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1 ATTI DEGLI APOSTOLI EL TESTO E LA SUA STRUTTURA Il testo Entrambe le opere furono scritte originariamente in greco e ci sono pervenute in due tipi di testo: uno, conosciuto come alessandrino, esichiano o neutro, è quello comunemente accettato e un altro noto come occidentale. Quanto agli Atti degli Apostoli, il testo alessandrino è rappresentato principalmente dai papiri P 45 (sec. IlI), P 74 (sec. VII) e dai mss. Sinaitico (a), Vaticano (B), Alessandrino (A), Ephraemi Rescriptus (C) e molti altri. Si tratta di un testo breve considerato autentico dalla maggior parte dei critici. L'occidentale, dal canto suo, è rappresentato principalmente dai papiri P 38 (sec. IV), P 48 (sec. IlI) e specialmente dal ms. Codex Bezae Cantabrigiensis (D) e dalla Vetus Latina (sec. III/IV). Presenta un testo più lungo di quasi un decimo rispetto al precedente, con circa 400 aggiunte in cui le difficoltà vengono attenuate, le inesattezze corrette, sono offerti dettagli pittoreschi e interpolati testi liturgici. La lingua è talvolta popolare e presenta un considerevole numero di semitismi; le citazioni bibliche sono tratte da un testo meno vicino ai LXX, sul piano teologico spiccano le figure di Pietro e Paolo, mentre il popolo ebraico è presentato in luce negativa. Il testo, diffuso sia in Oriente sia in Occidente, risale alla metà del sec. II e sembra antico quanto il precedente. Il rapporto tra le due forme del testo è oggetto di discussione.

Atti degli Apostoli 1 · 2015. 5. 26. · 1 ATTI DEGLI APOSTOLI EL TESTO E LA SUA STRUTTURA Il testo Entrambe le opere furono scritte originariamente in greco e ci sono pervenute

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ATTI DEGLI APOSTOLI

EL TESTO E LA SUA STRUTTURA

Il testo

Entrambe le opere furono scritte originariamente in greco e ci sono pervenute in due

tipi di testo: uno, conosciuto come alessandrino, esichiano o neutro, è quello

comunemente accettato e un altro noto come occidentale.

Quanto agli Atti degli Apostoli, il testo alessandrino è rappresentato principalmente

dai papiri P45 (sec. IlI), P74 (sec. VII) e dai mss. Sinaitico (a), Vaticano (B),

Alessandrino (A), Ephraemi Rescriptus (C) e molti altri. Si tratta di un testo breve

considerato autentico dalla maggior parte dei critici. L'occidentale, dal canto suo, è

rappresentato principalmente dai papiri P38 (sec. IV), P48 (sec. IlI) e specialmente dal

ms. Codex Bezae Cantabrigiensis (D) e dalla Vetus Latina (sec. III/IV). Presenta un

testo più lungo di quasi un decimo rispetto al precedente, con circa 400 aggiunte in

cui le difficoltà vengono attenuate, le inesattezze corrette, sono offerti dettagli

pittoreschi e interpolati testi liturgici. La lingua è talvolta popolare e presenta un

considerevole numero di semitismi; le citazioni bibliche sono tratte da un testo meno

vicino ai LXX, sul piano teologico spiccano le figure di Pietro e Paolo, mentre il

popolo ebraico è presentato in luce negativa. Il testo, diffuso sia in Oriente sia in

Occidente, risale alla metà del sec. II e sembra antico quanto il precedente. Il rapporto

tra le due forme del testo è oggetto di discussione.

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In generale prevale la tesi della preminenza del testo alessandrino, pur ammettendo la

possibilità che l'occidentale contenga lezioni originali. Le edizioni critiche correnti

riproducono il testo alessandrino e di solito considerano non autentici 8, 37; 15, 34;

24, 6b-8a; 28, 29.

Il problema del testo di ATTI fu uno dei grandi temi della ricerca biblica della fine

del XIX secolo e dell'inizio del XX: furono studiati, in particolare, l'origine e il

rapporto tra le due forme del testo, l'occidentale e l'alessandrina. Le diverse ipotesi

proposte si possono raggruppare in due posizioni fondamentali, a seconda che

entrambi i testi, ovvero uno solo di essi, siano attribuiti a Luca.

Luca è l'autore di entrambi i testi. Su questa base alcuni ritengono che il testo

primitivo fosse l'occidentale, da cui deriverebbe l'alessandrino, mentre altri

sostengono la posizione inversa.

1. La maggioranza sostiene la prima tesi. Si tratta di una spiegazione antica, sostenuta

e diffusa alla fine del secolo scorso da F. Blass, il quale affermò che Luca scrisse

prima il testo occidentale, chiamato anche romano, per essere stato conservato e

divulgato dalla chiesa di Roma; in seguito fece una copia per Teofilo in cui migliorò il

testo; essa è giunta sino a noi come testo alessandrino. La spiegazione fu adottata da

Th. Zahn, E. Nestle e altri, ma oggi è di solito respinta soprattutto perché il presunto

testo primitivo contiene una serie di aggiunte, omissioni e cambiamenti che meglio si

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addicono a un testo riveduto. Ciononostante, di recente M.E. Boismard e A.

Lamouille hanno sostenuto che il testo alessandrino è una revisione di quello

occidentale e hanno cercato di ricostruire quest'ultimo.

2. L'opinione inversa fu proposta, all'inizio del secolo, da G. Salmòn, il quale

sosteneva che Luca scrisse in un primo momento il testo alessandrino e in seguito

l'occidentale, nel quale integrò le osservazioni fattegli da Paolo dopo i due anni

trascorsi in prigionia a Roma. Questa particolare spiegazione non ha avuto seguaci,

per l'improbabilità dell'intervento di Paolo, mentre ne ha avuti l'ipotesi in sé,

sostenuta attualmente da E. Delebecque, secondo cui il testo occidentale è una

revisione posteriore compiuta dallo stesso Luca. Tuttavia egli non dimostra che il testo

occidentale risalga a Luca.

Luca è l'autore di un solo testo, l'altro deriva dal primo.

1. All'interno di questo gruppo, la maggior parte degli autori sostiene la preminenza

del testo alessandrino e del carattere secondario di quello occidentale, anche se le

spiegazioni proposte sono tante. Secondo Wescott-Hort, M. Dibelius e altri, il testo

occidentale deriva da interpolazioni compiute in diversi modi sul testo alessandrino nei

secoli I e II, ma si suole obiettare che il testo occidentale non sembra il risultato di uno

sviluppo alla rinfusa: l'opera offre un insieme coerente. Rispondendo a questa

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obiezione, J.H. Ropes sostiene che l'occidentale non è il frutto di interpolazioni ma

una revisione sistematica del testo alessandrino, compiuta seguendo criteri

letterari e dottrinali.

