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Storie di vita per una cultura della memoria Upter - Università Popolare di Roma Questa narrazione ha ricevuto,nell’anno 2010, un premio speciale nell’ambito del concorso internazionale Armanda De Angelis AMANDA RACCONTA ARMANDA (pavimento di linoleum verde) Autobiografia raccolta da Annamaria Calore

Autobiografia raccolta da Annamaria Calore...Andrea Ciantar. Una volta acquisiti i necessari strumenti ho chiesto ad Armanda se voleva che io raccogliessi la sua autobiografia. Ripercorrere

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Storie di vita per una cultura della memoria Upter - Università Popolare di Roma

Questa narrazione ha ricevuto,nell’anno 2010, un premio speciale nell’ambito

del concorso internazionale

Armanda De Angelis

AMANDA RACCONTA ARMANDA (pavimento di linoleum verde)

Autobiografia raccolta da

Annamaria Calore

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Un mondo di storie (progetto ideato e curato da Andrea Ciantar)

L’autobiografia di Armanda De Angelis è stata raccolta dalla viva voce della protagonista

presso l’UPTER – UNIVERSITA’ POPOLARE DI ROMA nell’ambito del Progetto “Un Mondo di Storie” dalla raccoglitrice di storie personali e sociali

Anna Maria Calore

Un mondo di storie…….

Il nostro tempo ha visto diffondersi, nei diversi ambiti della società, un interesse verso quella che potremmo definire una “cultura della memoria”. Si percepisce, nel mondo intellettuale ed accademico, nel mondo associativo come anche nel senso comune, una sempre maggiore sensibilità verso la conoscenza e la conservazione delle memorie individuali. Esse sono viste come patrimonio importante per lo sviluppo della coscienza umana e civile di una collettività, per il legame che unisce indissolubilmente il presente e il futuro al passato; e le narrazioni individuali rappresentano, in questo, la concretizzazione di un sapere storico spesso astratto, lontano, oltre che una fonte impareggiabile di conoscenza di ciò che realmente sia il vivere umano. Nello stesso tempo si diffonde la coscienza di come le pratiche di narrazione e di racconto di sé siano occasione importantissima per l’individuo, di conoscenza e cura di sé, nonché di partecipazione al mondo.

Questo interesse per la memoria ha preso anche, tra le sue diverse espressioni, la forma di un agire verso la raccolta di storie individuali. Un agire spontaneo o organizzato, che muove dall’iniziativa del singolo o di gruppi, in prospettive che vanno da una dimensione di storia orale a quella di sostegno nelle situazioni di disagio, o nell’idea della conservazione e conoscenza di un patrimonio umano altrimenti destinato all’oblio… Anche l’Upter ha voluto, nel corso degli anni, dare un contributo in questo senso, dapprima attraverso il progetto“Mnemon-per un volontariato dell’autobiografia”, promosso dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, e successivamente provando a declinare un tale intento all’interno dell’ambito di interesse proprio di una istituzione come l’Upter, per sua natura dedicata alla diffusione della conoscenza e della cultura come occasioni di crescita individuale e sociale.

Certamente esistono, quindi, diverse motivazioni che spingono le persone a raccogliere e scrivere storie di altri, cosa che si rispecchia nelle diverse modalità in cui questo operare ha trovato forma. La proposta che nello specifico abbiamo maturato in questi anni, vede l’agire del biografo mosso, ad un tempo, da un intento di conoscenza e di impegno civile, come anche dal senso del valore di ogni vicenda umana. Un’opera volontaria, quindi, quella del biografo, che nasce dal desiderio di poter essere tramite per altri del beneficio che viene dal ripercorrere e ricostruire la propria storia; nonché dal desiderio di sottrarre all’oblio il patrimonio che ogni vicenda umana conserva, e che la narrazione rende visibile e condivisibile anche con altri. I biografi operano quindi per passione umana, sociale e culturale, nell’idea che le storie individuali possano contribuire alla creazione di una conoscenza condivisa e più vicina all’esperienza vissuta.

I narratori che abbiamo incrociato in questo cammino sono donne e uomini, di qualsiasi età, ceto sociale e condizione esistenziale, che si sono rivolti a noi, o hanno accettato l’invito a raccontarsi, per diversi motivi. Forse per il desiderio di ritessere la trama della propria esistenza, per provare a comprendere di più se stessi e il mondo, o anche per la volontà di lasciare ad altri traccia della propria vita. Essi hanno narrato

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storie che poi il biografo ha fatto diventar parola scritta, nel rispetto assoluto della storia narrata, come pure attraverso modalità tese a restituire, il più possibile, la vita che il narratore ha dispiegato ai loro occhi.

Dall’unicità che ogni storia rappresentava, e che si è rispecchiata nel percorso che narratore e biografo hanno compiuto insieme, abbiamo visto allora nascere parole e saperi, che però ci raccontano non solo di una singola esistenza, ma di un più ampio e molteplice vivere umano. Ecco perché ulteriore finalità del nostro lavoro diventa, sempre più, quella che le storie possano essere lette e conosciute da altri, che possano diventare stimolo per una maggiore coscienza e riflessione sull’esistere, nonché occasione di conoscenza di particolari aspetti del vivere, della storia, della società.

Andrea Ciantar

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PREFAZIONE di AnnaMaria Calore

VIA DEL CORSO 101 Quando lasciai il mio lavoro in banca, decisi di iscrivermi ad uno dei corsi dell’Università Popolare di Roma. Avevo scelto uno in particolare, intellettualmente intrigante che legava mitologia e musica classica. Suonai al citofono di Via del Corso 101, salii al primo piano e la riconobbi subito: Lo sguardo intenso che ti fruga dentro e quel modo di alzare la testa umile e dignitoso allo stesso tempo. Era lei, Armanda.

Baci abbracci, come stai?, Cosa fai?, spezzoni di vita trascorsa da raccontare a precipizio. Quasi a colmare di getto vent’anni. “Mia cognata è malata e allora so venuta io pe dà una pulita ai locali. Me pareva brutto lascià sporco!”.

Sì era sempre lei, Armanda che si rimbocca le maniche. Sia che si tratti di pulire le scale che se necessita risolvere qualcosa. Armanda coraggiosa ed altruista immediata eppure silenziosa. Partecipai a quel corso, poi ad altri finché approdai al laboratorio “Un Mondo di Storie” di Andrea Ciantar. Una volta acquisiti i necessari strumenti ho chiesto ad Armanda se voleva che io raccogliessi la sua autobiografia.

Ripercorrere la storia di Armanda è stato come ricomporre il puzzle di una storia comune. Quella di una generazione di donne, la mia, attraverso questo racconto.

Un racconto emblematico, sia per le condizioni di partenza che per il suo contenuto di emancipazione e liberazione.

Perché il sottotitolo “pavimento di linoleum verde”? Perché mi aveva colpito, durante le registrazioni dal vivo, il particolare della descrizione del pavimento nella sua baracca. Linoleum perché era impermeabile e la difendeva dall’umidità del terreno; verde perché era il colore della speranza. La speranza di avere finalmente una casa vera.

Il racconto della vita di Amanda mi ha colpito anche per due aspetti. Il primo quello degli elementi politici che lei continuamente mi poneva innanzi: date, luoghi, nomi, eventi. Ma Armanda non sembrava mettere, più di tanto, le sue emozioni profonde in quegli eventi. Come se la sola “azione politica” bastasse a comprendere e a dare voce pubblica alla sua storia. Usava, nel raccontare, uno stile personalissimo; a volte distaccato, a volte irruente con coloriture particolari nel linguaggio; un misto di spontaneità popolare e di lungo lavoro d’espressione, che ho cercato di mantenere anche nel testo scritto. Poi, quando sollecitata, ha iniziato a narrare di sé, della sua famiglia, dei suoi amori, ha pian piano preso ad emergere la sua emotività profonda, autentica, ricca. Anche se complessa e conflittuale. E così l’Armanda “pubblica” da una parte, quella “privata dall’altra”, si sono ricongiunte nell’esperienza che ha contribuito fortemente al confluire ed a far riconoscere le sue anime.

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L’esperienza della costruzione dell’Università Popolare dove Armanda è stata ribattezzata Amanda. Il suo incontro con i saperi, e con le esperienze personali viste come valore.

L’UPTER, un luogo dove lo spazio culturale non è solo appannaggio di pochi, ma è accessibile a tutti ed a qualsiasi età. L’unico presupposto indispensabile è quello della voglia di rimettersi continuamente in gioco. Il luogo dove Armanda/Amanda ha potuto, ieri come oggi, esprimere la propria potente vitale necessità di cambiare le cose in meglio. Con tutta se stessa e con il suo linguaggio spontaneo, valore integrante del suo racconto.

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Iata vende, iata vende, iata vende Iata forte, iata chiane

Iata dopp’ comm’vuè ma iata vende porta belli sendemende

na jatagghie pe ‘ngun’une ma iata po tutte pè li buene e pe li brutte

ca tutte po’ nascime da cudde frutte, ca iè l’amore, ca iè l’amore, ca iè l’amore

ca po cangià po tutte

(soffia vento, soffia vento, soffia vento soffia forte, soffia piano

soffia come vuoi, ma soffia vento porta bei sentimenti

non soffiare solo per qualcuno, ma soffia per tutti, per i buoni e per i disonesti

perchè tutti nasciamo da quel frutto che è l’amore, che è l’amore, che è l’amore

che può cambiare tutto)

Tonino Zurlo

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UN CERCHIO CHIAMATO HULA HOP (Amanda inizia a raccontare Armanda)

Ho come un vuoto nella memoria dai sei anni all’adolescenza. Dormivo tra mi madre e mi

padre e me ricordo parole a voce bassa e concitate, lamenti. Forse lui la picchiava, forse voleva prenderla per forza quando tornava a casa ubriaco e forse lei si ribellava. Me ricordo solo quelle voci alterate, implorazioni, sussurri smarriti, null’altro.

Mi madre, Iolanda Rosa, era stata una bella ragazza e faceva la cassiera in un negozio di

alimentari già da giovanissima. Come facesse la cassiera nun lo so, visto che era analfabeta. Il padrone del negozio, je faceva la corte, ma lei nun lo voleva. Je piaceva un altro ragazzo, Guido, quello che poi è diventato mi padre. Lui entrava pe fà la spesa perché era capofamiglia, doveva da pensà a la madre e ai fratelli. La mamma era inferma da tanti anni, e in casa accudiva e se faceva carico tutto lui. Anche per questo era diventato un bravo cuoco. Comprando oggi e comprando domani le cose da mangiare, nel negozio dove mamma lavorava, lui guardava sempre più spesso mi madre che era bella. Io però, penso che mi padre era più bello de lei.

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Cominciarono a vedesse tutte le volte che era possibile, s’amavano e mamma se ritrovò

incinta a 17 anni. Se n’accorse quando lui era già stato richiamato e mandato come cuoco, in Albania. Nel 1937 è nato mi fratello Alberto. Chissà quanto avrà penato mamma mia. Poi se sposarono, appena fu possibile. Sento ancora nell’orecchie la voce de lei che, quando litigavano, diceva: “chi me lo ha fatto fà de pensà a te! Me potevo innamorà del padrone del negozio e sarei stata una signora”.

Però era una donna piena di iniziativa e quando papà portava a casa, dai mercati generali dove lavorava, le cassette de frutta, lei s’organizzava per venderla. Io e mia sorella portavamo la cassetta co le frutta e lei la bilancia. I fruttaroli di Tiburtino Terzo ce criticavano, ce l’avevano con noi che facevamo prezzi più bassi. Ma lei regalava pure la frutta appena appena tocca. Co la frutta poco rovinata, se poteva mette insieme una bella macedonia pe i ragazzini, senza che costasse niente. quindi parecchie famiglie preferivano comprare da noi. Tutti l’aspettavano, nel caseggiato, e le chiedevano: “Sora Iolanda quando passa?”.

