze di fatto,nessuna di diritto, giacché ogni autorità ed ogni influenza didiritto, e come tale ufficialmente imposta, diventando subitoun’oppressione e una menzogna, ci imporrebbe sicuramente,come credo di avere sufficientemente dimostrato, la schiavitù el’assurdo.

In una parola, noi respingiamo ogni legislazione, ogni auto-rità ed ogni influenza privilegiata, patentata, ufficiale e legale,anche uscita dal suffragio universale, convinti che essa nonpotrebbe che ridondare a profitto di una minoranza dominante egovernante contro gli interessi dell’immensa maggioranza asser-vita.

Ecco in che senso siamo realmente anarchici.

Gli idealisti moderni intendono l’autorità in un modo affattodiverso. Benché liberi dalle superstizioni tradizionali di tutte lereligioni positive esistenti, nondimeno essi attribuiscono a que-sta idea dell’autorità un senso divino, assoluto. Questa autoritànon è affatto quella di una verità miracolosamente e scientifica-mente dimostrata. Essi la fondano su qualche argomentazionesemi-filosofica, su una grande fede vagamente religiosa e su unforte sentimento idealmente ed astrattamente poetico. La loro

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religione è l’estrema prova della divinizzazione di tutto ciò checostituisce l’umanità degli uomini.

Questo è esattamente il contrario dell’opera che perseguia-mo. Per amore della libertà, della dignità, della prosperitàumane, crediamo di dover togliere al cielo i beni che ha rubatoper restituirli alla terra. Gli idealisti, al contrario, sforzandosi dicommettere un ulteriore furto religiosamente eroico, vorrebberorestituire al cielo – a questo ladro divino attualmente smaschera-to e sorpreso in flagrante dall’audace empietà e dall’analisiscientifica dei liberi pensatori – tutto ciò che l’umanità ha di piùgrande, di più bello e di più nobile.

L’idea generale è sempre un’astrazione e, per ciò stesso, inqualche modo una negazione della vita reale. Ho rilevatonell’«Appendice» che questa proprietà del pensiero umano, econseguentemente anche della scienza, non può cogliere neifatti reali che il loro senso generale, i loro rapporti generali, leloro leggi generali; in breve ciò che è permanente nelle loro tra-sformazioni continue, ma non già il loro lato individuale e percosì dire palpitante di realtà e di vita, che di per sé è fugace edinafferrabile. La scienza comprende il pensiero della realtà, nonla realtà stessa; il pensiero della vita, non la vita. Ecco il suolimite, il solo limite che essa non può varcare perché è un limitedato dalla natura stessa del pensiero, che è l’unico organo dellascienza.

Da questo suo carattere derivano i diritti incontestabili e lamissione della scienza, ma ne derivano altresì la sua impotenzavitale e la sua azione nefasta ogni volta che, attraverso i suoirappresentanti ufficiali e patentati, si arroga il diritto di governa-re la vita. La missione della scienza è di constatare i rapportigenerali delle cose, effimere e reali, di riconoscere le leggigenerali inerenti allo sviluppo dei fenomeni del mondo fisico edel mondo sociale; così operando, essa fissa le petre miliaridella marcia progressiva dell’umanità. In una parola, la scienzaè la bussola della vita, ma non è la vita. La scienza è immutabi-le, impersonale, generale, insensibile, come le leggi di natura dicui essa è la riproduzione ideale, riflessa o mentale, cioè cere-brale. (Per ricordarci che la scienza stessa è il prodotto di un

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organo materiale dell’organismo materiale dell’uomo: il cervel-lo). La vita è fuggitiva ed effimera, ma palpitante di realtà e diindividualità, di sensibilità, di sofferenze, di gioie, di aspirazio-ni, di bisogni e di passioni. È essa sola che crea, spontaneamen-te, le cose e gli esseri reali. La scienza non crea nulla; si limita aconstatare e riconoscere le creazioni della vita. E tutte le volteche gli uomini di scienza, uscendo dal loro mondo astratto, sioccupano della creazione vivente nel mondo reale, tutto ciò chepropongono o creano è povero, ridicolmente astratto, privo disangue e di vita, nato morto, simile all’homunculus creato daWagner, il discepolo pedante dell’immortale dottor Faust. Neconsegue che la scienza ha per unica missione quella di illumi-nare la vita, non di governarla.

Il governo della scienza e degli uomini di scienza, fosseroanche dei positivisti, dei discepoli di August Comte o anche deidiscepoli della scuola dottrinaria del socialismo tedesco, nonpuò essere che impotente, ridicolo, inumano, crudele, oppressi-vo, sfruttatore, nefasto. Si può dire degli uomini di scienzacome tali ciò che si disse dei teologi e dei metafisici: essi nonhanno né senso né cuore per gli esseri individuali e viventi. Nédi ciò si deve far loro rimprovero, perché è conseguenza natura-le del loro mestiere. Come uomini di scienza, essi non possonointeressarsi che delle generalità e delle leggi.

Essi però non sono esclusivamente uomini di scienza, maanche, più o meno, di vita.

Tuttavia non bisogna fidarsene. E se si può essere abbastanzacerti che nessuno scienziato osi attualmente trattare un uomocome tratta un coniglio, c’è da temere sempre che la casta degliscienziati, se la si lascia fare, possa sottoporre gli uomini viventiad esperimenti scientifici certamente meno crudeli ma nonmeno rovinosi per le vittime umane. Se poi gli scienziati nonpossono fare esperimenti sui singoli corpi degli uomini, nonchiederanno di meglio che di farne sul corpo sociale: ecco ciòche bisogna assolutamente impedire.

Nella attuale organizzazione, in quanto monopolisti dellascienza che restano come tali al di fuori della vita sociale, gliscienziati formano certamente una casta a parte che offre molte

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analogie con la casta dei preti. L’astrazione scientifica è il loroDio, le individualità viventi e reali sono le vittime ed essi nesono gli immolatori consacrati e patentati.

La scienza non può uscire dalla sfera delle astrazioni. Sottoquesto profilo è infinitamente inferiore all’arte. Questa haanch’essa a che fare precisamente con tipi e situazioni generali,ma per un artificio che le è proprio sa incarnarli in forme che,pur non essendo affatto vive nel senso della vita reale, nondime-no provocano nella nostra immaginazione il senso o l’evocazio-ne di questa vita. In certo qual modo individualizza i tipi e lesituazioni che concepisce e per mezzo di queste individualitàche ha il potere di creare – senza carne né ossa e, in quanto tali,durevoli o immortali – ci ricorda le individualità viventi, reali,che compaiono e scompaiono ai nostri occhi. L’arte è quindi, inqualche modo, il ritorno dell’astrazione alla vita. La scienza, alcontrario, è l’eterno olocausto della vita fugace, effimera mareale, sull’altare delle eterne astrazioni.

La scienza è dunque poco capace di cogliere sia l’individua-lità di un uomo sia quella di un coniglio; essa è, cioè, indifferen-te verso entrambi. E non già perché ignora il principio dell’indi-vidualità, che viene concepita appunto come principio ma noncome fatto. Essa sa benissimo che tutte le specie animali, com-presa la specie umana, hanno esistenza reale solo in un numerodefinito di individui che nascono e muoiono; e che più ci siinnalza dalle specie animali inferiori alle superiori, più il princi-pio dell’industriosità si definisce e gli individui appaiono piùcompleti e liberi. Essa sa infine che l’uomo, l’ultimo e più per-fetto animale di questa terra, presenta l’individualità più com-pleta e notevole per effetto della sua facoltà di concepire, realiz-zare e personificare, in se stesso e nella sua esistenza sociale eprivata, la legge universale. La scienza sa – quando non è vizia-ta dal dottrinarismo teologico o metafisico, politico o giuridico,oppure da un meschino orgoglio strettamente scientifico, equando non è del tutto sorda agli istinti e alle spontanee aspira-zioni della vita – che il rispetto dell’uomo è la legge supremadell’umanità, e che il grande, vero, scopo della storia, il sololegittimo, è l’umanizzazione e l’emancipazione, è la libertàreale, la prosperità reale, la felicità di ciascun individuo viventenella società. Perché in fin dei conti, a meno di ricadere nella

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funzione liberticida del bene pubblico rappresentata dallo Statoe fondata sempre sull’olocausto sistematico del popolo, bisognapur riconoscere che la libertà e la prosperità collettive non sonoreali se non quando rappresentano la somma delle libertà e delleprosperità individuali.

La scienza sa tutte queste cose, ma essa non va e non puòandare oltre. Poiché l’astrazione costituisce la sua natura, essanon può interessarsi agli individui reali e viventi. Si occupadegli individui in generale, ma non di Pietro o di Giacomo, nondel tale o tal altro individuo, che non esistono, che non possonoesistere per lei. I suoi individui non sono altro che astrazioni.

Eppure non sono le individualità astratte che fanno la storia,ma gli individui operanti e viventi. Le astrazioni non hannogambe per camminare e camminano solo quando sono portatedagli uomini reali. Ma per questi esseri reali fatti non solo diidee, ma concremente di idee, di carne e di sangue, la scienzanon ha cuore. Essa, tutt’al più, li considera come carne intellet-tualmente e socialmente sviluppata. Che le importano le condi-zioni particolari di Pietro e di Giacomo? Essa si renderebbe ridi-cola, abdicherebbe alla sua autorità, si annienterebbe se volessevalersene altrimenti che come esemplificazioni in appoggiodelle sue teorie eterne. E sarebbe grottesco serbarle rancore perciò, giacché la sua missione non è questa. Essa non può afferra-re il reale; essa può muoversi soltanto nelle astrazioni. La suamissione è di occuparsi delle situazioni e delle condizioni gene-rali dell’esistenza e dello sviluppo, sia della specie umana nelsuo insieme, sia di questa o quella razza, di questo o quel popo-lo, di questa o quella classe e categoria di individui. È di occu-parsi altresì delle cause generali della loro prosperità o dellaloro decadenza, e dei mezzi generali per farli avanzare in ognisorta di progresso. Se essa compie estesamente e razionalmentequesto lavoro, ha fatto tutto il suo dovere e sarebbe veramenteridicolo ed ingiusto chiederle di più.

Ma sarebbe altrettanto ridicolo, oltre che disastroso, affidarealla scienza una missione che è incapace di compiere. Poiché lasua propria natura la costringe ad ignorare l’esistenza e la sortedi Pietro e di Giacomo, non bisogna mai consentire né ad essa,né ad alcuno in suo nome, di governare Pietro e Giacomo, giac-ché essa sarebbe ben capace di trattarli all’incirca come tratta i

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conigli. O, piuttosto, continuerebbe ad ignorarli. Ma i suoi rap-presentanti patentati, uomini niente affatto astratti ma vivissimi,con interessi molto reali, cedendo all’influenza perniciosa che ilprivilegio fatalmente esercita sugli uomini, finirebbe con scorti-carli in nome della scienza, come li hanno scorticati i preti, ipoliticanti di ogni colore e gli uomini di legge, nel nome di Dio,dello Stato e del diritto positivo.

Ciò che predico è, quindi, in certa misura, la rivolta dellavita contro la scienza o, meglio, contro il governo della scienza.Non per distruggere la scienza – che sarebbe un delitto di lesamaestà – ma per rimetterla al suo posto, in modo che non possaallontanarsene mai più. Fino ad oggi, tutta la storia umana èstata una perpetua e cruenta immolazione di milioni di poveriesseri umani a una qualunque astrazione spietata: dei, patria,potenza dello Stato, onore nazionale, diritti storici, diritti giuri-dici, libertà, libertà politica, bene pubblico.

Tale è stato sino ad oggi l’andamento naturale, spontaneo efatale delle società umane. Non possiamo farci nulla e, perquanto riguarda il passato, non possiamo che accettarlo comeaccettiamo tutte le fatalità naturali. Perché non bisogna illudersi:anche dando ampio riconoscimento agli artifici machiavellicidelle classi governanti, dobbiamo riconoscere che nessunaminoranza sarebbe stata abbastanza potente da imporre tuttiquesti orribili sacrifici alle masse se non vi fosse stato in questestesse masse un moto vertiginoso, spontaneo, che le spingevacontinuamente a sacrificarsi a una di quelle voraci astrazioniche, come i vampiri della storia, si sono sempre nutrite di san-gue umano.

Ben si comprende perché teologi, politicanti e giuristi trovinotutto ciò ottimo. Quali sacerdoti di tali astrazioni, essi non vivo-no che della continua immolazione delle masse popolari. Che lametafisica dia il suo assenso a tutto ciò, non ci deve meraviglia-re. Essa non ha altra missione che di legittimare e di razionaliz-zare al meglio quel che è iniquo e assurdo. Ma che la scienzapositiva abbia mostrato sino ad oggi le stesse tendenze, ecco ciòche dobbiamo constatare e deplorare. La scienza lo ha fatto perdue ragioni: la prima perché, formatasi al di fuori della vitapopolare, è rappresentata da una casta privilegiata; la secondaperché essa stessa, sino ad oggi, si è posta come lo scopo asso-

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luto ed ultimo di ogni sviluppo umano, mentre, attraversoun’autocritica serena di cui è capace e che alla fine sarà costrettaa fare, avrebbe dovuto comprendere che essa è un mezzo neces-sario per la realizzazione d’uno scopo ben più alto: quello dellacompleta umanizzazione della condizione reale di tutti gli indi-vidui reali che nascono, vivono e muoiono sulla terra.

L’immenso vantaggio della scienza positiva sulla teologia,sulla metafisica, sulla politica e sul diritto positivo consiste inquesto: che al posto delle astrazioni menzognere e funeste, esal-tate da queste dottrine, essa pone delle astrazioni vere che espri-mono la natura generale o la logica stessa delle cose, i loro rap-porti generali e le leggi generali del loro sviluppo. Ecco ciò chela distingue profondamente da tutte le dottrine precedenti e chele assicurerà sempre una posizione cruciale nella società. Essacostituirà in qualche modo la sua coscienza collettiva. Ma c’èun punto col quale essa si ricollega a tutte le suddette dottrine:essa non ha e non ha potuto avere per oggetto che delle astrazio-ni e, quindi, è costretta dalla sua stessa natura ad ignorare gliindividui reali, al di fuori dei quali anche le più vere astrazioninon hanno reale esistenza. Per rimediare a questo difetto radica-le, ecco la differenza che dovrà stabilirsi tra l’azione praticadelle predette dottrine e quello della scienza positiva: le primehanno approfittato dell’ignoranza delle masse per sacrificarlecon voluttà alle loro astrazioni, d’altronde sempre assai lucroseper i loro fautori; la seconda, dopo aver riconosciuto la sua asso-luta incapacità di comprendere gli individui reali e di poterseneinteressare, deve definitivamente ed assolutamente rinunciare algoverno della società. E questo perché, se essa se ne occupasse,non potrebbe che sacrificare sempre gli uomini viventi, che nonconosce, alle sue astrazioni, le quali formano l’unico oggettodelle sue legittime preoccupazioni.

La vera scienza della storia non esiste ancora ed è già moltose oggi incominciamo a intravedere le sue linee estremamentecomplicate. Ma supponiamola per un momento realizzata: checosa potrebbe darci? Riprodurrebbe il quadro ragionato e fedeledella naturale evoluzione delle condizioni generali, sia materialiche ideali, sia economiche che politiche, sociali, religiose, filo-

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sofiche, estetiche e scientifiche, delle società che hanno avutouna storia. Ma questo quadro della civiltà umana, per quantoparticolareggiato, non potrà contenere se non valutazioni generi-che e, per conseguenza, astratte, nel senso che i miliardi di indi-vidui umani che hanno formato la materia vivente e sofferentedi questa storia vittoriosa e lugubre ad un tempo – vittoriosa dalpunto di vista dei suoi risultati generali e lugubre dal punto divista dell’immensa ecatombe di vittime umane «schiacciatesotto il suo carro» – che questi miliardi d’individui oscuri senzai quali però non si sarebbe ottenuto nessuno di quei grandi risul-tati astratti della storia e che, si badi, non si sono mai avvantag-giati di alcuno di quei risultati, che questi individui non trove-ranno neanche il più piccolo posto nella storia. Hanno vissuto esono stati immolati, schiacciati, per il bene dell’umanità astratta.Ecco tutto!

Bisognerà rimproverare per questo la scienza della storia?Sarebbe ridicolo ed ingiusto. Gli individui sono inafferrabili peril pensiero, per la riflessione ed anche per la parola umana, laquale è capace di esprimere solo delle astrazioni, inafferrabilinel presente come nel passato. Pertanto la scienza sociale, lascienza dell’avvenire, continuerà necessariamente ad ignorarli.Tutto ciò che abbiamo il diritto di pretendere da lei è che ciindichi, con mano ferma e sicura, le cause generali delle soffe-renze individuali: e, tra queste, essa non dimenticherà senzadubbio l’immolazione e la subordinazione, ancora assai fre-quenti purtroppo, degli individui viventi alle generalità astratte,mostrandoci nello stesso tempo le condizioni generali necessa-rie all’emancipazione reale degli esseri viventi nella società.Tale è la sua missione; tali anche i limiti, al di là dei qualil’azione della scienza sociale non potrebbe essere che impotentee funesta. Al di là di questi limiti cominciano le pretese dottrina-rie e governative da parte dei suoi rappresentanti patentati e deisuoi preti. È tempo ormai di finirla con tutti i pontefici e contutti i poeti, non vogliamo più saperne di loro, anche se si chia-mano democratici socialisti.

Ribadiamo che l’unica missione della scienza è quella di illu-minare la via. Ma liberata da tutte le pastoie dottrinarie e digoverno, e restituita alla pienezza della sua azione: solo la vitapuò creare.

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Ma come risolvere questa antinomia? Da un lato, infatti, lascienza è indispensabile all’organizzazione razionale dellasocietà, d’altro, incapace di curarsi di ciò che è vivo e reale, nondeve occuparsi dell’organizzazione reale o pratica della società.

Questa contraddizione non può essere risolta liquidando lascienza come entità morale esterna alla vita sociale di tutti, anziè necessario che la scienza non resti più esterna, rappresentatada un corpo di sapienti brevettati, ma si diffonda tra le massepopolari. La scienza, essendo ormai chiamata a rappresentare lacoscienza collettiva della società, deve realmente diventare pro-prietà di tutti. In tal modo, senza nulla perdere del suo carattereuniversale, che non potrà mai abbandonare sotto pena di cessared’essere scienza, e continuando ad occuparsi delle cause, dellecondizioni e dei rapporti generali degli individui e delle cose, sifonderà di fatto con la vita immediata e reale di tutti gli indivi-dui umani. Si formerà così un movimento analogo a quello chefece dire ai protestanti, agli inizi della Riforma religiosa, chenon vi era più bisogno di preti per l’uomo ormai divenuto pretedi se stesso, dal momento che ogni uomo, grazie all’interventoinvisibile di nostro signore Gesù Cristo, era finalmente riuscitoad ingoiare il suo buon Dio. Ma qui non si tratta né di Gesù Cri-sto, né del buon Dio, né della libertà politica, né del diritto giuri-dico, tutte cose teologicamente o metafisicamente rivelate, etutte ugualmente indigeste, come si sa. Il mondo delle astrazioniscientifiche non è svelato; esso è inerente al mondo reale, di cuiè espressione e rappresentazione generale o astratta conoscenzareale. Ma finché esso forma una zona separata, rappresentata inparticolare dal corpo dei sapienti, questo mondo ideale minacciadi prendere, in rapporto al mondo reale, il posto del buon Dio edi riservare ai suoi rappresentanti patentati l’ufficio di preti. Èper questo che bisogna annullare un’organizzazione socialeseparata dalla scienza tramite l’istruzione integrale, uguale pertutti e per tutte, così che le masse, cessando d’esser greggi gui-date e tosate da preti privilegiati, possano prendere finalmentenelle loro mani la direzione dei loro destini storici.

Ma finché le masse non saranno arrivate a questo grado diistruzione, dovranno lasciarsi governare dagli uomini di scien-za? No di certo. Sarrebbe meglio per esse fare a meno dellascienza piuttosto che lasciarsi governare dagli scienziati. Il

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governo di questi uomini avrebbe per prima conseguenza quelladi rendere la scienza inaccessibile al popolo e sarebbe necessa-riamente un governo aristocratico, perché l’istituzione attualedella scienza porta a un’istruzione aristocratica. All’aristocraziadell’intelligenza! La più implacabile dal punto di vista pratico, ela più arrogante e la più insolente dal punto di vista sociale: talesarebbe il potere costituito nel nome della scienza. Questo regi-me sarebbe capace di paralizzare la vita e il moto della società. Isapienti, sempre presuntuosi, sempre boriosi e sempre impoten-ti, vorrebbero occuparsi di ogni cosa, e tutte le sorgenti dellavita si disseccherebbero sotto il loro soffio astratto ed erudito.

Ancora una volta, la vita, e non la scienza, crea la vita; solol’azione spontanea del popolo può creare la libertà popolare.Certamente sarebbe una grande fortuna se la scienza potesse, sind’ora, illuminare il cammino spontaneo del popolo verso la suaemancipazione. Ma è meglio la mancanza di luce che una falsaluce accesa parsimoniosamente dal di fuori con lo scopo eviden-te di fuorviare il popolo. D’altro canto, al popolo non mancheràcertamente la luce, perché non ha percorso invano una lungacarriera storica pagando i suoi errori con secoli di orribili soffe-renze. La sintesi pratica di queste dolorose esperienze costitui-sce una specie di scienza tradizionale che, sotto alcuni aspetti,val bene la scienza teorica. Infine, una parte della gioventùimpegnata e quelli che anche tra i borghesi riflettono sentirannoabbastanza odio contro la menzogna, l’ipocrisia, l’iniquità e laviltà della borghesia per trovare in sé il coraggio di voltarle lespalle e la passione sufficiente per abbracciare senza riserve lagiusta ed umana causa del proletariato; costoro saranno, comeho detto, gli istruttori fraterni del popolo, e dando ad esso leconoscenze di cui ancora manca, renderanno perfettamente inu-tile il governo dei sapienti.