R.P.C. Hanson segue questo punto di vista, ma preferisce parlare di interpolazione si-

stematica del testo alessandrino compiuta da una mano sola. Le divergenze sono

tante a questo riguardo e sarebbe troppo lungo elencarle.

2. Il punto di vista opposto è sostenuto quasi soltanto da A.C. Clark, il quale afferma

che il testo primitivo è l'occidentale e l'alessandrino è una riduzione posteriore. Altri

autori, di fronte alla mancanza di una soluzione soddisfacente, pur riconoscendo la

preminenza dell'alessandrino non lo considerano senz'altro come primitivo, perché

in effetti contiene errori, e ammettono la possibilità che l'occidentale conservi lezioni

primitive e che nelle aggiunte, certamente secondarie, si conservino tradizioni orali

antiche di grande valore storico, poiché questo testo risale al II secolo. Perciò essi

difendono nella critica testuale un metodo eclettico, secondo cui bisogna vedere caso

per caso quale sia la lezione originale.

2. Contenuto del Libro degli Atti

L'opera si apre con un breve prologo intimamente connesso con la ripetizione dei

racconti dell'ultima apparizione e dell'ascensione di Gesù, già narrati nel vangelo, e

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continua con la presentazione della comunità di Gerusalemme e l'elezione di Mattia.

Seguono la pentecoste e il racconto dell'attività missionaria della chiesa di

Gerusalemme, rappresentata da Pietro, e quella degli ellenisti.

In seguito, dopo il racconto di alcune premesse che spiegheranno la missione

universale, come la conversione di Saulo, la conversione dei primi gentili e la

fondazione della chiesa di Antiochia, il racconto s'incentra sull'espansione

missionaria nel mondo gentile, rappresentata da Paolo; la narrazione termina con

l'arrivo di quest'ultimo, prigioniero, a Roma. L'opera si compone di circa 86 racconti

per circa 18374 parole.

3. Lingua e stile

Dall'epoca patristica si considera il greco di Luca, insieme a quello della lettera

agli Ebrei, come il più accurato ed elegante di tutto il Nuovo Testamento. Egli impiega

la koinè con correttezza letteraria, in modo superiore rispetto all'uso volgare del

popolo e di molti scritti biblici, senza però arrivare ad essere un classicista.

La sua padronanza della lingua appare nei diversi tipi di greco che è in grado di

impiegare nella sua opera, nella quale s'incontrano, da una parte, il greco letterario

classico del prologo del vangelo e, dall'altra, vari tipi di greco simili a quello dei

LXX; quello semitizzante del vangelo dell'infanzia, quello corrente del resto del

vangelo, simile a quello di Mc, ma migliorato, e quello di Atti, in cui scrive con

maggiore libertà. Questa varietà di stili gli ha guadagnato l'accusa di eclettismo

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stilistico e incoerenza; in realtà non si tratta d'incoerenza, bensì del tentativo di

adeguare la lingua alla realtà narrata, per cui in tutta l'opera egli tende a usare una

lingua sacra, simile a quella dei LXX, per narrare l'opera di Gesù e della prima

generazione cristiana, in cui proseguono le meraviglie di Dio. Egli che aveva scritto

il prologo, avrebbe potuto scrivere l'opera intera con uno stile simile. Se non lo fa, è

perché cerca di imitare un altro tipo di lingua e vuole rispettare le proprie fonti. Luca,

dunque, è un vero storico ellenistico, in alcuni casi elegante, in altri popolare, che

non arriva però a raggiungere il livello dei grandi letterati della sua epoca.

4. Lessico

In generale Luca impiega un lessico ricco, accurato e piuttosto simile a quello degli

autori della prosa postclassica e a quello dei LXX. In Atti impiega 2036 parole per un

totale di 18374 occorrenze, di cui 942 sono hapax legomena. In comune con il

vangelo usa 1014 parole.

Prevalgono i verbi composti ma in 113 casi la forma impiegata è semplice o composta senza che il

senso lo esiga: si tratta di un mezzo per evitare ripetizioni. I proverbi consentono

all'autore di variare il senso della parola senza dover ricorrere a perifrasi. Il confronto

con Marco rivela come Luca eviti parole straniere, sia semitiche sia latine. In altri

casi, per non introdurre bruscamente nomi stranieri, li fa precedere da una breve

frase.

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Un altro particolare interessante è la sua sensibilità per la pronuncia di nomi stranieri,

che lo porta a usare la forma originale non ellenizzata, come Saoul, nel discorso

davanti ad Agrippa, alludendo alla voce dal cielo che parla in lingua ebraica (Atti

26,14). Si deve infine osservare che il lessico lucano non presenta alcun termine

tecnico nel campo della medicina, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni

autori (W.K. Hobart, 1882; A. Harnack, 1906, E. Delebecque, 1976) per confermare

la professione medica di Luca. Accanto a queste caratteristiche, tuttavia, appare una

certa incoerenza: si trovano volgarismi come apartismos, compimento; brechein,

bagnare, piovere; gongyzein, mormorare; phagos, mangione; e alcuni latinismi come

tithenai ta gonata, inginocchiarsi (Lc 22,41; At 7,60); labountes to hikanon, dopo

aver ottenuto la cauzione (At 17,9); agoraioi agontai, si celebrano processi (At

19,38).

5. Stile

Luca raggiunge lo stile migliore del NT, riscontrabile meglio negli Atti che nel

vangelo, poiché in At scrive con maggiore libertà mentre in questo segue Mc, pur

migliorandolo considerevolmente.

In generale si può dire che l'opera di Luca non è quella di un letterato, ma di un

pastore. Per Luca la lingua è al servizio della fede e soltanto considerando

quest'ultima si possono spiegare adeguatamente tutte le risorse del suo stile. Egli

conosce gli strumenti stilistici semitici ed ellenistici e padroneggia sia le tecniche che

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consentono una presentazione vivace dei materiali sia quelle che ne consentono una

corretta composizione. Quanto alle prime, impiega scene tipo (cfr. Lc 4,16-30; 5,1-

11; 9,51-55; At 2), personificazioni (cfr. la parola), prologhi (Lc 1,1-4; At 1,1-2),

lettere (At 15,23-29; 23,26-30), discorsi (Lc 1,46-55; 1,68-79; 2,14; 2,29-32;

10,21; 11,2-4; 22,42; 23,46; At 1,24-25; 4,24-30; 7,60). E' frequente il ricorso alle

metafore, allo stile diretto, ai discorsi, ai sommari e alle scene collettive. La

narrazione presenta squarci psicologici che evocano magistralmente la presenza del

divino: la trasfigurazione di Gesù è presentata come trasformazione del suo volto

mentre pregava (Lc 9,28); allo stesso modo il volto di Stefano assume le sembianze

di un angelo di fronte alla gloria di Gesù (At 6,15-56).