I soldi guadagnati così, lei se li teneva e mi padre non trovava niente da ridire. Era aperto mentalmente, non era prepotente in questo. Lui era un grande compagno, un comunista vero ed era colto, a modo suo. Aveva pure un titolo de studio e io non ho mai saputo quale. Come non so come se chiamavano i miei nonni che dovrebbero stà sepolti al cimitero di Campo Verano. Non si parlava di queste cose a casa, non sembravano cose importanti da sapè . E solo adesso m’accorgo quanto me mancano queste informazioni, la storia della famiglia.

Ce l’ho un po’ con i miei; padre, madre, fratelli più grandi. Che non m’hanno trasmesso niente delle radici mie. Mi madre, poi, non te faceva uscire, ci proibiva tante cose. Controllava tutto, aveva paura che ci inguaiassimo con i ragazzi, parlava sempre dell’importanza di arrivare vergini al matrimonio. Io ero paurosa, spaventata, timida. Papà no, lui era disponibile. Volevi andare a ballà? Se lo chiedevi a lui te diceva di sì, se lo chiedevi a lei, te lo potevi sognà il ballo.

Eravamo in tutto, nove figli. Veramente mamma ne aveva partoriti dieci de figli, ma una sorella era morta da piccola in modo drammatico. Te la vojo raccontà stà storia tremenda. Fiorella, se chiamava stà sorellina mia e ciaveva 5 anni quando è morta. E’ stato quando la guerra stava a finì. Lei giocava con due amichetti, due gemellini dell’età sua, sul prato a Tiburtino Terzo. Mamma era andata dal fotografo a ritirà la foto, proprio quella de Fiorella.

Perché Fiorella era bellissima, aveva i capelli biondi, tutti a boccoli. Mamma stava a tornà a

casa e, mentre stava attraversando il prato, se sente un botto terribile. Era successo che i tre regazzini, avevano trovata una specie de pignetta, hanno cercato d’aprirla con un sasso, ma quella è esplosa, perché era una bomba. I due gemellini so morti sfracellati. Fiorella no, pareva nun avesse niente. Invece una scheggia le aveva bucato l’intestino ed è morta in ospedale. La monaca del reparto ospedaliero, pe preparà mi madre alla brutta notizia, le disse in questo modo: “Signora, se prepari a vedè un angioletto, così è diventata la pupa sua, bella, col visetto sereno, se ne è andata in paradiso con gli angeli .”

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A mamma rimase quell’unica foto della figlia, e un dolore terribile nel cuore. Poi nacque un’altra bambina e la chiamò Fiorella anche lei, come quella che nun c’era più.

I miei, chiesero i danni di guerra per questa morte assurda. Arrivarono quasi trent’anni

dopo, una cifra irrisoria, motivata dal fatto che si trattava di una femminuccia. I genitori dei due gemellini uccisi, ebbero molto di più per ogni figlio. I miei chiesero spiegazioni, e fu detto loro che perdere due figli maschi, voleva dire perdere quattro braccia che avrebbero lavorato e portato i soldi a casa. Una femmina no, non poteva valere altrettanto. Come se il sesso di appartenenza potesse fa la differenza davanti alla perdita de una creatura!

Così siamo cresciuti in una famiglia di 11 persone nove figli più mamma e papà.

Noi figli, abbiamo cominciato a lavorà tutti presto ed eravamo tutti freddi di carattere, chiusi nell’esprime i sentimenti. Non eravamo stati abituati a lasciarci andare quanno volevamo bene. Io ero un po’ la cocchetta de mi padre. Forse perché nun litigavo mai. Da bambina mi tenevo tutto dentro e nun chiedevo nulla. Gli altri ragazzini ricevevano i giocattoli a regalo, noi vestiti e scarpe perché eravamo tanti. Ricordo che una volta vidi una ragazzina, amica mia, che giocava co l’hula hop. Ho chiesto se me lo prestava solo per un momento. Volevo sentì cosa se provava lasciando girare quel cerchio intorno alla vita. Lei me disse “no!” con lo sguardo cattivo. E io ce so’ rimasta così male, che da quel giorno non ho chiesto più nulla a nessuno.

Ho cominciato a lavorare presto, come tutti i miei fratelli e sorelle. Cominciai in una fabbrica che era a viale Giulio Cesare in una azienda manifatturiera, nel quartiere Prati. Era il 1963 ed avevo 14 anni.

Ero piccola, non ero nemmeno donna ancora. Ero tanto innamorata dei fratelli D’Inzeo, i cavalieri che gareggiavano al galoppatoio. M’ero innamorata de tutti e due e non perdevo occasione pe vedelli ai salti a ostacoli in groppa a bellissimi cavalli. Me piacevano anche le operette che davano in quel periodo in televisione, e anche le commedie musicali come quella di “Rinaldo in Campo”, co Modugno e Delia Scala

Incominciai così a lavorà facendo la garzona e, piccola com’ero me presero a fà la ragazzina

de bottega. Andavo a piglià il caffè, il pane, aiutavo le macchiniste. Perché noi facevamo gli scivoli per i pompieri e le tende da campeggio per i militari. Quand’ era inverno, quella stoffa diventava dura come il ghiaccio. Aiutavo a tirà la stoffa sotto la macchina da cucire. Quel tessuto, duro come era, faceva fatica a passare, e le donne alle macchine, si nun stavano attente, rischiavano de rompe l’ago o di impicciare il filo.

Dovevamo capisse al volo, con gli occhi. Loro che cucivano e noi ragazzine che tiravamo la

stoffa: -Vado?- - sì, tira adesso, ma più piano de prima!- - va bene così? – - no, un po’ de ppiù –

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A quella età facevo un lavoro piuttosto pesante. La mattina uscivo presta da casa, assieme a mi cugina Liliana, prendevamo il “309” che da Tiburtino Terzo andava alla Stazione Tiburtina. Lì un altro autobus ce portava proprio a due passi dalla ditta dove lavoravo. Il biglietto costava 10 lire prima delle sette e 30 lire dopo le sette. Noi cercavamo de prenderlo prima delle sette così ce rimaneva qualche lira pe compracce tre sigarette sciolte, fuori dal pacchetto.

Me ricordo che mi madre ce preparava i panini co la frittata, er tonno, la verdura, che quando li tiravi fori a pranzo, ciavevano la carta tutta oliata. Ma quanto erano bboni quei panini! Il sabato se lavorava mezza giornata e la domenica i fratelli miei andavano a ballà nei garage co la comitiva. Io no, ero piccola fisicamente nun dimostravo l’anni che avevo. Ne avevo 15 o sedici e ne dimostravo si e no 11, de anni. Nun me se filava nessuno. Allora andavo al cinema co l’amichette mie, al Supercine, a vedere i film d’amore. A ballà ce so’ andata più tardi, e sarà perché l’ho desiderato tanto, che ancora oggi adoro ballo e musica.

Tra l’altre cose che me toccavano sul lavoro, facevo le consegne insieme al capo reparto. Se

chiamava Angelo e, alle nuove arrivate, faceva fare quello che chiamavamo “ l’accompagno in macchina”. Significava che la ragazza andava co lui a consegnare la merce, e aspettava in macchina mentre lui scaricava il materiale ai clienti. Se per caso arrivavano i vigili urbani, doveva chiamarlo perché spostasse l’auto per evità la multa. Io ero contenta di fare “l’accompagno” anche perché co Angelo, me trovavo bene, me aprivo, gli raccontavo cose che a casa non avevo mai detto.

Era un uomo molto più grande di me, 21 anni in più, e io mi confidavo con lui , approfittando di quando eravamo fuori dal posto di lavoro. Parlavo, parlavo e lui me stava a sentì, me dava consigli. Più tardi, molti anni dopo, uno psicologo m’ ha spiegato che era stata la necessità di una figura paterna, a farmi comportare così

Un giorno, un sabato mattina, lui me invitò ad andare insieme al mare ad Ostia e poi a

prendere un gelato da “Sisto” famoso per il gelato buono. Al ritorno, sulla via Ostiense, accostò la macchina al bordo della strada e cominciò a volermi prendere dappertutto. Quando stava pe raggiunge il suo scopo, io mi sono messa ad urlare. Ero spaventatissima perché era la prima volta che mi trovavo in quella situazione. Ma lui me voleva, me voleva e s’ è fermato solo quando io ho avuto una terribile crisi de pianto. Mancavano quattro mesi al compimento dei miei 18 anni. Ora posso dire che quello che allora era il mio capo reparto, ha tentato di violentarmi. Io non avevo neppure immaginato de corre un rischio del genere, nessuno m’aveva messo sull’avviso. Sì, mi madre me parlava della verginità che andava protetta, ma consigli concreti, esempi, non me l’aveva mai dati. Ne rimasi sconvolta e spaventata. Poi, sono diventata la sua amante. Lui era già separato da più di 20 anni, viveva co n’altra donna da tanto tempo, ma io ho continuato a frequentarlo legata da qualcosa che era più forte di me. Consideravo la vita mia ormai segnata da quel tentativo di stupro. Me consideravo ormai de sua proprietà.

Confonnevo la sua voglia di avermi per amore. Non interrogavo i miei sentimenti, non me chiedevo se volevo davvero questa storia né cosa volessi io dall’amore. Avevo troppo bisogno d’affetto, de sicurezza, d’un riferimento adulto, de chi se pigliasse cura di me.

Non cercavo altro, allora.

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Co la storia dell’importanza della verginità, io pensavo ormai d’esse rovinata. Pensavo che se qualcuno me fosse piaciuto, sapendo quello che m’era successo, m’avrebbe solo voluto prendere. Così ho seguitato a vedermi con lui e a farci l’amore, m’ero molto affezionata. Mia madre e mia sorella me facevano le cacce, m’umiliavano, dicevano cose molto brutte. Io vivevo questa storia in maniera conflittuale e sofferta.

Angelo, però, aveva intenzioni serie. S’era innamorato davvero, a modo suo. Venne a parlare con i miei genitori, aspettava il divorzio, lottava per il divorzio ed aveva anche raccolto le firme. Così dopo l’uscita della legge e il suo divorzio, ci siamo sposati in Comune di Roma. Questo matrimonio, per me, fu una sorta di “regolarizzazione” di fronte alla mia famiglia e di fronte alla gente. In fondo vivevamo già insieme da tanto tempo. Dopo tutto quello che m’avevano rovesciato addosso i miei contro questo legame, me sentii vincitrice.

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…..scapricciatiello mio, vatténne â casa si nun vuó' jí 'ngalèra, 'int'a stu mese" comme te ll'aggi''a dí ca nun è cosa?!

chella nun è pe' te... chella è na 'mpesa! che vène a dí ch'è bella cchiù 'e na rosa si po' te veco 'e chiagnere annascuso?

Lássala, siente a me, ca nun è cosa!

Tu, p''a bionda, si' troppo onesto: chella è fatta pe' ll'ommo 'nzisto alluntánate 'a 'sta "maésta"

ca te pierde, figlio 'e mammá...

(Aurelio Fierro )

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MIO PADRE

Mi padre l’ho incominciato a capì dopo ch’è morto. Era un bell’uomo, aveva i baffi e tutti lo

chiamavano “bellibaffi”. Era iscritto al Partito Comunista Italiano. E stato comunista da sempre, iscritto alla C.G.L anche quando era pericoloso. Era un uomo valido e generoso benvoluto dai colleghi de lavoro e tra la gente de Tiburtino Terzo. Purtroppo giocava a carte e beveva. E questa, è stata la sua croce, e la nostra. Lavorava ai Mercati Generali, era un facchino del Comune di Roma con il numero 212. Ce teneva a quel numero e, quando fu licenziato, passò a mio fratello Claudio, che presero a lavorà al posto suo.

