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ANTLANTE ANTROPOLOGICO Questo Atlante Antropologico è il frutto di un'attività di studio e di ricerca svolta dal Consorzio Civita (Roma) per conto della società consortile Rocca di Cerere (Enna). L'attività di ricerca, promossa nell'ambito del Programma di Iniziativa Comunitaria Leader II, si inserisce nel più ampio contesto dei progetti di innovazione rurale, di recupero della cultura contadina e di istituzione di musei etno-antropologici nel territorio. L'area territoriale considerata è quella appartenente a otto comuni della provincia di Enna, riuniti e associati in un Gruppo di Azione Locale allo scopo di aderire all'Iniziativa Comunitaria: Aidone, Àssoro, Enna, Leonforte, Nissorìa, Piazza Armerina, Valguarnera, Villarosa. Le risorse, i beni, gli eventi di interesse antropologico segnalati nell'Atlante riguardano un patrimonio culturale piuttosto omogeneo nell'area degli otto comuni indicati, talvolta con differenziazioni tuttavia riconducibili ad un unico assetto tradizionale, facente parte, peraltro, del più ampio contesto culturale dell'entroterra siciliano. La mappa cartografica riporta la distribuzione degli elementi individuati nel territorio, in particolare per ciò che riguarda le architetture rurali e i siti minerari. 2011 Pubbicato nel sito di Villa Chincana www.roccadicerere.it 18/01/2011

Atlante antropologico

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Questo Atlante Antropologico è il frutto di un'attività di studio e di ricerca svolta dal Consorzio Civita (Roma) per conto della società consortile Rocca di Cerere (Enna). L'attività di ricerca, promossa nell'ambito del Programma di Iniziativa Comunitaria Leader II, si inserisce nel più ampio contesto dei progetti di innovazione rurale, di recupero della cultura contadina e di istituzione di musei etno-antropologici nel territorio. L'area territoriale considerata è quella appartenente a otto comuni della provincia di Enna, riuniti e associati in un Gruppo di Azione Locale allo scopo di aderire all'Iniziativa Comunitaria: Aidone, Àssoro, Enna, Leonforte, Nissorìa, Piazza Armerina, Valguarnera, Villarosa.

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ANTLANTE ANTROPOLOGICO

Questo Atlante Antropologico è il frutto di un'attività di studio e di ricerca svolta dal Consorzio Civita (Roma) per conto della società consortile Rocca di Cerere (Enna). L'attività di ricerca, promossa nell'ambito del Programma di Iniziativa Comunitaria Leader II, si inserisce nel più ampio contesto dei progetti di innovazione rurale, di recupero della cultura contadina e di istituzione di musei etno-antropologici nel territorio. L'area territoriale considerata è quella appartenente a otto comuni della provincia di Enna, riuniti e associati in un Gruppo di Azione Locale allo scopo di aderire all'Iniziativa Comunitaria: Aidone, Àssoro, Enna, Leonforte, Nissorìa, Piazza Armerina, Valguarnera, Villarosa. Le risorse, i beni, gli eventi di interesse antropologico segnalati nell'Atlante riguardano un patrimonio culturale piuttosto omogeneo nell'area degli otto comuni indicati, talvolta con differenziazioni tuttavia riconducibili ad un unico assetto tradizionale, facente parte, peraltro, del più ampio contesto culturale dell'entroterra siciliano. La mappa cartografica riporta la distribuzione degli elementi individuati nel territorio, in particolare per ciò che riguarda le architetture rurali e i siti minerari.