Se il popolo deve guardarsi dal governo dei sapienti, a mag-gior ragione deve premunirsi contro quello degli idealisti ispira-ti. Quanto più questi credenti e questi preti del cielo sono since-ri, tanto più diventano perniciosi. Ho detto che l’astrazionescientifica è un’astrazione razionale, vera nella sua essenza enecessaria alla vita, di cui è la rappresentazione teorica, lacoscienza. Essa può e deve essere assorbita ed assimilata dallavita. L’astrazione idealista, Dio, è un veleno corrosivo che

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distrugge e decompone la vita, che la falsa e la uccide. L’orgo-glio degli idealisti, non essendo personale ma divino, è invinci-bile ed implacabile. Può – deve – morire, ma non cederà mai, esino a quando gli resterà un alito di vita cercherà di asservire ilmondo sotto il tallone del suo Dio, come i luogotenenti prussia-ni, questi idealisti pratici della Germania, volevano vederloschiacciato sotto lo stivale speronato del loro re. È la stessa fede– gli obiettivi non sono neppure tanto diversi – che porta allostesso risultato della fede: la schiavitù.

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VI

Bakunin è contro la costituzione del partito politico del pro-letariato voluto da Marx e dai suoi seguaci. Costituendosi inevi-tabilmente in organismo produttore e monopolizzatore dellascienza rivoluzionaria, perché diretto in ultima analisi daun’élite di intellettuali, il partito non fa altro che favorire la for-mazione di una «nuova classe», riproponendo così con contenu-ti diversi, ma con identica modalità formale, i gradi gerarchicidi ogni struttura autoritaria. Il «partito politico del proletaria-to», infatti, in virtù della funzione intellettuale-direttiva svolta,esercita in pratica il dominio sulle classi popolari, cui è asse-gnata la funzione manuale-esecutiva di massa di manovra. Leconseguenze socio-politiche di tale strategia saranno, perl’anarchico russo, estremamente nefaste: abituate ad obbediredurante il processo rivoluzionario, le masse si ritroveranno sot-tomesse a nuovi padroni dopo l’avvento della rivoluzione.

Si può ora rilevare nel pensiero bakuniniano, alla luce delrapporto mezzi-fini, un’analogia fra la divisione gerarchica dellavoro sociale e la divisione gerarchica nell’attività rivoluzio-naria. È un’analogia che rende inequivocabilmente palese laprofonda differenza fra Marx e Bakunin, perché questi, comevoleva abolita la prima, così rifiutava la seconda. E cioè, comealla divisione gerarchica del lavoro sociale contrapponeva, neifini, la sua integrazione egualitaria, così alla divisione gerar-chica dell’attività rivoluzionaria – teorizzata da Marx con il

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«partito» – contrapponeva, nei mezzi, la sua uguale integrazio-ne. Vale a dire la costruzione di un processo rivoluzionariodove, già nel suo porsi, fossero prefigurati gli obiettivi finalidella libertà e dell’uguaglianza. Quindi, nessuna strutturagerarchica, nessuna divisione verticistica tra funzioni intellet-tuali-direttive e funzioni manuali-esecutive. Un processo perciòscaturito dal basso, senza una testa autonominatasi «avanguar-dia del proletariato». Solo in questo modo sarebbe stata possi-bile una reale ed effettiva crescita dell’autocoscienza dellemasse popolari ai fini della liberazione umana. Ecco perché, asuo avviso, il superamento della «proprietà intellettuale» deimezzi di produzione non poteva che passare attraverso ladistruzione della «proprietà intellettuale» del processo rivolu-zionario.

Qui, nuovamente, tocchiamo con mano l’enorme differenzache passa fra Marx e l’anarchico russo. A giudizio di questi erautopistico pensare, come invece ritenevano Marx ed Engels, chelo Stato sarebbe venuto meno, per morte propria, in virtù delpuro e semplice instaurarsi dei rapporti di produzione sociali-sti. Ed era utopistico pensarlo appunto perché lo Stato è benlungi dall’essere solo un apparato sovrastrutturale determinatoed espresso dal sistema capitalistico. In realtà vi è un’interazio-ne reciproca fra sistema politico e sistema economico, per cuise lo sfruttamento economico produce la schiavitù politica, loStato a sua volta riproduce e perpetua la miseria quale condi-zione della sua esistenza. È perciò utopistico e metafisico dele-gare lo Stato a «sopprimersi da sé», come utopistico e metafisi-co è credere che la «dittatura del proletariato» non si trasformiper forza di cose in dittatura sul proletariato.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti da due testi, Let-tera alla redazione de «La Liberté» e Stato e anarchia, inclusinel volume Libertà uguaglianza rivoluzione, Antistato, Milano1976.

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SOCIALISMO E DITTATURA

Alla redazione de «La Liberté»Signori, dal momento che avete pubblicato la sentenza di

espulsione che il Congresso marxiano dell’Aja ha appena pro-nunciato contro di me, sono sicuro che vorrete, per amore diequanimità, pubblicare la mia risposta. Eccola di seguito.

Il trionfo del signor Marx e del suo gruppo è stato completo.Sicuri di una maggioranza che peraltro hanno a lungo preparatoe organizzato con grande abilità e cura – ma con scarsa conside-razione dei principi di etica, verità e giustizia che spesso si tro-vano nei loro discorsi e più raramente nelle loro azioni – imarxisti si sono tolti la maschera. E come si conviene a uominiche amano il potere, a nome della «sovranità del popolo» – ched’ora in avanti vogliono usare come trampolino per tutti coloroche aspirano a governare le masse – hanno sfacciatamentedecretato la loro dittatura sui membri dell’Internazionale.

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Se l’Internazionale fosse stata meno solidamente e profonda-mente radicata, se si fosse basata, come essi vorrebbero, solo suuna dirigenza ufficiale formalmente organizzata, e non a partiredalla reale solidarietà degli interessi e delle aspirazioni del pro-letariato di tutti i Paesi del mondo civile, dalla libera e sponta-nea federazione delle sezioni e delle associazioni operaie indi-pendenti da qualsivoglia controllo, le decisioni di questo perni-cioso Congresso dell’Aja – una lontana, troppo indulgente eottimista incarnazione della pratica e delle teorie marxiste –sarebbero state sufficienti per farla morire. Avrebbero condottonel ridicolo e nell’odio questa grande associazione nella quale,non lo nego, il signor Marx ha avuto una parte attiva e impor-tante.

Uno Stato, un governo, una dittatura universale! I sogni diGregorio VII, Bonifacio VIII, Carlo V e Napoleone riappaionocon nuove forme, ma sempre con uguali istanze, nel camposocialdemocratico. Ci si può immaginare niente di più comico eallo stesso tempo di più rivoltante? Affermare che un gruppo diindividui, anche tra i più intelligenti e bene intenzionati, possadivenire la mente, l’anima, la volontà unificante e direttiva delmovimento rivoluzionario, nonché l’organizzazione economicadel proletariato di tutti i Paesi, è una tale eresia contro il sensocomune e l’esperienza storica che ci si domanda come un uomointelligente come il signor Marx possa averla concepita!

I papi almeno avevano la scusa di possedere la verità assolu-ta, consegnata nelle loro mani dalla grazia dello Spirito Santo enella quale si ritiene dovessero credere. Il signor Marx non hascuse di questo genere e non voglio insultarlo sostenendo cheabbia inventato scientificamente qualcosa che assomiglia allaverità assoluta. Ma se sgomberiamo il campo da ogni veritàassoluta, non può esistere un dogma infallibile per l’Internazio-nale e di conseguenza neppure una politica e una teoria econo-mica ufficiali; i nostri congressi non dovrebbero mai assumere ilruolo di concili ecumenici che proclamano principi che tutti iloro membri e credenti devono obbligatoriamente osservare.

Ma c’è solo una legge che è veramente fondamentale per tuttii membri, le sezioni e le federazioni dell’Internazionale, unalegge che è per tutti la vera e unica base. Nella sua forma piùcompleta, con tutte le conseguenze e implicazioni, questa legge

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sostiene «la solidarietà internazionale dei lavoratori di tutti imestieri e di tutti i Paesi nella loro lotta economica contro glisfruttatori del lavoro». L’unità vivente dell’Internazionale risie-de nella reale organizzazione di questa solidarietà, nell’azionespontanea dei gruppi dei lavoratori e nella federazione assoluta-mente libera, anzi più potente proprio perché libera, delle massepopolari di tutte le lingue e di tutte le nazioni. L’Internazionalenon può essere unita da decreti, né dalla frusta di qualsivogliagoverno.

Chi può mettere in dubbio che proprio da questa crescenteorganizzazione della solidarietà militante del proletariato controlo sfruttamento borghese non scaturisca la lotta politica del pro-letariato contro la borghesia? Sia noi che i marxisti ci troviamod’accordo su questo punto. Ma qui sorge un problema che cidivide completamente dai marxisti.

Noi crediamo che la lotta del proletariato, necessariamenterivoluzionaria, debba avere come unico obiettivo finale ladistruzione dello Stato. Non riusciamo a comprendere come sipossa parlare di solidarietà internazionale quando nel contemposi vuole preservare lo Stato, a meno che non si sogni uno Statouniversale, ovvero la schiavitù universale così come la sognava-no i grandi imperatori e i papi. Lo Stato è, per sua natura, unaviolazione di questa solidarietà e conseguentemente motivo per-manente di guerra. Né riusciamo a capire come si possa parlaredi libertà del proletariato e di reale emancipazione delle masseall’interno e tramite lo Stato. Stato significa dominazione e ognidominazione presuppone il soggiogamento delle masse e quindiil loro sfruttamento a beneficio di qualche minoranza governan-te.

Noi non accettiamo, nemmeno al fine di una transizione rivo-luzionaria, convenzioni nazionali, assemblee costituenti, gover-ni provvisori o dittature cosiddette «rivoluzionarie», perchésiamo convinti che la rivoluzione è sincera e permanente solotra le masse; che se si concentra nelle mani di pochi individuiimmediatamente e inevitabilmente diventa reazione. Tale è lanostra idea, ma non è questo il luogo per andare più a fondo. Imarxisti professano idee esattamente contrarie. Come si addicea dei buoni tedeschi, venerano lo Stato e sono necessariamenteprofeti di disciplina politica e sociale, campioni dell’ordine

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sociale costruito dall’alto in basso, sempre nel nome del suffra-gio universale e della sovranità delle masse, alle quali concedo-no l’onore di obbedire ai leader, ai loro padroni eletti. I marxistinon ammettono altra forma di emancipazione se non quella cheloro si aspettano dal cosiddetto «Stato popolare» (Volksstaat).

Tra noi e i marxisti c’è un abisso. Essi sono statalisti, noisiamo anarchici, a dispetto di tutti.

Queste sono le due principali tendenze politiche che in que-sta fase dividono l’Internazionale in due campi. Da una partenon c’è che la Germania, dall’altra troviamo a vari gradi l’Italia,la Spagna, il Giura svizzero, gran parte della Francia, del Bel-gio, dell’Olanda e, nel prossimo futuro, i popoli slavi. Questedue tendenze sono venute a diretto confronto al Congressodell’Aja, e grazie all’abilità del signor Marx, grazie all’organiz-zazione assolutamente artificiale del suo ultimo congresso, latendenza tedesca ha prevalso.

Ciò vuol dire che questa sgradevole questione sia stata risol-ta? In verità non è stata nemmeno discussa: la maggioranza,votando come un reggimento ben addestrato, ha sotterrato con ilsuo voto ogni possibile discussione. Così la contraddizionerimane aperta, più tagliente e pericolosa che mai, e lo stessosignor Marx, pur accecato – come può esserlo – dalla sua vitto-ria, difficilmente può immaginare di aver disposto di essa a unprezzo così basso. E se per un momento ha avuto una così dis-sennata speranza, deve essere stato prontamente disingannatodalla posizione unitaria di Giura, Spagna, Belgio e Olanda (noncito l’Italia che non ha ritenuto nemmeno di mandare dei dele-gati a questo vergognoso e chiaramente fraudolento congresso):una protesta in toni moderati ma profondamente significativa.

Ma che fare oggi? Visto che soluzioni o riconciliazioni incampo politico sono impossibili, dovremmo praticare la recipro-ca tolleranza, concedendo ad ogni Paese il sacrosanto diritto diseguire qualunque tendenza politica possa preferire o trovare piùadeguata alla sua situazione specifica. Di conseguenza, rifiutan-do tutte le questioni politiche che emergono dal programmaobbligatorio dell’Internazionale, dovremmo sforzarci di consoli-dare l’unità di questa grande associazione unicamente nel campodella solidarietà economica. Questa solidarietà ci unisce, mentretutte le questioni politiche ci dividono inevitabilmente.

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Ecco dov’è la reale unità dell’Internazionale: nelle aspirazio-ni economiche comuni e tra i movimenti spontanei di massa ditutti i Paesi. Di certo non in qualsivoglia governo, né in una teo-ria politica uniforme imposta a quelle masse da un congressogenerale. Ciò è tanto evidente che si dovrebbe essere accecatidalla passione per il potere per non riuscire a capirlo. Io riesco acomprendere come despoti coronati o meno possano aversognato di reggere il mondo nelle loro mani. Ma che dire di unamico del proletariato, di un rivoluzionario che pretende di desi-derare veramente l’emancipazione delle masse e che poi siatteggia a dirigente ed arbitro supremo di tutti i movimenti rivo-luzionari che possono sorgere in Paesi differenti e osa sognaredi soggiogare il proletariato ad una singola idea germinata nelsuo cervello?

Io credo che il signor Marx sia un rivoluzionario serio, anchese non sempre molto coerente, e che veramente desideri la rivol-ta delle masse. E mi meraviglia come non riesca a vedere chel’attuazione di una dittatura universale, collettiva o individuale– una dittatura che agirebbe come una sorta di ingegnere capodella rivoluzione mondiale, regolando e dirigendo, più o menocome si conduce una macchina, il movimento insurrezionaledelle masse di tutti i Paesi – sarebbe in sé sufficiente ad uccide-re la rivoluzione, a paralizzare ogni movimento popolare.

Dov’è l’uomo, dov’è il gruppo di individui, per quantogeniali siano, che oserebbe vantarsi di essere in grado di com-prendere e interpretare la moltitudine infinita dei variegati inte-ressi, tendenze e attività in ogni singolo Paese, provincia, regio-ne, località, professione e mestiere, che nel loro immenso aggre-gato sono uniti, ma non irregimentati, da alcuni principi fonda-mentali e da una grande aspirazione comune, la stessa aspirazio-ne – uguaglianza economica senza perdita di autonomia – che,radicata in profondità com’è nella coscienza delle masse, costi-tuirà il futuro della Rivoluzione sociale?

E cosa pensare di un congresso internazionale che, nonostan-te il suo dichiarato interesse per tale rivoluzione, impone al pro-letariato del mondo civile un governo investito di potere dittato-riale, con il diritto inquisitoriale e pontificale di sospendere lefederazioni regionali dell’Internazionale e di chiudere fuori inte-re nazioni in nome del signor Marx, trasformato dal voto di una

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maggioranza fittizia in una verità assoluta?Che pensare di un congresso che per rendere la propria follia

ancora più lampante, relega in America questo governo dittato-riale [il Consiglio generale dell’Internazionale], composto dauomini che, seppure probabilmente onesti, sono ignari dei fattiignoti ai più e assolutamente sconosciuti persino al congressomedesimo? I nostri nemici – la borghesia – sarebbero nel giustose deridessero il Congresso e sostenessero che l’AssociazioneInternazionale dei Lavoratori combatte l’esistente tirannia soloper istituirne una su se stessa, che nel giusto tentativo di faregiustizia di vecchie assurdità ne crea di nuove.

È comprensibile che uomini come i signori Marx ed Engelssiano indispensabili per i fautori di un programma che, consa-crando e auspicando il potere politico, apre le porte a tutte leambizioni. Dal momento che ci sarà un potere politico, ci saran-no di necessità anche dei sudditi, che saranno, è vero, vestiti dacittadini repubblicani, ma che dovranno nondimeno obbedire,poiché senza obbedienza non è possibile alcuna forma di potere.Mi si potrà obiettare che essi non obbediranno a uomini ma aleggi fatte da loro stessi. Replicherò che è a tutti noto come neiPaesi più democratici e liberi, sebbene politicamente sottopostia un governo, il popolo faccia le leggi e ad esse obbedisca. Machi non voglia per partito preso scambiare la realtà con le fin-zioni deve ammettere che anche in questi Paesi il popolo obbe-disce a leggi fatte non da lui ma solo in suo nome. Obbedire aqueste leggi significa per il popolo sottomettersi all’arbitrio diuna qualsiasi minoranza che tutela e governa, oppure – ma è lastessa cosa – essere liberamente schiavo.

Nel programma menzionato c’è un’altra espressione profon-damente antipatica per noi anarchici rivoluzionari, che vogliamosinceramente la completa emancipazione popolare: il proletaria-to, il mondo dei lavoratori, vi è presentato come classe, noncome massa. Sapete che cosa ciò significhi? Né più né menoche una nuova aristocrazia: l’aristocrazia degli operai delle fab-briche e delle città – con l’esclusione di milioni di proletari dellecampagne – i quali, secondo le previsioni dei signori socialistidemocratici tedeschi, diverranno i veri soggetti del loro grande

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Stato sedicente popolare. Classe, potere, Stato sono tre terminiinseparabili, ciascuno dei quali presuppone necessariamente glialtri due che si riassumono nelle seguenti parole: asservimentopolitico e sfruttamento economico delle masse.

I marxisti ritengono che, come nei secoli passati la classeborghese ha spodestato la classe nobiliare per prenderne il postoe assorbirla lentamente, spartendo con essa il dominio e lo sfrut-tamento dei lavoratori delle città e delle campagne, così oggi ilproletariato delle città è chiamato a spodestare la classe borghe-se, ad assorbirla e a spartire con essa il dominio e lo sfruttamen-to del proletariato delle campagne. [...]

Essi in effetti non rigettano totalmente il nostro programma.Ci rimproverano soltanto di voler affrettare e anticipare il lentocammino della storia e di non riconoscere la legge positiva delleevoluzioni progressive. Avendo già avuto il coraggio, tutto tede-sco, di proclamare nelle opere dedicate all’analisi filosofica delpassato che la sanguinosa sconfitta della rivolta contadina inGermania nel XVI secolo e il trionfo degli Stati dispotici hannocostituito un notevole progresso in senso rivoluzionario, essianche oggi hanno il coraggio di accontentarsi dell’istituzione diun nuovo dispotismo a vantaggio degli operai delle città e a sca-pito dei lavoratori delle campagne.

Quello stesso temperamento tedesco e quella stessa logica liconducono direttamente e fatalmente a quello che noi definiamoil socialismo borghese, che li induce a promuovere un nuovopatto politico tra la borghesia radicale, o costretta a dimostrarsitale, e la minoranza intelligente, rispettabile, cioè debitamenteimborghesita, del proletariato delle città, ad esclusione e adanno della massa del proletariato non solo delle campagne, madelle stesse città.

È questo il vero senso delle candidature operaie ai parlamentie della conquista del potere politico da parte della classe ope-raia. E non è forse chiaro che anche dal punto di vista del soloproletariato urbano, a esclusivo vantaggio del quale ci si vuoleimpadronire del potere politico, la natura popolare di questopotere sarà sempre soltanto una finzione? Potranno alcune centi-naia, o anche alcune decine di migliaia, o addirittura alcune cen-tinaia di migliaia di uomini esercitare effettivamente questopotere? No di certo. Essi dovranno sempre esercitarlo per procu-

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ra, delegarlo cioè a un gruppo di uomini eletti da loro stessi perrappresentarli e governarli. Dopo un breve momento di libertà edi orgia rivoluzionaria come cittadini di un nuovo Stato, essi sirisveglieranno schiavi, zimbelli e vittime di nuove ambizioni. [...]

Sono fermamente convinto che fra pochi anni gli stessi ope-rai tedeschi, rendendosi conto delle fatali conseguenze di unateoria che non può che favorire l’ambizione dei loro capi bor-ghesi o di quei rari operai che cercano di salire sulle loro spalleper diventare a loro volta borghesi dominatori e sfruttatori, larespingeranno con disprezzo...

Nell’attesa, noi riconosciamo pienamente il loro diritto dipercorrere la strada che considerano migliore, purché assicurinoa noi la stessa libertà. È del resto probabile, a nostro parere, cheessi siano costretti a seguire quella strada per effetto di tutta laloro storia, per la loro particolare natura, per la fase cui è perve-nuto il loro sviluppo e per la loro situazione attuale.

Gli operai tedeschi, americani e inglesi si sforzino pure diconquistare il potere politico, se così vogliono. Ma consentanoperò ai lavoratori degli altri Paesi di procedere con la stessaenergia verso la distruzione di tutte le forme di potere politico.La libertà per tutti e il rispetto dell’altrui libertà sono le condi-zioni fondamentali della solidarietà internazionale. A sostegnodel suo rifiuto Marx enuncia una teoria molto particolare, che èdel resto la conseguenza logica di tutto il suo sistema. La situa-zione politica di ciascun Paese, dice Marx, è sempre il prodottoe la fedele espressione della sua situazione economica; per cam-biare la prima, basta trasformare la seconda. Sta qui per Marxtutto il segreto dell’evoluzione storica. Egli non tiene in alcunconto gli altri elementi della storia, come la palese influenzadelle istituzioni politiche, giuridiche e religiose sulla situazioneeconomica. Marx dice: «La miseria produce la schiavitù politi-ca, lo Stato», ma non concede che si rovesci la proposizione e sidica: «La schiavitù politica, lo Stato, riproduce a sua volta, eperpetua, la miseria quale condizione della sua esistenza; dimodo che per distruggere la miseria bisogna distruggere loStato». E caso strano, lui che proibisce ai suoi avversari di indi-care nella schiavitù politica, nello Stato, la causa agente dellamiseria, ordina poi ai suoi amici e discepoli del partito socialistademocratico tedesco di considerare la conquista del potere e

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delle libertà politiche come la condizione preliminare e assolu-tamente necessaria dell’emancipazione economica. Il signorMarx non riconosce altresì un altro elemento molto importantenello sviluppo storico dell’umanità: il temperamento e il caratte-re particolare di ogni razza e popolo, che sono naturalmente ilprodotto di varie cause, tanto etniche, climatiche ed economichequanto storiche. Questi elementi, una volta che si siano precisa-ti, esercitano, anche indipendentemente dalle condizioni econo-miche di ciascun Paese, una notevole influenza sui suoi destini esullo sviluppo stesso delle sue forze economiche. Fra questi ele-menti per così dire naturali ve n’è uno la cui azione è decisivaper la storia specifica del singolo Paese: si tratta dell’intensitàdell’istinto di rivolta, e quindi di libertà, di cui tale Paese è dota-to. Questo istinto è un fatto primordiale, animale, e lo si ritrovain diversa misura in ogni essere vivente: l’energia e la potenzavitale di ogni uomo è data dall’intensità di tale istinto. Insiemecon i bisogni economici questo istinto diventa nell’uomo il fat-tore più potente di ogni emancipazione umana. Essendo un fattodi temperamento, e non di cultura intellettuale e morale, che tut-tavia riesce a suscitare, tale istinto è talora posseduto in scarsamisura dai popoli civilizzati, vuoi perché si è esaurito nel prece-dente sviluppo di questi Paesi, vuoi perché il carattere stessodella loro civiltà li ha corrotti, vuoi infine perché sin dall’iniziodella loro storia ne sono stati dotati in minor misura. [...]