Era sempre stato un gran lavoratore, anche perché a casa eravamo 11 persone, fino a che l’alcol non lo rovinò. Amava il lavoro suo, ma negli ultimi tempi, col fatto che beveva, sbagliava troppo spesso la destinazione dei carichi di frutta. Così succedeva che, dai Mercati Generali, invece di mandare un carico al mercato rionale di Monteverde, lo mandava a quello di Primavalle. Nun è che mandava un carico in più o in meno, invertiva solo i cartellini. I clienti cominciarono a lamentasse. Così i dirigenti l’hanno dovuto licenzià. Papà prese a bere sempre de ppiù, pe la disperazione, nun se rassegnava a stà senza lavoro. La pensione poi, tardava e in famiglia ce la siamo passata proprio male. Noi figli davamo i nostri guadagni a mamma pe mandà avanti la casa. Io davo tutto, pure mia sorella Fiorella dava tutto quello che guadagnava. Giuliana quasi tutto, i maschi quasi niente e siamo andati avanti così. Dopo una vita de lavoro ai Mercati Generali, mio padre prendeva 600 mila lire de pensione. Lo so perché portavo io mamma agli sportelli delle poste di piazza Bologna a ritirarla.

Mi padre se ne stava a casa e usciva solo pe andà all’osteria. Poi tornava o da solo, co le gambe sue, oppure lo accompagnavano. Se n’andava in camera, se metteva a letto e cominciava a fischià. E chiamava “ahooo, ahoo” e poi cominciava a cantà: “scapricciatiello..... scapricciatieeeeeee…………….” e se fermava su sta eee, che ne so, cinque, sette minuti e noi a ride. Che glie potevi fà, era così dorce, così tenero. Glie prendeva così quando stava in quelle condizioni.

Però c’erano anche momenti in cui stava proprio male. Tentammo pure de ricoverarlo, al Santa Maria della Pietà, a Colle Cesarano, ma poi ce lo riportavamo a casa. Erano posti troppo brutti pe lui che ce stava ancora co la testa. Lo capiva da solo quello che gli stava a succede. Diceva pure: “ me dovete da cambià er sangue, me dovete fà levà l’alcool che me gira dentro le vene. Questo dovete da fà, e no rinchiudeme qui dentro”. Allora lo riportavamo a casa, lontano da quei posti pieni de gente che soffriva, anche se sembravano allegri. Avevano lo sguardo perso, e volevano da te solo una sigaretta. Io il pacchetto je lo regalavo tutto, a quei poveretti anche se non avrebbero dovuto fumà. Lui, tornato a casa, riprendeva a bere come sempre. La mattina noi non lo vedevamo perché uscivamo tutti presto alle 6 e mezzo da casa per andare a lavorare. Poi, quando tornavamo la sera lui stava all’osteria e ce rimaneva fino a tardi.

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Insomma, sto rapporto con mio padre non c’era proprio. L’ho scoperto dopo ch’è morto, quanto fosse un uomo di valore, coraggioso ed altruista. Mia madre mi raccontava che quando a Tiburtino c’era il gerarca, mio padre non ha mai voluto fà il saluto fascista. Era obbligatorio, ma lui non lo faceva. Così più di una volta s’è beccato botte e olio de ricino. Tornava a casa pesto e dolorante, ma il saluto non lo faceva lo stesso. Quando Mussolini, volle creare na Roma monumentale, assieme all’architettura fascista fece costruire Tiburtino Terzo. Siccome pe ’sta Roma monumentale je servivano le strade larghe, fece abbattere le case della gente che abitava nei posti storici. Mandò i romani di Porta Metronia, de Borgo, de via dei Fori Imperiali, nelle periferie.

E così, anche mi madre che era nata a Porta Metronia, se ritrovò a Tiburtino Terzo. Era

obbligatorio tenere la foto incorniciata del Duce nelle case, in bella vista, in cucina dove se mangiava. Mi madre tirava le cocce de patate a quella foto, ce sputava sopra, per la rabbia de quello che i fascisti facevano a mio padre. Più tardi anche mia sorella Teresa che lavorava alla ditta delle pulizie presso la Selenia ebbe dei guai sul lavoro. Perché aveva il padre comunista e la licenziarono con una scusa. Eravamo tutti schedati.

Papà, pur avendo vissuto sulla prima pelle tutte queste prepotenze politiche sia nei suoi confronti che verso mia sorella, non raccontava niente a noi figli più piccoli. Forse agiva così per proteggerci. Comunque, non cià mai raccontato nulla di quello che era, che era stato, né di quello che aveva fatto ai Mercati Generali, come pure a Tiburtino Terzo, dove aiutava tanta gente. M’hanno dato de ppiù, in termini de capì la vita, le centinaia forse migliaia di persone che ho incontrato sulla mia strada, che non gli anni passati a casa con i miei. Una guida vera e propria non ce l’abbiamo avuta noi fratelli e sorelle. Lui, mio padre, nun c’era mai. Mia madre non c’istruiva sui pericoli della vita, come pure non ce dava consigli su come conveniva salutare la gente, come bisogna fà per ottenere delle cose dall’altri . Era troppo occupata, con i tanti figli, la casa, i soldi che nun bastavano e un marito che beveva. Sono cresciuta praticamente da sola. Ho imparato presto a corre nella vita, senza che nessuno m’avesse preso per mano pe ’nsegnamme a camminà. Anche il sapere quando una ragazza diventa, diciamo così, grande ovvero quando diventata donna m’ è stato taciuto. Tutto quello che me stava per succede, l’ho saputo da una operaia dove lavoravo, a viale Giulio Cesare. Perché mia madre a nessuna di noi sorelle cià detto come accadeva e perché. Mio padre, poi, l’ho visto sempre così poco e ce riuscivo a parlà ancora meno. Neppure la domenica quando cucinava, perché era un bravo cuoco e preparava lui il pranzo. Cucinava, ma poi basta, non se parlava. Non c’era dialogo. Magari ci fosse stato. Io l’esperienze che aveva fatto, quello che nella vita gli era successo, non l’ho saputo dalla bocca sua. Io l’ho sapute da mia madre dopo che è morto. Tutto il bene che ha fatto nel quartiere, tutto l’aiuto che ha dato ai compagni di lavoro.

Questo è un grande rammarico che me porto dentro. Ce l’avesse fatto capire prima che uomo era e che era capace di fare! Che ne so, magari se solo se fosse fermato un giorno in cucina,

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dopo mangiato, se ciavesse radunato a noi figli intorno a lui e ciavesse detto, “figli miei sapete cosa m’è successo quando c’era il fascismo……” oppure “ ve voglio raccontà de quando sul lavoro. ….”. Niente, questo non è mai accaduto, mai. E tutta ’sta rabbia che ciò sempre io, sto bisogno d’aiutamme aiutando l’altri, me viene dal bisogno d’esse ascoltata e de ascoltà. De nove figli, solo io so’ riuscita così, tutta lanciata sul sociale. Mica che l’altri fratelli e sorelle non ce l’hanno avuti i loro problemi. Se papà se fosse fermato qualche volta co noi, ciavesse trasmesso qualcosa de suo, dell’esperienza sua, forse anche l’altri fratelli avrebbero scelto de impegnasse ad aiutare se stessi e l’altri. Me fa ancora soffrì tanto che, tutti i fatti della vita di mio padre, me l’hanno raccontati mia madre e mio fratello Alberto il più grande. Quanto me sarebbe servito sapere qualcosa di più su di lui, per capire meglio anche me stessa. Se a noi figli, un pomeriggio invece de andà all’osteria, ci avesse detto “ Oggi voglio raccontavve de quando ero giovane e m’hanno mandato in guerra” oppure “ durante il fascismo m’hanno perseguitato”. Non sarebbe stato bello? Non sarebbe servito a facce capì che ce voleva bene e ce voleva insegnà qualcosa?

E invece no. Lui l’esperienza sulla pelle sua, se l’è tenuta tutta per sé. La rabbia che ciò io è che era un uomo così bello, un uomo alto, elegante e io lo adoravo. Anche se era caduto nella trappola dell’alcool. Ma lui nun me l’ha mai dimostrato apertamente l’affetto. Lavorava, mangiava co gli amici, il pomeriggio all’osteria e poi , quando tornava se buttava sul letto. Però, sul letto, je pigliava in bono. Stava tre ore a cantà e tu ridevi, perchè era così debole, era così indifeso, come na creatura. La rabbia mia è che gli ho voluto così bene, così bene! E lui nun m’ ha mai voluto raccontà la storia sua!

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LAVORARE IN FABBRICA

(Armanda e le sue compagne di lavoro)

..ieri sera comparve una stella d’oro con un piccolo ago in mano che cuciva

si vedeva solo la piccola mano da tre giorni intrecciava rose

e appendeva capelli con capelli…… una fontana nacque

(da Malicanti – registrazione musicale per il circolo “G. Bosio)

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IL SOGNO MIO…..LAVORARE IN FABBRICA

Intanto, ero comunque cresciuta, ero diventata donna. Vivevo con Angelo e cambiai anche

lavoro, lasciando la fabbrica di teloni di viale Giulio Cesare. Mi presero a lavorà al Biscottificio Cipriani di piazza Vittorio e poi, mia sorella Fiorella, me fece entrà in una azienda metalmeccanica a via Lattanzio dove già lavorava lei. Fui messa alle presse che allora erano a pedali. Facevo dei blocchetti de lamierini, senza guanti, senza niente perché allora non se usava. Ma un brutto giorno me so’ schiacciata un dito dentro la pressa. Fu un’esperienza molto brutta! M’hanno portato al pronto soccorso che urlavo dal dolore. In ospedale ho dovuto dì che m’ero schiacciata il dito nello sportello dell’automobile; così m’hanno detto di dire e così ho detto. A quel tempo la sicurezza sul lavoro, il diritto alla tutela dagli incidenti, era ignorata, e solo dopo tanto tempo capii l’ingiustizia che avevo subito. Nonostante questo, nun stavo così male in quella Ditta. Però io in testa tenevo un sogno, quello di entrare alla Voxson, dove già lavorava un’altra mia sorella. Era na fabbrica vera, ed io desideravo tanto lavorare lì. Per me voleva dì esse n’operaia vera, adulta, in una fabbrica grande ed importante. Non più una garzona apprendista oppure n’operaia generica. Ci ho provato più de na volta ma niente da fare non assumevano oppure cercavano altre figure professionali. Poi finalmente nel 1970 ho saputo che assumevano operaie. Ho riprovato, ho fatto il colloquio, è andato bene, m’ hanno detto: ”lunedì puoi attaccare a lavorare”.

Io sento ancora i brividi al pensiero de quanto ero felice! Perché finalmente entravo nella fabbrica che avevo sempre sognato, la fabbrica dei miei desideri. Era il 10 ottobre 1970 e per anni ho ricordato quella data come e mejo de’n compleanno. La Voxson era su via di Tor Cervara, sulla Tiburtina andando fuori Roma e stava in due grandi stabilimenti. Uno era rotondo, dove se facevano l’autoradio e i giradischi. Ai piani alti c’erano gli uffici amministrativi e sotto le officine meccaniche e il montaggio. Nel capannone nuovo se facevano i televisori. Chi montava un pezzo, chi n’altro. E poi c’era il collaudo. Io lavoravo lì alla linea a catena, a cottimo. Costruivamo trasformatori e, pe rispettà il cottimo, invece de otto ore de lavoro ne facevamo 10. Quando se lavora a catena, te devi organizzà co tutti. Alle 10 e mezza, eravamo d’accordo per un quarto d’ora de riposo. S’andava al bagno, se fumava na sigaretta, e il quarto d’ora era già finito. Ce so volute le lotte per una parte di autonomia di lavoro assegnata a ciascun operaio. Questo nel 1973.

Quando so’ entrata in Voxson abitavo, insieme ad Angelo, a Via delle Medaglie d’oro. Prendevo i mezzi pubblici, per andare al lavoro e uscivo alle 6,30 pe sta lì alle 8. Se timbrava il cartellino e all’entrata, c’era la sorvegliante che controllava le operaie. Se arrivavi in ritardo, lei te segnava la multa. C’era la mensa, grandissima dove se mangiava bene, co molte scelte di cibo. Avevamo i buoni pasto, altra conquista, e io me portavo via anche la cena pe quando tornavo a casa stanca. Costava così poco la roba a mensa!