2011

Pubbicato nel sito di Villa Chincana www.roccadicerere.it

18/01/2011

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Presentazione

Questo Atlante Antropologico è il frutto di un'attività di studio e di ricerca svolta dal Consorzio Civita (Roma) per conto della società consortile Rocca di Cerere (Enna). L'attività di ricerca, promossa nell'ambito del Programma di Iniziativa Comunitaria Leader II, si inserisce nel più ampio contesto dei progetti di innovazione rurale, di recupero della cultura contadina e di istituzione di musei etno-antropologici nel territorio. L'area territoriale considerata è quella appartenente a otto comuni della provincia di Enna, riuniti e associati in un Gruppo di Azione Locale allo scopo di aderire all'Iniziativa Comunitaria: Aidone, Àssoro, Enna, Leonforte, Nissorìa, Piazza Armerina, Valguarnera, Villarosa. Le risorse, i beni, gli eventi di interesse antropologico segnalati nell'Atlante riguardano un patrimonio culturale piuttosto omogeneo nell'area degli otto comuni indicati, talvolta con differenziazioni tuttavia riconducibili ad un unico assetto tradizionale, facente parte, peraltro, del più ampio contesto culturale dell'entroterra siciliano. La mappa cartografica riporta la distribuzione degli elementi individuati nel territorio, in particolare per ciò che riguarda le architetture rurali e i siti minerari.

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Le Zolfare e la Cultura Mineraria

L'enorme bacino gessoso-solfifero che ricopre una vasta area dell'entroterra siciliano, estendendosi in direzione NE-SW su una superficie di più di cinquemila kmq., occupa gran parte delle province di Agrigento, Enna e Caltanissetta e costituisce uno dei bacini minerari più importanti d'Europa. Noto fin dall'antichità e a lungo sfruttato anche se solo in superficie, dal XIX secolo vede l'inizio di forme di estrazione intensiva, con sistemi di coltivazione in profondità e con attività estrattive a carattere marcatamente industriale.

Per un periodo di oltre centocinquant'anni, le miniere di zolfo costituiscono una delle principali fonti di reddito per molti comuni dell'entroterra nisseno ed ennese, aprendo un settore di attività del tutto nuovo nel panorama economico dell'area che offrirà lavoro a molte famiglie tradizionalmente contadine. Accanto al contadino, al pastore, all'artigiano si affianca, quindi, la figura del minatore con una caratterizzazione del tutto peculiare in senso sociale e culturale. La vita in miniera incide solchi profondi sul sistema socio-economico di tutta l'area interessata, e scrive un capitolo di storia siciliana tra i più importanti, anche se di relativa breve durata, che si dipana tra bruschi mutamenti culturali, condizioni lavorative aberranti, sfruttamento minorile, lotte sociali, ma che vede anche la nascita di una coscienza operaia normalmente estranea al contadino siciliano

.

Gli otto comuni dell'area qui considerata sono tutti più o meno coinvolti, socialmente e culturalmente, in questo episodio storico dello zolfo (Villarosa, Valguarnera e Assoro in maniera emblematica). Tutti, in misura maggiore o minore, hanno contribuito in termini di manodopera, di vissuti drammatici, di gravi menomazioni fisiche riportate. Intere vite concesse alle pirrere (miniere) fin dalla prima adolescenza. La complessa gerarchia tradizionale prevedeva, infatti, varie figure di minatori (surfarara) tra cui emergevano per singolarità i carusi, bambini anche di 7-8 anni al servizio dei picconieri (pirriaturi o picunieri). Questi giovanissimi operai

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erano generalmente addetti al trasporto del materiale grezzo dal punto di scavo sotterraneo fino alla superficie, attraverso stretti e ripidi cunicoli (dinscenderie) che ben si addicevano ai loro corpi minuti.

Al controllo delle varie attività vi erano i capomastri (capumastri), prescelti, oltre ché per la loro esperienza maturata, anche per particolari attitudini tracotanti e dispotiche. Il sistema di gestione delle miniere

prevedeva, infatti, una gerarchia di ruoli piuttosto marcata e un organizzazione sociale che rifletteva quella già ampiamente collaudata nel sistema latifondista. Le miniere venivano concesse in affitto ai picconieri (con

il sistema delle gabelle), secondo una pratica di tipo feudale che comportava le tipiche implicazioni sociali dovute al sistema degli affitti: sfruttamento intensivo dei giacimenti senza alcuna progettualità, sfruttamento

della manodopera (soprattutto minorile), gerarchia piramidale dei ruoli, mancanza di garanzie sociali.