Luca compone i propri materiali unendoli strettamente sì da formare un tutto

coerente, ma evitando di costruire blocchi ininterrotti troppo estesi che finirebbero

per stancare il lettore. In generale, il racconto costituisce una storia in cui i singoli

fatti sono collegati tra loro in un insieme retto da un principio soprannaturale, il

piano salvifico di Dio, e, all'interno di questo principio, anche da cause umane.

Perciò gli eventi sono collegati mediante le categorie della promessa (o gli

equivalenti annuncio, predizione, progetto) e del compimento (cfr. le citazioni

dell'AT, in particolare quelle che introducono ciascuna sezione, come Lc 3,4-6; 4,18-

19; At 2,17-21).

6. Struttura Il libro degli Atti che, secondo 1,8, intende esporre le grandi tappe del cammino di

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testimonianza della chiesa primitiva, i criteri geografici, d'argomento e i sommari

consentono di distinguere due grandi blocchi nella descrizione di questo percorso:

uno in cui predomina l'attività in Palestina sotto la guida di Pietro, i dodici e la chiesa

di Gerusalemme (1-12) e un secondo in cui predomina l'attività al di fuori della

Palestina e il cui protagonista è Paolo (13-28).

Il primo blocco è suddiviso a sua volta in tre sezioni, una di carattere

preparatorio, un'altra che narra l'origine e lo sviluppo della testimonianza a

Gerusalemme e un'ultima che li narra fuori da Gerusalemme.

1. La prima (1,1-26) inizia con un prologo che riassume il primo libro, ne

ripete e completa il finale (ultima apparizione e ascensione di Gesù)

annunciando la prossima venuta dello Spirito e invitando ad attenderla a

Gerusalemme. In «quei giorni» precedenti la pentecoste si situa anche il racconto

dell'elezione di Mattia. Questa sezione funge dunque da collegamento tra l'opera di

Gesù e l'inizio della testimonianza della chiesa nella pentecoste.

2. Seguono tre sequenze di racconti in successione ambientati a Gerusalemme che

hanno per protagonisti Pietro e i dodici molto ben collegati tra loro mediante

sommari, sì da formare la seconda sezione (2,1 - 8,3). La prima sequenza (2,1-47)

ruota intorno al giorno di pentecoste, la seconda (3 - 5) intorno al motivo del Nome,

ed è per questo nota come «sezione del Nome», e la terza (6,1 - 8,3) intorno agli

ellenisti e all'attività di Stefano.

3.1 rimanenti capitoli del primo blocco (8,4 - 12,25) hanno in comune la narrazione

della testimonianza al di fuori di Gerusalemme, ma in stretto collegamento con

quest'ultima e con Pietro o i dodici, e perciò costituiscono la terza sezione.

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Al suo interno si distinguono cinque sequenze narrative diverse. La prima (8,4-

40), introdotta e terminata dai rispettivi sommari, narra l'attività dell'ellenista

Filippo in Samaria e con l'eunuco etiope. Essa è strettamente collegata all'attività

degli ellenisti a Gerusalemme della sezione precedente, ma alla luce di 1,8, che

conferisce un carattere dinamico alla struttura dell'opera, dev'essere collocata nella

sezione successiva poiché implica un progresso sulla via dell'evangelizzazione. La

seconda è dedicata alla conversione di Saulo e alla sua prima attività missionaria

(9,1-30). La terza è introdotta da un sommario che situa l'azione molti anni dopo

(9,31) ed è costituita da tre azioni di Pietro in favore delle chiese nella pianura del

Saron e sulla costa (9,32 - 11,18), la terza delle quali, la visita e il battesimo del

pagano Cornelio e la giustificazione di questo gesto di fronte alla chiesa di

Gerusalemme, è la più importante. La quarta (11,19-30) è una sequenza di fatti

sull'origine e l'attività della chiesa di Antiochia, la prima comunità mista. Il racconto

in sé porta il lettore fuori dalla Palestina, ma per un prolungamento dell'attività di

questa chiesa e una preparazione del futuro lavoro missionario al di fuori di essa. La

quinta e ultima sezione (12,1-25), infatti, aperta e terminata da sommari e con il

carattere di una conclusione, torna a parlare della chiesa di Gerusalemme, nella quale

sono perseguitati Giacomo e Pietro. A partire da questo momento Pietro e i dodici

perdono il ruolo di protagonisti in favore di Paolo.

Il secondo blocco (13-18) dedicato alla presentazione del cammino fino «ai confini

della terra» è a sua volta suddiviso in tre sezioni: 1. La prima (13,1 - 15,35)

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riferisce sul primo invio missionario di Paolo e Barnaba da parte della chiesa di

Antiochia, narra il viaggio e i problemi teologici da esso scaturiti, risolti

nell'assemblea di Gerusalemme, è aperta e conclusa da sommari sull'attività della

chiesa antiochena. Il racconto è molto ben articolato, dividendosi in due parti: quella

che racconta il viaggio (13-14) e quella dedicata all'assemblea (15,1-35).

Il racconto che segue, sino alla fine dell'opera, è interamente molto ben connesso

mediante una sequenza geografica senza soluzione di continuità, in cui i fatti sono

collegati dall'attività di Paolo, libero, fino al suo arrivo a Roma in catene, il che rende

difficile la suddivisione. Alla luce del contenuto si possono distinguere diversi viaggi,

il secondo, il terzo e il viaggio a Roma; i primi due in libertà e l'ultimo da prigioniero.