A risultati diametralmente opposti giunge il signor Marx.Prendendo in considerazione la sola questione economica, egliafferma che i Paesi più progrediti, e di conseguenza più idonei acompiere la rivoluzione sociale, sono quelli in cui la produzionecapitalistica moderna ha raggiunto il più alto grado di sviluppo.Solo questi Paesi sono civili, ed essi soltanto sono chiamati ainiziare e guidare la rivoluzione. La rivoluzione consisterànell’espropriazione, sia graduale sia violenta, degli attuali pro-prietari e capitalisti e nell’appropriazione di tutte le terre e ditutto il capitale da parte dello Stato, che, per poter assolvere lasua grande missione economica e politica, dovrà essere necessa-riamente molto potente e centralizzato. Lo Stato amministrerà edirigerà la coltivazione delle terre tramite tecnici stipendiati acapo di armate di lavoratori agricoli organizzati e disciplinatiper questo tipo di lavoro. Analogamente, esso costituirà sulla

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rovina di tutte le banche esistenti una banca unica che accen-trerà tutto il lavoro e tutto il commercio internazionale.

Si capisce che un piano organizzativo almeno in apparenzacosì semplice possa di primo acchito sedurre l’immaginazionedi operai avidi più di giustizia e di uguaglianza che non dilibertà, convinti che l’una e l’altra possano esistere senza lalibertà, come se per conquistare e consolidare la giustizia el’uguaglianza si potesse confidare negli altri e soprattutto neigoverni, quantunque eletti e controllati dal popolo. Per il prole-tariato si tratterebbe in realtà di un regime militare: di un regimein cui la massa livellata dei lavoratori e delle lavoratrici si sve-glierebbe, dormirebbe, lavorerebbe e vivrebbe al suono dellasirena, in cui agli astuti e agli scienziati sarebbe riservato il pri-vilegio di governare, e agli ebrei, attirati dalle grandi specula-zioni internazionali delle banche, verrebbe assegnato un vastocampo di lucrose operazioni finanziarie. All’interno si avrebbequindi la schiavitù e all’esterno una guerra permanente, finchétutti i popoli delle razze «inferiori», i latini e gli slavi, gli uniimborghesiti e gli altri indotti quasi dall’istinto a ignorare edisprezzare la civiltà borghese, non si rassegnino a subire ladominazione di una nazione essenzialmente borghese e di unoStato che sarà tanto più dispotico quanto più si definirà popolare.

La rivoluzione sociale, come l’immaginano, la desiderano el’auspicano i lavoratori latini e slavi, è infinitamente più profon-da di quella promessa dal programma tedesco o marxiano. Nonsi tratta per loro dell’emancipazione della classe operaia parsi-moniosamente misurata e realizzabile solo a lunga scadenza, madell’emancipazione totale ed effettiva di tutto il proletariato. Diuna emancipazione riguardante non solo alcuni Paesi ma tutti iPaesi, civilizzati e no, poiché la nuova civiltà, sinceramentepopolare, deve aver inizio con un atto d’emancipazione univer-sale. Il primo termine di questa emancipazione può essere solola libertà: non la libertà politica, borghese, auspicata e racco-mandata come preliminare oggetto di conquista dal signor Marxe dai suoi adepti, ma la grande libertà umana, che deve distrug-gere tutti i vincoli di carattere dogmatico, metafisico, politico egiuridico, da cui tutti sono oggi oppressi, e che deve restituire atutti, tanto alle collettività quanto agli individui, piena autono-mia di movimento e sviluppo, liberandoli una volta per sempre

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da ogni ispettore, direttore e tutore.Il secondo termine dell’emancipazione è la solidarietà: non la

solidarietà marxiana, organizzata dall’alto in basso da un qua-lunque governo e imposta alle masse popolari tanto con l’astu-zia che con la forza; non la solidarietà che è negazione dellalibertà individuale e quindi una menzogna, una finzione dietrola quale si nasconde la schiavitù, ma la solidarietà che è invececonvalida e realizzazione di ogni libertà e che deriva la sua ori-gine non da una legge, ma dalla natura sociale dell’uomo, percui nessun uomo è libero se tutti gli uomini che lo circondano eche esercitano direttamente o indirettamente sulla sua vita unapur minima influenza non sono ugualmente liberi. [...]

La solidarietà che vogliamo, lungi dall’essere il risultato diun’organizzazione artificiosa e autoritaria, è il prodotto sponta-neo della vita sociale, tanto economica che morale; è il risultatodella libera federazione degli interessi, delle aspirazioni e delletendenze comuni. La solidarietà ha come fondamenti essenzialil’uguaglianza, la proprietà comune e il lavoro collettivo, chesarà obbligatorio per tutti non in forza di leggi, ma per la forzastessa delle cose. La solidarietà si avvale come guida dell’espe-rienza, ossia della pratica della vita collettiva, e della scienza,ponendosi come meta finale la costruzione dell’umanità e comeconseguenza la distruzione di tutti gli Stati.

Questo è l’ideale, né divino né metafisico, bensì umano e prati-co*, che trova riscontro nelle attuali aspirazioni delle popolazioni

* Pratico, nel senso che la sua realizzazione sarà molto meno difficile diquella dell’ideale marxista, il quale oltre all’indebita miseria del suo programmaha anche il serio limite di essere assolutamente impraticabile. Non sarà la primavolta che uomini intelligenti e razionali, sostenitori di cose possibili e pratiche,saranno chiamati utopisti, e quelli che oggi sono chiamati utopisti verranno rico-nosciuti come gli uomini pratici di domani. L’assurdità del sistema marxistaconsiste proprio nella vana speranza che, riducendolo smodatamente, sia possi-bile rendere il programma socialista accettabile ai radicali borghesi e trasforma-re questi ultimi negli utili idioti della rivoluzione sociale. Questo è un graveerrore. Tutta l’esperienza storica ci insegna che un’alleanza conclusa tra partitidiversi si risolve sempre a vantaggio del partito più reazionario. Tale alleanzaindebolisce inevitabilmente il partito più progressista, minimizzando e distor-

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latine e slave. Esse desiderano piena libertà, completa solidarietà euguaglianza; in breve, vogliono un’umanità completamente realiz-zata, e non accetterebbero nulla di meno, neppure con il pretestoche la loro libertà sarebbe limitata solo temporaneamente.

I marxisti vorrebbero denunciare queste aspirazioni come folli,cosa che hanno fatto per lungo tempo... ma le popolazioni slave elatine non sono affatto disposte a cambiare i loro grandi obiettivicon le piattezze del tutto borghesi del socialismo marxiano.

Qui non c’è via che conduca dalla metafisica alle realtà dellavita. Teoria e fatti sono separati da un abisso. È impossibileuscire da questo abisso con quello che Hegel chiamava un«salto di qualità» dal mondo della logica al mondo della naturae della vita reale.

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cendo il suo programma, minandone il morale e la fiducia in se stesso. Vicever-sa, il partito reazionario quando commette falsità si comporta normalmente ed ècoerente con se stesso, anzi riesce addirittura a recuperare un credito immeritato.Non si dovrebbe mai dimenticare l’esempio di Mazzini che, a dispetto del suorigido credo repubblicano, ha consumato la sua vita in accordi con la monarchia,finendo sempre con l’esserne il fantoccio. E non esito a dire che tutti i corteggia-menti dei marxisti nei confronti della borghesia radicale, riformista o «rivoluzio-naria» possono avere come unico risultato la demoralizzazione e la disorganiz-zazione della nascente forza del proletariato, e di conseguenza un nuovo conso-lidamento del potere costituito dei governi borghesi. L’insurrezione comunalistadella Comune di Parigi del marzo 1871 ha inaugurato la rivoluzione sociale.L’importanza di questa rivoluzione non sta nei deboli tentativi che la Comuneha avuto il tempo e la possibilità di fare, ma piuttosto nelle idee prodotte, nellachiara luce che ha gettato sulla vera natura e sugli obiettivi della rivoluzione; enelle speranze che ha suscitato ovunque. Essa ha generato una forza tremendatra le masse di tutti i Paesi, specialmente in Italia dove il risveglio popolare datada questa insurrezione contro lo Stato. L’effetto di questa rivolta è stato cosìpossente che perfino i marxisti, le cui idee ne venivano concretamente negate,sono stati costretti a inchinarsi di fronte ad essa. Anzi, hanno fatto di più: controla logica più elementare e i loro stessi sentimenti, costoro hanno proclamato cheil suo programma e la sua causa sono anche i loro... Essi hanno visto la forzadella passione che questa rivoluzione ha acceso in ognuno [N.d.A.].

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Il percorso che conduce dal fatto concreto alla teoria e vice-versa è il metodo della scienza ed è il solo vero percorso. Nelmondo della pratica, esso è il movimento della società versoforme di organizzazione che siano in grado di riflettere nelmodo più ampio possibile la vita stessa in tutti i suoi aspetti e lasua complessità.

È questa la via del popolo per la sua completa emancipazio-ne, accessibile a tutti: la via della rivoluzione sociale anarchica,che sarà fatta dal popolo stesso, questa forza elementare che tra-volge qualsiasi ostacolo. Successivamente, dalle profonditàdell’anima popolare emergeranno spontaneamente nuove formecreative di vita sociale.

La via dei signori metafisici è del tutto diversa. Metafisico èil termine che usiamo per i discepoli di Hegel, per i positivisti ein generale per tutti gli adoratori della scienza divinizzata, pertutti quei moderni Procuste che, in un modo o nell’altro, hannocreato un ideale di organizzazione sociale, uno stampo ristrettonel quale vorrebbero far entrare a forza le generazioni future; eper tutti coloro che, invece di vedere nella scienza soltanto unadelle manifestazioni essenziali della vita naturale e sociale, insi-stono sulla necessità che la vita sia compressa nelle loro teoriescientifiche, necessariamente provvisorie. I metafisici e i positi-visti, tutti questi signori che considerano rientri nella loro mis-sione il prescrivere leggi di vita in nome della scienza, sonoconsapevolmente o inconsapevolmente reazionari.

Il che è facilmente dimostrabile.La scienza, nel significato autentico della parola, la scienza

vera, è nella nostra epoca patrimonio esclusivo di una minoran-za insignificante. Per esempio da noi, in Russia, quanti sono gliscienziati su una popolazione di ottanta milioni di persone? Pro-babilmente gli individui impegnati in un’attività scientifica sonoun migliaio, ma difficilmente superano il centinaio coloro chepotremmo considerare scienziati di prim’ordine, cioè veri e pro-pri scienziati. Se la scienza dovesse dettare le leggi, la schiac-ciante maggioranza – formata da molti milioni di uomini –dovrebbe essere governata da cento o duecento esperti. Nellasituazione attuale sarebbero ancora meno, dato che non tutte lescienze hanno a che fare con il governo e la gestione dellasocietà. Questa dovrebbe essere compito della sociologia – la

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scienza delle scienze – che presuppone in un sociologo adegua-tamente preparato una conoscenza sufficiente di tutte le altrescienze. Ma quanti individui del genere ci sono in Russia, o intutta Europa? Venti o trenta. E questi venti o trenta individuidovrebbero governare il mondo? È immaginabile un dispotismopiù assurdo e abbietto?

È più che certo che questi venti o trenta specialisti litighereb-bero fra di loro e che, se riuscissero a trovare una politica comu-ne, lo farebbero a spese del genere umano. Il principale vizio diogni specializzazione è la sua inclinazione a esagerare le proprieconoscenze e a disprezzare quelle altrui. Essere schiava deipedanti: che destino per l’umanità! Date loro pieni poteri e livedrete fare sugli esseri umani gli stessi esperimenti che oggi gliscienziati fanno su conigli e cani.

Dobbiamo rispetto agli scienziati per i loro meriti e le lororealizzazioni, ma allo scopo di preservare il loro elevato livellomorale e intellettuale dalla corruzione, essi non dovrebberogodere di speciali privilegi né di diritti diversi da quelli chespettano a tutti, come ad esempio la libertà di esprimere le pro-prie convinzioni, il proprio pensiero e le proprie competenze.Né loro né alcun altro gruppo dovrebbero avere potere suglialtri. Chi ha il potere diverrà inevitabilmente un oppressore euno sfruttatore della società.

Ma abbiamo detto: «La scienza non sarà patrimonio di pochi.Ci sarà un’epoca in cui essa sarà accessibile a tutti». Un’epocasimile è ancora lontana e ci saranno molti rivolgimenti socialiprima che tale sogno si avveri. Ma a quel punto, chi vorrà piùmettere il proprio destino nelle mani dei preti?

Tuttavia, chi ritiene che dopo una rivoluzione sociale tuttisaranno educati allo stesso modo si sbaglia. La scienza, alloracome adesso, resterà uno dei campi più specializzati, anche secesserà di essere accessibile solo a pochi individui delle classiprivilegiate. Con l’eliminazione delle distinzioni di classe,l’istruzione sarà alla portata di tutti coloro che abbiano la capa-cità e il desiderio di proseguire negli studi, ma non a detrimentodel lavoro manuale che sarà obbligatorio per tutti.

Alla portata di tutti sarà invece un’educazione scientificagenerale, specialmente per ciò che riguarda l’apprendimento delmetodo scientifico, l’abitudine a pensare correttamente, la capa-

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cità di generalizzare dai fatti per ricavarne deduzioni più o menocorrette. Ma le menti enciclopediche e i sociologi di puntasaranno assai pochi. Sarebbe triste per il genere umano se intutte le epoche la speculazione teorica fosse la sola fonte diguida per la società, se spettasse soltanto alla scienza il compitodel governo sociale. La vita appassirebbe e la società umanadiverrebbe un gregge muto e servile. Il dominio della scienzasulla vita può avere come solo risultato l’abbrutimento del gene-re umano.

Noi, rivoluzionari anarchici, siamo i difensori dell’istruzionepopolare, dell’emancipazione e dello sviluppo più ampio possi-bile della vita sociale. Tuttavia siamo nemici dello Stato e diogni forma di principio statuale. Contro i metafisici, i positivistie tutti gli adulatori della scienza, dichiariamo che la vita natura-le e sociale deve primeggiare sulla teoria, la quale è solo unadelle sue manifestazioni e mai la sua creatrice. Dalle sue proprieprofondità la società si sviluppa attraverso una serie di avveni-menti e non solo mediante il pensiero. La teoria è sempre creatadalla vita, mai la crea; simile ai segnali postali e stradali, essa silimita a indicare la direzione e le differenti fasi di sviluppo dellavita indipendente e unica.

Coerenti con tale convincimento non intendiamo né desideria-mo imporre al nostro o ad alcun altro popolo uno schema diorganizzazione sociale preso dai libri o concepito da noi stessi.Siamo convinti che le masse popolari portano in se stesse, neiloro istinti (più o meno storicamente sviluppati), nelle loronecessità quotidiane e nelle loro aspirazioni consapevoli o incon-sapevoli, tutti gli elementi della futura organizzazione sociale.Noi cerchiamo questo ideale nel popolo stesso. Ogni potere sta-tale, ogni governo, per sua propria natura si pone al di fuori e aldi sopra del popolo, e inevitabilmente lo subordina a organizza-zioni e scopi che gli sono estranei, che sono opposti ai bisogni ealle aspirazioni reali del popolo stesso. Ci dichiariamo dunquenemici di qualsiasi governo e di qualsiasi potere statale, e più ingenerale di qualsiasi forma di organizzazione statuale. Ritenia-mo che il popolo possa essere libero e felice solo quando si orga-nizza dal basso in associazioni completamente libere e indipen-denti, senza paternalismo governativo, ma non senza l’influenzadi una pluralità di uomini liberi e di libere associazioni.

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Sono queste le nostre idee di rivoluzionari sociali ed è perquesto che veniamo definiti anarchici. E non ricusiamo questoappellativo dato che in effetti siamo nemici di ogni potere gover-nativo, ben sapendo che un simile potere corrompe sia coloroche lo esercitano sia coloro che sono costretti a sottometterglisi.Infatti, sotto la sua perniciosa influenza gli uni diventano despotiambiziosi e avidi, sfruttatori della società a vantaggio dei lorointeressi personali o di classe, gli altri diventano schiavi.

Gli idealisti di ogni genere – metafisici, positivisti, fautori delgoverno della scienza sulla vita, rivoluzionari dottrinali – difen-dono tutti l’idea di Stato e il potere dello Stato con uguale elo-quenza poiché vi vedono, come conseguenza dei loro sistemi, lasola salvezza per la società. Del tutto logicamente, avendoaccettato la premessa fondamentale (che invece noi consideria-mo completamente falsa) secondo cui il pensiero precede lavita, per loro la teoria precede l’esperienza sociale e, di conse-guenza, la scienza sociale deve costituire il punto di partenza diqualsiasi rivolgimento e ricostruzione sociali. Inevitabilmenteessi arrivano anche alla conclusione che, essendo il pensiero, lateoria e la scienza – almeno nella nostra epoca – in possesso dipochissimi, devono essere questi i dirigenti e i capi della vitasociale; non solo gli iniziatori, ma anche i dirigenti e i capi diqualsiasi movimento popolare. Nel periodo successivo alla rivo-luzione il nuovo ordine sociale non dovrà essere organizzato inbase alla libera associazione delle organizzazioni o dei sindacatipopolari, locali e regionali, a partire dal basso e in conformitàcon le aspirazioni e gli istinti popolari, ma solo mediante il pote-re dittatoriale di questa minoranza illuminata, la quale presumedi esprimere la volontà del popolo.

Questa finzione di un governo pseudo-rappresentativo servea dissimulare il dominio sulle masse da parte di un pugno diindividui privilegiati, un’élite eletta da orde popolari che siammassano senza sapere per chi o per che cosa votano. Sottol’artificiosa e astratta espressione di ciò che essi falsamenteimmaginano sia la volontà del popolo, e della quale il popolonon ha la benché minima idea, essi costruiscono sia la teoriadello statalismo sia quella della cosiddetta dittatura rivoluzionaria.

Le differenze tra la dittatura rivoluzionaria e lo statalismosono superficiali. Sostanzialmente entrambe rappresentano lo

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stesso principio in base al quale la minoranza governa sullamaggioranza in nome di una presunta «stupidità» di quest’ulti-ma e di un altrettanto presunta «intelligenza» della prima. Tutta-via entrambe sono ugualmente reazionarie perché direttamente eindirettamente devono preservare e perpetuare i privilegi politicied economici della minoranza dominante e la sottomissionepolitica ed economica delle masse popolari.

È adesso chiaro perché i rivoluzionari dittatoriali, che si pro-pongono di distruggere i poteri e le strutture sociali esistenti alfine di edificare sulle loro rovine la loro propria dittatura, nonsono mai stati né mai saranno avversari del governo, ma sonostati e saranno, al contrario, i più ardenti fautori dell’idea digoverno. Essi sono nemici solo dei governi contemporanei per-ché vogliono sostituirsi a tali governi. Essi sono nemici dell’at-tuale struttura di governo perché essa esclude la possibilità dellaloro dittatura. Ma essi sono al contempo gli amici più devoti delpotere governativo. E se la rivoluzione distruggerà tale poteremediante l’attuale movimento di liberazione delle masse, essapriverà questa minoranza pseudo-rivoluzionaria di qualsiasi spe-ranza di imbrigliare le masse allo scopo di renderle beneficiariedella loro politica di governo.

Abbiamo spesso manifestato, in tempi diversi, la nostraprofonda avversione per la teoria di Lassalle e di Marx che rac-comanda ai lavoratori – se non proprio come meta finale quantomeno come obiettivo prossimo e immediato – di fondare unoStato popolare, che nella loro interpretazione dovrebbe esseresemplicemente «il proletariato elevato alla condizione di classedominante».

Ma poniamoci questa domanda: se il proletariato deve esserela classe dominante, su chi dominerà? In breve, rimarrà un altroproletariato che sarà soggiogato da questo nuovo dominio, daquesto nuovo Stato. Per esempio, il contadino «plebeo» che,com’è noto, non incontra le simpatie dei marxisti in quantoritengono che rappresenti un livello culturale inferiore, probabil-mente sarà governato dal proletariato industriale delle città. Ora,se questo problema venisse affrontato da un punto di vistanazionalistico, gli slavi si troverebbero rispetto al vittorioso pro-letariato tedesco nella stessa posizione subordinata in cuiquest’ultimo oggi si trova nei confronti della borghesia tedesca.

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Se c’è uno Stato, ci deve essere per forza dominio di unaclasse su un’altra e, come risultato, schiavitù; lo Stato senzaschiavitù è inconcepibile, ed è per questo che noi siamo nemicidello Stato.

Che cosa significa che il proletariato deve elevarsi a classedominante? È possibile che tutto il proletariato si metta allatesta del governo? Ci sono quasi quaranta milioni di tedeschi.Possono tutti questi quaranta milioni essere membri del gover-no? In un caso del genere non ci sarebbe né governo né Stato,ma se Stato deve esserci, ci sarebbero quelli che governano equelli che sono governati.

La teoria marxiana risolve questo dilemma assai semplice-mente. Per governo del popolo essa intende il governo di un pic-colo numero di rappresentanti eletti dal popolo. Il diritto daparte di ogni uomo di eleggere i rappresentanti del popolo e igovernanti dello Stato è l’ultima parola dei marxisti, così comedei democratici. Ma questa è solo una menzogna dietro allaquale si nasconde il dispotismo della minoranza dominante, unamenzogna tra le più dannose poiché lo fa apparire comel’espressione della cosiddetta volontà popolare.

In definitiva, da qualsiasi punto di vista si consideri il proble-ma, giungiamo sempre alla stessa desolante conclusione, cioè aldominio delle grandi masse popolari ad opera di una minoranzaprivilegiata. I marxisti sostengono che questa minoranza saràformata da operai. Sì, e magari dai migliori operai, i quali nonappena divenuti i governanti della rappresentanza popolare ces-serebbero di essere operai e – dai vertici governativi dello Stato– guarderebbero dall’alto in basso le masse operaie e non rap-presenterebbero a lungo il popolo ma solo se stessi e le loro pre-tese di governare sul popolo. E chi ne dubita conosce ben pocodella natura umana.