Il clima sociale e culturale determinato dalla vita in miniera diviene, negli anni, così drammatico da ispirare numerosi e illustri intellettuali, scrittori, artisti che lo esprimono in opere e versi rimasti memorabili: da Pirandello a Sciascia, da Verga a Carlo Levi, fino ai più recenti contributi letterari (Consolo, Buttitta,

Camilleri) e filmici (Aurelio Grimaldi, La discesa di Aclà a Floristella, del 1992, sulla misera vita dei carusi, ambientato nella miniera di Floristella).

Testimoni di questo contributo di vite e di braccia consacrate alle miniere sono attualmente i diversi circoli zolfatai presenti nei centri urbani di Assoro, Valguarnera, Piazza Armerina, Villarosa. Simili agli altri circoli ricreativi di categoria, essi si riempiono nel tardo pomeriggio di anziani ex-minatori sui cui volti è possibile leggere i segni delle dure esperienze vissute nelle cave di zolfo, tra pozze d'acqua, esalazioni di "grisou"

(temibile gas solforoso altamente infiammabile), temperature infernali e condizioni igieniche estremamente precarie. Tali circoli conservano anche elementi d'orgoglio per il minatore: vecchie foto, elmetti, lanterne, strumenti e attrezzi di lavoro, e soprattutto pietre e minerali di zolfo dalle forme più variegate. Costituiva,

infatti, un nobile passatempo delle pause lavorative dei minatori, l'usanza di modellare statuine e altri oggetti ornamentali facendo colare lo zolfo liquido su forme di gesso appositamente preparate o all'interno di

bottiglie di vetro. Vale la pena una visita al circolo zolfatai di Assoro (antistante il famoso Palazzo Valguarnera) che, per la sua atmosfera e per gli oggetti esposti nelle teche, assume le sembianze di un

piccolo museo dello zolfo.

Dai dati forniti dell'Ente Minerario Siciliano si deduce che, negli anni '20, nei territori di pertinenza degli otto comuni qui considerati erano attive più di 110 miniere. Di questi complessi minerari, di cui gli ultimi hanno terminato la loro attività negli anni '80, rimangono tracce più o meno evidenti nel territorio e alcuni di essi

possono essere considerati dei veri e propri musei all'aperto. E' il caso del complesso Floristella-Grottacalda, Ente Parco che accorpa in realtà due siti minerari di notevoli dimensioni, una delle più antiche e sfruttate zone estrattive situata al confine tra i territori di Enna e Piazza Armerina. Vale la pena percorrere a piedi il vasto complesso, contornato da una splendido paesaggio forestale, per osservare l'insieme delle strutture ancora ben conservate, che forniscono una vera e propria "stratigrafia" delle diverse epoche e dei relativi sistemi e tecniche di estrazione e di fusione. Ancora ben visibili e drammaticamente evocativi appaiono i calcaroni (fornaci circolari per la fusione del materiale grezzo), le discenderie (cunicoli per raggiungere il

punto di scavo sotterraneo), le gallerie, i castelletti, e, di periodo più recente, i pozzi verticali di discesa con ascensore (gabbie), il sistema ferroviario di carrelli da trasporto, i forni Gill (sistema più moderno di fornaci

per la fusione). Su un'altura, poco distante dalla lunga fila di calcaroni, si erge imponente il Palazzo Pennisi, antica residenza della famiglia proprietaria del complesso Floristella, la cui sontuosità ed estremo rigore

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architettonico generano una sorta di contrasto con l'austerità del luogo, fornendo un'immediata e suggestiva immagine di ciò che doveva essere l'estremo divario sociale dell'epoca.