La distinzione classica tra il secondo e il terzo viaggio, tuttavia, non trova un appoggio

letterario chiaro nel testo, poiché in 18,22.23a non appare chiaro se l'autore intenda

narrare un nuovo viaggio o si tratti della continuazione del precedente. D'altra parte il

tema della prigionia di Paolo, che materialmente ha inizio a Gerusalemme, viene

annunciato prima (21,4; 21,11-14), per cui Paolo va a Gerusalemme già «incatenato

dallo Spirito» (20,22). Probabilmente la chiave letteraria che consente di suddividere

obbiettivamente la narrazione si trova in Efeso, che appare al centro del racconto: nel

secondo viaggio Paolo è presentato come intenzionato a visitare la città, ma lo Spirito

glielo impedisce (16,6); in seguito, tornando ad Antiochia, compie la visita e

promette di tornare (18,19-21); infine viene narrato per esteso il ritorno e

l'evangelizzazione della città (19,1 - 20,1), al termine della quale Paolo fissa il

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programma finale dell'attività che verrà raccontata nel libro (19,21-22): Macedonia,

Acaia, Gerusalemme, Roma, anche se dovrà portare a compimento tale progetto in

catene. Efeso, dunque, è un punto di divisione di tutto questo insieme: la seconda

sezione narra l'attività di Paolo, libero, in tutto l'Oriente, la grande missione che

culmina a Efeso (15,36 - 19,22); la terza (19,23 - 28,31) presenta Paolo incatenato,

prima «in Spirito», poi materialmente nel viaggio da Gerusalemme a Roma. In

entrambe le sezioni si possono individuare unità minori alla luce del contenuto, delle

introduzioni e dei sommari. Così nella seconda sezione si distinguono due sequenze

geografiche, una che parte da Antiochia e termina nella stessa città (15,36 - 18,22),

la prima tappa della grande missione al mondo gentile, conosciuta come «secondo

viaggio», e un'altra che parte da questa città e termina con il sommario e il piano

che conclude il racconto dell'evangelizzazione di Efeso («il terzo viaggio»: 18,23 -

19,22).

3. Per quanto riguarda la terza sezione si distinguono quattro sequenze. La prima

narra il viaggio di Paolo alla volta di Gerusalemme attraverso la Macedonia e l'Acaia

(19,23 -21,26) accompagnato da rappresentanti di varie chiese (cfr. 20,4 s.); la

seconda narra la prigionia a Gerusalemme e la testimonianza di fronte ai giudei (21,

27 - 23,11); la terza narra la testimonianza a Cesarea di fronte a governatori e re

(23,12 - 26,32); la quarta racconta il viaggio a Roma, la testimonianza in questa

città (27,1 - 28,28) e si conclude con un sommario rinate (28,30-31).

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Struttura del libro degli Atti

1. Cammino della chiesa di Gerusalemme con i dodici (Atti 1-12)

1.1. Nuovo prologo e collegamento tra il cammino di Gesù e

quello della chiesa (Atti 1);

1.2. Testimonianza della chiesa di Gerusalemme (2,1 - 8,3):

Pentecoste (2):

testimonianza di Gerusalemme: sezione del Nome (3 - 5),

gli ellenisti: Stefano (6,1 - 8,3)

1.3. Testimonianza fuori di Gerusalemme (8,4 -12,25):

testimonianza dell'ellenista Filippo (8,4-0),

conversione e prima attività di Saulo (9,1 -

30), attività di Pietro nella pianura del

Saron (9,32 -11,18), la chiesa di

Antiochia (11,19-30), persecuzione della

chiesa di Gerusalemme (12,1-25).

2. Cammino di Paolo fino ai confini del

mondo (13 - 28): 2.1. Primo viaggio e

problemi (13,1 -15,35): il viaggio

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(13-14) l'assemblea (15,1-35);

2.2. La grande missione (15,36 -19,22):

prima tappa (15,36 -18,22), evangelizzazione

di Efeso (18,23 -19,22);

2.3. Viaggio di Paolo in catene a Gerusalemme e a Roma (19, 23 - 28,31):

viaggio a Gerusalemme attraverso la Macedonia e l'Acaia (19,23 - 21,26),

prigionia e testimonianza a Gerusalemme (21, 27 - 23,11), prigionia e

testimonianza a Cesarea (23,12 - 26,32), viaggio a Roma e testimonianza in

questa città (27 - 28).

7. Problemi aperti

a) Semitismi

Nonostante l'accuratezza lessicale e grammaticale dimostrata da Luca nelle due

parti

della sua opera, compaiono diversi tipi di semitismi:

semitismi in genere: participi pleonastici come «dicendo», «rispondendo»; ecc.;

ebraismi: egeneto seguito da verbo finito; sostantivi al genitivo in luogo

dell'aggettivo; kai idou ecc.;

aramaismi: archomai pleonastico; tote; plurale impersonale ecc.

Il problema è stato studiato a partire dal secolo scorso e sono state via via proposte

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diverse spiegazioni. Alla fine del secolo scorso e all'inizio del nostro prevale

l'opinione secondo cui i semitismi, in particolare quelli di Atti, sono determinati

dalla traduzione dì una fonte semitica, riconosciuta per lo più come ebraica; questa

opinione fu largamente condizionata dall'interpretazione dei semitismi del

manoscritto D (cfr. A. Resch, E. Neslte, F. Blass).

La teoria documentaria aramaica è un adattamento della posizione precedente,

proposta da C.C. Torrey in modo apparentemente inconfutabile per la sua epoca.

Egli afferma che il terzo vangelo e la prima parte degli Atti (1 -15) sono la traduzione

di una fonte scritta aramaica; a questa teoria aderirono altri autori posteriori come

Dodd, Knox, R.A. Martin e F. Zimmermann.

Un altro punto di vista, che ha riscosso e continua a riportare un vasto consenso,

spiega i semitismi con l’influsso dello stile dei LXX. Questa teoria è sostenuta in parti-

colare da G. Dalman e viene sviluppata in seguito da Cadbury, Clarke e Sparks;

questa stessa linea seguono alcuni autorevoli commentatori attuali di Atti come E.

Haenchen, H. Conzelmann e altri autori come E. Plumacher, secondo il quale Luca

evoca un'epoca mediante lo stile, imitandone il modo di parlare, e P. Grelot, che

sottolinea come Luca, abile scrittore, imita i LXX nell'intento di scrivere una «storia

religiosa», pur non escludendo altre ragioni.

M. Wilcox ha proposto una soluzione sincretica, secondo cui i semitismi di

Atti non possono essere attribuiti a un solo fattore, poiché sono di tipo e origine

diversa: parole e frasi affini alla tradizione testuale semitica dell' AT, altre affini alla

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tradizione testuale dei LXX e altre, di natura semitica, non spiegabili con l'influsso

dei LXX per le quali bisogna cercarne un'altra, per esempio tradizioni narrative delle

parole e dei fatti dei pionieri della chiesa e altre tradizioni sui discorsi, probabilmente

già fissate in greco. Luca ha rielaborato nel corso di tutta la sua opera questo

materiale e lo ha unificato stilisticamente in modo tale che, se non fosse per questi

semitismi-spia, non sapremmo che ha fatto ricorso a delle fonti.

Un'altra spiegazione tra quelle proposte negli ultimi decenni è quella del greco

giudeo-cristiano. Nel 1961 A. Debrunner, trattando delle diverse cause dei semitismi

nel greco biblico, ha parlato di un greco-giudeo parlato, nel senso che lo stesso

greco «secolare» impiegato dai giudei era influenzato dalla loro mentalità semitica.