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Se lavorava insieme, si mangiava insieme, ci sentivamo uniti nel lavoro e nelle lotte. La fabbrica è stata pe me una grande esperienza di vita, la più grande.

Ecco, lo vedi il tesserino della Voxson, me lo tengo caro, non lo butterei mai via. Lavorare in una fabbrica come quella è stata pe me una svolta.

Perché io ero una persona donna che avevo sempre dato tutto alla famiglia. La spesa, la

casa, una gioventù difficile. Avevo subìto prepotenze sul lavoro, mio padre non aveva potuto esse un padre a tutti gli effetti perché era alcolizzato. Se penso a quando mi chiamavano pe dimme: “Viette a piglià tu padre che non se regge sulle gambe”.

E ce toccava andare all’osteria dove lui aveva ancora bevuto troppo. Ormai al posto del sangue aveva l’alcool e bastava anche solo un goccio di vino per ubriacarlo del tutto! Eppure era un uomo bello e generoso. Era una sofferenza vedello in quello stato.

Ma in quel periodo ero soddisfatta. Finalmente ero stata assunta alla Voxson. Cominciavo anche a pensare ad un figlio e rimasi incinta. Questa gravidanza non era però normale, me gonfiavo, me gonfiavo troppo velocemente. Io pensavo fosse tutto regolare, in fondo ero incinta. Ma un giorno sull’autobus mentre andavo a lavorà, me presero dei dolori atroci. Tutto quel giorno e quella notte stetti malissimo. Me ricoverarono ormai in coma. All’ospedale arrivai quasi morta con appena il fiato per dire quale era il mio gruppo sanguigno. Era una gravidanza extra uterina con emorragia interna. M’operarono, me tolsero un’ovaia ed una tuba e mi salvai. I miei familiari, in questa fase drammatica, si riavvicinarono a me. Accettarono la mia scelta di vivere con Angelo. A me rimase il desiderio, assieme alla paura, di avere un altro figlio.

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“ Ho faticato tanto per fare un castello…. Una volta costruito era molto bello

Ma le chiavi mi son sparite dalle mani Rimasi come un pittore senza pennello”

(Valentino Santagati registrazione originale di Sandro Portelli nel marzo 1970 durante l’occupazione del Campidoglio da parte dei baraccati)

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BARACCHE (pavimento di linoleum verde)

Avevo comprato una “baracca” a poca distanza da Tiburtino Terzo, dove abitava mia madre.

L’avevo presa perché avevo avuto lo sfratto. Non per morosità, ma pel motivo che la casa dove stavo serviva alla proprietaria per suo figlio che se stava sposando.

Angelo, stette malissimo per questa faccenda. Fino al punto di tentare il suicidio. Si chiuse in bagno. Io lo chiamavo e lui non apriva. Quando finalmente riuscimmo ad aprire la porta, lo trovammo con le vene dei polsi tagliate. Poi ebbe una profondissima depressione. Su consiglio del medico, lo convinsi a fà una lunga cura del sonno. A gran fatica si riprese.

E’ stato anche per questo motivo che ho capito la necessità de damme da fà, de

’nventamme qualcosa pe cercà de risolvere la questione della casa. Per me e per gli altri nella stessa situazione. M’ero accorta che eravamo in tanti. Gente normale, lavoratori che non ce la facevano a comprassela una casa e, in affitto, non se trovavano. A Roma il problema della casa era pesante. Una volta fatta la scelta della baracca ho conosciuto anche gente umanissima , persone che non scorderò mai. Di loro ho dei ricordi bellissimi, tra i più belli della mia vita. Io nella baracca avevo messo il linoleum verde per terra. Ciavevo la bacinella de plastica per lavamme. L’acqua l’andavo a prendere alla fontanella pubblica e per bagno c’era un orinale. L’armadio era fatto con un bastone dove attaccavo le stampelle coi vestiti.

La mattina uscivo presto, passavo a casa da mamma pe damme n’aggiustata. Poi da casa sua prendevo l’autobus per andare alla Voxson, dove arrivavo presentabile e nun sembravo una baraccata. De quel periodo ricordo un odore particolare. D’inverno, c’era nell’aria il fumo delle stufe a legna tra le baracche che t’entrava nelle narici e ce rimaneva tutto il giorno. E fango, tanto fango. Te s’appiccicava alle scarpe. La mattina, quanno uscivo, c’era l’odore del caffè della gente che se svegliava e ’ncominciava un’altra giornata. La baracca poteva pure avere il tetto di lamiera, ma dentro e tutt’intorno, ce pulsava vita vissuta. La baracca, pe chi ce abitava, rappresentava il passaporto per una casa vera. C’era gente de tutti i tipi nel borghetto. Me ricordo “La Boccalona” che non era bella, anzi era piuttosto grossa e sformata. De mestiere faceva la “venditrice d’amore” e il nome faceva capì quale tipo de amore. La zona dei potenziali clienti era quella della stazione Termini. Ma lei stava a Termini anche per n’ altro motivo; aspettava i treni che venivano dal Sud, e quando vedeva scende le ragazze che s’apprestavano a prende una cattiva strada, je dava i soldi del biglietto de ritorno e diceva: “ Tornate a casa vostra, tornate al paese. Sta vita è brutta e voi non dovete fà la fine mia!”. Ne ha salvate tante che indecise e spaventate hanno preferito fà marcia indietro. La scelta de lottà pe la casa andando a vivere in baracca per me è stata molto, molto significativa. Perché lottà assieme all’ altri per qualcosa che sentivo giusto, m’ha dato energia per crescere, pe diventà più sicura. Forse, mi ha fatto trovà nel sociale, quello che sentivo de non aver avuto dalla famiglia mia.

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Un giorno, mentre ero al lavoro in Voxson, me chiamano: “Corri, corri Armanda, che ci sono i celerini che stanno sbragando tutte le baracche” Assieme a Nuccia, n’amica mia separata co due creature e che aveva fatto la baracca con me, siamo corse. Ormai avevano già recintato tutta la zona, era pieno de celerini che nun te facevano passà. A un certo punto vedo una ruspa che puntava proprio alla baracca mia, già stava addosso. “Me stanno a buttà giù la baracca” ho detto a Nuccia qui bisogna fà qualcosa.

Dalla disperazione, me sono slegata la gonna e ho fatto vedere le cicatrici ancora fresche dell’operazione recente, al celerino che me stava vicino. Questo, preso a compassione, m’ ha detto: “noi voltiamo le spalle, non te guardamo, salta la recinzione e entra dentro la baracca tua, così non la possono buttà giù se dentro c’è gente.” M’ hanno pure aiutato a scavalcà sia a me che a Nuccia. Così abbiamo salvato la baracca dove ho vissuto fino al 1975. E io me li ricordo ancora i colori di quella gonna: era blu con le rose rosse e le foglie verdi. Io penso spesso a quel celerino che m’ ha fatto capire come, anche nelle situazioni più difficili, ce possa essere chi è capace anche di rischiare, per datte na mano. Ho fatto di tutto per riuscire ad avere una casa popolare. A Roma era drammatica la situazione degli alloggi e spuntavano borghetti come funghi. Io ero arrivata anche a dare dei soldi ai portieri degli enti che affittavano case per avere informazioni sulle abitazioni libere. Lo facevo pe me, ma anche pe l’ altri che facevano la lotta. Ma la casa non arrivava mai. Era giunto il momento de organizzarsi, tutti assieme, de comincià a farsi sentire, de lottà co la gente degli altri borghetti. Iniziai a partecipà alle manifestazioni, a fà sentì anche la voce mia col megafono, sotto gli striscioni.

Baracche a Roma

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CUCINARE E DORMIRE IN PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO

Roma - Cucina dei baraccati a Piazza del Campidoglio

Roma - Occupazione di Piazza del Campidoglio

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SOTTO LA STATUA DI MARC’AURELIO

E poi abbiamo occupato il Campidoglio. Era tanta la gente, a Roma, che viveva nelle baracche. A turno, tenevamo occupata Piazza del Campidoglio, assieme ai partiti politici della sinistra ed al sindacato. Ai tempi di Darida, come sindaco di Roma, abbiamo occupato più volte quella piazza. Siamo stati fissi co la tenda per un anno, facendo i turni. Io sono rimasta di nuovo incinta nella baracca. Co quella prima gravidanza che era finita male, essere rimasta di nuovo incinta, e con tutto che andava avanti in modo regolare, me sembrava un miracolo. Era il 1975 e, il giorno di Natale nacque finalmente Daniele. Lo guardavo stupita de quanto fosse piccolo e perfetto. Mi padre sarebbe stato contento di sapermi mamma. Purtroppo, quando me so accorta d’esse incinta e che stavolta era tutto regolare, lui era morto da un mese. Vivendo in baracca, venivo a conosce le persone, che come noi, vivevano nel borghetto. I miei vicini, erano spacciatori, venditrici d’amore, piccoli delinquenti, ma anche lavoratori in difficoltà. Erano tutte persone umanissime e capaci di gesti di solidarietà che non potrò mai dimenticare. Come quando me fecero trovà la stufa accesa nella baracca pe famme scaldà. Fu quando fui operata per la gravidanza extrauterina! Io che a vedè il fumo che usciva dal tetto, avevo già pensato a male. E se qualche malintenzionato s’era messo in testa de bruciarla, magari pe qualche cattiveria? Invece nun era così. M’avevano fatto una sorpresa e m’avevano fatto trovà la casa calda e il pranzo pronto, visto che tornavo dall’ospedale. Succedeva anche questo nelle baracche di Via Castel Boverano.

Io non lottavo solo perché era giusto, ma anche perché me legavo affettivamente a quelle

persone. Partecipavo anche alla loro vita personale, e soffrivo se loro soffrivano per qualcosa. Come per Fiorella, l’amica mia, che mentre saliva le scale del Campidoglio è scivolata. Era incinta grossa Fiorella, e cià fatto prende na paura! L’abbiamo dovuta portà al pronto soccorso che urlava pe le doglie e lo spavento. Il bambino è nato prematuro, de sette mesi l’hanno dovuto mette nell’incubatrice. Però stava bene, è cresciuto sano e vispo. Lei l’ha chiamato Daniele come mio figlio.

Ne parlarono i giornali, e parlarono pure de come, per necessità de una casa, stavamo

accampati sotto il Campidoglio. Tanta fu l’attenzione su questo incidente, che Fiorella se vide assegnà un appartamento di tre camere e non de due come era previsto. Tuttora, suo figlio Daniele, le ricorda scherzando, questo fatto e come tutta la famiglia dovrebbe esse grata a lui che è nato de sette mesi pe garantì a tutta la famiglia un casa più grande.

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Quella della casa, occupando il Campidoglio, è stata la lotta più significativa di quegli anni a Roma. Siamo stati presenti pe parecchi mesi ed abbiamo occupato la piazza 24 ore su 24. C’era una organizzazione a turni, se cucinava, tutti i giorni. Facemmo pure il cenone de Natale, e venne Enrico Berlinguer a mangià co noi, al freddo, in mezzo alla piazza. Me ricordo delle persone presenti. C’era Adriana Fileni che era del Sunia, Tozzetti, che a quei tempi era consigliere comunale del P.C.I e tanti altri.

Di quelle persone, qualcuna non c’è più. Compagne e compagni de lotta, figure così

importanti per me, sono scomparse, sono morti. Donne e uomini con i quali ho condiviso la passione politica, bisogni de giustizia, de speranza per un futuro migliore e di un tetto vero sopra la testa nostra e dei nostri figli. Come il marito de Pia, Alberto, come il marito de Mara, come la moglie de Orlando che è morta giovane de ’n brutto male.

Devo molto a quelle persone. Abbiamo camminato assieme e abbiamo condiviso speranze e disillusioni pe tanto tempo. Eravamo tutta gente che lavoravamo. Come Alberto che ciaveva il laboratorio de falegnameria. Er marito de Mara che era un carrozziere. Tutti co lo sfratto di casa e non per morosità, ma perchè in quel periodo, chi affittava, preferiva venderla la casa. A noi, nun rimaneva altro da fà, visto che i soldi pe comprassela non c’erano. Una delle strade per prendersi una casa era anche quella de occuparla, come avevano fatto al quartiere Magliana.