Questi rappresentanti eletti, dicono i marxisti, sarebberosocialisti devoti e illuminati. Le espressioni «socialisti illumina-ti», «socialismo scientifico» ecc., che compaiono continuamentenei discorsi e negli scritti dei seguaci di Lassalle e di Marx,dimostrano che lo pseudo Stato popolare non sarebbe altro cheun dispotico controllo della plebaglia ad opera di una nuova etutto sommato poco numerosa aristocrazia di realisti e di pseu-do-scienziati. Il popolo «ineducato» verrebbe totalmente preso

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in carico dall’apparato amministrativo e sarebbe trattato comeuna mandria irreggimentata. Davvero una bella liberazione!

I marxisti sono consci di tale contraddizione e si rendonoconto che un governo di scienziati sarebbe un’effettiva dittaturanonostante le sue forme democratiche. Essi si consolano conl’idea che tale dominio sarebbe temporaneo. E affermano che lasola preoccupazione e il solo obiettivo sarebbero quelli di istrui-re ed elevare il popolo, economicamente e politicamente, inmodo tale che un simile governo si renda rapidamente superfluoe che lo Stato, perso il suo carattere politico o coercitivo, si svi-luppi automaticamente in un coordinamento completamentelibero degli interessi economici comuni.

Vi è in questa teoria una contraddizione flagrante. Se il loroStato sarà effettivamente popolare, perché eliminarlo? E se loStato è necessario all’emancipazione dei lavoratori, quando ilavoratori non sono ancora liberi, perché chiamarlo Stato popo-lare? Nella nostra polemica contro di loro abbiamo sostenutoche la realizzazione della libertà, o anarchismo, che significauna libera organizzazione dal basso delle masse lavoratrici, èl’obiettivo finale dello sviluppo sociale e che qualsiasi Stato,incluso il loro Stato popolare, è un giogo che da un lato fa rina-scere il dispotismo e dall’altro la schiavitù. Essi ribattono cheun tale giogo dittatoriale è un passo transitorio verso il compi-mento della piena libertà del popolo: l’anarchismo o la libertàsono lo scopo, mentre lo Stato e la dittatura sono il mezzo. Ecosì le masse popolari per liberarsi devono innanzi tutto render-si schiave!

Di fronte a tali contraddizioni la nostra polemica deve essereferma. Essi insistono che solo la dittatura (naturalmente la loro)può creare la libertà del popolo. Noi replichiamo che qualsiasidittatura non ha altro scopo che quello di perpetuarsi, e che laschiavitù è tutto ciò che essa può generare e instillare nel popolooppresso. La libertà può essere creata solo dalla libertà, da unarivolta totale del popolo e da un’organizzazione volontaria delpopolo che parta dal basso.

La teoria sociale dell’anti-Stato socialista o anarchico condu-ce direttamente e inevitabilmente a infrangere ogni forma diStato con tutte le variabili politiche borghesi, e non lascia altrascelta al di fuori della rivoluzione sociale. La teoria opposta, del

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comunismo di Stato e dell’autorità degli scienziati, seduce econfonde i suoi seguaci e – sotto il pretesto della tattica politica– opera una serie ininterrotta di compromessi con i governi e ivari partiti politici borghesi, spingendo direttamente verso lareazione.

Il punto fondamentale di tale programma è che solo lo Statopuò liberare lo pseudo-proletariato. Per realizzare tale compitolo Stato deve acconsentire alla liberazione del proletariatodall’oppressione del capitalismo borghese. Come è possibileinfondere nello Stato una simile volontà? Il proletariato deveimpadronirsi dello Stato mediante una rivoluzione, medianteuna sollevazione eroica. Ma non appena si è impadronito delloStato, esso deve provvedere immediatamente all’abolizione diquesta eterna prigione del popolo. Secondo il signor Marx, ilpopolo invece non solo non dovrebbe abolire lo Stato ma, alcontrario, dovrebbe rafforzarlo ed estenderlo, mettendolo acompleta disposizione dei suoi beneficiati guardiani e maestri –i capi del partito comunista, cioè il signor Marx e i suoi amici –che lo libererebbero a modo loro. Essi dovrebbero concentraretutto il potere amministrativo nelle loro forti mani, dato che ilpopolo ignorante ha bisogno di un robusto controllo, e gestireb-bero attraverso una banca centrale dello Stato tutto il commer-cio, l’industria, l’agricoltura e persino la scienza. La massa delpopolo verrebbe divisa in due armate, quella agricola e quellaindustriale, poste agli ordini degli ingegneri di Stato che cosìcostituirebbero la nuova classe politico-scientifica privilegiata.

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VII

Per Bakunin l’insurrezione, concepita ed attuata dai rivolu-zionari, ha il significato di porsi quale dissoluzione di ogniautorità storica precedentemente costituita. Essa, cioè, si deli-nea fino in fondo come libertà negativa (libertà da) e solo ini-zialmente come libertà positiva (libertà per). L’insurrezionevuole esprimere il livello zero di autorità, non il livello massimodi libertà. I rivoluzionari devono abbattere la società presente esolo in minima parte costruire quella futura. E perciò non devo-no imporre il loro ideale al popolo, ma fare sì che questo idealepossa liberamente e completamente svilupparsi per opera delpopolo stesso fino a spingersi a perseguire gli scopi rivoluzio-nari nella misura in cui lo consentiranno e lo imporrannol’istinto e le aspirazioni popolari. Per spezzare l’eterno avvi-cendamento al potere delle classi e la perpetua riproduzionedello Stato, per modificare la lotta rivoluzionaria che in sé e persé non conduce all’uguaglianza e alla libertà, occorre sviluppa-re una lotta contemporanea di tutte le masse oppresse.

Va sottolineata questa ripetuta e incessante presenza nel lin-guaggio bakuniniano di avverbi come simultaneamente, con-temporaneamente, immediatamente, che esprimono la valenzaoperativa dell’insurrezione. Con essi Bakunin intende affermareche non vi è solo una dimensione economica, politica e socialedel processo rivoluzionario, ma anche un’altra dimensioneestremamente importante: la dimensione temporale. Finora c’è

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stato un tempo storico che ha cadenzato e accompagnato tuttele rivoluzioni segnate dall’eterna ruota dell’avvicendamentodelle classi al potere. Per immettere una soluzione di rottura inquesta cieca continuità, per interrompere definitivamente lalogica riproduttiva del potere, bisogna trasformare il tempostorico in un tempo rivoluzionario, e cioè fare in modo che nonvi sia più nessuna possibilità di riproduzione del potere sottoaltre forme storiche. Non vi è quindi un prima e un dopo nellacostruzione del socialismo, ma una dilatazione ininterrotta deimezzi rivoluzionari, nel senso che essi devono essere già il finein movimento. Vale a dire che bisogna evitare nello sviluppodell’emancipazione umana non solo quella divisione verticalenel tempo fra una classe rispetto alla massa, fra un’avanguar-dia rispetto alla classe, fra un’élite rispetto ad un’avanguardia,ma anche distruggere tutti i poteri economici, sociali e politiciin un arco di tempo entro il quale non vi sia alcuna possibilitàdi una loro riproduzione, e perciò distruggerli non prima nédopo ma nel medesimo momento.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti da due testi, Pro-gramma della fratellanza internazionale e Lettera ad un francesesulla crisi attuale, inclusi nel volume Libertà uguaglianza rivolu-zione, Antistato, Milano 1976.

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LA RIVOLUZIONE SOCIALE

[...] L’Associazione dei Fratelli internazionali desidera unarivoluzione che sia allo stesso tempo universale, sociale, filoso-fica ed economica, in modo tale che non rimanga pietra su pie-tra, in Europa prima e poi nel resto del mondo, al fine di cam-biare il presente ordine delle cose fondato sulla proprietà, sullosfruttamento, sul dominio e sul principio di autorità, sia essoreligioso, metafisico e dottrinario alla maniera borghese, o perfi-no rivoluzionario alla maniera giacobina. Facendo appello allapace per i lavoratori e alla libertà per tutti, noi vogliamo distrug-gere tutti gli Stati e tutte le Chiese, con tutte le loro istituzioni ele loro leggi religiose, politiche, finanziarie, giuridiche, polizie-sche, educative, economiche e sociali; così che milioni di esseriumani ingannati, asserviti, torturati e sfruttati possano essereliberati dai loro capi e benefattori ufficiali e ufficiosi – sianoessi associazioni o individui – e respirare in completa libertà.

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Convinti come siamo che i mali dell’individuo e della societàsiano imputabili molto meno agli individui che all’organizzazio-ne della vita materiale e alle condizioni sociali, agiremo conumanità, in nome della giustizia e in ordine a considerazionipratiche, ma distruggeremo senza pietà ciò che ci ostacolerà ilcammino, senza danneggiare la rivoluzione. Noi neghiamo lavolontà incondizionata della società e il suo presunto diritto apunire. La stessa giustizia, intesa nel senso più lato e più umano,non è che un’idea, per così dire, il che significa che non è undogma assoluto; essa pone il problema sociale ma non è ingrado di risolverlo. Essa si limita ad individuare l’unica stradapossibile per l’emancipazione umana, cioè l’umanizzazionedella società per mezzo della libertà nell’uguaglianza. Una solu-zione in positivo si può ottenere solo attraverso un’organizza-zione sempre più razionale della società. Questa soluzione cosìdesiderata, nostro supremo ideale, è libertà, etica, intelligenza ebenessere per ciascuno tramite la solidarietà di tutti: in breve,fraternità tra gli uomini.

Ogni individuo umano è il prodotto involontario delle condi-zioni naturali e sociali in cui è nato e alla cui influenza continuaad esser sottoposto man mano che si sviluppa. Le tre grandicause di tutta l’immoralità umana sono: la diseguaglianza politi-ca, economica e sociale, l’ignoranza che naturalmente ne risultae la necessaria conseguenza delle due cause precedenti, e cioè laschiavitù.

Poiché l’organizzazione sociale è sempre e ovunque la causadei crimini commessi dagli uomini, la punizione da parte dellasocietà di criminali che mai potranno esser considerati colpevoliè un atto di ipocrisia o una patente assurdità. La teoria dellacolpa e della punizione è l’origine della teologia, cioè dell’unio-ne di assurdità e ipocrisia religiosa. L’unico diritto che si puòattribuire alla società nel presente stato di transizione è il natura-le diritto a uccidere per autodifesa i criminali che essa stessa haprodotto, ma non il diritto a giudicarli e condannarli. A rigorequesto non può essere considerato un diritto, ma solo un gestonaturale, spiacevole ma inevitabile, esso stesso espressione esintomo dell’impotenza e della stupidità della società attuale.Meno la società ne farà uso, più si avvicinerà alla sua realeemancipazione. Tutti i rivoluzionari, gli oppressi, coloro che

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soffrono, le vittime dell’attuale organizzazione sociale, i cuianimi sono naturalmente rigonfi di odio e di sete di vendetta,dovrebbero ricordare che i re, gli oppressori, gli sfruttatori diogni genere, sono responsabili quanto lo sono i criminali diestrazione popolare; come questi, essi sono peccatori non colpe-voli, poiché anch’essi sono l’involontario prodotto di questoordine sociale. Non ci sarà da stupirsi se il popolo in rivoltaucciderà dapprima molti di costoro. Sarà una disgrazia, inevita-bile come le devastazioni di un’improvvisa tempesta; ma quelgesto naturale non sarà né morale, né utile.

A questo riguardo la storia ha molto da insegnarci. La terribi-le ghigliottina del 1793, alla quale certo non si può rimproverared’essere stata inerte, non riuscì tuttavia a distruggere l’aristocra-zia francese. Non c’è dubbio che la nobiltà fu scossa fin nellefondamenta, anche se non distrutta, ma non fu per opera dellaghigliottina; quel risultato si ottenne con la confisca delle sueproprietà. In generale si può dire che la carneficina non si è mairivelata efficace nell’eliminazione degli avversari politici; ciò èdimostrato in particolare per quanto riguarda le classi privilegia-te, poiché il potere, più che negli uomini, risiede nelle condizio-ni create per i privilegiati dall’organizzazione della produzionemateriale, cioè dall’istituzione dello Stato e dalla sua base natu-rale, la proprietà individuale.

Di conseguenza, perché la rivoluzione abbia successo ènecessario che si rivolga contro le condizioni di vita e i benimateriali, che distrugga la proprietà e lo Stato. Diventerà allorasuperfluo accanirsi contro gli uomini e condannarsi così a sof-frire l’inevitabile reazione che ogni massacro ha sempre prodot-to e sempre produrrà in qualsiasi società.

Non c’è da sorprendersi se i giacobini e i blanquisti – diven-tati socialisti più per necessità che per convinzione, essendo per-suasi che il socialismo sia un mezzo e non il fine della rivolu-zione, e che aspirano alla dittatura e allo Stato centralizzatonella speranza che lo Stato, come è inevitabile, li conduca alristabilimento della proprietà – sognano una rivoluzione sangui-naria e condotta contro le persone in quanto non vogliono larivoluzione contro la proprietà. Ma tale sanguinosa rivoluzione,fondata su uno Stato rivoluzionario potentemente centralizzato,avrebbe come logico risultato una dittatura di tipo militare e

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nuovi padroni. È per questo che il trionfo dei giacobini o deiblanquisti segnerebbe la morte della rivoluzione.

Noi siamo gli avversari naturali di tali rivoluzionari – i futuridittatori, regolamentatori fiduciari della rivoluzione – che ancorprima che gli attuali Stati monarchici, aristocratici e borghesisiano stati distrutti già sognano di creare nuovi Stati rivoluzio-nari, altrettanto centralizzati e ancor più dispotici degli Stati cheabbiamo ora. Costoro sono così abituati all’ordine creato daun’autorità, e sentono un tale orrore per ciò che sembra a lorodisordine, quando è invece la franca e naturale espressione dellavitalità di un popolo, che ancor prima che la rivoluzione sia incondizione di produrre un salutare disordine, già sognano diimbrigliarlo con qualche strumento autoritario che sarà rivolu-zionario solo di nome, e sarà invece una nuova forma di reazio-ne che condannerà di nuovo le masse ad esser governate perdecreto, ad obbedire, all’immobilismo e alla morte; in altreparole, alla schiavitù e allo sfruttamento da parte di una nuovaaristocrazia pseudo-rivoluzionaria.

Per rivoluzione intendiamo l’esplosione di quelle che oggivengono definite le «forze del male» e la distruzione del cosid-detto ordine pubblico.

Noi non temiamo l’anarchia, anzi l’invochiamo; perchésiamo convinti che l’anarchia, ovvero il manifestarsi senza osta-coli della vita liberata del popolo, debba sgorgare dalla libertà,dall’uguaglianza, dal nuovo ordine sociale e dalla forza stessadella rivoluzione contro la reazione. Non c’è dubbio che questanuova forma di vita – la rivoluzione popolare – al momento giu-sto saprà organizzarsi, ma creerà la sua organizzazione dalbasso verso l’alto, dalla circonferenza al centro, secondo il prin-cipio della libertà, e non dall’alto al basso, dal centro alla cir-conferenza, come fanno tutte le strutture autoritarie.

Non ci interessa molto che l’autorità si chiami Chiesa,monarchia, Stato, repubblica borghese, oppure dittatura rivolu-zionaria. Noi le detestiamo tutte, e le rifiutiamo in blocco inquanto fonti di sfruttamento e dispotismo.

La rivoluzione, come la concepiamo noi, dovrà distruggere loStato e tutte le istituzioni statali in modo completo e radicale,fin dal suo primo giorno. Naturali e necessarie conseguenze ditale distruzione saranno:

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a) la bancarotta dello Stato;b) l’interruzione del pagamento coatto dei debiti privati per

intervento dello Stato, lasciando ciascun debitore libero di paga-re i propri debiti se così desidera;

c) la sospensione del pagamento di ogni tassa e del prelievodi qualsiasi tributo, diretto o indiretto che sia;

d) lo scioglimento dell’esercito, del sistema giudiziario, dellaburocrazia, della polizia e del clero;

e) l’abolizione della giustizia ufficiale e la sospensione ditutto ciò che viene giuridicamente definita legge e della suaapplicazione; di conseguenza, l’abolizione e la distruzione diogni titolo di proprietà, degli atti di eredità, degli atti di vendita,delle rendite, dei processi: in una parola, di tutta la burocraziagiuridica e civile; ovunque e per ogni cosa il fatto rivoluzionariosostituirà il diritto creato e garantito dallo Stato;

f) la confisca del capitale produttivo e degli strumenti di pro-duzione, a beneficio delle associazioni dei lavoratori;

g) la confisca delle proprietà della Chiesa e dello Stato e deimetalli preziosi di proprietà individuale, a beneficio dell’allean-za federativa di tutte le associazioni dei lavoratori che costitui-ranno la Comune; in cambio dei beni confiscati la Comunegarantirà lo stretto indispensabile agli espropriati, che potrannoin seguito guadagnare di più con il loro lavoro, se ne saranno incondizione e se lo vorranno;

h) l’elezione in ogni Comune rivoluzionaria, organizzata in«barricate» permanenti e in un organo consiliare costituito dauno o due delegati per ogni barricata, di strada o di distretto, dideputati responsabili e revocabili in ogni momento. Il consigliodella Comune così organizzato potrà scegliere tra i suoi membri icomponenti dei comitati esecutivi, uno per ogni ramo dell’ammi-nistrazione rivoluzionaria della Comune;

i) la dichiarazione da parte della città capitale, in rivolta eorganizzata su base comunale, di rinunciare, essendo statodistrutto lo Stato autoritario, a ciò che aveva diritto di fare, puressendo essa stessa schiava come le altre località, e di conse-guenza al diritto o piuttosto alla pretesa di governare le province;

j) un appello a tutti i comuni, le province, le associazioni deilavoratori a seguire l’esempio della capitale e ad organizzarsi subase rivoluzionaria, a eleggere i propri deputati, responsabili e

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revocabili a un tempo, affinché li rappresentino alla riunionedestinata a fondare la federazione delle associazioni, dei comunie delle province che si sono ribellate in nome degli stessi princi-pi, e a mettere in piedi una forza rivoluzionaria che sia in gradodi prevalere sulla reazione. Non verranno spediti nelle diverselocalità commissari rivoluzionari ufficialmente insigniti dinastrini sul petto; piuttosto, in tutti i comuni e in tutte le provin-ce si recheranno dei militanti rivoluzionari, in particolare tra icontadini che non si possono indurre alla rivolta sulla base deiprincipi o dei decreti di una dittatura, ma solo con la praticarivoluzionaria. E questo per le inevitabili conseguenze in tutti icomuni della cessata vita giuridica, ufficiale, dello Stato. Aboli-zione inoltre dello Stato nazionale, nel senso che ogni Paese,provincia, comune straniero, o anche individuo isolato che si siaribellato in nome degli stessi principi, sarà accettato nella fede-razione rivoluzionaria senza riguardo alle attuali frontiere degliStati, anche se appartiene a un differente sistema politico enazionale; mentre le province, anche se della stessa nazionalità,che sostengono la reazione saranno escluse. È solo attraversol’espansione e l’organizzazione della rivoluzione, per la mutuadifesa dei Paesi ribelli, che trionferà l’universalità della rivolu-zione, fondata sull’abolizione delle frontiere e sulla rovina degliStati.

Ho già dimostrato come la Francia non possa essere salvata...dallo Stato. Ma al di là dell’istituzione parassitaria e artificialedello Stato, una nazione è costituita dal suo popolo; di conse-guenza, la Francia può essere salvata solo dall’immediata, unita-ria, azione del popolo, da una sollevazione di massa di tutto ilpopolo francese, spontaneamente organizzato dal basso, da unaguerra all’ultimo sangue.

Quando una nazione di trentotto milioni di persone si sollevaper difendersi, decisa a distruggere ogni cosa e pronta anche asacrificare vita e proprietà piuttosto che sottomettersi alla schia-vitù, nessun esercito al mondo, per quanto potente, per quantoben organizzato ed equipaggiato con gli armamenti più straordi-nari, sarà capace di conquistarla.

Tutto dipende dalla capacità del popolo francese di fare uno

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sforzo del genere. Fino a che punto le blandizie della civiltà bor-ghese hanno affievolito le sue capacità rivoluzionarie? Sono riu-sciti questi fattori a renderlo incapace di aggiungere il requisitodell’eroismo a quello della tenacia primitiva? Il popolo francesepreferisce la pace a prezzo della libertà, o la libertà a costo diimmense privazioni? È riuscito a conservare almeno parte dellaforza naturale e della primitiva energia che rendono una nazionepotente?

Se il popolo francese fosse composto solo di borghesi, rispon-derei senza alcuna esitazione negativamente. La borghesia fran-cese, come quella della maggior parte dei Paesi occidentali, èformata da un corpo immenso, molto più esteso di quanto abi-tualmente si pensi, che si allarga perfino al proletariato, corrom-pendone in qualche misura gli strati privilegiati.

In Francia gli operai sono molto meno legati alla classe bor-ghese di quanto non avvenga in Germania, e stanno anzi appro-fondendo di giorno in giorno la distanza che da essa li separa.Ciononostante, la deleteria influenza della civilità borghese con-tinua a corrompere alcuni settori del proletariato francese, comedimostrano ad esempio l’egoismo e l’indifferenza che si posso-no osservare in alcuni strati operai meglio pagati. Questi lavora-tori sono semi-borghesi, per motivi di interesse e di auto-ingan-no, e si oppongono alla rivoluzione perché temono che la rivo-luzione li mandi in rovina.

La borghesia, come è evidente, costituisce un settore moltoconsistente e molto influente della società francese. Ma se inquesto momento tutti i francesi fossero borghesi, l’invasioneprussiana avrebbe già preso Parigi e la Francia sarebbe perduta.È da molto che la borghesia ha compiuto la sua fase eroica; orale manca l’eroismo, il dinamismo che la condusse alla vittorianel 1793, e da allora, abbandonatasi alla soddisfazione e al com-piacimento, è irrimediabilmente degenerata. In caso di estremanecessità, sacrificherà anche i suoi figli, ma non sacrificheràmai la sua posizione sociale e le sue proprietà per la realizzazio-ne di un grande ideale. Preferirebbe sottomettersi al giogo tede-sco che rinunciare ai suoi privilegi sociali e accettare l’ugua-glianza economica con il proletariato. Non voglio dire che laborghesia non sia patriottica; al contrario il patriottismo, nelsenso più meschino del termine, è la sua virtù essenziale. Ma la

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borghesia ama il suo Paese perché, rappresentato dallo Stato,questo costituisce la salvaguardia dei suoi privilegi economici,politici e sociali. Ogni nazione che si privi di quella protezioneverrebbe espropriata. Di conseguenza, per la borghesia il Paeseè lo Stato. Patrioti dello Stato, i borghesi diventano nemici acer-rimi delle masse se il popolo, stanco di sacrifici, stanco di essereusato dal governo come passivo piedistallo, si ribella contro diesso. Se la borghesia dovesse scegliere tra le masse che si ribel-lano contro lo Stato e i prussiani che invadono la Francia, sicu-ramente sceglierebbe i secondi.