Questo fenomeno dovette essere presente anche tra gli autori del NT. Non è però

esattamente questo che egli intendeva con l'espressione «greco giudeo-cristiano», ma

un «gergo greco» impiegato in un primo tempo dai giudei della diaspora e poi dai

cristiani nelle loro riunioni e che conteneva un lessico e una fraseologia correlati con

la loro fede e le loro pratiche religiose. Qualcosa di simile al linguaggio liturgico,

teologico, catechetico che i cristiani impiegano ora nelle loro riunioni, ma non nel

linguaggio della vita secolare. La comunità alessandrina, che parlava la koinè, per

prima coniò questo linguaggio religioso, basato sulla koinè ma influenzato dalla fede

jahvista e dalla mentalità semitica dei giudei grecofoni; questa lingua influì sulla

traduzione dei LXX che, a sua volta, rinforzò e arricchì questo greco adoperato

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dalla sinagoga.

In seguito, all'arrivo del cristianesimo, quest'ultimo la ereditò e l'arricchì con nuovi

elementi kerygmatici, liturgici ed etici, dando origine al «greco giudeo-cristiano»,

lingua nella quale fu scritto il NT. N. Turner ha sostenuto e contribuito a divulgare

questo punto di vista negli ultimi anni; anche M. Black e F.L. Horton hanno aderito a

questa spiegazione.

Nessuna delle opinioni citate ha finito per imporsi, nessuna è stata

completamente confutata e perciò vige oggi il pluralismo: ogni soluzione trova

sostenitori e numerose sono le posizioni eclettiche che cercano di conciliare i diversi

punti di vista.

8. Storicità degli Atti

Fino al XVIII secolo gli Atti furono considerati fondamentalmente come un'opera di

storia, precisamente una biografia degli apostoli, alla quale, nel II secolo, venne

attribuito il titolo di Praxeis apostolon. Il fatto che già nel II secolo Luca e Atti

venissero separati dal canone, ponendo il vangelo tra Me e Gv e Atti dopo

quest'ultimo, indica che essi non vennero considerati come una continuazione in

senso stretto del vangelo, bensì come una biografia diversa. Tuttavia non furono

considerati come semplice storia, ma, proprio come i vangeli, una storia al servizio

di un messaggio religioso, che era di solito identificato nel ruolo dello Spirito santo,

l'universalità della salvezza, l'esemplarità della chiesa primitiva, ma senza cercare

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una finalità più precisamente definita. In questo contesto gli Atti vengono

solitamente utilizzati in funzione delle lettere di Paolo, come opera che offre la

cornice storica utile a favorirne la comprensione.

Nel XVIII secolo, con l'Illuminismo, questa impostazione eminentemente storicista

viene messa in discussione. Gli Atti vengono studiati alla luce delle differenze

esistenti rispetto alle lettere di Paolo, divergenze risolte a favore delle lettere,

mettendo in dubbio o negando la storicità di Atti. Si possono individuare tre fasi

nella messa in discussione della storicità: una prima dominata dall'idea che gli Atti

sono un testo tendenzioso, una vera e propria falsificazione; una seconda in cui si

mantiene il giudizio negativo sulla storicità, ma viene attribuito a una carenza

d'informazione in mancanza di fonti, e una terza in cui viene sottolineato lo

scetticismo rispetto al valore storico, fondato sul carattere teologico dell'opera e in

particolare dei discorsi.

II giudizio di tendenziosità su Atti si deve a F. Ch. Baur (1792-1860) e alla scuola di Tubinga, che spiegano t'opera in funzione della loro teoria sull'origine della chiesa primitiva: gli Atti sono opera di un paolinista, che cerca di elaborare una sintesi dottrinale tra paolinismo e petrismo. Si tratta quindi di un'opera teologica tendenziosa. Questa teoria venne radicalizzata qualche anno più tardi da B. Bauer (1809-1888), secondo il quale Atti riflette la situazione di una chiesa dominata dai gentili, la cui dottrina è uno sviluppo della vecchia fazione giudaica o conservatrice con la quale essa ha già perso contatto. Dal punto di vista storico fu importante il contributo di J.B. Lightfoot (1818-1889), che affrontò questa problematica con il metodo positivo proprio della storiografia, esaminando il testo e le fonti storiche ed evitando di proiettare sul testo qualsiasi tipo di premessa soggettiva. La mancanza di fonti porta a presentare Atti in maniera incolpevolmente deformata del passato, ma non tenden-ziosa. E. Zeller (1814-1908) fu il precursore di questa spiegazione: a suo parere gli Atti rispecchiano una comunità gentile della seconda o terza decade del II secolo, che già professa il proto cattolicesimo, vale a dire una comunità da un lato profondamente influenzata dall'eredità giudaica e, dall'altro, notevolmente estranea alle caratteristiche essenziali di Paolo, fatta eccezione per l'universalismo, a causa della sua incapacità a comprendere la teologia paolina. L'opera intende anzitutto spiegare il cristianesimo della propria epoca sulla base del passato. Presenta inesattezze storiche, non dovute però alla tendenziosità ma a ignoranza e a scarsità d'informazione, poiché l'autore non è un testimone immediato e supplisce i vuoti d'informazione con l'immaginazione. A partire da M. Dibelius (1883-1947) e dalla storia della redazione, la corrente liberale radicale sostiene il ca-rattere squisitamente teologico di Atti, in particolare dei discorsi, che sono libere creazioni dell'autore; ne deriva una posizione scettica sulla storicità dell'opera. Su questa linea si trova la scuola di Bultmann, in

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particolare Vielhauer, Conzelmann e Haenchen, i quali si basano sull'intima unione che caratterizza nell'opera gli aspetti teologici, storici e letterari. Questa posizione è piuttosto diffusa, grazie all'influenza di questa scuola. In generale i discepoli di Bultmann condividono questo giudizio negativo e arrivano a considerare gli Atti come «frutto del peccato», perché intendono fondare la fede e il kerygma sulla storia (Conzelmann) ed equiparare l'opera di Gesù, unico salvatore, a quella della chiesa, che è soltanto una storia ibrida di autorealizzazione umana (G. Klein). Entrambe le opere sono storia leggendaria, sprovviste di valore, anche se quella di Gesù è presentata come centro del tempo (Conzelmann), in un'epoca già trascorsa e non più intesa come vangelo presente (cfr. W. Marxen). Di fronte a questa posizione una serie di autori, pur riconoscendo il carattere teologico di Atti, ne difendono il carattere storico in generale, come G. Schneider, che si colloca criticamente in questo ambito; I.H. Marshall, dal canto suo, sostiene che gli Atti vogliono essere tanto teologia quanto storia; Luca scrive da teologo e da storico, perché la storia è fondamentale e imprescindibile per la teologia. La pentecoste cristiana