Più piccoli ma ugualmente suggestivi gli altri siti minerari disseminati un po' ovunque nel territorio considerato. Ad Aidone, oltre alla miniera, risulta interessante una visita al Borgo Baccarato, minuscolo borgo minerario e successivamente agricolo, sorto negli anni '50 per ospitare i braccianti. Nei dintorni di

Assoro e di Leonforte, altri complessi solfiferi benché minori (Vodi, Zimbalio, Faccialavata) conservano però alcune tracce storiche interessanti, come il sistema di forni Gill ancora quasi intatti della miniera di

Faccialavata (Leonforte). Ulteriore suggestivo luogo strettamente legato alla cultura delle miniere è la cittadina di Villarosa (e la sua frazione di Villapriolo), un tempo centro urbano intensamente popolato di

famiglie di minatori grazie alla presenza di numerosi siti minerari (Gaspa-La Torre, Pagliarello, Santo Padre, Garciulla), oggi cittadina in via di spopolamento in cui, tuttavia, si avverte la presenza aleggiante di una memoria storica profondamente incisa dal "minerale giallo". Qui qualche anziano è ancora in grado di

intonare gli antichi canti di miniera, melanconico e commovente patrimonio "canoro", in via di estinzione, appartenente alla tradizione orale dei minatori.

La sfera devozionale della cultura mineraria era strettamente legata alla figura di Santa Barbara, generalmente protettrice dei minatori e di altre simili categorie di operai (ad esempio i pompieri), a cui i

zolfatai dedicavano edicole votive lungo i percorsi per le miniere. I minatori erano soliti onorare la ricorrenza della santa con feste ludiche, molto profane, in cui si lasciava spazio al vino, alla musica, al ballo e ai giochi di società. Nonostante le pratiche religiose non fossero molto coltivate, una certa ritualità sacrale informava alcune fasi del lavoro in minera e scandiva determinate azioni secondo la tipica concezione magico-religiosa delle culture popolari. A titolo di esempio, la prima forma di zolfo raffreddata ed estratta dal suo contenitore

in legno (gàviti) veniva accompagnata da una locuzione rituale atta a propiziare il buon esito della lavorazione: nnomu di Diu, è una (nel nome di Dio, è una; cfr. M. Castiglione, Parole del sottosuolo, Palermo

1999).

Allo stesso modo, era diffusa l'usanza di onorare la prima colata di zolfo successiva alla foratura della fornace (calcarone), mediante un banchetto rituale che prevedeva il consumo di un capretto cotto nello zolfo

fuso (crastu nzurfaratu). L'animale veniva avvolto con carta bagnata e immerso nel minerale liquido la cui alta temperatura provvedeva ad una cottura rapida, conservando sapori e aromi integri. L'originale piatto

veniva poi distribuito sul posto per il consumo collettivo e la festa assumeva anche la funzione di rafforzamento del senso di solidarietà tra i minatori.

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I siti minerari e le tracce nel territorio

Comuni di Enna e Piazza Armerina:

Complesso minerario Floristella Grottacalda

Uno dei più grandi siti minerari siciliani la cui apertura risale ai primi dell'Ottocento. Di proprietà

della famiglia Pennisi di Acireale fino al 1963, poi passata in mano all'Ente Minerario Siciliano, la

miniera di Floristella ha continuato la sua attività fino al 1987. L'Ente Parco Minerario omonimo,

costituitosi nel 1991, accorpa i due complessi solfiferi (Grottacalda e Floristella) che insieme

costituiscono uno dei migliori esempi di open air museum (museo a cielo aperto) relativo alla

cultura mineraria.

Comune di Villarosa:

Miniere Gaspa-La Torre e Pagliarello

Sebbene di piccole dimensione, le due miniere del territorio di Villarosa, emergono per la

suggestione ambientale dei luoghi in cui sono situate e per l'armonia con cui si fondono con il

paesaggio. Pagliarello conserva ancora molte strutture quasi intatte.

Comune di Assoro:

Miniere Zimbalìo, Vodi, Giangagliano

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Significativa, in questi siti minerari, la presenza di alcuni elementi peculiari ancora discretamente

conservati (il castelletto in legno a Zimbalìo, con i meccanismi delle gabbie comandati da funi

piatte). Suggestivi anche i valloni di Assoro in cui tali miniere sono situate, che esprimono una certà

austerità in linea con l'ambientazione mineraria.