Io ciò provato nel 1973 col movimento di avanguardia operaia a Montesacro a Via Val di Non. Fu una esperienza bruttissima. Però anche quella m’ha arricchito molto in termini di esperienza personale e politica. Ho ’mparato a riconosce le persone, i movimenti. Quali erano quelli che facevano davvero le lotte, in modo democratico, da quelli che democratici non erano e facevano le lotte solo pe creà casino e distrugge. Sono state tutte esperienze che so’ servite a famme cresce. Perchè se una persona non le vive sulla pelle, poi nun riesce a comunicà anche agli altri sia le cose positive che quelle negative che ha vissuto. Nun comprende quello che succede intorno. Giudica senza conosce. La cosa bella era che veniva gente a sostenè la lotta anche i politici della sinistra venivano. In piazza del Campidoglio, nel 1973, non c’eravamo soltanto noi di Castelboverano. C’erano anche quelli degli altri borghetti intorno a Roma. Del Borghetto Prenestino, del Borghetto dell’Eur, de Monte Pecoraro. Tutta gente che veniva dalle baracche messe su pe necessità, tutta gente che lottava nella speranza de una casa vera.

E poi, ’ste donne che cucinavano pe tutti, e gli stranieri che se fermavano. Quante fotografie! Ecco, vedi Pia, co Adriana Fileni e questa donna, nella foto era una donna de n’ altro borghetto. Eravamo mischiati, nun se guardava più se eri della stessa borgata o no, se stava insieme, se lottava assieme . Pia era una grande battagliera, una capopolo. Aveva tre figli, ma lottava a fianco del Sunia e dei politici. Ho conosciuto tante persone, personaggi magari non proprio a posto, un po’ fuori dalle regole sociali, ma co na carica umana! Erano persone leali, vere. A me m’hanno sempre rispettata e anche aiutata.

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Se facevano le battaglie insieme, s’andava alle manifestazioni tutti insieme, donne, uomini, pure i figli ce portavamo dietro. La lotta per la casa ci univa e ci sentivamo forti e solidali anche se abitavamo nelle baracche e ce mancaveno tante cose.

La vita in baracca, ce legava molto. Quell’anno siamo riusciti a fare anche le feste di carnevale, lo vedi dalla foto. Eccolo, il carnevale fatto al borghetto. Cantavamo intorno al fuoco; cantavamo canzoni politiche come “bella ciao” ma anche “il ragazzo della via Gluck” oppure “la donna cannone” e pure quella de Dalla che faceva, dice “era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare…” Nel 1973, i costruttori romani tiravano su tantissimi palazzi pe affittalli. E Darida, anche a seguito della pressione del movimento della lotta per la casa, requisì 2000 alloggi. E allora lì ce fu la grande occasione pe fa sparì i Borghetti da Roma e i costruttori, che avevano costruito abusivamente e fuori dalle regole, accettarono la richiesta del Comune. E’ stato così che, nel 1974 e 1975, il Comune di Roma, cominciò il piano di risanamento della periferia Romana.

(festa di carnevale al borghetto di baracche - Roma)

Roma - Manifestazione per il diritto alla casa

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AIUTARSI AIUTANDO

(le tagliaforbici)

Finalmente toccò anche a noi di CastelBoverano, lasciare le baracche, e ci assegnarono le case di Setteville di Guidonia. Ma anche lì non tutto è stato facile! Ebbi una grossa delusione perché me scartarono per un caso di omonimia. Io avevo sullo stato di famiglia, dato che viveva con noi, anche mio suocero che aveva 75 anni.

In lista d’attesa pe la casa, c’era un altra persona di 34 con lo stesso nome e l’assegnazione toccò a lei. Quando hanno potuto vedè che era un errore, gli appartamenti erano già tutti dati. Niente da fare, il sogno della casa svanì. Poi si creò un’altra occasione. Il Comune requisì altri appartamenti, neppure finiti del tutto e stavolta toccò pure a me, a mio marito e a mio figlio. Me dettero un attico che era ancora da finire, mancavano pure le mattonelle e le porte. Angelo ed io, con le cambiali e le spese che ce costavano tanto, piano piano abbiamo messo su casa.

Era la realizzazione de n’altro sogno. Perché avevo sempre desiderato un attico e ora ce

l’avevo. Eravamo finalmente una famiglia vera adesso, con la casa, Angelo che aveva avuto il divorzio e c’eravamo sposati in Comune ed un figlio, un figlio voluto, figlio dell’amore. Avevamo dovuto fare il picchettaggio per difende le case che ci avevano assegnate. Altrimenti ce l’avrebbero occupate. Io in quel periodo ero incinta grossa di Daniele, ma ho voluto lo stesso stà assieme all’altri che stavano a guardia delle case nostre. Mettemmo prima una tenda da campeggio in zona Setteville, vicino alle costruzioni che ci sarebbero toccate, mentre Angelo continuava ad andare a dormire in baracca per non farcela buttare giù.

Ma una mattina mi sono svegliata ed ero piena di bestioline marroni, quelle che chiamano “tagliaforbici”. Ce l’avevo dappertutto, dappertutto. Ho cominciato ad urlà come na matta. Per tutto il resto della gravidanza, sognavo che mio figlio aveva la testa non da bambino ma da “tagliaforbice”. Me svegliavo de notte, spaventata e Pia, l’amica mia che me dormiva accanto, me doveva tranquillizzà. Tolta la tenda abbiamo messo tutti i letti sui piloty che stanno sotto gli appartamenti e io dormivo sempre insieme a Alberto e Pia, cercando il posto più in alto, lontano da terra e dalle tagliaforbici. Prima Alberto, poi Pia e poi io. Co tante coperte perché si era all’aperto ed già era Novembre. Faceva tanto de quel freddo la notte! Tutto questo pe potè conquistare una casa vera. E Pia ancora oggi me dice dei calci che Daniele da dentro la pancia mia glie dava. Daniele era già elettrico come oggi. Si, Daniele è un ragazzo elettrico che non sta mai fermo. Se vede che tutte le lotte che ha fatto nella pancia mia l’hanno condizionato!

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LE BORGATANE A SETTEVILLE

Una volta assegnate le case, ci siamo resi conto che a Setteville, mancava l’acqua corrente. C’era solo acqua di pozzo e con i bambini piccoli era un grosso problema. Così abbiamo ricominciato a chiede interventi alle istituzioni, ad organizzarci pe migliorà le condizioni de vita di tutti. Sapevamo già come dovevamo fare. La gente ce sosteneva , e così, a Setteville, si sono ottenute le scuole, la rete idrica, i servizi sociali. Anche se nei negozi ce continuavano a chiamà “le borgatane” perché venivamo dai borghetti delle baracche.

Poi ho ’ncominciato a interessamme dei problemi della fabbrica dove lavoravo. Alla Voxson c’erano diverse cose che nun andavamo e io avevo cominciato a fà la sindacalista. Angelo era contento fino a un certo punto. Me ricordo che una sera, a tavola, piantò la forchetta nel tovagliolo gridandome che dovevo scegliere tra lui e il partito, il sindacato e tutto il resto. Io volevo bene ad Angelo, ma sentivo che la strada mia era questa, era nell’impegno sociale che me stava aiutando a cresce.

Nonostante tutti i problemi in famiglia, sono diventata rappresentante sindacale. Di conseguenza ho cominciato ad occupamme dei diritti sul posto de lavoro. E’ stato così che, da persona timida e chiusa, ho cominciato a tirà fuori l’anima de na donna volitiva e tenace. L’avevo nascosta chissà dove, ma piano piano, me so’ accorta che non avevo più paura de parlà o de commette errori. Ho partecipato ai corsi sulla sicurezza nel lavoro, a quelli sui diritti, sulla statuto dei lavoratori. Me piaceva saperne sempre de più ed ero la prima ad alzà la mano quando c’era qualche corso da fare. Ho avuto un’insegnante eccezionale: Biancamaria Marcialis. Era bravissima, sapeva spiegare le cose difficili con semplicità e pazienza!

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Un grosso aiuto me l’hanno dato anche le compagne del Consiglio de Fabbrica che me spronavano e insistevano perchè io provassi ad esprimermi per quella che ero. Gianna, Orietta, e tutte le altre m’aiutavano a trovà la sicurezza. Quante cose ho fatto insieme a loro e alla CGIL!

Anche perché per la Voxson iniziò un periodo buio. La morte del padrone, l’ENI ch’era subentrata, la vendita ad Ortolani che ha messo all’asta la fabbrica con dentro i 2000 lavoratori e 68 miliardi di debiti.

La vita cominciava a farsi di nuovo dura ed il futuro buio.

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Diceva un foglio bianco come la neve “sono stato creato puro e voglio rimanere così per sempre”.

Una boccetta d’inchiostro udì ciò che il foglio diceva.

Rise nel suo cuore scuro e non osò avvicinarsi.

Udirono anche le matite multicolori. Anche loro non si avvicinarono mai a quel foglio.

Ed il foglio bianco come la neve rimase puro e casto per sempre.

Puro e casto, ma vuoto

(Kail Gibra Kahlil)

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ESTATE ROMANA

La vita l’ho voluta vive de testa mia, anche se avevo un marito ed un figlio. Era un conto aperto quello che sentivo d’ avere co l’amore. E l’ho voluto conoscere,

totalmente, mettendo tutto a rischio, le mie sicurezze, i miei affetti. In amore ero come un foglio bianco scritto solo a metà, ed ho voluto scriverlo tutto, pure le

parole che m’hanno fatto tanto male. So’ cresciuta, è vero, le sofferenze e gli sbagli fanno crescere. Ma ho anche fatto soffrì, pure senza volerlo, i miei cari, mio figlio compreso.

Non avrei voluto che anche Daniele pagasse le scelte mie, ma è successo. A distanza de tempo, penso che sia stato meglio anche pe lui, avere a che fare con una madre forse dissennata, ma vera, forse coraggiosa, de sicuro umana. Credo sia stato meglio che avè a che fà co na madre rinunciataria alla vita, piegata e vinta, incapace de rischià. Qualcuno ha detto che se nella vita uno nun è capace de rischià per n’ideale o pe n’ amore, è già morto e non lo sa.

Io ho voluto mettermi in gioco sia nelle passioni politiche che in amore. Ho pagato pe questo, ma sono consapevole di averlo fatto da persona viva, autentica. Durante le lotte alla Voxson, sentivamo attorno a noi, la solidarietà de tutte le altre categorie dei lavoratori. Compresi i bancari e, in particolare, dei lavoratori del Banco di Santo Spirito, banca allora molto presente sul territorio romano. Venivano co lo striscione alle manifestazioni, stavano co noi durante le occupazioni. A me pareva bello che, lavoratori garantiti, senza i problemi d’occupazione che avevamo noi operai, stessero al nostro fianco. Se fraternizzava, c’era condivisione degli ideali de lotta. E questo nun ce faceva sentì soli nella difficoltà. Una sera me ricordo, c’era l’estate Romana di Nicolini, che aveva fatto rivive piazze e ville romane co spettacoli ed eventi notturni. Decidemmo d’andà tutti insieme, noi compagni operai e bancari, a Villa Ada dove si poteva ballà. Per me era come un regalo. Me sentivo nuovamente ragazza, quella ragazza spensierata che non ero mai stata. Ad un certo punto, misero una musica dolcissima e molto bella, credo fosse “tu che m’hai preso il cuor”. Si poteva ballare come un lento, abbracciati. E, questo compagno, del quale te voglio raccontà, me prese a ballare.

C’è stata subito come una trasmissione de elettricità, tra me e lui. Come, una sintonia immediata e violenta, ce siamo sentiti tantissimo. Ed era tutto così nuovo per me, così bello da morire, che me pareva de vive un sogno! Alla fine della serata, avevo letteralmente perso la brocca. Ero come ’mpazzita dal desiderio. Siamo andati a casa de n’amico compiacente. E’ lì che mi sono lasciata finalmente andare a questo amore. E’stato indimenticabile.