Come abbiamo detto, il tema dello Spirito abbraccia tutta la storia degli Atti anche se

le manifestazioni più rilevanti si trovano nella prima parte, iniziando dalla pagina

programmatica della pentecoste cristiana. La struttura del racconto di pentecoste, che

si estende quasi per un intero capitolo, è abbastanza lineare:

1) 2,1-4: racconto della manifestazione dello Spirito con gli effetti che

questi produce sugli Apostoli;

2) 2,5-13: elenco dei rappresentanti dell'umanità convocati e riuniti a Geru-

salemme dall'evento prodigioso dello Spirito che crea una nuova possibilità

di comunicare e capire;

3) 2,14-21.22-36: ampio discorso di Pietro che dà l'interpretazione autentica

dell'esperienza dello Spirito sulla base della parola profetica di Gioele e in

riferimento all'evento storico salvifico di Gesù, costituito da Dio mediante la

risurrezione Signore e Messia;

4) 2,38-39: reazione dei presenti e invito di Pietro ad attuare l'itinerario di

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conversione nella comunità cristiana mediante il rito del battesimo per ot-

tenere il perdono dei peccati e il dono dello Spirito.

La struttura del testo è semplice: precede un'introduzione, poi viene il racconto

della manifestazione dello Spirito e la descrizione dei suoi effetti. L'introduzione, di

carattere storico-circostanziale, colloca questa esperienza nel giorno di pentecoste,

una festa ebraica, che cade al 'cinquantesimo' giorno dopo pasqua. In greco

pentekosté vuol dire precisamente 'cinquantesimo'. Originariamente era una festa

agricola in cui si ringraziava Dio per il raccolto dell'orzo e del frumento, verso

maggio-giugno. Da festa agricola nel primo secolo d. C. era diventata una festa

storica in cui si ricordava il dono della legge al Sinai e la costituzione del popolo

liberato dall'Egitto come popolo di Dio.

Mentre questa festa commemorativa stava per finire «si trovavano tutti insieme

nello stesso luogo». Luca insiste sulla convocazione e unità del piccolo gruppo dei

discepoli. Questo è il clima in cui sorgerà il popolo di Dio messianico, dove la legge

non è più scritta sulle tavole di pietra, ma è lo Spirito presente nei cuori. Dio fa di

un gruppo umano una comunità-chiesa, perché la legge o costituzione non è scritta su

di un codice, ma è la forza dello Spirito che dà agli uomini la possibilità di parlare e

di comunicare in modo nuovo.

Come dicevamo, la manifestazione dello Spirito è descritta come la forza di Dio

mediante due simboli teofanici: il vento di tempesta e il fuoco. Questi simboli

indicano la forza irresistibile di Dio, una forza che non è un prodotto della storia.

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Sono i simboli della rivelazione di Dio al Sinai, Es 19,16; Dt 4,36 o a Elia sul

monte Horeb, 1Re 19,11-12.

Sul piano storico l'azione potente e irresistibile di Dio diventa una capacità di co-

municare. Lo Spirito non è una fiammella né una colomba ma una forza storica,

dono di Dio, che muta i rapporti tra le persone. La lingua, infatti, non solo è

l'espressione dell'identità culturale di un gruppo umano, ma anche un modo di co-

municare con le persone. 'Parlare altre lingue' è un farsi capire, è la possibilità di

superare il ghetto, il razzismo e la divisione culturale. Qui si ha il rovescio

dell'esperienza di Babele. Là gli uomini tentano di mettere in piedi un imperialismo

storico con motivazioni religiose: si riuniscono per costruire una torre-tempio che

raggiunga il cielo. Il testo della Genesi dice: «tutta la terra aveva una sola lingua»

(Gn 11,1). E' la pianificazione delle culture, di cui l'imposizione di una sola lingua è

l'espressione. E' l'unità fondata sul controllo.

La possibilità di parlare altre lingue, di farsi capire nella lingua dei popoli è l’anti-

Babele, cioè un'umanità che è unita non in forza dell'imposizione o del controllo e

pianificazione, ma perché condivide la stessa esperienza interiore fonte di libertà.

Quando l'esperienza umana è condivisa la lingua diventa mezzo di comunicazione,

non di conflitto e divisione. La storia della torre di Babele si conclude con la

confusione delle lingue, che è l'espressione della conflittualità umana. Dove gli

uomini tentano di instaurare una umanità pianificata imperialistica le lingue

diventano segno di divisione e di conflitto. Invece dove l'azione di Dio modifica i

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rapporti umani profondi la lingua diventa mezzo di comunicazione tra di loro e i

popoli possono conservare la propria identità culturale.

Subito dopo, infatti, il testo degli Atti riporta l'elenco dei popoli convocati e uniti

dallo Spirito santo. Questa è la nuova umanità, l’anti-Babele. Tutti capiscono nella

propria lingua. E' la possibilità di comunicare dentro la propria cultura perché la

base di unità non è l'imposizione di un costume, di un modo di produrre e di pensare,

ma è l'azione dello Spirito: «Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere

di Dio» (2,11). Questo è il contenuto del parlare nuovo: l'azione salvifica di Dio. E

questa esperienza è comprensibile a tutti al di là della differenza etnica e linguistica,

purché ci sia l'apertura della fede.

L'elenco dei popoli segue una linea geografica ideale che parte dall'oriente, per chi

vive in Palestina, dalla Mesopotamia, e prosegue verso occidente, passando per

l'Anatolia, Asia minore e Africa fino a giungere a Roma. Questa linea è quella che

percorre la missione cristiana nell'annuncio del Vangelo. Luca dunque ha convocato

per la pentecoste cristiana i destinatari della 'buona notizia', quelli ai quali verrà fatto

l'annuncio evangelico secondo il percorso tracciato da Gesù risorto. Allora la

possibilità di capire nella propria lingua le 'opere di Dio' non è altro che la co-

municazione del Vangelo, la 'buona notizia' della salvezza, della pace e della libe-

razione in Gesù Cristo dentro la propria cultura. Questa sarà l'esperienza che faranno

i missionari cristiani annunciando il Vangelo dentro la cultura greco-ellenistica senza

imporre ai diversi popoli la cultura dei giudei.

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Qui sta la differenza tra la missione cristiana, il proselitismo e la propaganda. Il

proselitismo tende a far entrare le persone nel 'movimento', a dare la tessera e

sequestrare; la propaganda tende a catturare le persone e a pianificare le culture. La

missione cristiana riunisce gli uomini liberati là dove vivono, dentro la propria cultura.