Non sarebbe una scelta piacevole, ma dopo tutto essi sonodifensori del principio dello Stato contro l’inutile plebaglia,contro le masse di tutto il mondo. Non è forse vero che la bor-ghesia di Parigi e di tutta la Francia sostenne nel 1848 LuigiBonaparte per queste stesse ragioni? E non appoggiò NapoleoneIII finché non divenne chiaro a tutti che il suo governo avevaportato la Francia sull’orlo della rovina? La borghesia francesegli tolse il suo sostegno solo quando cominciò a temere che lasua caduta avrebbe potuto essere il segnale della rivoluzionepopolare, che non sarebbe stato in grado di prevenire la rivolu-zione sociale. E la paura è stata così grande da portarla a tradireil proprio Paese. I borghesi sono abbastanza intelligenti percapire che l’attuale regime non è in grado di salvare la Francia,che i nuovi governanti non ne hanno né la volontà né la forza.Tuttavia, nonostante questa consapevolezza, essi continuano adappoggiare un tale governo: hanno più paura dell’invasionedella loro civiltà borghese da parte del popolo francese chedell’invasione prussiana della Francia.

Detto questo, la borghesia francese in generale, e particolar-mente in questo momento, è sinceramente patriottica. Essa odiacordialmente i prussiani. Per cacciare gli insolenti invasori dalsuolo di Francia è disposta a fare grandi sacrifici in soldati,molti dei quali delle classi inferiori, e in denaro, che prima o poirecupererà dal popolo. Ma la cosa su cui insiste più che su ognialtra è che tutti i contributi in beni e in uomini devono essereconcentrati nelle mani dello Stato, e che, per quanto possibile,tutti i volontari armati devono diventare soldati dell’esercitoregolare. Insiste ad esigere che tutte le organizzazioni volontarieprivate coinvolte nelle operazioni di guerra dal punto di vista

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finanziario, militare, amministrativo o medico, funzionino sol-tanto sotto la diretta supervisione dello Stato. Richiede ancheche le milizie non governative, e tutte le formazioni militariirregolari, vengano organizzate da e sotto la personale supervi-sione di dirigenti autorizzati in possesso di licenza statale: pro-prietari fondiari, «signori» borghesi molto conosciuti e, insom-ma, solidi cittadini. In tal modo quei lavoratori e contadini delleformazioni paramilitari che potrebbero ribellarsi e partecipareall’insurrezione non costituirebbero più un pericolo. E meglioancora, i dirigenti potrebbero impegnare queste truppe nellarepressione di sollevazioni contro le autorità, come era già suc-cesso nel 1790 quando le guardie mobili vennero opposte alpopolo.

Su questo solo punto i borghesi di tutte le razze, dagli espo-nenti più reazionari ai giacobini più arrabbiati, insieme ai comu-nisti statalisti e autoritari, sono unanimi: che la salvezza dellaFrancia può e deve essere ottenuta solo con e per mezzo delloStato. Ma la Francia può essere salvata solo da misure drasticheche richiedono la dissoluzione dello Stato. [...]

Riassumendo i punti principali, l’apparato amministrativo egovernativo deve essere definitivamente spazzato via senza chenessun altro lo sostituisca. È necessario dare completa libertà diiniziativa, di movimento e di organizzazione a tutte le provincee a tutti i comuni di Francia, il che equivale a dissolvere lo Statoe a dar inizio alla rivoluzione sociale.

È chiaro che questa volta Parigi non può occuparsi della for-mulazione e della pratica applicazione delle idee rivoluzionarie,ma deve concentrare tutti i suoi sforzi e le sue risorse soltantonella difesa. L’intera popolazione della Parigi assediata deveorganizzarsi in un grande esercito, disciplinato dal comunesenso del pericolo e dalle necessità della difesa: un’immensacittà in guerra, decisa a combattere il nemico in ogni punto...Ma un esercito non discute e non teorizza. Non fa la rivoluzio-ne, combatte.

Parigi, preoccupata della difesa, non sarà assolutamente ingrado di dirigere e di organizzare il movimento rivoluzionariodella nazione. Se Parigi dovesse fare un tentativo del genere,così assurdo e ridicolo, si metterebbe in condizione di soffocareogni attività rivoluzionaria. La migliore, anzi l’unica cosa che

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Parigi può fare per salvare se stessa è proclamare e incoraggiarel’assoluta autonomia e spontaneità di tutti i movimenti provin-ciali; e se Parigi, per una qualsiasi ragione, dimenticasse o tra-scurasse di far ciò, le province per salvare la Francia e la stessaParigi dovranno ribellarsi e organizzarsi spontaneamente inmodo autonomo da Parigi.

Risulta evidente da queste considerazioni che se la Franciadeve essere salvata avrà bisogno della spontanea sollevazione ditutte le province. Sono possibili queste sollevazioni? Sì, se ilavoratori delle grandi città di provincia – Lione, Marsiglia,Saint-Etienne, Rouen e molte altre – hanno sangue nelle vene,sale in zucca, energia nel cuore e se non sono dottrinari masocialisti rivoluzionari. Soltanto i lavoratori delle città possonoora guidare il movimento per la salvezza della Francia. Posta difronte a un mortale pericolo dall’interno e dall’esterno, la Fran-cia può essere salvata soltanto da una rivolta spontanea, senzacompromessi, appassionata, anarchica e distruttiva, da partedelle masse popolari di tutto il Paese.

Ritengo che le uniche due classi oggi capaci di un’insurrezio-ne così possente siano gli operai e i contadini. Non c’è da sor-prendersi che io includa i contadini. I contadini, come moltifrancesi, sbagliano non per qualche difetto di natura, ma perchésono ignoranti. Indolenza e permissivismo non li hanno toccati,e ben poco si fa sentire su di loro la perniciosa influenza dellaciviltà borghese: i contadini mantengono ancora la loro energiaoriginaria e modi semplici e rozzi. È vero che i contadini, essen-do piccoli proprietari terrieri, sono in considerevole misuraegoisti e reazionari, ma ciò non ha attutito il loro istintivo odioper «lorsignori», i nobili di campagna, e odiano anche i proprie-tari borghesi che godono dei frutti della campagna senza colti-varla con le proprie mani. D’altro canto, il contadino è moltopatriottico, cioè appassionatamente attaccato alla sua terra, e iopenso che nulla sarebbe più facile che spingerlo a combatterecontro l’invasore straniero.

È chiaro che per guadagnare i contadini alla rivoluzione ènecessario usare molta cautela. Infatti, idee e forme di propa-ganda accettate entusiasticamente dagli operai di città, otterreb-bero con i contadini l’effetto contrario. È necessario rivolgersiai contadini in un linguaggio semplice, che tenga conto dei loro

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sentimenti, della loro capacità di comprensione, memore dellanatura dei loro pregiudizi, inculcati loro dai grandi proprietari,dai preti e dai funzionari statali. Dove l’imperatore è amato,quasi adorato dai contadini, bisogna stare attenti ad attaccarloper non suscitare reazioni contrarie a quelle desiderate. È neces-sario indebolire con i fatti, non con le parole, l’autorità delloStato e dell’imperatore, minando la struttura attraverso la qualeesercitano la loro influenza. Bisogna invece dedicarsi il più pos-sibile a screditare i funzionari dell’imperatore: sindaci, giudicidi pace, preti, funzionari della polizia rurale e simili.

È necessario dire ai contadini che i prussiani devono esserecacciati dalla Francia (ma di ciò, probabilmente, sono già con-vinti) e che devono armarsi e organizzare unità di guerrigliacapaci di condurre attacchi alle posizioni prussiane. Ma prima ditutto devono seguire l’esempio delle città, cioè liberarsi di tutti iparassiti e delle guardie civili reazionarie; attribuire alle miliziepopolari il compito della difesa dei villaggi; confiscare le terredello Stato e della Chiesa e i possedimenti dei grandi proprietariper redistribuirli ai contadini; sospendere tutti i debiti pubblici eprivati. [...] Inoltre, prima di muovere contro i prussiani, i conta-dini, come i lavoratori urbani dell’industria, devono unirsi, fede-rando i vari battaglioni di combattimento, distretto per distretto,e assicurandosi in tal modo una coordinata difesa comune con-tro il nemico interno ed esterno.

Questo, a mio parere, è il modo più efficace di trattare il pro-blema dei contadini; infatti, mentre difendono la terra, nellostesso tempo, inconsapevolmente ma non per questo meno effi-cacemente, distruggono le istituzioni dello Stato radicate neicomuni rurali, facendo quindi la rivoluzione sociale. [...]

Se vogliamo davvero essere pratici, se stanchi di sognarevogliamo promuovere la rivoluzione, dobbiamo liberarci di uncerto numero di pregiudizi dogmatici borghesi che purtroppomolti operai di città fanno propri. Poiché il lavoratore delle cittàè più informato del contadino, spesso considera il contadinocome un inferiore e gli si rivolge con atteggiamento snobistico,da borghese. Ma nulla fa inferiore la gente come un’atteggia-mento di superiorità e disprezzo, e il contadino reagisce ai mot-teggi con l’odio. Questa è una vera disgrazia, perché l’odio e ildisprezzo dividono il popolo in due campi contrapposti, ciascu-

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no dei quali paralizza e indebolisce l’altro. In realtà non c’è realeconflitto di interessi tra questi due campi; c’è solo una tragica egrande separazione che deve essere assolutamente colmata.

Il più articolato – e proprio per questo leggermente borghese– socialismo dei lavoratori urbani fraintende, sdegna e diffidadel vigoroso e primitivo socialismo contadino, e così cerca dimetterlo da parte. Questa mancanza di comunicazione è respon-sabile della scarsa conoscenza del socialismo operaio da partedella maggior parte dei contadini, incapaci di distinguere traquesto socialismo e il carattere borghese della città. Il contadinoconsidera il lavoratore urbano come un disprezzabile lacchédella borghesia, e questo odio rende i contadini ciechi strumentidella reazione.

Tale è il fatale antagonismo che ha finora paralizzato le forzerivoluzionarie della Francia e dell’Europa. Chiunque abbia vera-mente a cuore il trionfo della rivoluzione sociale deve fare ognisforzo per eliminare questo antagonismo.

Mi turba sempre moltissimo sentire non solo i giacobini rivo-luzionari, ma anche gli illuminati socialisti della scuola di Blan-qui, e perfino alcuni dei nostri amici più intimi indirettamenteinfluenzati dai blanquisti, avanzare l’idea completamente antiri-voluzionaria secondo la quale sarebbe necessario in futurodecretare l’abolizione di tutti i culti religiosi e la violenta espul-sione di tutti i preti. Dico questo perché io sono innanzi tutto unassoluto nemico della rivoluzione per decreto, che derivadall’idea di Stato rivoluzionario, cioè reazione travestita darivoluzione. Al sistema della rivoluzione per decreto io contrap-pongo l’azione rivoluzionaria, l’unico programma coerente,vero ed efficace. Il sistema autoritario dei decreti per imporre lalibertà e l’uguaglianza impedisce la realizzazione di entrambe.Il sistema anarchico della concreta azione rivoluzionaria evocanaturalmente e infallibilmente l’emergere e il fiorire dellalibertà e dell’uguaglianza, senza alcun bisogno di violenza isti-tuzionalizzata e di autoritarismo. Il sistema autoritario conducenecessariamente al trionfo della cruda reazione. Il nostro edifi-cherà la rivoluzione su fondamenta naturali e indistruttibili.

Noi sosteniamo ad esempio che se l’abolizione dei culti reli-

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giosi e l’espulsione dei preti venisse decretata per legge, ancheil contadino meno religioso correrebbe in loro difesa, soprattuttoperché c’è nell’uomo un’innata, irresistibile, tendenza – la fontedi tutte le libertà – a ribellarsi contro ogni misura arbitraria,anche se imposta in nome della libertà. Potete dunque star sicuriche se le città commettessero la colossale follia di decretarel’abolizione dei culti religiosi e il bando dei preti, i contadini siribellerebbero in massa contro le città, trasformandosi inun’arma terribile nelle mani della reazione. Ma questo significache bisogna lasciare i preti nel pieno possesso del loro potere?Assolutamente no! Ma essi devono essere combattuti non inquanto ministri della Chiesa cattolica romana, ma in quantoagenti della Prussia o dei ricchi. Nelle aree rurali, come delresto nelle città, nessuna autorità rivoluzionaria, neppure ilComitato rivoluzionario di salute pubblica, deve attaccare ipreti. Questo lo deve fare solo la gente in prima persona: glioperai delle città e i contadini delle campagne devono far pro-pria l’offensiva contro i preti. I comitati rivoluzionari possonoaiutarli indirettamente, garantendo loro il diritto a far ciò, nelrispetto della libertà di coscienza. Usiamo, almeno in qualchemisura, la tattica prudente dei nostri avversari. Guardate, adesempio, come ogni governo sostenga a parole la libertà ma neifatti si comporti in modo reazionario. Le istanze rivoluzionariesiano dispensate dalle frasi violente, ma mentre usano il lin-guaggio più moderato possibile, contemporaneamente agiscanoe facciano la rivoluzione.

In ogni luogo, i rivoluzionari autoritari si sono sempre com-portati in modo differente. Mentre per lo più erano ultrarivolu-zionari a parole, nei fatti si comportavano da ultramoderati, senon addirittura da reazionari. Si può dire perfino che il loro lin-guaggio incendiario sia stato in molti casi usato come mascheraper ingannare il popolo, per nascondere la pochezza delle loroidee e l’inconsistenza delle loro azioni. Ci sono uomini, moltidei quali tra i cosiddetti rivoluzionari borghesi, che per il solofatto di pronunciare slogan rivoluzionari sono convinti di fare larivoluzione. Certi di avere in tal modo espletato i loro obblighidi rivoluzionari, non si curano più della loro pratica e, in fla-grante contraddizione con i principi, compiono atti che in effettisono reazionari. Noi che invece siamo rivoluzionari dobbiamo

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comportarci in modo completamente differente: si parli, dun-que, meno di rivoluzione e si faccia molto di più. Lasciamo chealtri si occupino degli sviluppi teorici della rivoluzione sociale,e noi accontentiamoci di diffondere ovunque questi principi,incarnandoli in fatti concreti.

I miei amici più intimi e i membri dell’Alleanza saranno pro-babilmente sorpresi di sentirmi parlare a questo modo: io che misono sempre occupato di problemi teorici, io che sono semprestato un geloso e vigile guardiano dei principi rivoluzionari. Maquanto sono cambiati i tempi! Allora, neppure un anno fa, stava-mo soltanto preparandoci a una rivoluzione, che alcuni si atten-devano prima, altri dopo; ma ora anche i ciechi saprebbero dirciche siamo nel mezzo di una rivoluzione. Allora, era assoluta-mente necessario porre l’accento sui principi teorici, esporrequesti principi con chiarezza, nella loro forma più pura, e in talmodo costruire un partito, seppur piccolo, composto di uominisinceri, appassionatamente dediti a questi principi, cosicché intempo di crisi ciascuno di noi potesse contare sulla solidarietà ditutti gli altri.

Ma ora è troppo tardi per concentrarsi sull’arruolamento dinuovi militanti nell’organizzazione. Bene o male abbiamocostruito un piccolo partito: piccolo per il numero di uomini chevi hanno aderito con piena coscienza dei nostri obiettivi;immenso se teniamo conto di coloro che istintivamente fannoriferimento a noi, se teniamo conto delle masse popolari, i cuibisogni e le cui aspirazioni noi riflettiamo più adeguatamente diquanto non facciano le altre formazioni. Tutti noi dobbiamo orasalpare per il mare tempestoso della rivoluzione, e da questopreciso momento dobbiamo diffondere i nostri principi non conparole ma con atti, perché questa è la forma di propaganda piùpopolare, più potente e più irresistibile. Occupiamoci meno deiprincipi se le circostanze e la politica rivoluzionaria lo richieda-no (cioè durante una nostra temporanea posizione di debolezzanei confronti del nemico), ma la nostra azione sia sempre e inogni circostanza di adamantina coerenza. Perché qui si fonda labuona riuscita della rivoluzione.

In tutto il mondo i rivoluzionari autoritari hanno fatto benpoco per promuovere l’attività rivoluzionaria, soprattutto perchéhanno sempre voluto far la rivoluzione da soli, per mezzo della

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propria autorità e del proprio potere. Il che è destinato inevitabil-mente a restringere gli obiettivi dell’azione rivoluzionaria, per-ché è impossibile, anche per il più energico e intraprendenterivoluzionario autoritario, comprendere e trattare efficacemente imolteplici e complessi problemi della rivoluzione. Ogni dittatu-ra, sia essa esercitata individualmente o collettivamente, è neces-sariamente molto circoscritta, miope, e la sua limitata capacità dipercezione non può di conseguenza penetrare in profondità acomprendere l’intera complessa articolazione della vita delpopolo; proprio come è impossibile, anche per il bastimento piùcapace, contenere le vastità e le profondità oceaniche. [...]

Che cosa devono fare i comitati rivoluzionari – e dovrebberoessercene il meno possibile – per organizzare e diffondere larivoluzione? Devono promuovere la rivoluzione non per via didecreti ma spingendo le masse all’azione. In nessun caso devo-no imporre alle masse organizzazioni create artificialmente. Alcontrario, devono lasciar articolare l’auto-organizzazione dellemasse in formazioni autonome e federate sulla base di una loroprecisa volontà. Questo può esser realizzato soltanto guada-gnandosi la collaborazione degli individui più intelligenti,influenti e generosi di ogni località, assicurandosi che questeorganizzazioni siano per quanto possibile impostate secondo inostri principi. Ecco dove sta il segreto della nostra vittoria.

Chi può dubitare che la rivoluzione si troverà di fronte a dif-ficili problemi? Pensate forse che la rivoluzione sarà un giocoda ragazzi, che non dovrà superare innumerevoli ostacoli? Irivoluzionari socialisti dei nostri giorni non devono seguirel’esempio dato nel 1793 dai rivoluzionari giacobini. Delle lorotattiche, ce ne sono ben poche da imitare. La routine rivoluzio-naria li rovinerebbe: i rivoluzionari socialisti devono creare ognicosa di bel nuovo e basare la loro politica e la loro attività sullaviva esperienza. [...]

Sarete d’accordo con me che è ormai troppo tardi per convin-cere i contadini con la propaganda teorica. A parte ciò che vi hogià suggerito, non rimarrebbe allora che questa sola tattica: ilterrorismo della città contro la campagna. Questo è il metodoper eccellenza sostenuto dai nostri cari amici, i lavoratori dellegrandi città francesi, che non si accorgono di come questa tatti-ca rivoluzionaria – stavo per dire reazionaria – sia stata presa

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dall’arsenale del giacobinismo rivoluzionario, e di come questa,se mai avessero la sfortuna di usarla, non possa che portare nonsolo alla loro rovina, ma – cosa ancor più grave – anche a quelladella stessa rivoluzione. Quale sarebbe infatti la fatale e inevita-bile conseguenza di una politica del genere? Che l’intera popo-lazione rurale, forte di milioni di persone, passerebbe dall’altraparte della barricata, e queste masse numerose e invincibilirafforzerebbero gli eserciti della reazione.

Considerandola da questo, ma anche da altri punti di vista,ritengo l’invasione prussiana come un avvenimento fortunatoper la Francia e per la rivoluzione. Se questa invasione non cifosse stata, se la rivoluzione in Francia fosse stata fatta senza diessa, i socialisti francesi avrebbero tentato una volta di più – equesta volta per loro conto – di inscenare una rivoluzione statale(o putsch, o colpo di Stato). Sarebbe stato assolutamente controla logica e fatale per il socialismo; ma costoro certamente nonavrebbero desistito dal farlo, influenzati come sono dai principidel giacobinismo. Come conseguenza, tra le varie misure disalute pubblica decretate da una convenzione di delegati urbani,essi senza dubbio avrebbero tentato di imporre il comunismo eil collettivismo ai contadini. Questo avrebbe dato il via a unaribellione armata, per fronteggiare la quale sarebbe stato neces-sario un esercito immenso, ben disciplinato e ben organizzato. Ilrisultato sarebbe stato che non solo i dirigenti socialisti avrebbe-ro consegnato nelle mani della reazione un altro esercito di con-tadini ribelli, ma che avrebbero determinato anche la formazio-ne, nelle loro stesse file, di una casta reazionaria militarista digenerali affamati di potere. Rigenerata così la macchina delloStato, questa avrebbe dovuto ben presto tornare ad avere uncapo, un dittatore, un imperatore, per poter funzionare. Tutto ciòsarebbe inevitabile perché nasce non dal capriccio di un indivi-duo ma dalla logica della situazione, una logica che non sbagliamai.

Per fortuna saranno gli eventi stessi che forzeranno i lavora-tori urbani ad aprire gli occhi e a rifiutare la fatale proceduracopiata dai giacobini. In queste circostanze solo un pazzopotrebbe anche solo sognare di scatenare un regno del terrorecontro la campagna. Se questa si sollevasse contro le città, lecittà e la Francia con loro sarebbero perdute. [...]

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I lavoratori francesi hanno perso la loro impetuosità latina.Finora hanno sopportato pazientemente le loro sofferenze. Ebisogna aggiungere che i loro ideali, le loro speranze, i loroprincipi, le loro immagini politiche e sociali, i loro progetti pra-tici – che sognavano di concretizzare in un futuro non troppolontano – tutto questo veniva più dai libri, dalle teorie correntiincessantemente discusse, che dai loro spontanei pensieri, dallaloro personale esperienza immediata. Essi hanno visto i fattidella loro vita quotidiana in termini astratti, perdendo la facoltàdi trarre ispirazione e idee dalla situazione reale. Le loro idee sifondano su una particolare teoria, accettata per tradizione esenza spirito critico, con la più cieca fiducia nella sua validità. Equesta teoria si prefigge come obiettivo null’altro che il sistemapolitico dei giacobini, in certa misura modificato per adeguarsi adei rivoluzionari socialisti. Ma questa teoria della rivoluzione èora in completa bancarotta, poiché il suo fondamento, il poteredello Stato, ha subìto un totale collasso. In tali circostanze l’usodi metodi terroristici contro i contadini, come sostenuto dai gia-cobini, è assolutamente fuori questione. E i lavoratori francesi,non conoscendo alternative, sono disorientati e confusi. Essisostengono, non senza ragione, che istituire un regno ufficialedel terrore e decidere misure draconiane contro i contadini èimpossibile; che è impossibile istituire uno Stato rivoluzionario,un comitato centrale di salute pubblica per tutta la Francia, in unmomento in cui l’invasore straniero non è alle frontiere, comenel 1792, ma è giunto nel cuore stesso della Francia, a pochipassi da Parigi.