Finalmente capivo l’innamoramento. Non il sesso, ma l’amore fatto di carezze, sentimenti. Angelo, mio marito, era de un amore senza carezze un po’ violento. Era la sua cultura dell’amore, quella che conosceva, l’unica che conosceva. Lui era un tipo così e a me, fino a quel momento, m’era sembrato normale essere amata in questa maniera. Ma questo amore era diverso, era intenso e tenero allo stesso tempo.

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Me so innamorata follemente di quest’uomo. Non capivo più niente, pensavo solo a lui,

vedevo solo lui. Dopo due mesi me so’ separata da Angelo. Nun riuscivo più a nasconde di essermi innamorata. Non riuscivo più a mentire. E forse nun volevo mentì.

Presi a vivere per lui. Vivevo saltuariamente un po’ con mio figlio ed un po’ con questo compagno. Si può amare così una sola volta nella vita e per circa un anno ho cercato de fà funzionà tutto, aspettando anche da lui un passo decisivo, una scelta verso di me. C’era tanto amore, tanta passione tra noi ma, alla lunga, il rapporto non resse. Avevamo pagato tutti pe questo mio colpo de testa. Anche mio figlio che aveva preso a balbettare. Ne uscivo lacerata, avevo giocato il tutto per tutto credendo fortemente in questa storia, e me ritrovavo sola, con un figlio e con un lavoro precario. Un sogno radioso s’era trasformato in una bolla di sapone durata un attimo soltanto. Qualche tempo dopo, alla festa dell’Unità Nazionale dov’ero ’mpegnata come volontaria, venne anche lui, e ci siamo rivisti. Ricominciò tutto da capo. La scintilla si riaccese come se nulla fosse successo, siamo tornati insieme, più innamorati de prima. Quella passione diede il suo frutto. Rimasi incinta.

Non avevo nemmeno il coraggio di dirglielo, tanto era il timore de perderlo e tanta era la

speranza che questo figlio ci potesse unì de più. Poi quando finalmente ho avuto la forza di parlare, lui molto onestamente, m’ha detto che non se la sentiva d’avè un figlio da me. Cercò de spiegamme i problemi con la sua famiglia d’origine, le differenze tra di noi, non so cos’altro me disse. Mi sentii rifiutata e ferita. Soprattutto mi so’ sentita persa, come se fossi tornata piccola, senza riferimenti.

Da “cassintegrata”, ricevevo i soldi ogni tre mesi. Non potevo permettermi de mette al mondo un figlio da crescere, da sola. Lavoravo anche per il sindacato, è vero, ma ricevevo in cambio, soltanto una sorta de rimborso spese de 300 mila lire. Allora, visto che lui non se la sentiva né d’avere un figlio né d’aiutamme a tenerlo, non mi rimaneva che abortire.

Me so’ confidata con le amiche delegate, in particolare con Gianna. Questa mia amica, è rimasta la più grande che io abbia mai avuto. Me fece fà le analisi, che pagai 70 mila lire. Una tombola per me. Trovai il modo di metterle insieme perché non volevo chiedere più nulla a lui. Poi, per quattro lunghi anni so’ rimasta da sola, ferita nelle viscere più profonde. Non volevo più consegnarmi interamente ad un uomo.

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Ninna ohh ninna ooh Questo pupo a chi lo do……

…………… ora che ho seppellito l’urlo

sotto il forcipe sghembo e ho lasciato il singhiozzo

oltre il cancello posso raccontare questa storia

senza inizio e senza fine mai risolta eppure viva

(canzoni di donne sulle donne “io canto la differenza” M.G. Caldirola)

LA SCELTA NON SCELTA

Alle 7 di mattina sono andata in ospedale accompagnata da Gianna. M’hanno fatto sdraià sul lettino. Dentro il dolore era tanto. Non so cosa avrei fatto pe tenello ’sto figlio. Me sarebbe piaciuto poterlo fare, era un figlio dell’amore pure questo, come lo era stato Daniele. Quando m’ hanno portato nella stanza e m’hanno usato l’aspiratore, io ho sentito dentro la pancia mia, come un pianto de neonato, disperato. Quel pianto me lo porterò dentro finché vado sottoterra, perché io l’ho sentito. Sapevo che era un maschio pure questo de figlio, e sapevo che lo stavo rifiutando, come già aveva fatto il padre.

E il rumore de quella macchina! M’ha proprio fatto l’effetto d’invadere le viscere mie,

profondamente, come se me succhiasse dentro, per portà via, assieme a quel figlio, anche tanta parte dell’anima mia. Con quel grumo de sangue, a quella speranza de vita appena abbozzata, se ne andava anche la presenza dell’uomo che avevo amato. Immaginato come il “Grande Amore”, quello che te pija e che dura per sempre. Perché il sogno era stato soltanto mio e la ferita che me lasciava questa storia-non-storia era troppo profonda.

Gianna m’è stata vicino tutto il tempo. Poi m’ha portato prima a casa sua, poi col marito tre giorni alla casa loro al mare, al Lido dei Pini. Me coccolava, le minestrine, i “non ti muovere che ce penso io”. Ciò ancora la pelle d’oca a raccontare tutto quello che fece per me. Avere una amica così e più che avè un tesoro. Non se trovano tutti i giorni persone come lei. Vale più de na vincita al lotto potè contà su n’amicizia come quella co Gianna. E parole come solidarietà, amore, compassione e affetto non bastano pe descriverla.

E tutta sta campagna che fanno contro l’aborto!

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Non dovrebbero nemmeno permettersi di dire quello che dicono! Parlo de quelli che ogni tanto rispolverano le crociate contro l’aborto. Perché, prima de parlà, dovrebbero sentire le persone che l’hanno fatto e quello che se prova. Io l’ho dovuto fà quell’aborto perché ero cassintegrata e sola. Non potevo garantì un futuro sereno a dei figli. Co quello che riuscivo a guadagnare, dovevo pagare l’affitto, le spese della casa e quelle pe Daniele. Il padre di Daniele mi dava 60 mila lire al mese.

Tiravo avanti chiedendo i soldi ai miei cognati, a mi madre. Se avessi avuto ancora il mio lavoro in fabbrica, se non l’avessero chiusa, io me lo tenevo quel figlio! Sarebbe stato un figlio solo mio, ma io l’avrei portata avanti lo stesso questa gravidanza, perché era un figlio dell’amore, come l’altro figlio che ho.

Avevo già pensato al nome, l’avrei chiamato Cristian. Ecco io l’ho fatto, quello che ho fatto, pensando “ma che gli posso dare a questo figlio?” Ci sarebbe stato bisogno dei soldi pe crescerlo dignitosamente. Tutto quello che serve pe cresce un figlio. E io mettevo al mondo un figlio a soffrì? E non solo lui che nasceva sarebbe stato in difficoltà, ma mettevo anche a soffrì pure quell’altro che già c’era.

C’erano momenti che non avevo i soldi nemmeno per pagare la bolletta della luce. Una

volta nun pagai e me la tagliarono. Io e Daniele siamo rimasti tre giorni al buio, colle candele. E un neonato, puoi rischiare di lasciarlo al buio e al freddo? Sì. È successo anche questo, che m’hanno staccato la corrente, a me che avevo sempre pagato tutto! Poi al solito, mi madre, da sola, perché io sarei morta piuttosto che chiede qualcosa, m’ha voluto dà i soldi per la bolletta. E io, per non sentirmi in debito, in tutte le occasioni nelle quali la famiglia era riunita, insistevo pe damme da fare a cucinà per tutti, a lavà i piatti. Era il mio modo per ringraziare mi madre dell’aiuto che me dava co Daniele. Purtroppo io sono troppo orgogliosa per chiede aiuto. Perché se tu me ’ncominci a dì “e vatte a cercà n’altro lavoro, va a fà la donna de servizzio” io me chiudo e non te chiedo più niente. So’ andata avanti sempre come un treno, de testa mia, costi quel che costi. Non c’è nessuno e niente che sia riuscito a piegamme o a negarmi de fà qualcosa. Me rimbocco le maniche, capisco cosa c’è da decidere e decido, anche se me fa male, anche se pe l’altri non è la cosa più giusta. Nun me posso piegà solo pe paura.

Sò d’esse forte e leale e non permetto a nessuno de decide pe me. Io so sempre stata rispettosa dei diritti e dei doveri, miei e quelli dell’altri. Credo de non avé mai approfittato de nessuno. Quindi, voglio che nessuno se possa permettere de giudicamme.

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MANUELA, BIANCAMARIA E FRANCESCO

Con la fabbrica ormai persa, sono stata messa in mobilità assieme ai miei compagni di lavoro. Mentre le lotte alla Voxson erano ancora in atto, avevo cominciato anche a lavorà sul territorio con la CGIL. Erano esperienze diverse tra loro, ma tutte d’un grande spessore umano; le mamme dei tossicodipendenti, i comitati pe fà funzionà gli ospedali, gli anziani de Tiburtino e Ponte Mammolo.

Ritrovavo, in queste forme d’impegno co l’altri, quella stessa sensazione de forza, de

solidarietà tra persone, che avevo già vissuto durante le lotte pe la casa. Da cassintegrata, trovai da lavorà ai “Beni culturali” come centralinista, senza diritti, pagata solo per il lavoro che facevo. Questo lavoro era disagevole, lavoravo chiusa in un ambiente insonorizzato, ma c’era tanta disponibilità tra colleghi. Me ricordo, in particolare, Davide, un collega non vedente, bravo come pochi sul lavoro. Nell’86 sono arrivata al CRIPES (Centro Ricerca Economia Sociale), in via del Seminario, dove occorreva una persona con la mia esperienza. Lavoravo come volontaria. A me piace stare in mezzo alla gente, essere sempre attiva. Lavoravo assieme a Leo Cannullo. Lui, nelle pause del lavoro, mi raccontava della sua vita. I miei erano compiti di segreteria. Dovevo scrive lettere a deputati, senatori, sindacati, istituzioni. Ma non ero molto brava nello scrivere a macchina. Facevo anche errori di ortografia e grammatica. Mettevo gli accenti dove non andavano, le z doppie, parlavo romanaccio. Leo me stimava come persona e se domandava perché non facessi qualcosa pe superà questo limite. Me correggeva le lettere, co tanta pazienza, e io, nel vedè quali errori avevo fatto, imparavo a scrivere meglio. Sono andata anche a lezioni private per imparare grammatica e ortografia, Per me Leo era come un padre e io ero felice de pagà 25 mila lire a lezione, de fà temi, riassunti e tutto quello che era necessario per parlare e scrivere meglio. Mi consigliava anche de parlà più lentamente, ma questo non m’è riuscito molto, nonostante le lezioni di dizione. Come pure continuo a ficcà termini in romanesco tra una parola e l’altra in italiano. Ma che ce posso fa? Questo è il modo mio di esprimermi. Comunque Leo è stato per me un grande maestro di vita! Quanto devo a questa persona, come molto devo anche a Luciano Barca che mi aveva preso a lavorare nel suo “Centro Studi Economici” Col tempo e piano piano incominciai ad ingranare. Un giorno, vennero al CRIPES Francesco Florenzano e Bianca Maria Marcialis. Vennero per interessamento di Manuela Mezzelani che era una compagna dirigente della CGL aperta ed illuminata. Manuela era bella, una bellezza morbida, un viso dolce e femminile. Aveva una disponibilità innata, aperta ad ogni possibilità. Lei non diceva mai de no. Diceva sì , e aggiungeva: “se posso”. Nun boicottava mai una iniziativa valida solo perché l’aveva proposta qualcun altro. Guardava al valore de una cosa e se era di interesse generale, faceva tutto quello che poteva. Stava nascendo l’Università Popolare di Roma e Manuela aveva pensato proprio ai locali in via del Seminario. Non immaginavo ancora quanto la vita mia stesse pe prende n'altra piega. Io, la ragazzina che faticava tirando i tessuti pesanti, la donna che aveva lottato per la casa, e per il lavoro era matura

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pe dà una mano alla crescita culturale propria ed altrui. Non quella “cultura” ostentata dai pochi, ma quella vissuta, sperimentata. Quella matura e ricca delle proprie esperienze di vita.