L'esperienza di amore e di libertà, dono di Dio e dello Spirito, ha una lingua

internazionale. Dove le persone non sono unite in base all'economia o all'ideologia,

ma in forza dell'amore e della libertà, lì c'è la comunicazione, dono dello Spirito.

La pentecoste degli Atti è la pagina programmatica della chiesa, che sta all'inizio

come un manifesto cristiano: l'umanità nuova è l'anti-Babele che nasce dall'azione

dello Spirito, dove c'è la possibilità di comunicare perché la legge è posta nei cuori e

diventa fonte di amore e di libertà.

Però non basta l'entusiasmo, il parlare estatico o la preghiera esaltante per affermare

l'esperienza dello Spirito. Si può confondere un gruppo di entusiasti religiosi con un

gruppo di drogati. Che differenza c'è tra la droga collettiva e l'esperienza dello Spi-

rito? Qual è il criterio di discernimento? Solo il riferimento all'azione storica di Dio

culminante in Gesù permette di distinguere l'esperienza di libertà e di amore, dono

dello Spirito, dall'autoesaltazione o consumo di emozioni religiose in forma collet-

tiva. Due criteri concreti propone l'intervento di Pietro per la verifica

dell'esperienza dello Spirito: il confronto con la parola di Dio e con l'evento salvifico

di Gesù Cristo. Prima di tutto nel dono dello Spirito a pentecoste si attua la promessa

attesa per i tempi messianici: tutto il popolo di Dio sarà 'profetico'. Nel linguaggio

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comune 'profeta' significa indovino. Nel linguaggio biblico 'profeta' è colui che

parla a nome di Dio e cerca di leggere il progetto di Dio dentro la storia partendo

dall'esperienza di fede del passato e riconoscendo nel presente i segni del futuro.

Per l'autore degli Atti la profezia o il parlare profetico a nome di Dio è l'annuncio del

Vangelo. Gli uomini cambiati dallo Spirito, sono resi capaci di leggere nella storia e

nella propria vita l'azione di Dio e di proporla agli altri come 'buona notizia'. La

novità che annuncia Pietro sulla base della parola di Dio è questa: il dono dello

Spirito non è riservato ai capi, ai notabili, ma è dato a tutto il popolo di Dio.

Nell'AT lo Spirito era dato ai re, ai profeti, ai sacerdoti, cioè a quelli che avevano

un compito di guida nella comunità. Secondo il testo degli Atti lo Spirito è dato a

tutti senza distinzione di generazione, di età e di cultura. Per annunciare il Vangelo

non occorrono permessi, perché ogni cristiano vi è abilitato dal dono dello Spirito

ricevuto con i sacramenti. Nella chiesa ci sono compiti diversi, ma una sola è la di-

gnità: tutti sono figli di Dio liberi.

IL DISCORSO DI PIETRO 1-11

contesto

Quello del capitolo 2 non è il primo "discorso" di Pietro: già in 1, 16-22 egli aveva

preso la parola per sostenere la necessità di colmare il vuoto lasciato da Giuda me-

diante un dodicesimo componente del gruppo degli Apostoli.

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Il discorso di 2, 14-36. 38-40 è invece rivolto ad ascoltatori non cristiani con lo

scopo di convincerli a riconoscere Gesù Cristo come il loro Salvatore e Signore.

Il contesto del discorso è la discesa dello Spirito Santo su "tutti" quelli che erano ri-

uniti, cioè sulle 120 persone menzionate nel cap. 1. Dalla fine del v. 2 risulta che era-

no in una "casa", che potrebbe essere quella menzionata in 1, 13. Ma non va di-

menticato che il termine greco oikos era usato nel giudaismo per indicare il tempio.

La discesa dello Spirito è descritta con le immagini del vento e delle lingue di fuoco.

Bisogna però osservare che Luca è consapevole dell'approssimazione di queste

immagini, e lo indica premettendo due volte la particella "come" prima dell'imma-

gine.

Non c'è alcuna incertezza, invece, sull'effetto dello Spirito: essi furono tutti pieni di

Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro

d'esprimersi ( v. 4).

L'interpretazione di questo versetto non è facile, e ha dato luogo a soluzioni diverse

del problema detto "delle lingue", anche perché il contesto sembra già suggerire più di

una interpretazione.

All'inizio del brano e poi al v. 13 sembra trattarsi di un parlare incomprensibile, al

punto da far pensare che gli Apostoli fossero ubriachi. Invece i vv. da 5 a 11

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sembrano proporre la teoria che gli Apostoli parlassero le varie lingue degli

ascoltatori, cioè della folla cosmopolita che prendeva parte al pellegrinaggio

pasquale (cf v. 6: "ciascuno li sentiva parlare la propria lingua"; e v. 11: "li

udiamo annunciare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio").

Questo apparente contrasto portò nel secolo scorso a vedere in questo capitolo la

combinazione di due fonti del medesimo racconto: l'una avrebbe interpretato il fatto

come conoscenza sovrannaturale di lingue diverse, parlate ciascuna da un diverso

predicatore; l'altra l'avrebbe interpretato come uso di un linguaggio misterioso, non

corrispondente a nessun idioma dell'epoca, ma estremamente comunicativo grazie

all'emozione di chi lo parlava e forse anche grazie alla gestualità che lo

accompagnava. Linguaggi di questo genere sembra venissero usati nelle comunità

primitive in territorio ellenistico, per esempio a Corinto. Infatti dalle lettere di Paolo

ai Corinzi sembra che la comunità si abbandonasse, di quando in quando, a

manifestazioni estatiche, fra le quali c'era anche l'uso di esprimersi con suoni

inarticolati e incomprensibili. In 1Cor 14, 1-25 Paolo dà alcuni consigli alla comunità

di Corinto sull'uso delle "lingue", ed è chiaro che si trattava di "lingue" non

comprensibili alla gente qualsiasi, cioè ad ascoltatori occasionali (v. 23); perciò Paolo

raccomanda che il "parlare in lingue" sia sempre tradotto (da un interprete) nella

lingua comprensibile a tutti (v. 27). Lui stesso, Paolo, afferma di possedere il dono

delle lingue, ma di parlare preferibilmente nella lingua di tutti, perché sono più utili

cinque parole comprensibili che diecimila incomprensibili (v.19).