Constatando il collasso dell’intero apparato ufficiale, essi aragione sentono che il tentativo di crearne un altro sarebbedisperato. E questi rivoluzionari, incapaci di comprendere comela salvezza della Francia sia possibile senza lo Stato, questicampioni del popolo, che non hanno la minima idea della tre-menda forza di ciò che gli statisti di ogni colore, dal bianco alrosso, chiamano sdegnosamente anarchia, ripongono le armiesclamando: «Siamo perduti, la Francia è sconfitta».

Ma cari amici, non siamo affatto perduti: la Francia puòessere salvata dall’anarchia.

Lasciate libera quest’anarchia di massa nelle campagne enelle città, contribuite affinché si gonfi come una valanga furio-

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sa che distrugga e divori tutto ciò che trova sul suo cammino,nemici interni e prussiani. È una misura audace e disperata, loso. Ma è l’unica alternativa possibile. Senza di essa non puòesserci salvezza per la Francia. Tutti i mezzi ordinari hanno fal-lito, non resta che la primitiva, feroce energia del popolo france-se, che ora deve scegliere tra la schiavitù della civiltà borghese ela ferocia rozza e politica del proletariato.

Non ho mai creduto che i lavoratori urbani, anche nelle condi-zioni più favorevoli, sarebbero mai stati in grado di imporre ilcomunismo o il collettivismo nelle campagne; e non ho mai cre-duto in questi metodi per portare avanti il socialismo, perchéaborro ogni sistema imposto e sono un amante fanatico dellalibertà. Questa falsa idea, e questa speranza mal concepita,distruggono la libertà e costituiscono il difetto fondamentale delcomunismo autoritario. Perché l’imposizione violenta, organiz-zata sistematicamente, conduce alla rifondazione del principio diautorità e rende necessario lo Stato con le sue caste di privilegia-ti. Il collettivismo può essere imposto solo a degli schiavi, e untal genere di collettivismo sarebbe allora la negazione della uma-nità. In una comunità di liberi, il collettivismo viene alla lucesolamente per la pressione delle circostanze; non per un’imposi-zione dall’alto, ma per un libero spontaneo movimento dalbasso, e solo quando le condizioni dell’individualismo privile-giato, la politica dello Stato, i codici penali e civili, l’istituzionegiuridica della famiglia e la legge di successione ereditariasaranno state spazzate via dalla rivoluzione. [...]

Che cosa devono fare gli operai per vincere la sfiducia el’ostilità dei contadini? Devono innanzi tutto abbandonare il loroatteggiamento sprezzante. Ciò è assolutamente necessario per lasalvezza della rivoluzione e per gli stessi operai, perché l’odiodei contadini costituisce un pericolo immenso. Se non fosse perquesta sfiducia e quest’odio, la rivoluzione sarebbe avvenuta datempo, perché è l’ostilità tra città e campagna che, in tutti iPaesi, sostiene la reazione e costituisce la sua principale base disupporto. Gli operai devono vincere i loro pregiudizi anticonta-dini non solo nell’interesse della rivoluzione, o per ragioni stra-tegiche, ma anche come atto di giustizia elementare. [...]

Tenete bene in mente quanto segue: il contadino odia tutti igoverni e obbedisce alle leggi solo perché è prudente farlo. Paga

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regolarmente le tasse e sopporta che i figli gli siano sottrattidall’esercito perché non vede alternative. È ostile ai cambia-menti perché pensa che i nuovi governi, indipendentementedalla loro forma e dal loro programma, non saranno migliori deiprecedenti; e perché vuole evitare i rischi e i costi impliciti inciò che potrebbe benissimo rivelarsi un cambiamento inutile odannoso.

Il contadino farà causa comune con gli operai solo quandosarà sicuro che gli operai non intendono imporgli i loro sistemipolitici e sociali, sia pure per fare il suo bene. Egli diventerà unloro alleato appena si convincerà che i lavoratori dell’industrianon lo costringeranno a consegnare la sua terra [allo Stato]. [...]

E quando ispirati da fervore rivoluzionario gli operai, trala-sciando il pretenzioso vocabolario scolastico del socialismo dot-trinario, andranno dai contadini e spiegheranno con un linguag-gio semplice, senza divagazioni e frasi arzigogolate, quello cheintendono fare; quando andranno nei villaggi, non in veste diprecettori, o di saccenti istruttori, ma come fratelli ed uguali,cercando di diffondere la rivoluzione, ma senza imporla ai lavo-ratori della terra; quando bruceranno tutti i documenti ufficiali, igiudizi, le ordinanze e i titoli di proprietà, e aboliranno rendite,debiti privati, ipoteche, leggi penali e civili... quando questamontagna di inutili scartoffie che codificano la povertà e laschiavitù del proletariato andrà in fiamme – allora, potete esser-ne sicuri, i contadini capiranno e si uniranno ai loro compagnirivoluzionari, agli operai delle città.

Che cosa darebbe agli operai urbani il diritto di imporre aicontadini la loro forma di governo o il loro sistema economicopreferito? Essi sostengono che la rivoluzione dà loro quel dirit-to. Ma la rivoluzione non è più rivoluzione quando diventadispotica e quando invece di promuovere la libertà genera lareazione.

L’immediato, se non definitivo, obiettivo della rivoluzione èl’estirpazione del principio di autorità, comunque esso si mani-festi; tale obiettivo richiede l’abolizione e, se necessario, ladistruzione violenta dello Stato; perché lo Stato, come Proudhonha mostrato bene, è il fratello minore della Chiesa, è la storicaconsacrazione di ogni dispotismo e privilegio, la ragione di ogniservitù politica e sociale, l’essenza e il centro motore della rea-

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zione. Chiunque in nome della rivoluzione voglia fondare unoStato, sia pure provvisorio, fonda uno strumento della reazione,e lavora per il dispotismo, non per la libertà; per il privilegio,non per l’uguaglianza...

Da dove hanno mutuato i socialisti francesi l’idea ingiusta earrogante secondo la quale essi avrebbero il diritto di farsi beffedella volontà di dieci milioni di contadini e di imporre loro ilproprio sistema politico e sociale? Qual è la giustificazione teo-rica di quel diritto fittizio? Quel presunto diritto in realtà è unregalo, un’eredità politica del rivoluzionarismo borghese. Ed èfondato su una presunta o reale superiorità in termini di intelli-genza ed educazione, cioè su una supposta superiorità dellaciviltà urbana su quella rurale. Ma non è difficile capire comequesto principio possa facilmente essere invocato per giustifica-re ogni conquista e consacrare ogni oppressione. La borghesia siè sempre avvalsa di questo principio per provare che è suoesclusivo diritto governare, o in altre parole sfruttare tutti i lavo-ratori. Nei conflitti tra le nazioni, come nei conflitti tra le classi,questo fatale principio sanziona l’autorità di ogni invasore. Itedeschi non hanno forse ripetutamente invocato questo princi-pio per assolvere i loro delitti contro gli slavi, e gli altri popoli, eper legittimare la violenta germanizzazione da loro imposta?Non hanno forse affermato che quella sottomissione costituiva iltrionfo della civiltà sulla barbarie?

Ma si badi, i tedeschi cominciano già a dire che la civiltà pro-testante germanica è di gran lunga superiore a quella cattolicadei popoli latini, e a quella francese in particolare. Attenzione: itedeschi potrebbero presto sentirsi obbligati a civilizzarvi, allostesso modo in cui voi andate dicendo che è vostro dovere civi-lizzare ed emancipare a viva forza i vostri connazionali, i vostrifratelli, i contadini francesi. Per me le due rivendicazioni sonougualmente odiose, e dico apertamente che nelle relazioni tranazioni e tra classi sociali starò sempre dalla parte di quelli chesi vogliono colonizzare con questi metodi tirannici. Io mi uniròloro nella rivolta contro civilizzatori così arroganti, siano essigli operai o i tedeschi; e così facendo servirò la rivoluzione con-tro la reazione.

Date le circostanze, mi si potrebbe chiedere: dobbiamo forseabbandonare i contadini ignoranti e superstiziosi alla reazione?

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Assolutamente no! La reazione deve essere sradicata in tutto ilPaese e quindi anche dalla campagna. Mi si potrebbe alloraribattere: per fare ciò non basta dire che vogliamo distruggere lareazione, essa deve essere eliminata, e ciò è possibile per mezzodi decreti. Di nuovo rispondo: no, proprio no! Al contrario, etutta l’esperienza storica lo prova, i decreti, come in generel’autorità, non aboliscono nulla, non fanno altro che perpetuareciò che dovrebbero distruggere.

Che cosa si deve fare, allora? Poiché la rivoluzione non puòessere imposta alle aree rurali, bisogna farla germinare all’inter-no delle comunità agricole, stimolando un movimento rivolu-zionario degli stessi contadini, incitandoli a distruggere, con laloro azione diretta, ogni istituzione politica, giuridica civile emilitare, e a stabilire e organizzare l’anarchia in tutte le campa-gne. Questo può essere fatto solo in un modo: parlando ai conta-dini in termini che li spingano nella direzione dei loro propriinteressi. Essi amano la terra? Ebbene, che si prendano la terra,cacciando via i padroni che vivono con il lavoro degli altri! Nonvogliono pagare ipoteche, tasse, rendite e debiti privati? Smetta-no di pagarli! Odiano la leva militare? Non siano più costretti afare i soldati!

E chi combatterà contro i prussiani? Non c’è bisogno dipreoccuparsi di ciò. Una volta che i contadini siano insorti evedano concretamente i vantaggi della rivoluzione, darannovolontariamente più denaro e più uomini per difendere la rivolu-zione di quanti sarebbe possibile ottenerne con misure costritti-ve. I contadini, come già fecero nel 1792, respingeranno dinuovo i prussiani invasori. È solo necessario che abbiano la pos-sibilità di scatenare un inferno, e solo la rivoluzione anarchicapuò ispirarli in tal senso.

Ma l’istituto della proprietà privata non risulterà consolidatouna volta che i contadini si siano divisa la terra espropriata aiborghesi? No, perché con l’abolizione dello Stato e di tutte lesue istituzioni giuridiche, con l’abolizione della famiglia didiritto e la legge di trasmissione ereditaria – che verranno spaz-zate via dalla tempesta della rivoluzione anarchica – la proprietànon verrà mai più protetta e sanzionata dallo Stato. Non cisaranno diritti politici e giuridici, ma solo fatti rivoluzionari.

Voi chiederete: se la proprietà privata della terra non sarà più

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protetta dallo Stato o da altra forza esterna, e sarà difesa solo daciascun proprietario in prima persona, non si verificherà unasituazione in cui ognuno tenta di sottrarre qualcosa all’altro, e incui, quindi, il forte prevale sul debole? Inoltre, che cosa impe-dirà ai deboli di unirsi per saccheggiare l’altrui proprietà? Non cisono vie di uscita, esclamerete, questo significa la guerra civile.

Sì, ci sarà la guerra civile. Ma perché temere la guerra civile?Tenendo conto della testimonianza storica, le grande idee, le gran-di personalità, le grandi nazioni sono emerse da una guerra civileo da un ordine sociale imposto da qualche governo tutelare?Essendovi stata risparmiata la guerra civile per oltre vent’anni,non siete proprio voi, una grande nazione, caduti così in basso chei prussiani possono fare di voi un solo boccone?

La guerra civile, così erosiva del potere dello Stato, è al con-trario, e proprio per questa ragione, sempre favorevole al risve-glio dell’iniziativa popolare e degli interessi intellettuali, moralied anche materiali del popolo. E ciò per la semplicissima ragio-ne che la guerra civile scuote le masse dal loro stato di pecore,condizione cara a tutti i governi, che trasforma i popoli in greggida utilizzare a piacimento dei loro pastori. La guerra civilerompe l’abbrutente monotonia della esistenza quotidiana eferma quella meccanica routine che priva gli uomini del pensie-ro creativo. [...]

Le masse compatte sono greggi umani poco sensibili all’in-fluenza delle idee e della propaganda. La guerra civile, al con-trario, crea differenze di punti di vista, di interessi e di aspira-zioni. Ai contadini non mancano né un innato sentimento uma-nitario, né un odio profondo per l’ingiustizia; quello che mancaè lo spirito rivoluzionario e la determinazione necessaria. Laguerra civile glieli fornirà.

La guerra civile renderà le campagne ricettive nei confrontidella vostra propaganda socialista rivoluzionaria. E così creereteciò che finora non avete mai avuto: un partito che, su vastascala, possa organizzare il vero socialismo, una società colletti-va animata dalla libertà più completa, un’organizzazione dalbasso capace di incoraggiare l’azione spontanea dei contadini inprima persona.

Non abbiate paura che la guerra civile, cioè l’anarchia,distrugga le campagne. In ogni società umana è presente un

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forte istinto di autoconservazione, una potente inerzia collettivache la salvaguarda dall’autoannullamento, ed è proprio questainerzia ad essere responsabile del procedere lento e faticosodella rivoluzione. [...]

E non pensiate che i contadini comincino a scannarsi l’unl’altro una volta che venga a mancare la costrizione dell’autoritàe il rispetto per la legge penale e civile. Può darsi che questosucceda all’inizio, ma presto si renderanno conto che è econo-micamente e fisicamente impossibile comportarsi in quel modo.Allora smetteranno di combattersi, arriveranno a un’intesa edaranno vita a qualche forma di organizzazione che sappia evi-tare future contese e favorire i loro mutui interessi. Il bisognofondamentale di nutrire se stessi e le proprie famiglie, di ripren-dere a coltivare la terra, la necessità di difendere le proprie case,le proprie famiglie e la loro stessa vita contro attacchi imprevi-sti, tutte queste considerazioni li costringeranno ben presto acontrattare nuove e reciprocamente soddisfacenti soluzioni.

Ma non bisogna nemmeno temere che, essendo state raggiun-te queste soluzioni sotto la spinta delle circostanze e non perdecreto ufficiale, i contadini più ricchi si ritroveranno per ciòstesso in condizione di esercitare un’influenza più forte. Infatti,non più protetti dalla legge, la forza dei grandi proprietari saràindubbiamente ridimensionata. Essi sono potenti solo perché loStato li protegge, e una volta abolito lo Stato, svanirà anche laloro potenza. Per quanto riguarda i contadini relativamentebenestanti e sufficientemente furbi, il loro peso verrà indubbia-mente equilibrato da quello della gran massa dei contadini piùpiccoli e più poveri, come pure dal peso dei braccianti agricolisenza terra. Questo gruppo, ora massa di schiavi costretta a sof-frire in silenzio, verrà rigenerato e rafforzato dall’anarchia rivo-luzionaria. In sintesi, non voglio qui sostenere che i contadini,liberamente riorganizzati a partire dal basso, creeranno miraco-losamente un’organizzazione ideale, conforme in ogni suoaspetto a quelli che sono i nostri sogni. Ma sono convinto checiò che essi potranno costruire sarà vivo e dinamico, mille voltemigliore di qualsiasi organizzazione ora esistente. Più ancora,essendo questa organizzazione dei contadini aperta alla propa-ganda rivoluzionaria delle città, e d’altra parte non pietrificatadall’intervento dello Stato – perché lo Stato non esisterà – penso

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che si svilupperà e si perfezionerà con l’esperienza fino a rag-giungere i livelli più alti che ci si possa ragionevolmente atten-dere in questi nostri tempi.

Con l’abolizione dello Stato, la vita spontanea del popolo,per secoli paralizzata e assorbita dalla sua forza onnipotente,tornerà ad esprimersi nei comuni. Lo sviluppo di ciascun comu-ne avrà come punto di partenza le sue attuali condizioni diciviltà. Poiché la diversità dei livelli di civilizzazione nei diffe-renti comuni di Francia, come nel resto d’Europa, è molto gran-de, ci sarà dapprima la guerra civile tra i comuni stessi, seguitainevitabilmente da mutui accordi e dal raggiungimento di unequilibrio.

La Francia, ormai, non può più essere resuscitata, spintaall’azione da vuoti sogni di gloria e di grandezza nazionale.Queste sono ormai cose del passato. Il governo di Napoleone III,minato dalla sua degenerazione, dalla corruzione e dall’intrigo,si è disintegrato sotto i fendenti dei prussiani. [...]

È ovvio che se questa guerra finisce con una disastrosa e ver-gognosa sconfitta per la Francia, gli operai saranno ancora piùsconfitti di quanto non lo siano ora. Ma questo significa che essisarebbero più disposti a diventare rivoluzionari? E se anchefosse così, la lotta rivoluzionaria sarebbe meno difficile di quan-to non lo sia oggi?

La mia risposta è un no senza esitazioni per le seguenti ragio-ni: lo spirito rivoluzionario delle masse lavoratrici non dipendesoltanto dalla gravità della loro miseria e del loro malcontento,ma anche dalla loro fiducia nella giustizia e nel trionfo dellapropria causa. Infatti tutte le società politiche, tutti gli Stati,repubbliche o monarchie che fossero, si sono sempre fondatisull’aperta o sottilmente mascherata miseria e sul lavoro forzatodei proletari... Ma quel malcontento raramente produce le rivo-luzioni. Persino popoli ridotti in condizioni di estrema povertà,nonostante le loro tribolazioni non danno segno di voler scuote-re il giogo che li opprime. Perché non si ribellano? Forse chesono soddisfatti di ciò che hanno? Naturalmente no. Non siribellano perché non hanno una percezione chiara dei propridiritti né fiducia nella propria forza; e mancando di entrambe,

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sono diventati impotenti e capaci di sopportare la schiavitù persecoli. Come possono le masse acquistare queste qualità rivolu-zionarie? Le persone colte diventano consapevoli dei propridiritti con il ragionamento teorico e con la pratica esperienzadella propria vita. La prima condizione, cioè la capacità di pen-sare in modo astratto, non si può ancora considerare patrimoniodelle masse. [...]

Come possono allora le masse lavoratrici acquistare coscien-za dei propri diritti? Solo attraverso la loro grande esperienzastorica, attraverso questa grande tradizione dispiegatasi nelcorso dei secoli e trasmessa di generazione in generazione, con-tinuamente accresciuta e arricchita da nuove sofferenze e nuoveingiustizie, che alla fine riesce a permeare e a illuminare legrandi masse proletarie. Se un popolo non cade in uno stato didecadenza senza speranza, i suoi progressi sono sempre dovuti aquesta grande e benefica tradizione, a questa ineguagliabilemaestra del popolo... Ma in epoche storiche differenti i popolinon progrediscono con passo uguale e uniforme. Al contrario, ilpasso del progresso muta, diventando talvolta rapido e profon-do, tal’altra appena percettibile; oppure tende a fermarsi e sem-bra addirittura tornare indietro. Come si può spiegare questofenomeno?

Si può attribuirlo al tipo di eventi che modellano ciascunperiodo storico. Ci sono eventi che danno energia al popolo e lospingono in avanti. Altri, invece, hanno un effetto scoraggiantee deprimente sul morale e sull’atteggiamento generale dellemasse, poiché distorcono la loro capacità di giudizio e perverto-no le loro menti, spingendole verso l’autodistruzione. Nello stu-dio dei modelli storici generali di sviluppo dei popoli si possonoscorgere due tendenze contrastanti, paragonabili al movimentodi flusso e riflusso delle maree oceaniche.

In alcune epoche si verificano avvenimenti che preannuncia-no l’avvento di grandi cambiamenti storici, di grandi speranze etrionfi per l’umanità. In questi momenti ogni cosa sembra muo-versi in gran fretta. Un’aria di vigore e di potenza sembra perva-dere l’atmosfera sociale; menti, cuori e volontà sembrano unirsiin un grande risveglio, mentre l’umanità marcia verso la conqui-sta di nuovi orizzonti. È come se una corrente d’energia elettricastesse galvanizzando l’intera società, unendo i sentimenti di

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individui di carattere diverso in un unico sentimento comune,forgiando menti e volontà completamente diverse in un soloprogetto.

In tempi come questi l’individuo emana confidenza e corag-gio perché i suoi sentimenti trovano riscontro e vengono raffor-zati dalle emozioni dei suoi contemporanei. Per citare solo alcu-ni esempi dalla storia moderna, di questo genere era il periodoconclusivo del diciottesimo secolo, l’epoca della Rivoluzionefrancese. Tali anche, sia pure in misura minore, erano gli anniprecedenti la rivoluzione del 1848. E analogo, io credo, è ilcarattere della nostra epoca presente, che potrebbe essere il pre-ludio a eventi che forse oscureranno i giorni gloriosi del 1789 edel 1793...

Ma ci sono anche epoche scoraggianti e disastrose, quandoogni cosa trasuda decadenza, esaurimento e morte, lasciandopresagire la consunzione di ogni forma di coscienza pubblica eprivata. Sono i periodi di riflusso che vengono dopo le catastrofidella storia. Tale fu il periodo del Primo Impero e la Restaurazio-ne di Napoleone I. Tali furono i venti o trent’anni che seguironola catastrofe del giugno 1848. Tali sarebbero i venti o trent’anniche potrebbero seguire la conquista della Francia da parte deglieserciti del dispotismo prussiano. [...]

In tali condizioni, può anche darsi che un pugno di lavoratoririmanga rivoluzionario, ma mancherà comunque l’entusiasmo ela fiducia; perché la fiducia è possibile solo quando i sentimentidi un individuo trovano un’eco, un punto d’appoggio, nello spiri-to e nella volontà rivoluzionaria del popolo... Ma il popolosarebbe completamente disorganizzato, demoralizzato, schiac-ciato dalla reazione. [...] Tutte le associazioni dei lavoratori, den-tro e fuori le fabbriche e le officine, verrebbero soppresse. Nonci sarebbero gruppi di discussione, né circoli per l’educazionecooperativa, né alcuno strumento per far rivivere la volontà col-lettiva dei lavoratori... Ciascun lavoratore sarebbe intellettual-mente e moralmente isolato, condannato all’impotenza.