Io, Armanda, non sapevo ancora quanto avrei contribuito al radicamento dell’UPTER

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L’ESPERIENZA,

E’ IL TIPO DI INSEGNAMENTO PIU’ DIFFICILE.

PRIMA TI FA L’ESAME,

E POI TI SPIEGA LA LEZIONE

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ARMANDA/AMANDA E

L’ UNIVERSITA’ POPOLARE DI ROMA

Alle 17, quando staccavo dal lavoro ai Beni Culturali, correvo in Via del Seminario al CRIPES dove svolgevo volontariato per qualche ora. Nell’appartamento accanto al CRIPES, c’era la FISAC Bancari che da più de un anno non utilizzava più quello spazio. Un giorno venne Bianca Maria Marcialis co Francesco Florenzano per verificà la possibilità d’uno spazio pe l’Università Popolare Per la Terza Età. Bianca Maria io la consideravo la mia maestra de vita, perché lei, come dirigente della CGIL ciaveva fatto i corsi sui diritti dei lavoratori, sulle leggi di tutela e su tutto quello che occorreva sapere per esse un buon dirigente sindacale. Ma non era solo quello che ce trasmetteva come nozioni a catturà l’attenzione mia. Era il modo in cui lo faceva, la passione politica e umana che sapeva trasmette. Era una donna straordinaria, de n’intelligenza fuori del comune. Allora i centri anziani erano posti dove se ballava e se giocava a carte soltanto. C’era la cultura dei dopolavoro, solo come divago. La possibilità di arricchire, con la cultura, le persone avanti con gli anni, me pareva un’ottima cosa soprattutto perché la proposta veniva da chi ammiravo e stimavo enormemente. Promisi di darmi da fare.

Il progetto me coinvolgeva anche in prima persona, perché avevo sempre quella sensazione di “fame de sapé e conosce”. Me so’ subito appassionata all’idea de questa Università Popolare. Davo loro tutto quello che potevo. Il mio lavoro, ma anche carta, penne, fotocopie. Me lo ricordo ancora, Francesco Florenzano che arrivava in bicicletta pe fà le lezioni di psicologia. Teneva fermo l’orlo dei pantaloni co du mollette, pe non rovinalli co la catena della bicicletta.

I primi corsi sono stati quelli di erboristeria, inglese, dizione. Io rimanevo sino alle sette. Non

avevo detto nulla al Presidente del Cripes. Avevo, come al solito, fatto de testa mia. Però rimanevo finché non andavano via tutti, attenta e vigile, pe fare in modo che non accadesse nulla. Stando lì con loro, anch’io imparavo tanto. E più cose sapevo, più me veniva voglia de saperne ancora. Anche io frequentavo i corsi e me piaceva tornà sui banchi de scuola che avevo lasciato troppo presto per lavorare. Con il CRIPES avevo poco da fare in quel periodo, mentre con l’UPTER era tutto da costruì. Ero piena d’entusiasmo, facevo più de quello che me chiedevano, ero di nuovo un treno che andava avanti co passione, con entusiasmo. Non ho mai detto de no, anche quando era difficile cercà le soluzioni. Il progetto dell’Università Popolare era un obiettivo troppo bello pe me, troppo grande pe non dà una mano. Ce mettevo tutta me stessa.

Andavo anche il sabato, a via del Seminario 102. C’era da pulì i locali, le scale, sentivo quel luogo come se fosse anche casa mia. Uscivo de corsa da piazza del Collegio Romano dove c’erano i Beni Culturali e, senza guardà manco una vetrina dei negozi che incontravo me precipitavo all’UPTER. Solo un caffè al bar de fronte, al 102, lo mannavo giù de corsa, manco sentivo il sapore.

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E’ stata, quella della nascita dell’Upter, una esperienza irripetibile, quasi un innamoramento. Stava maturando un’Armanda nuova, curiosa anche de testa assieme al cuore . Ero pronta a provarci ancora, a buttamme anima e corpo nella costruzione de qualcosa, pe me e pe l’altri.

(pergamena della “sacrestia”)

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LA SALA VERDE E LA SACRESTIA

Uno dei primi corsi in via del Seminario, è stato quello d’erboristeria. Se teneva nella “sala verde” che poi aveva pe davvero tutte poltroncine verdi.

io m’occupavo de tutta la parte organizzativa, e uscivo pe ultima, in modo da controllà che tutto fosse a posto, perché il CRIPES non sapeva che prestavo la sala per i corsi dell’UPTER. Rimanevo fino alla fine delle lezioni, e co la scusa che poi dovevo mette a posto e pulì tutto quanto, m’ascoltavo le lezioni da vicino la porta. Quante cose ho imparato in questo modo! Alla fine del corso d’erboristeria, gli utenti, m’invitarono a cena, tutti assieme, loro più gli insegnanti. Se cena, se chiacchiera, me ringraziano per la disponibilità ch’avevo dimostrato e, poi, tirano fori da sotto il tavolo, una specie de pergamena. Una cosa casareccia, chiusa co due lacci da scarpe rossi, e me dicono: “Armanda, sta’ a sentì che mo te leggiamo una cosa che te riguarda”. Devi da sapè che io dicevo sempre a loro: “quanto me sarebbe piaciuto chiamamme Amanda invece de Armanda!” Lo dicevo a loro, ma lo dicevo pure a tutta Roma. Insomma, pe falla breve, uno de loro srotola sta pergamena e comincia a legge più o meno così: “Nei sotterranei della Sacrestia, i qui riuniti monaci e monacelle, col diritto e l’autorità che a loro è riconosciuto dalla bolla più sotto apposta, conferiscono alla presente consorella Armanda, il prenome di Amanda”. Questo episodio piacque tantissimo sia a me, che a tutti i collaboratori dell’UPTER. Infatti già da quell’anno, sul catalogo dei corsi, il mio nome fu cambiato da Armanda in Amanda.

Ogni tanto, qualcuno che me conosce da anni, me ferma e me chiede: “ma come te devo

chiamà Armanda o Amanda?” E io rispondo: “ E chiamame come te pare, tanto chi te risponde, so sempre io”.

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LAURA E MARCELLO Grazie alla legge sulla cassa integrazione, sono potuta andà in pensione, poco più che cinquantenne. Ho parlato con Francesco Florenzano dicendo: “lo sai quanto amo l’Upter, io a casa nun ce so stà, morirei, voglio rendermi ancora utile” E lui: “giusto avrei bisogno proprio di una responsabile per la zona Esquilino e nessuno meglio di te può farlo” . Così ho iniziato ad essere responsabile di una sede Upter. E vedo persone soddisfatte, che ritroveno gusto per il sapere. C’è gente che viene pure da Ostia e me ringrazia per le indicazioni che ho dato. Ci sono alcune storie particolari che te prendono e te rimangono dentro. Come quella de due persone anziane, Laura e Marcello, con parecchi anni ciascuno. Lui intorno ai 78 anni e lei circa 76. Hanno frequentato il corso di storia dell’arte e quello de pittura. Quando so arrivati erano un po’ tristi, vedovi tutti e due. Poi se so incontrati e hanno incominciato a fasse compagnia. Lui le porta la valigetta del corso di pittura, con un piacere, una devozione unica. Vedi la tenerezza e l’amore de due persone non più giovani e che hanno raggiunto una certa età. Perché all’UPTER le persone anziane, riescono a realizzare alcuni sogni che, per una vita intera, hanno dovuto mette da parte a causa del lavoro, dei figli. Imparare il tedesco, riprendere a dipingere, ci sono corsi per tutti i desideri.

E’ ‘n atto d’amore verso se stessi, non solo pe l’anziani, ma anche per i giovani che diventano ogni anno più numerosi. La solidarietà, l’affetto che nasce a fà le cose ’nsieme, sono cose che rischiano de scomparì. Invece le ritrovi nelle persone che se siedono ai banchi dell’UPTER e che vedi, a fine corso, co l’occhi più luminosi de quando so arrivati. Durante gli intervalli venivano, e continuano a venì, persone nella stanza mia, quella de responsabile zona Esquilino. E se parla de tutto. Di quello che accade durante i corsi, ma anche dell’Upter come organizzazione si parla. Di quello che funziona e di quello che non funziona.

Con le bidelle poi il rapporto era ed è proprio speciale. Sono stata tanti anni al Galileo Galilei. L’Upter allora come adesso, fa gli accordi con le scuole: se pagano gli straordinari al personale e loro ce aiutano. All’inizio, le bidelle, nun sapevano neppure cosa fosse l’Università Popolare. L’hanno capito quando hanno cominciato a vedere la gente che veniva. 1.600 persone che dal lunedì al venerdì ruotano dalle tre alle nove di sera. La maggior parte sono persone adulte ed il vedere queste persone ormai grandi, magari co n’intera vita alle spalle, che se salutano, sorridono è molto gratificante anche pe loro. Per gli utenti dei corsi, imparare diventa na passione. Le bidelle poi, la mattina, hanno a che fare con gli studenti giovani e poi il pomeriggio arriviamo noi e gli alunni “grandi”. E loro passano da una dimensione all’altra co una disinvoltura!

Ogni volta che ho loro chiesto una cortesia, non me l’hanno mai negata. Serve una scala per

mettere la tenda? E loro trovano la scala. C’è bisogno de ’n recupero d’orario? e loro rimangono anche senza niente in cambio. Poi ce siamo trasferiti alla “Confalonieri”. Scuola nuova, altro

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personale. Eppure anche lì, le bidelle diventano loro l’Upter e danno informazioni a chi non trova l’aula del proprio corso: “Inglese all’aula 12. Ginnastica alla 115”.

Alle volte, tutto questo, m’ha dato anche fastidio! C’è una bidella che vole trattà lei coi

professori, vorrebbe fare quello che devo fare io. M’innervosisco, è vero, ma capisco anche che questo vò dì che se sentono coinvolte. Forse a vedè tutte ’ste persone che salgono, interessate a fà i corsi, con accanimento, con convinzione le colpisce!

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NON IMPORTA QUANTO IGNORANTE TU TI POSSA SENTIRE

LA COSCIENZA DIMORA IN TE, SEMPRE

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L’UNIVERSITA’ POPOLARE DI ROMA E LA SEDE ALL’ ESQUILINO

Da quando che sono responsabile dell’UPTER la sicurezza m’è aumentata ancora, poco a poco. I primi mesi ciavevo un’ansia che me mangiava il cervello. Nun doveva mancà niente. Andavo nella stanza delle bidelle pe preparà tutto co ore d’anticipo. Già la sera a casa cominciavo a preparà.

I fogli e i libri presenza per le aule, i nomi delle insegnanti di ogni corso, l’organizzazione informativa de tutti i corsi che partivano dal lunedì al venerdì. I primi giorni del nuovo anno accademico, me mettevo sul corridoio e davo indicazioni a tutti. Le aule erano 10 e i corsi ereno 30. Una bella fatica ricordasse tutto. E me pareva d’esse diventata un vigile urbano! e tutti che me guardavano, sorridevano, ma me facevano un mucchio de domande. E ancora: “Armanda il gesso, Armanda il cancellino e i diari”. Ero carica come un somarello e poi la sera a casa mettevo a posto tutti ’sti cartelli, me scrivevo le cose che dovevo chiede alla direzione dell’UPTER. E ancora ero io, specie nei primi anni, che andavo in Banca, alla posta, da Buffetti. Io ho preso “l’Esquilino” con 600 iscritti e ora so’ diventati 1.800.

All’intervallo venivano 10, 20 pure 30 persone. C’era il cambio degli insegnanti e c’era chi mi voleva conoscere. S’è stabilito subito un bel rapporto co tutti. Venivano a fumà la sigaretta, a prendere il caffè. Anche a chiedere quello che manca, del tipo: “Armanda che ciai i fazzoletti?” o magari pure la carta igienica .