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Gli interpreti di Atti 2 che rifiutano la teoria del linguaggio carismatico e incom-

prensibile si appoggiano ai vv. 6 e 11 che accennano all'ascolto da parte della folla

come se gli Apostoli parlassero nella lingua corrente di ogni nazione rappresentata tra

i Pellegrini. Ma anche questo dato si presta a più di una interpretazione. Se ogni

apostolo avesse parlato, miracolosamente, una lingua diversa, come avrebbero potuto

udirla persone che non erano prima state divise o raggruppate in base alla nazionalità

o alla lingua ma erano probabilmente mescolate in una folla composita ed

eterogenea? Oppure: si sarebbe trattato di un miracolo di udito più che di un miracolo

di linguaggio, nel senso che lo Spirito santo avrebbe reso gli uditori capaci di ricevere

la testimonianza degli Apostoli come se fosse stata pronunciata nella lingua di

ciascuno di loro? Infatti il testo biblico dei vv. 6 e 11, in contrasto con quello del v.

4, non dice che parlassero le lingue degli ascoltatori, ma che gli ascoltatori li udivano

parlare nella propria lingua.

L'ipotesi della combinazione di fonti diverse, ciascuna delle quali avrebbe proposto

una diversa spiegazione del miracolo, urta contro il carattere lineare e unitario del

nostro brano.

Un altro tentativo di spiegare il racconto lucano parte dalla circostanza in cui av-

vengono i fatti narrati: la festa ebraica di sabu'ot. Questa era in origine una festa di

ringraziamento per il raccolto, diventando poi la festa per il dono della Legge da

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parte del Signore. Se questo significato della festa fosse già stato dominante all'epoca

dei fatti narrati, o per lo meno al tempo di Luca, si potrebbe ipotizzare un colle-

gamento tra i fatti della Pentecoste cristiana e gli eventi del Sinai. La tradizione giu-

daica dice che le nazioni sarebbero state testimoni del dono della Legge fatto a

Israele sul monte Sinai; e un rabbino del terzo secolo, R. Jochanan, dice che al Sinai la

voce di Dio si sarebbe divisa in 70 lingue, numero corrispondente a quello dei vari

popoli della terra. Ma anzitutto questo detto è tardivo: poi bisogna tener conto che la

trasformazione del significato della festa di sabu'ot non sembra essersi verificata

prima della caduta di Gerusalemme (70 d.C.); anzi, ne fu forse una conseguenza.

Né Filone né Giuseppe Flavio collegano la festa con gli eventi del Sinai. Non si può

dunque ricavare il significato del racconto lucano della festa giudaica come si

strutturò in tempi successivi.

La difficoltà di rispondere alla domanda: che cosa è veramente accaduto il giorno di

Pentecoste a Gerusalemme? Ci richiama al fatto che gli scritti biblici non sono stati

redatti per fornire una cronaca storica o giornalistica di ciò che è avvenuto, ma per

portare un messaggio ai credenti dell'epoca. La domanda corretta da porre è dunque

quest'altra: che cosa voleva significare Luca con questo brano? Che messaggio voleva

recare? Che appello voleva rivolgere? Se rileggiamo anche il cap. 1 degli Atti, sembra

ovvio collegare l'episodio di Pentecoste alle parole di 1, 8: "avrete forza dallo Spirito

santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme ...": la promessa del

Signore si adempie appunto nel fatto riferito dal cap. 2 in conseguenza della "forza"

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che i dodici ricevono dallo Spirito santo. Proprio quei discepoli che al momento

dell'arresto e durante il processo avevano abbandonato Gesù, sono ora quelli che

coraggiosamente scendono in mezzo alla folla a proclamare che Gesù è il Signore e

Salvatore. La chiarezza di questo messaggio lucano è molto più significativa delle

piccole incoerenze del racconto. Le quali, tra l'altro, non mettono in dubbio la realtà di

ciò che è avvenuto, ma rivelano tentativi diversi di spiegarne la natura e le modalità.

È sullo sfondo di questo fatto che Luca propone il primo discorso

missionario di Pietro.

2. STRUTTURA E ANALISI DEL DISCORSO

a) Esordio, vv. 14b-21.

b) Corpo del discorso: la testimonianza su Gesù:

- attività terrena di Gesù, v. 22;

- processo e morte di Gesù, v. 23;

- la risurrezione di Gesù, w. 24-32;

- ascensione e glorificazione di Gesù, w. 33-36.

c) Conclusione e appello, w. 38 -40.

L'esordio

Critiche della folla: sospetto di ubriacatura (cf. invece 1Ts 5,7)Spiegazione del fatto da

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parte di Pietro: compimento di Gl 3,1-5I a) enfatizzazione della natura escatologica del

fenomeno profetico; b) parola conclusiva del profeta: transizione al corpo centrale del

discorso e al suo appello conclusivo: Gesù è il Signore e chi lo accetta avrà il

perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo.

Il corpo del discorso

• La parte centrale del discorso è dedicata alla persona di Gesù Cristo (vv. 22-3 6)

• 13 versetti dedicati alla risurrezione, ascensione e glorificazione: scopo

apologetico

• Momento essenziale del messaggio cristiano è «Dio (lo) ha risuscitato e

costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso»

• Il brano centrale è intessuto di citazioni bibliche: Sal 16,8-11 ? 2Sam 7,12-13

• La glorificazione del Risorto è confermata dal Sal 110,1: la promessa

trascende la persona di Davide che non salì al cielo

L'omissione dell'aspetto soteriologico è costituito dal carattere iniziale del

discorso.

L'appello conclusivo

• Luca immagina una domanda degli ascoltatori (v. 37) per agganciarvi

l'invito apostolico al pentimento e all'accettazione della salvezza.

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• La risposta di Pietro contiene una motivazione importante (v. 39); richiamo delle

promesse divine racchiuse nella Scrittura, punto di partenza e giustificazione

dell'insistenza di Pietro nel suo appello: Dio vuole la salvezza per i giudei e i loro

figli, e per i pagani (cf. At 22,21)

• All'interno di questa promessa Pietro evidenzia due doni: la remissione dei peccati

e il dono dello Spirito Santo (v. 38): il primo chiude con il passato, il secondo apre al

futuro.

• Il terzo elemento dell'appello è costituito dagli imperativi: «Pentitevi... Ciascuno di

voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo... Salvatevi da questa generazione

perversa» (vv. 38 e 40): "Pentitevi" = richiesta di tipo decisionale; il verbo utilizzato

significa trasformazione dell'atteggiamento mentale, inversione di rotta (Lo stesso

significato ha l'esortazione del v. 40); ma, oltre la rottura col passato abbiamo anche

qui l'inizio di una vita nuova, simboleggiata dal battesimo nel nome di Gesù (Cf.

Rm 6,1-8; Col 3,8; Ef 4,24). E' importante la precisazione «nel nome di Gesù», che

fa del battesimo l'inaugurazione di un rapporto personale con lui.