Per esser sicuro che i lavoratori non possano riorganizzarsi, ilgoverno farebbe arrestare e deportare parecchie centinaia, senon migliaia, dei più intelligenti, militanti e generosi lavoratoriall’Isola del Diavolo. Con le masse popolari messe di fronte auna situazione così tragica, ci vorrebbe un bel po’ di tempo

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prima che si rimettano in condizione di fare la rivoluzione!E anche se, nonostante una situazione così sfavorevole, spinti

da quell’eroismo tipicamente francese che si rifiuta di accettarela sconfitta e soprattutto guidati dalla disperazione, i lavoratorifrancesi si ribellassero, è molto probabile che subirebbero unasevera lezione ad opera delle più micidiali armi moderne. Con-tro quella terribile forma di persuasione, né l’intelligenza né lavolontà collettiva possono giovare ai lavoratori, spinti a resiste-re soltanto dalla disperazione suicida, in una resistenza destinataa precipitarli nelle condizioni più tragiche.

E poi? Il socialismo francese non sarebbe più in grado dimantenere il suo posto all’avanguardia del movimento rivolu-zionario europeo, che combatte per l’emancipazione del proleta-riato. Il nuovo governo potrebbe anche tollerare, per ragioni sue,che resti qualche periodico e qualche scrittore socialista in Fran-cia. Ma né gli scrittori, né i filosofi, né i loro libri sono suffi-cienti a costruire un movimento socialista vivo e forte. Talemovimento può diventare una realtà soltanto per il risvegliodella coscienza rivoluzionaria, della volontà collettiva edell’organizzazione delle masse lavoratrici in prima persona.Senza questo, i migliori libri del mondo non sono che teoriedisperse in uno spazio vuoto, non sono che sogni impotenti.

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VIII

Rispetto alla strategia della Prima Internazionale, Bakuninnon parla mai di «lotta di classe» ma di lotta popolare, perchéquesti due termini assumono diverso significato di fronte alladuplice possibilità di una riproduzione o di una abolizione delloStato. L’anarchico russo non parla mai in senso positivo dellalotta di classe, perché, a suo giudizio, la storia l’ha sempreregistrata come lotta per il potere e per la ricomposizione delloStato, e non per la loro distruzione. E l’ha registrata in quantoha dimostrato che in realtà non sono state e non sono due leforze a fronteggiarsi (come è teorizzato nel modello bipolaremarxista) ma tre: la massa degli eterni sfruttati, una classedominante e una classe in ascesa verso il potere. Quest’ultima èallo stesso tempo sfruttata e sfruttatrice e lotta al solo scopo dispodestare la classe dominante per prendere il suo posto. Lalotta di classe è la lotta fra queste ultime due: la prima che lottaper mantenere il potere, la seconda per conquistarlo. Esse solepossono essere definite tali in quanto raggruppano un corposociale tendenzialmente omogeneo, consapevole dei propriobiettivi e ben organizzato.

Pertanto la massa degli sfruttati non va definita come classe,in quanto costituisce un’immensa maggioranza eterogenea edisorganizzata che ha come unico scopo della sua lotta la libe-razione dalla propria condizione. Finora questa lotta è statausata dalla classe in ascesa verso il potere che ne ha utilizzato

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l’energia caoticamente sovversiva per le proprie fortune. È inquesto modo che la lotta popolare di liberazione umana è statasempre trasformata in lotta di classe per il potere. E perciò unalotta che non si estendesse e non coinvolgesse tutte le masseoppresse non farebbe altro che riproporre quello che c’è sem-pre stato, vale a dire un eterno avvicendamento al potere delleclassi e quindi la perpetua riproduzione dello Stato. Ecco per-ché fare carico dell’intero progetto di liberazione umana aduna sola classe – in questo caso la classe operaia – avrebbecome risultato una divisione nel tempo e nello spazio dell’interamassa degli sfruttati: tale classe verrebbe posta in una posizio-ne avanguardistica rispetto alle altre componenti rivoluziona-rie, che si ritroverebbe a rimorchio delle sue manovre con ilpuro e semplice compito di assecondarle. A sua volta, questaclasse, non potendo andare tutta insieme materialmente al pote-re, finirebbe per forza di cose con il mandare i suoi rappresen-tanti, i quali verrebbero a costituirsi come parte a sé e con inte-ressi propri. Avverrebbe così, conclude Bakunin, che le masseoppresse finirebbero con l’essere utilizzate come massa dimanovra da parte di una classe – la classe operaia – equest’ultima, a sua volta, sarebbe utilizzata come massa dimanovra dai suoi rappresentanti. La politica dell’Internaziona-le non deve perciò avere per oggetto lo stabilimento di unnuovo dominio a profitto del proletariato costituito come unaclasse differente e sfruttatrice, ma la liberazione dell’interaumanità.

I brani riprodotti qui di seguito sono tratti da La politicadell’Internazionale, inclusa nel volume Libertà uguaglianzarivoluzione, Antistato, Milano 1976.

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L’INTERNAZIONALE

[...] L’Internazionale, quando accoglie nel suo seno un nuovomembro, non gli domanda se sia religioso o ateo, se appartengaa qualche partito politico o a nessun partito. Essa gli chiedesemplicemente: sei un proletario o, se non lo sei, provi il biso-gno e ti senti la forza di abbracciare sinceramente, completa-mente la causa dei lavoratori, di identificarti con essa escluden-do tutte le altre cause che potrebbero contrastarla?

Sei convinto che i lavoratori, i quali producono tutte le ric-chezze del mondo, hanno costruito la civiltà e hanno conquista-to tutte le libertà dei borghesi, sono oggi condannati alla mise-ria, all’ignoranza e alla schiavitù?

Sei convinto che la causa principale di tutte le sventure sof-ferte dal lavoratore è la miseria e che questa miseria, sortecomune di tutti i lavoratori del mondo, è una necessaria conse-guenza dell’attuale organizzazione economica della società e, in

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particolare, dell’asservimento del lavoro, cioè del proletariatosotto il giogo del capitale, ovvero della borghesia?

Sei convinto che fra il proletariato e la borghesia sussiste unantagonismo che è inconciliabile in quanto conseguenza neces-saria delle rispettive posizioni?

Sei convinto che la prosperità della classe borghese è incom-patibile con il benessere e la libertà dei lavoratori in quantoquella prosperità esagerata è, e non può non essere, fondatasullo sfruttamento e sull’asservimento del loro lavoro e che perla medesima ragione la prosperità e la dignità umane dellamassa popolare esigono in modo assoluto l’abolizione della bor-ghesia in quanto classe separata? [...]

Sei convinto che nessun lavoratore, per intelligente ed ener-gico che sia, ha la possibilità di lottare da solo contro la forzacosì ben organizzata dei borghesi, forza rappresentata e sostenu-ta in primo luogo dall’organizzazione dello Stato, di ogni Stato?

Sei convinto che per acquistare forza non devi associarti néai borghesi, il che sarebbe da parte tua una sciocchezza e undelitto perché tutti i borghesi in quanto tali sono nostri nemiciinconciliabili, né ai proletari infedeli tanto vili da correre a men-dicare i sorrisi e la benevolenza dei borghesi, bensì ai lavoratorionesti ed energici che vogliono sinceramente quel che vuoianche tu?

Sei convinto che di fronte alla formidabile coalizione di tuttele classi privilegiate, di tutti i proprietari e capitalisti e di tutti gliStati del mondo, un’associazione dei lavoratori isolata, locale onazionale, quand’anche appartenesse a uno dei più grandi Paesieuropei, non potrebbe mai vincere e che per tener testa a quellacoalizione e ottenere la vittoria ci vuole l’unione di tutte le asso-ciazioni dei lavoratori locali e nazionali in un’associazione uni-versale, che occorre cioè la grande Associazione internazionaledei lavoratori di tutti i Paesi?

Se lo sai, se ne sei convinto e se vuoi realmente tutto ciòvieni con noi quali che siano, per altro, i tuoi credi politici oreligiosi. Ma perché noi ti si possa accogliere devi promettere:

1) di subordinare i tuoi interessi personali, quelli della tuafamiglia e le tue convinzioni e manifestazioni politiche e reli-giose al supremo interesse della nostra associazione: la lotta del

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lavoro contro il capitale, dei lavoratori contro la borghesia sulterreno economico;

2) di non transigere mai con i borghesi in vista di un interessepersonale;

3) di non cercare mai di distinguerti individualmente, al soloservizio della tua personalità, al di sopra della massa lavoratrice;cosa che farebbe immediatamente di te un borghese, un nemico euno sfruttatore del proletariato proprio perché la differenza fra ilborghese e il lavoratore è tutta qui: che il primo cerca sempre ilproprio benessere al di fuori della collettività, mentre il secondocerca e pretende di conquistarlo soltanto nella solidarietà di tutticoloro che lavorano e che sono sfruttati dal capitale borghese;

4) di rimanere sempre fedele alla solidarietà proletaria perchéil più insignificante tradimento di questa solidarietà è considera-to dall’Internazionale il delitto più grave e la più grande infamiache un lavoratore possa commettere.

In una parola, devi accettare sinceramente, interamente, inostri statuti generali assumendo il solenne impegno di unifor-marvi le tue azioni e la tua vita.

Noi pensiamo che i fondatori dell’Associazione internaziona-le abbiano agito con grande saggezza quando hanno eliminatodal programma ogni questione politica e religiosa. Senza alcundubbio essi stessi non erano privi di opinioni politiche né di spic-cate tendenze antireligiose; ma si sono astenuti dall’immetterlenel programma perché il loro scopo preminente consistevanell’unire tutte le masse lavoratrici del mondo civile per un’azio-ne comune. Hanno dovuto quindi cercare, necessariamente, unabase comune, una serie di principi semplici sui quali tutti i lavo-ratori – quali che siano le loro aberrazioni politiche e religiose,purché siano seri, e cioè uomini duramente sfruttati e sofferenti –siano e debbano essere d’accordo.

Se essi avessero inalberato la bandiera di un sistema politicoo antireligioso, lungi dall’unire i lavoratori europei li avrebberodivisi ancora di più; perché, a causa dell’ignoranza, la propa-ganda interessata e corruttrice dei preti, dei governi e di tutti ipartiti politici borghesi, senza escludere i più rossi, ha diffusouna moltitudine di idee false tra le masse popolari, e questemasse accecate disgraziatamente credono ancora troppo spesso

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a menzogne che hanno l’unico scopo di far loro servire, volon-tariamente, stupidamente e a proprio danno, gli interessi delleclassi privilegiate.

D’altra parte, c’è ancora un’eccessiva differenza fra i livellidi sviluppo industriale, politico, intellettuale e morale dellemasse popolari nei diversi Paesi perché sia possibile unirle oggiintorno a un solo e unico programma politico ed antireligioso.Imporre un programma simile all’Internazionale, farne una con-dizione assoluta per l’ammissione, significherebbe voler orga-nizzare una setta e non un’associazione universale. Significhe-rebbe uccidere l’Internazionale.

C’è stata poi un’altra ragione che ha indotto a eliminare findall’inizio dal programma dell’Internazionale almeno in appa-renza, e soltanto in apparenza, ogni tendenza politica.

Fino ad oggi, dal principio della storia, non s’è ancora avutauna politica di popolo, e intendiamo con questa parola il popoli-no, la canaglia operaia che nutre tutti quanti con il propriolavoro. Finora si è avuta soltanto la politica delle classi privile-giate, di quelle classi che si sono servite della forza muscolaredel popolo per spodestarsi a vicenda e per prendere il postol’una dell’altra.

A sua volta il popolo ha parteggiato per le une contro le altresempre con la vana speranza che almeno qualcuna di questerivoluzioni politiche, delle quali nessuna ha potuto farsi senza dilui ma nessuna è stata fatta per lui, apportasse qualche sollievoalla sua miseria e alla sua secolare schiavitù. Si è sempre sba-gliato. Anche la grande Rivoluzione francese l’ha ingannato: hadistrutto l’aristocrazia nobiliare e ha messo al suo posto la bor-ghesia. Il popolo non è più definito né schiavo né servo, anzidichiarato libero di diritto, ma nei fatti la sua schiavitù e la suamiseria restano uguali. E resteranno tali fino a quando le massepopolari continueranno a farsi strumento della politica borghese,comunque si chiami questa politica: conservatrice, liberale, pro-gressista, radicale, e anche quando si desse le arie più rivoluzio-narie del mondo.

Perché qualsiasi politica borghese, indipendentemente dalsuo nome e dal suo colore, non può avere, in fondo, che ununico fine: il mantenimento della dominazione borghese, cheequivale alla schiavitù del proletariato.

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Che cosa ha dovuto fare allora l’Internazionale? Prima ditutto ha dovuto sganciare la massa lavoratrice da ogni politicaborghese eliminando dal proprio programma tutti i programmipolitici borghesi.

Ma all’epoca della sua fondazione non c’era al mondo altrapolitica al di fuori di quella della Chiesa o della monarchia odell’aristocrazia o della borghesia. L’ultima, in particolare quel-la della borghesia radicale, era senz’altro più liberale e piùumana delle altre, ma tutte erano ugualmente fondate sullosfruttamento delle masse popolari e non avevano in realtà altrofine se non quello di disputarsi il monopolio di questo sfrutta-mento.

L’Internazionale ha quindi dovuto cominciare a ripulire ilterreno, e poiché ogni politica, dal punto di vista dell’emancipa-zione del lavoro, era allora contaminata da elementi reazionari,ha dovuto prima di tutto espellere dal suo seno tutti i sistemipolitici conosciuti al fine di riuscire a fondare sopra le rovinedel mondo borghese la vera politica dei lavoratori, la politicadell’Associazione internazionale.

I fondatori dell’Associazione internazionale dei lavoratorihanno agito tanto più saggiamente, evitando di mettere dei prin-cipi politici e filosofici alla base di questa associazione e dando-le subito per unico fondamento la lotta esclusivamente econo-mica del lavoro contro il capitale, in quanto avevano la certezzache nel momento in cui un proletario si mette su questo terreno,nel momento in cui, prendendo fiducia nel proprio diritto e nellapropria forza numerica, s’impegna insieme ai compagni di lavo-ro in una lotta solidale contro lo sfruttamento borghese, saràcostretto dalla forza stessa delle cose e dallo sviluppo di questalotta a riconoscere in breve tempo tutti i principi politici, socialie filosofici dell’Internazionale, principi che non sono effettiva-mente se non la corretta impostazione del suo fine.

Abbiamo esposto questi principi precedentemente. Ad essiconseguono necessariamente, dal punto di vista politico e socia-le, l’abolizione delle classi, in particolare della borghesia che èoggi la classe dominante, l’abolizione di tutti gli Stati territoriali,di tutte le patrie politiche e, sulle loro rovine, l’istituzione della

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grande federazione internazionale di tutti i gruppi produttivi,nazionali e locali. Dal punto di vista filosofico, dato che questiprincipi tendono alla realizzazione dell’ideale umano della feli-cità, dell’uguaglianza, della giustizia e della libertà sulla terra,rendendo perciò del tutto inutili ogni complemento celeste eogni speranza in un aldilà migliore, da essi deriva per conse-guenza altrettanto necessaria l’abolizione dei culti e di tutti isistemi religiosi.

Enunciate subito questi due fini a proletari ignoranti, oppressidal lavoro di ogni giorno e demoralizzati, avvelenati per così direscientemente dalle dottrine perverse che i governi, di concertocon tutte le caste privilegiate: preti, nobiltà e borghesia, gli som-ministrano a piene mani e li spaventerete. Forse vi respingerannosenza avvedersi che tutte queste idee sono l’espressione più fede-le dei loro propri interessi, che questi fini portano con sé la rea-lizzazione dei loro desideri più vivi, mentre quei pregiudizi reli-giosi e politici, nel cui nome forse respingeranno i nostri princi-pi, sono invece la causa immediata del permanere della loroschiavitù e della loro miseria.

Si deve però distinguere fra i pregiudizi delle masse popolarie quelli della classe privilegiata. Come abbiamo visto, i pregiu-dizi delle masse sono fondati sulla loro ignoranza e sono contra-ri ai loro interessi, mentre quelli della borghesia sono fondatiprecisamente sugli interessi della loro classe e non si reggono,contro l’azione disgregatrice della stessa scienza borghese, senon grazie all’egoismo collettivo dei borghesi.

Il popolo vuole ma non sa, la borghesia sa ma non vuole.Quale dei due è incurabile? Indubbiamente la borghesia.

Regola generale: si possono convertire soltanto coloro chesentono il bisogno di esser convertiti, che portano già nei propriistinti o nelle miserie della propria condizione, sia esteriore cheinteriore, tutto quel che voi volete dargli; non convertirete maicoloro che non sentono alcun bisogno di cambiare e nemmenoquelli che, pur desiderando uscire da una situazione che non lisoddisfa, sono spinti dalla natura dei loro costumi morali, intel-lettuali e sociali a ricercare un miglioramento in base a unavisione che non è quella da voi contemplata.

Provate a convertire al socialismo un nobile che agogna laricchezza, un borghese che vorrebbe farsi nobile o anche un

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operaio che tenda con tutte le forze del suo essere a diventare unborghese! Oppure provate a convertire un aristocratico, reale oimmaginario, dell’intelligenza, un mezzo-sapiente o persino unquarto, un decimo, un centesimo di sapiente, personaggi pieni diostentazione scientifica che spesso, solo perché hanno avuto lafortuna di afferrare alla meno peggio qualche libro, traboccanodi arrogante disprezzo per le masse illetterate e pensano di esse-re destinati a formare una nuova casta dominante e cioè sfrutta-trice!

Nessun ragionamento né alcuna propaganda saranno mai ingrado di convertire questi infelici.

Per convincerli non c’è che un mezzo: è il fatto, è la distru-zione delle possibilità stesse delle situazioni privilegiate, di ognidominazione e di ogni sfruttamento; è la rivoluzione sociale,che spazzando via tutto quel che crea la diseguaglianza nelmondo, li moralizzerà forzandoli a ricercare la loro felicitànell’uguaglianza e nella solidarietà.

È tutt’altra cosa con i lavoratori seri. Per lavoratori seri inten-diamo tutti coloro che sono realmente schiacciati dal peso dellavoro; tutti coloro la cui posizione è tanto precaria e miserabileche a nessuno, a meno di circostanze assolutamente straordina-rie, possa venire anche solo il pensiero di poter conquistare perse stesso, e solo per se stesso, nelle condizioni economicheattuali e nell’attuale ambiente sociale, una posizione migliore:cioè di diventare a propria volta, per esempio, padrone o consi-gliere di Stato.

Naturalmente includiamo in questa categoria anche quei rari egenerosi proletari che, pur disponendo della possibilità di elevar-si individualmente al di sopra della propria classe, non voglionoapprofittarne e preferiscono sopportare ancora per qualche tempolo sfruttamento borghese per essere solidali con i loro compagnidi miseria, anziché diventare a loro volta sfruttatori. Essi nonhanno bisogno di esser convertiti: sono già dei socialisti puri. Ciriferiamo invece alla gran massa lavoratrice che, fiaccata dal suolavoro quotidiano, è ignorante e poverissima. Questa, quali chesiano i pregiudizi politici e religiosi che si è tentato e in parte si èriusciti a introdurre nella sua coscienza, è socialista senza saper-lo; nella profondità del proprio istinto e per la stessa forza dellasua posizione, essa è seriamente, autenticamente, socialista.

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Lo è per le condizioni stesse della sua esistenza materiale,per i bisogni stessi del proprio pensiero. Nella vita reale i biso-gni dell’esistenza esercitano sempre una forza molto superiore aquella del pensiero, il quale è, qui come ovunque e sempre,l’espressione dell’esistenza, il riverbero dei suoi successivi svi-luppi, mai il suo principio. Ciò che manca ai proletari non è laconcretezza, la reale necessità delle aspirazioni socialiste, masoltanto il pensiero socialista.

Quel che ogni proletario reclama dal profondo del cuore èun’esistenza pienamente umana, in quanto benessere materialee sviluppo intellettuale, fondati sulla giustizia, ovverossia sul-l’uguaglianza e sulla libertà di ciascuno e di tutti nel lavoro,non possono evidentemente essere realizzati nell’attuale mondopolitico e sociale fondato sull’ingiustizia e sul cinico sfrutta-mento del lavoro.

Ogni proletario serio è quindi, necessariamente, un rivoluzio-nario socialista poiché la sua emancipazione non può concretiz-zarsi che con il rovesciamento di tutto quanto esiste attualmente.O quell’organizzazione dell’ingiustizia con tutto il suo apparatodi leggi inique e di istituzioni privilegiate scompare o le massepopolari saranno condannate a un’eterna schiavitù. Ecco il pen-siero socialista i cui germi si potranno ritrovare nell’istinto diogni serio lavoratore. Lo scopo è quindi quello di dargli la pienacoscienza di ciò che vuole, di far nascere in lui un pensiero checorrisponda al suo istinto perché, nel momento in cui il pensierodelle masse si sarà elevato all’altezza del loro istinto, la lorovolontà diventerà determinata e la loro forza irresistibile.

Che cosa continua a impedire un più rapido sviluppo di que-sto pensiero salutare nel seno della massa lavoratrice? La suaignoranza e, in buona parte, i pregiudizi politici e religiosi con iquali le classi interessate si sforzano ancor oggi di ottenebrarnela coscienza e la naturale intelligenza. In che modo dissiparequest’ignoranza, come fare a distruggere questi perniciosi pre-giudizi? Sarà tramite l’istruzione e la propaganda?

Si tratta indubbiamente di grandi e ottimi mezzi. Ma nellecondizioni attuali delle masse popolari essi sono insufficienti. Ilsingolo lavoratore è troppo oppresso dalla sua fatica e dalle suepreoccupazioni quotidiane per trovare il tempo necessario allapropria istruzione. E d’altra parte chi farebbe questa propagan-

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da? Sarebbero forse quei pochi socialisti sinceri provenientidalla borghesia, senz’altro pieni di buona volontà ma che,innanzi tutto, sono troppo pochi per riuscire a dare alla loro pro-paganda tutta l’estensione necessaria e che, d’altro canto, appar-tenendo per posizione a un mondo diverso, non hanno sulmondo proletario tutta quell’influenza che ci vorrebbe, suscitan-dovi invece diffidenze più o meno giustificate?