Quando accumuli tante esperienze, cresci insieme a chi te trovi vicino. Io me so’ trovata vicino questi iscritti ai corsi che ti parlano di sé stessi, della solitudine che hanno quando tornano a casa. Allora tu te rendi conto del compito delicato ed umano che stai facendo. Quando vedi persone che dopo anni si rincontrano, persone che nella vita s’erano perse, capisci quanto sia pesante il rischio dell’isolamento dagli altri.

E’ vero, poi queste persone vanno via, vanno a fà altre cose, ma la loro mancanza viene

compensata da altre presenze, da nuovi iscritti. Persone sempre diverse eppure uguali. La vita continua e le aspettative, i desideri, l’entusiasmo per il sapere, la speranza de fà nuove conoscenze e amicizie, ha sempre lo stesso sorriso.

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VOGLIA DI CONTINUARE AD APPRENDERE (Roma - foto di partecipanti ai corsi UPTER)

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LAVORARE INSIEME

L’esperienza che io ho vissuto e sto vivendo, presso l’UPTER è anche quella d’un rapporto

splendido anche con tutti i collaboratori. A nominarle sarebbero tante le persone. Stefano, Elena, Rita e tutti gli altri. Specie all’inizio, non riuscivamo mai a dì de no a qualsiasi richiesta arrivasse, pe quanto il rapporto di collaborazione era intenso.

Soprattutto nei primi anni, quando l’UPTER era da costruire. Mi ricordo che dopo pranzo ci vedevamo e se c’era da trasportare sedie, mobili, cartoni coi documenti, come in una grande famiglia ce s’aiutava. E tanto di quell’inizio è rimasto radicato nei nostri rapporti. Penso all’affetto dato e ricambiato con i docenti. Penso ad Edmondo, di Storia dell’Arte, oppure all’ insegnante d’inglese e a tutti l’altri. E poi tante belle storie d’amicizia, come quando gli insegnanti si sposano e me’nvitano al matrimonio loro. Oppure come Elena che per tanti anni è stata con me all’Esquilino, poi ha vinto un concorso e adesso se ne sta in Spagna nell’isoletta sua ad insegnà. M’ha mandato una cartolina dicendo che le manco molto, le manca l’affetto che avevo per lei. Rimangono questi legami, perchè l’Università Popolare non è partito, non è sindacato, è qualcosa di più. Nun è un centro studi con una sola persona che lo fa andare avanti, come il CRIPES o quello di Economia di Luciano Barca nel quale ho lavorato. L’Università Popolare de Roma è una cosa grande, con tante persone che danno il loro contributo. Tante esperienze diverse e ricche. Persone che portano in dote la loro storia, il loro sapere di vita, persone che me scrivono solo pe ringraziamme pe quanto si son trovate bene. E’ un arricchimento per tutti, ognuno per quello che può dare. Un rapporto d’amicizia e stima profondo, indipendentemente dal ruolo che si ricopre.

Il numero di tessere non conta se non per dire, al di fuori, quanto ce crediamo, tutti quanti, nella missione della conoscenza.

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GIUSEPPE

In Upter avevamo un commesso che s’occupava di piccole incombenze come quella di

andare in banca, oppure commissioni di questo tipo. Se chiamava Giuseppe, veniva dalla Calabria era una persona sola, sola, poi col tempo abbiamo saputo che era separato e che aveva grossi problemi famigliari. Lui non raccontava nulla. Era una persona squisita, silenziosa, faceva sempre tutto. Aveva un velo de tristezza dolce negli occhi. Dormiva in UPTER, co na brandina ed è stato parecchi anni insieme a noi. Poi ha frequentato un corso di erboristeria e, tramite mia cognata che aveva un piccolo locale, ha potuto avere un posto tutto suo dove vivere. Io stessa, con la macchina, sono andata a comperargli le mattonelle. Abbiamo trovato alcuni mobili, e ora Giuseppe sta ancora là, mettendo a frutto le capacità de conoscenza delle erbe.

L’amica mia, Pia me racconta che ha un gran daffare co le piante, co le erbe, e me dice che cura anche lei con l’arte dell’erboristeria che ha imparato nel corso in UPTER.

ABDUL

Abdul, è mussulmano. Quando è arrivato all’UPTER era giovanissimo: 19 anni circa. Parlava pochissimo l’italiano. Anche lui ha incominciato dando una mano in tutto quello che c’era da fare. Che chiacchierate che se faceva con me! Veniva nella stanza e me raccontava del suo essere mussulmano. Per esempio, me diceva, quanto è importante per lui mantenesse vergine sino al matrimonio perché l’amore, nella sua religione, è concesso solo co la moglie. Io gli voglio bene come ad un figlio; è il mio figlioccio. Me fa tenerezza il rispetto che ha per le proprie credenze religiose. E nun posso che paragonalle e quelle cattoliche; sono a volte così simili! Per esempio le restrizioni alimentari. Lui non mangia carne il venerdì, come dovrebbe esse tra i cattolici. Solo che Abdul è proprio serio negli adempimenti. Quando io cucinavo, lui nun mangiava nulla di quanto proibito dalla sua religione. Io me mettevo ai fornelli e poi se mangiava tutti assieme: organizzatori dei corsi, insegnanti, personale de segreteria.

Se mangiava e se scherzava, tra conversazioni serie, battute, risate. Quand’era ora de pranzo, io aspettavo l’intervallo de tutti, poi lasciavo la sede e andavo a Via dei Pontefici, all’UPTER SPORT. Là c’era na bella cucina e io dicevo: “oggi la cuoca sono io ” E loro: “e come no! cucina che siamo tutti contenti, meno male che sei arrivata tu!”

Così mettevo su la pentola, facevo la pasta col peperoncino, il pachino rosso, poi grandi

insalatone col mais, e poi il vino, il pane.

Andrea Ciantar arrivava col naso in aria dicendo “ahhhhhh! Che profumino, che cucina Armanda?”

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E poi tutti assieme a tavola, qualche volta c’erano pure i fagioli acconditi oppure il formaggio e il prosciutto. E se stava tutti assieme, se mangiava, ognuno raccontava qualcosa de sé e se stava in confidenza. Poi, alle due e mezzo, ciascuno tornava al proprio lavoro.

Adesso ci si vede solo a Natale, ce famo l’auguri, ognuno porta qualcosa, se brinda, se mangia na fetta de panettone e basta. Va bene pure così, però me mancano tanto quelle belle tavolate tutti assieme in quella cucinona. Quando passo e la vedo vuota, poco utilizzata, con lo scolamaccarona appeso, penso che me piacerebbe tornà a quei tempi, quando eravamo tutti più uniti, forse perché eravamo più giovani e più fiduciosi, o forse perché ce volevamo più bene.

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ROBERTO, l’AMORE MATURO

Roberto è il compagno con il quale vivo ormai da tanti anni, dopo le tante bufere della vita

mia. Lui è il mio amore profondo e tranquillo. Sulla sua spalla posso poggià la testa sentendome amata, rispettata, compresa. Ha saputo ridamme fiducia nell’amore.

L’incontro co lui, dopo un periodo buio, nel quale ho sofferto tantissimo e nun volevo più

nessun uomo accanto a me, m’ha permesso de lasciamme di nuovo andà verso un'altra persona, verso la fiducia e l’affetto pe n’ uomo . Roberto è il mio compagno, da tenere per mano e con il quale guardare ancora avanti. Quando ho presentato Roberto a mia zia Elda, quella che abita a Zagarolo e che sa scrive poesie, lei m’ ha detto: “bene, ha figli quest’omo tuo?” Io le ho risposto di sì, che insieme a Daniele, mio figlio, avevamo tre figli in totale, due femmine lui ed un maschio io. Così lei, interpretando i miei sentimenti, come solo lei sapeva fare, ci ha regalato una bellissima poesia.

Ogni volta che la rileggo, me stupisco de come una donna sappia indovinà, co tanta acutezza, quello che c’è nel cuore di un’altra donna. Magari, guardandola soltanto nell’ occhi.

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POSTAFAZIONE

Quella di raccogliere l’autobiografia di Armanda è stata, un’esperienza che ha lasciato il

segno. Il potermi affacciare, anche se per poco, nella sua vita, ha suscitato in me il bisogno di

rivedere anche il mio vissuto di donna. La mia passione politica, i miei saperi, il mio modo d’amare. Il filo conduttore di questa esperienza, è stata la semplicità, l’immediatezza. La capacità di dirci tutto; quello che andava bene e quello che non andava bene. senza steccati e senza fraintendimento alcuno.

Si è creata, tra di noi, una profonda empatia. Il racconto della sua storia ha seguito sentieri non solo verbali. Abbiamo, insieme, sentito quanto sia possibile e bello avere fiducia in un'altra persona, quanto arricchisca reciprocamente ricostruire una storia, per quanto lacerante sia stata. Lei affidandomi il suo “essere”, anche dove pudori o riservatezze fanno da guardiani. Io, imparando a rispettare i suoi modi e tempi, i suoi silenzi e le loquacità. La sua irruente sofferenza, non mi rendeva semplice, tradurre in forma letteraria, le forti emozioni che Armanda metteva in campo. Quando le ho consegnato la bozza finale del racconto, lei mi ha fissato con quel suo sguardo orgoglioso e schietto dicendo:

- “Se possono aggiunge un paio de cose?” - - “Certo, puoi aggiungere quello che vuoi ” - - “Allora senti, io vorrei che in questa storia tu ce metti come è morto mi padre. Perché se

deve sapè che non è morto come un disperato, anche se beveva. E’ morto dolcemente, perché l’alcol non gli aveva toccato il cervello. Ce stava co la testa e sapeva quello che gli stava a succede. E’ successo una sera, s’è addormentato sereno, col sorriso sulle labbra e in pace col mondo e co se stesso.

In fondo lui in questo mondo non ce stava male. Anche se nessuno de noi ha capito perché bevesse. Aveva una bella famiglia, una brava moglie e nove figli. Io gli ho voluto un bene immenso e voglio che tu lo scrivi.”

- “Va bene, Armanda, lo scrivo. Cosa altro vuoi aggiungere? ”- - “Voglio aggiungere che le lotte politiche non finiscono mai.

Pensa che sti giorni, dai rubinetti de Setteville esce acqua gialla. Pure da quelli delle scuole. Non te dico quanta gente protesta. E io so’ andata a parlà con la ASL, co l’ACEA. Ma loro dicono che l’acqua è potabile. Ma è possibile che un’acqua potabile sia gialla? Tocca ancora alle borgatane dasse da fa? Dobbiamo occupà la via Tiburtina per attirare l’attenzione delle istituzioni su questa faccenda? E’ proprio vero, non bisogna mai abbassare la guardia se vuoi che le cose funzionino! Scrivilo, questo, non bisogna mai abbassà la guardia, mai.”–

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Un ringraziamento particolare a:

- Andrea e Roberta, per gli incoraggiamenti ed i supporti che mi hanno saputo offrire

- Stefania, Loredana, Augusto per il prezioso contributo nella stesura finale del testo.

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Un mondo di storie Storie di vita per una cultura della memoria

Info: [email protected] 06-69204355 – dott. Andrea Ciantar

Upter – Università Popolare di Roma

www.upter.it

[email protected]

Amanda De Angelis

Operaia, sindacalista, in prima linea nella la lotta

per l’ emancipazione femminile

Ha partecipato, negli anni ’70 alla lotta per la casa,

all’occupazione del Campidoglio ed alle conquiste sociali nella

periferia romana.

Ha lavorato presso il Centro Studi di Economia Sociale

“CRIPES”

Attualmente è responsabile UPTER per la zona Esquilino e

consigliere circoscrizionale

Annamaria Calore

Membro del gruppo di biografi dell’UPTER

Progetto “Un Mondo di Storie”.

Socia della “ Libera Università di Anghiari”

Si occupa, di progettazione di percorsi formativi, nell’ambito

dell’educazione degli adulti.

E’ socia fondatrice della “Casa della Solidarietà Onlus” e

Presidente della Consulta del Volontariato Sociale

Municipio Roma 2