«L’emancipazione dei lavoratori dev’essere opera dei lavora-tori stessi» dice il preambolo dei nostri statuti generali. Ed hamille ragioni per dirlo. È la base principale della nostra grandeAssociazione. Ma il mondo proletario è, in generale, ignorante ela teoria gli manca ancora completamente. Ed allora non restache un’unica strada, quella della sua emancipazione attraversola pratica.

In che cosa può e deve consistere questa pratica?Non ce n’è che una sola. È quella della lotta solidale degli

operai contro i padroni. È la federazione delle casse di resistenza.

Il fatto che l’Internazionale si sia mostrata inizialmente indul-gente riguardo alle idee conservatrici e reazionarie in materia dipolitica e di religione che certi lavoratori possono ancora avereentrando nel suo seno non significa certo indifferenza nei con-fronti di quelle idee. Non si può certo accusarla d’indifferenza,tant’è che l’Internazionale le detesta e le respinge con tutte lesue forze, perché qualunque idea reazionaria è il rovesciamentodel suo stesso principio, come abbiamo già dimostrato. Questaindulgenza, lo ripetiamo, le viene da una grande saggezza.

Sapendo perfettamente che qualsiasi lavoratore serio è ancheun socialista a causa di tutte le necessità inerenti alla sua posi-zione inferiore e che le sue idee reazionarie, se ne ha, non pos-sono essere che un effetto della sua ignoranza, essa confidanell’esperienza collettiva ch’egli non può mancare d’acquisirein seno all’Internazionale e, soprattutto, nello sviluppo dellalotta collettiva dei lavoratori contro i padroni perché alla fine nesia liberato.

E in effetti, dal momento in cui un proletario, confidandonella possibilità di una prossima radicale trasformazione dellasituazione economica e associandosi ai suoi compagni, comincia

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a lottare seriamente per la diminuzione delle ore di lavoro e perl’aumento del salario, dal momento in cui comincia a interessar-si vivamente a questa lotta totalmente materiale, si può star certiche perderà ben presto tutte le sue preoccupazioni celesti e che,abituandosi a contare sempre di più sulla forza collettiva deilavoratori, rinuncerà volontariamente al soccorso del cielo. Ilsocialismo occuperà nel suo cuore il posto della religione.

Lo stesso accadrà alla sua politica reazionaria. Essa perderà ilsuo principale sostegno nella misura in cui la coscienza del lavo-ratore si andrà liberando dell’oppressione religiosa. D’altrocanto, sviluppandosi e allargandosi sempre più, la lotta economi-ca gli farà progressivamente individuare, grazie alla pratica e aun’esperienza collettiva più istruttiva e vasta dell’esperienza iso-lata, i suoi veri nemici che sono le classi privilegiate, e cioè ilclero, la borghesia, la nobiltà e lo Stato; quest’ultimo con l’unicofine di salvaguardare tutti i privilegi di quelle classi alle qualinecessariamente dà il suo appoggio contro il proletariato.

Il lavoratore così impegnato nella lotta finirà inevitabilmenteper comprendere quale antagonismo inconciliabile esista fraquei fautori della reazione e i suoi interessi umani più cari e,giunto a questo punto, non mancherà di riconoscersi e di com-portarsi recisamente da socialista rivoluzionario.

Per i borghesi non è così. Tutti i loro interessi sono contrarialla trasformazione economica della società. E se anche le loroidee le sono contrarie, se queste idee sono reazionarie o, come sidefiniscono oggi educatamente, moderate; se la loro intelligenzae il loro cuore respingono quel grande atto di giustizia e diemancipazione che noi chiamiamo rivoluzione sociale; se hannoorrore dell’uguaglianza sociale reale, ovvero dell’uguaglianzapolitica, sociale ed economica; se in fondo al loro animo colti-vano la speranza di riuscire a conservare per se stessi, per lapropria classe o per i propri figli un unico privilegio, foss’anchequello dell’intelligenza come succede oggi a molti socialistiborghesi; se non detestano, e con tutta la logica della loro mentema anche con tutta la forza della loro passione, lo stato di coseattuale, allora si può star sicuri che rimarranno dei reazionari,dei nemici del proletariato per tutta la vita. Bisogna allora tener-li lontani dall’Internazionale.

Bisogna tenerli lontani con cura perché vi entrerebbero al

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solo scopo di demoralizzarla e di deviarla dalla sua strada. C’èdel resto un indizio infallibile in base al quale gli operai posso-no riconoscere se un borghese che domandi di essere accoltonelle loro file lo fa sinceramente, senza ombra d’ipocrisia esenza il più piccolo secondo fine. Questo indizio è costituito dalgenere di rapporti che ha conservato con il mondo borghese.

L’antagonismo che oggi esiste tra il mondo proletario e ilmondo borghese assume un carattere sempre più spiccato.

Ogni uomo che ragiona seriamente e i cui sentimenti e la cuiimmaginazione non siano punto alterati dall’influenza moltospesso inconscia di sofismi interessati, deve oggi riconoscereche nessuna riconciliazione è più possibile fra quei due mondi. Ilavoratori vogliono l’uguaglianza, mentre i borghesi vogliono laconservazione della diseguaglianza.

Evidentemente uno distrugge l’altro. E infatti la grande mag-gioranza dei borghesi capitalisti e proprietari, quanti hanno ilcoraggio di confessare a se stessi sinceramente ciò che voglio-no, manifestano con la medesima sincerità il terrore che ispiraloro l’attuale movimento dei lavoratori. Costoro sono nemicirisoluti e sinceri, e meno pericolosi degli ipocriti.

Ma c’è un’altra categoria di borghesi che non ha né la stessasincerità né lo stesso coraggio. Nemici della liquidazione socialeche noi invochiamo con tutta la forza della nostra anima comeun grande atto di giustizia, come il punto di partenza necessarioe la base indispensabile per un’organizzazione egualitaria erazionale della società, essi vogliono conservare al pari di tuttigli altri borghesi la diseguaglianza, ma al contempo pretendonodi volere, come noi, l’emancipazione integrale del lavoratore edel lavoro. Essi sostengono contro di noi, con una passionedegna dei borghesi più reazionari, la causa prima della schiavitùdel proletariato: la separazione del lavoro dalla proprietà immo-biliare o capitalistica oggi rappresentate da due classi diverse; eciò malgrado si atteggino ad apostoli della liberazione dellamassa lavoratrice dal giogo della proprietà e del capitale!

S’ingannano oppure ingannano. Qualcuno s’inganna in buonafede, la maggior parte s’inganna ed inganna insieme. Tutti appar-tengono a quella categoria di borghesi radicali e di socialisti bor-ghesi che hanno fondato la Lega della Pace e della Libertà.

È socialista questa Lega? All’inizio e durante il primo anno

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della sua esistenza, come abbiamo avuto già occasione di segna-lare, ha respinto con orrore il socialismo.

L’anno scorso, nel suo congresso di Berna, ha respinto cla-morosamente il principio dell’uguaglianza economica. Oggi,sentendosi morire ma desiderando sopravvivere ancora un po’, ecomprendendo infine che nessuna esistenza politica è ormaipossibile fuori dalla questione sociale, si dice socialista. Omeglio, è diventata socialista borghese, il che significa che vuolrisolvere ogni questione economica sulla base della disegua-glianza economica. Essa vuole conservare l’interesse del capita-le e la rendita della terra e con questo pretende di emancipare ilavoratori. Si affanna a dar corpo al nonsenso.

Perché lo fa? Che cosa l’ha spinta a intraprendere un’operacosì incongrua e sterile? Non è difficile da capire. Una buonaparte della borghesia è stanca del cesarismo e del militarismoch’essa stessa ha fondato nel 1848 per timore del proletariato.Ricordatevi soltanto delle giornate di giugno, preannunzio dellegiornate di dicembre; ricordatevi di quell’assemblea nazionaleche, dopo le giornate di giugno, malediva e insultava all’unani-mità l’illustre e, si può ben dirlo, eroico socialista Proudhon, ilsolo che aveva avuto il coraggio di gettare la sfida del sociali-smo a quella mandria infuriata di borghesi conservatori, liberalie radicali. E non si deve dimenticare che tra coloro che insulta-vano Proudhon c’era un buon numero di persone ancora vive eoggi più militanti che mai le quali, con l’aureola delle persecu-zioni di dicembre, sono poi diventate martiri della libertà.

Non c’è quindi alcun dubbio che l’intera borghesia, ivi com-presa la borghesia radicale, abbia specificamente creato queldispotismo cesarista e militare di cui oggi deplora gli effetti.Dopo essersene servita contro il proletariato, a questo puntovorrebbe disfarsene. Niente di più naturale: questo regime laumilia e la rovina. Ma come fare per disfarsene? Una volta laborghesia era coraggiosa e forte, possedeva la forza derivataledalle sue conquiste. Oggi è debole e vile, afflitta dall’impotenzadei vegliardi. Ed è ben consapevole della propria debolezza, sache da sola non può nulla. Le occorre quindi un aiuto. Questoaiuto non le può venire che dal proletariato: bisogna allora con-ciliarsi il proletariato.

Ma come conciliarselo? Con promesse di libertà e di ugua-

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glianza politica? Sono parole che non impressionano più i lavo-ratori. Hanno imparato a proprie spese, hanno capito attraversouna dura esperienza che queste parole per loro significano sol-tanto la conservazione della schiavitù economica, spesso anchepiù dura di prima. Se proprio volete giungere al cuore di questimiserabili milioni di schiavi del lavoro parlategli della loroemancipazione economica. Non c’è proletario che non sappiaora come quella sia per lui l’unica base seria e concreta di ognialtra emancipazione. Bisogna quindi parlargli di riforme econo-miche della società.

Ebbene, si sono detti i leghisti della Pace e della Libertà, par-liamone, dichiariamoci anche noi socialisti.

Promettiamo loro delle riforme economiche e sociali a condi-zione però che siano d’accordo nel rispettare le basi della civiltàe dell’onnipotenza borghese: la proprietà individuale ed eredita-ria, l’interesse del capitale e la rendita della terra.

Convinciamoli che soltanto a queste condizioni, le qualid’altra parte assicurano a noi il dominio e ai proletari la schia-vitù, il lavoratore può essere emancipato.

Convinciamoli anche che per realizzare tutte queste riformesociali occorre prima fare una buona rivoluzione politica, esclu-sivamente politica, rossa quanto a loro piacerà dal punto di vistapolitico, con una gran tagliata di teste se ciò risultasse necessa-rio, ma con il massimo rispetto per la sacrosanta proprietà. Inuna parola una rivoluzione assolutamente giacobina che ci ren-derà padroni della situazione, e una volta padroni daremo ailavoratori quel che potremo e vorremo.

Abbiamo qui un indizio infallibile per mezzo del quale i pro-letari possono riconoscere un falso socialista, un socialista bor-ghese: se parlandogli di rivoluzione o, se si vuole, di trasforma-zione sociale egli sostiene che la trasformazione politica deveprecedere la trasformazione economica; se nega che queste deb-bano compiersi assieme o addirittura afferma che la rivoluzionepolitica dev’essere altra cosa della messa in atto immediata ediretta della liquidazione sociale piena e intera, gli voltino lespalle: è uno sciocco oppure un ipocrita sfruttatore.

L’Associazione internazionale dei lavoratori per mantenersi

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fedele al proprio principio e non deviare dall’unica strada chepossa condurla in porto deve premunirsi in special modo controgli influssi di due specie di socialisti borghesi: i partigiani dellapolitica borghese, ivi compresi anche i rivoluzionari borghesi, equelli della cooperazione borghese o sedicenti uomini pratici.

Consideriamo per intanto i primi.Abbiamo già detto che l’emancipazione economica è la base

di ogni altra emancipazione. Abbiamo riassunto con questeparole tutta la politica dell’Internazionale.

E in effetti leggiamo nei «considerando» dei nostri statutigenerali la dichiarazione che segue:

[...] Che l’assoggettamento del lavoro al capitale è la fonte di ogniservitù, politica, morale e materiale, e che perciò l’emancipazione deilavoratori è il grande fine cui dev’essere subordinato ogni movimentopolitico.

È quindi chiaro che qualunque movimento politico che nonabbia per obiettivo immediato e diretto l’emancipazione econo-mica, definitiva e completa, dei lavoratori e che non abbiainscritto sulla propria bandiera, in forma molto netta e chiara ilprincipio dell’uguaglianza economica, cioè l’integrale restitu-zione del capitale al lavoro, o anche la liquidazione sociale, èborghese e come tale dev’essere escluso dall’Internazionale.

Ne consegue che deve escludersi senza pietà la politica diquei borghesi democratici o socialisti borghesi i quali, dichia-rando che «la libertà politica è la condizione pregiudizialedell’emancipazione economica», non possono con quelle paroleintendere altra cosa da quanto segue: le riforme politiche, orivoluzione politica, devono precedere le riforme economiche, orivoluzione economica. E perciò gli operai devono allearsi aiborghesi più o meno radicali per fare con loro le prime, salvopoi fare contro di loro le ultime.

Protestiamo decisamente contro questa funesta teoria cheavrebbe il risultato di rendere ancora una volta i lavoratori unostrumento contro se stessi riconsegnandoli allo sfruttamento deiborghesi.

Conquistare prima la libertà politica non può significare altroche conquistarla prima da sola, lasciando ancora per qualche

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tempo i rapporti economici e sociali nello stato in cui si trovano,il che vuol dire: i proprietari e i capitalisti con le loro sfacciatericchezze e i lavoratori con la loro miseria.

Ma una volta conquistata questa libertà, si dice, essa serviràai lavoratori come uno strumento per conquistare più tardil’uguaglianza o giustizia economica.

La libertà in effetti è uno strumento magnifico e potente. Laquestione sta nel sapere se i lavoratori potranno concretamenteservirsene, se essa sarà realmente in loro possesso, o se, come èsempre accaduto finora, la loro libertà politica sarà semplice-mente un’apparenza, una finzione.

Un lavoratore al quale si venisse a parlare di libertà politicanella sua presente situazione economica non potrebbe cherispondere con il ritornello di una ben nota canzone:

Non parlate di libertà La povertà è schiavitù!

E bisogna essere effettivamente incantati dalle illusioni perriuscire a immaginare che un lavoratore, nelle condizioni econo-miche e sociali in cui oggi si trova, possa approfittare piena-mente, fare un uso serio e concreto, della sua libertà politica.Per far questo gli mancano due piccole cose: il tempo e i mezzimateriali.

D’altronde, non lo abbiamo constatato in Francia all’indoma-ni della rivoluzione del 1848, la rivoluzione più radicale che sipossa desiderare dal punto di vista politico?

I lavoratori francesi non erano certamente indifferenti, néstolti, e tuttavia, nonostante il suffragio universale più esteso,hanno dovuto lasciar fare ai borghesi. Perché? Perché eranosforniti di quei mezzi materiali che sono necessari affinché lalibertà politica divenga una realtà; perché sono rimasti schiavidi un lavoro forzato a causa della fame, mentre i borghesi radi-cali, liberali e perfino conservatori – gli uni repubblicani dallavigilia, gli altri convertiti il giorno dopo – andavano e venivano,si agitavano, parlavano e cospiravano liberamente, grazie albilancio dello Stato, che naturalmente era stato conservato, anziera stato rafforzato più che mai.

Si sa cosa ne è risultato: prima le giornate di giugno e dopo,

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come necessaria conseguenza, le giornate di dicembre. Ma, sidirà, i lavoratori, divenuti più saggi proprio in conseguenzadell’esperienza fatta, non invieranno più dei borghesi nelleassemblee costituenti o legislative ma vi invieranno dei sempliciproletari.

Poveri come sono i lavoratori riusciranno proprio a sostenereil mantenimento dei loro deputati! Sapete invece che cosa nerisulterà? Che i deputati operai immessi in condizioni d’esisten-za borghese e in un’atmosfera d’idee politiche completamenteborghesi, cessando d’essere lavoratori di fatto per divenireuomini di Stato, si trasformeranno in borghesi e forse sarannoperfino più borghesi degli stessi borghesi. Perché non sono gliuomini che fanno le posizioni, sono le posizioni che, al contra-rio, fanno gli uomini. E noi sappiamo per esperienza che glioperai divenuti borghesi spesso non sono né meno egoisti deiborghesi sfruttatori, né meno funesti per l’Internazionale deiborghesi socialisti, né meno vanitosi e ridicoli dei borghesinobilitati.

Qualunque cosa si faccia o si dica, fino a quando il lavoratorerimarrà immerso nel suo stato attuale non ci potrà essere per luilibertà possibile, e coloro che lo invitano a conquistare la libertàpolitica senza prima rivolgersi alle scottanti questioni del socia-lismo – evitando di pronunciare la parola che fa impallidire iborghesi: liquidazione sociale – gli dicono semplicemente:intanto conquista per noi questa libertà, affinché più tardi noi sipossa usarla contro di te.

Ma, si obietterà, questi borghesi sono bene intenzionati e sin-ceri. Non ci sono buone intenzioni e sincerità che tengano con-tro l’azione condizionante della posizione sociale e poiché,come abbiamo già detto, gli stessi proletari che si ponessero suun’altra posizione diverrebbero obbligatoriamente borghesi, amaggior ragione i borghesi che resteranno nella medesima posi-zione sociale resteranno borghesi.

Se un borghese, mosso da una grande passione per la giusti-zia, l’uguaglianza e l’umanità, vuole lavorare seriamente perl’emancipazione del proletariato, per prima cosa incominci aspezzare tutti i legami politici e sociali, tutti i rapporti d’interes-se e d’intelligenza, di vanità e di cuore, con la borghesia. Rico-nosca per prima cosa che è impossibile una riconciliazione fra il

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proletariato e questa classe, che vivendo dello sfruttamentoaltrui è la naturale nemica dei proletari.

Dopo aver definitivamente voltato le spalle al mondo borghe-se, venga allora a schierarsi sotto la bandiera dei lavoratori,sulla quale sono inscritte queste parole: «Giustizia, Uguaglianzae Libertà per tutti. Abolizione delle classi attraverso l’ugua-glianza economica di tutti. Liquidazione sociale». Allora sarà ilbenvenuto.

Riguardo ai socialisti borghesi e agli operai divenuti borghesiche venissero a parlarci di conciliazione fra la politica borghesee il socialismo dei lavoratori abbiamo un solo consiglio da darea questi ultimi: voltargli le spalle.

I socialisti borghesi si sforzano oggi di organizzare, conl’esca del socialismo, una formidabile agitazione operaia al finedi conquistare la libertà politica, una libertà di cui, come abbia-mo appena visto, approfitterebbe soltanto la borghesia; le massepopolari, giunte a comprendere la propria collocazione sociale,illuminate e guidate dai principi dell’Internazionale, si stannoeffettivamente organizzando e cominciano a rappresentare unavera potenza, non nazionale ma internazionale, non per fare gliinteressi borghesi ma i loro propri. E poiché anche per poter rea-lizzare quell’ideale borghese di una completa libertà politicasotto istituzioni repubblicane occorre una rivoluzione, e nessunarivoluzione può vincere senza la forza del popolo, occorre far sìche questa forza, smettendola di tirar fuori le castagne dal fuocoper i signori borghesi, non serva più d’ora in poi che a far trion-fare la causa del popolo, la causa di coloro che lavorano controtutti quelli che sfruttano il lavoro.

L’Associazione internazionale dei lavoratori, fedele al suoprincipio, non aiuterà mai un’agitazione politica che non abbiaper scopo immediato e diretto la completa emancipazione econo-mica del lavoratore, e cioè l’abolizione della borghesia in quantoclasse economicamente separata dalla massa della popolazione,né alcuna rivoluzione che fin dal primo giorno, dalla prima ora,non inscriva sulla propria bandiera la liquidazione sociale.

Ma le rivoluzioni non s’improvvisano.Non sono fatte in modo arbitrario né dagli individui né dalle

più potenti associazioni. Indipendentemente da ogni volontà e daogni cospirazione esse sono sempre portate dalla forza delle cose.

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Si può prevederle, presentirne talvolta l’approssimarsi, mamai accelerarne l’esplosione.

Convinti di questa verità ci poniamo la seguente domanda:quale politica deve seguire l’Internazionale durante quel periodopiù o meno lungo che ci separa da quella dirompente rivoluzio-ne sociale che tutti oggi presentono?

Astraendo, come glielo impongono i suoi statuti, da ognipolitica nazionale e locale, l’Internazionale darà all’agitazioneproletaria in tutti i Paesi un carattere essenzialmente economico.Per raggiungere i suoi fini immediati – la diminuzione delle oredi lavoro e l’aumento dei salari – organizzerà scioperi, costituiràcasse di resistenza, cercherà di unire i lavoratori in una solaorganizzazione.

L’Internazionale promuoverà i propri principi perché, essen-do questi principi la più pura espressione degli interessi colletti-vi dei lavoratori del mondo intero, essi sono l’anima e costitui-scono tutta la forza vitale dell’Associazione. E dunque bisognapromuoverli ampiamente, senza riguardi per le suscettibilitàborghesi, di modo che ogni lavoratore, uscendo da quel torporeintellettuale e morale in cui ci si sforza di mantenerlo, compren-da la situazione, capisca a fondo ciò che vuole e a quali condi-zioni può conquistare i suoi diritti umani.

E sarà necessario promuoverli in maniera ancor più energicae sincera in quanto nell’Internazionale stessa c’imbattiamo spes-so in influenze che, ostentando disprezzo per quei principi, vor-rebbero farli passare per una teoria inutile, sforzandosi di ricon-durre i lavoratori al catechismo politico, economico e religiosodei borghesi.

L’Internazionale infine si estenderà e si organizzerà conforza attraverso le frontiere di tutti i Paesi, di modo che quandola rivoluzione, prodotta dalla forza delle cose, scoppierà essa siauna forza reale che sappia ciò che deve fare e sia quindi capacedi guidare la rivoluzione e di darle una direzione veramentefavorevole al popolo; una seria organizzazione internazionaledelle associazioni dei lavoratori di tutti i Paesi capace di sosti-tuirsi a quel mondo politico degli Stati e della borghesia che sene va.

Chiudiamo questa fedele illustrazione della politica dell’In-ternazionale con la riproduzione dell’ultimo paragrafo del

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preambolo dei nostri statuti generali:

Il movimento che si sta sviluppando fra i lavoratori dei Paesi piùindustrializzati di Europa, nel mentre fa sorgere nuove speranze, dà unserio avvertimento di non più ricadere nei vecchi errori.

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Finito di stamparenel mese di aprile 2000

presso le Officine Grafiche Sabaini, Milanoper conto dell’Editrice A coop. sezione Elèuthera

via Rovetta 27, Milano

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