Comune di Leonforte:

Miniera Faccialavata.

Vi si possono osservare, quasi intatti, i forni "Gill", sistema relativamente recente di fornaci per lo

scioglimento dello zolfo.

Comune di Aidone:

Complesso minerario Baccarato-Pintura-Mazzarino.

Si tratta di tre miniere di piccole dimensioni, situate a poca distanza l'una dall'altra, chiuse

definitivamente nel 1963. Rimangono visibili pochi elementi e strutture: alcuni "calcheroni", una

enorme torre per la "gabbia", sorta di ascensore, e alcuni resti delle strutture ferroviarie (vagoni e

carrelli).

I siti minerari offrono allo sguardo tracce di strutture, architetture, elementi, che ridonano alla

memoria la possibilità di immaginare i procedimenti, i metodi e le tecniche di estrazione e di

fusione. Come muti testimoni di un processo industriale abbandonato da anni, questi elementi

evocano ancora l'atmosfera austera e drammatica che caratterizzava la vita delle miniere. Ne

elenchiamo, di seguito, alcuni che emergono per il loro valore testimoniale e per la loro solida

persistenza nel paesaggio minerario.

Le Discenderie:

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Costituivano l'accesso alle gallerie sotteranee di scavo. Si presentano come grossi fori nel terreno,

cunicoli che "discendono" nel sottosuolo con pendenze piuttosto elevate. Alla sommità dei cunicoli

sono ancora visibili i gradini per agevolare la discesa, mentre suscita angoscia la loro dimensione

ristretta e il senso claustrofobico che ancora imprimono. Osservandoli, si capisce meglio la inumana

ma funzionale tendenza a sfruttare i carusi, i bambini minatori, per il trasporto del materiale dal

sottosuolo alla superficie. Nel complesso di Floristella sono visibili particolari tipi di discenderia,

con arco sopraelevato rispetto al terreno, con funzioni di consolidamento e protezione per l'accesso,

mentre i più comuni sono semplici buche nel terreno.

I Calcaroni (o calcheroni):

Rappresentano il tipo di fornace più comune e più duratura nel tempo per la fusione del minerale.

Ampie fosse circolari, contornate da mura robuste, venivano riempite di materiale grezzo (la ganga)

fino alla sommità, conferendogli una struttura conica sopraelevata rispetto alle mura di

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contenimento. La ganga veniva ricoperta con strati di "rosticcio" (materiale di risulta della fusione)

per evitare pericolose dispersioni di anidride solforosa e per facilitare una combustione lenta. Dopo

aver sistemato il calcarone, alcuni operai (gli ardituri) provvedevano all'accensione del cumulo di

ganga e la combustione durava parecchi giorni. Veniva poi effettuato un buco nella parte anteriore

della fornace (la morti) da cui fuoriusciva lo zolfo liquefatto.

Dei calcaroni rimangono tracce evidenti in quasi tutti i siti minerari sopra elencati. Risulta

suggestiva lo loro disposizione in lunghe file ancora circondate dalla polvere gialla del minerale.

I Forni Gill:

Uno degli ultimi sistemi di fusione che prese il nome dal suo inventore e si sostituì al calcarone

negli ultimi decenni di attività delle miniere. Il forno Gill differiva dal suo predecessore per la

copertura dell'ammasso di ganga in muratura anziché con il rosticcio, e per la disposizione delle

camere di combustione. Esse erano in genere tre o quattro e venivano unite tra loro da canali di

comunicazione. L'accensione della prima camera generava la successiva accensione delle altre.Tale

sistema permetteva una minore dispersione del minerale e una combustione più veloce e a ciclo

continuo. I migliori esemplari di questo tipo di fornaci sono visibili nella minera di Grottacalda

(Enna-Piazza Armerina) e in quella di Faccialavata (Leonforte) dove ne esistono delle batterie quasi

intatte.

Gabbie e Castelletti:

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sorta di rudimentali ascensori per il prelevamento dei vagoni e carrelli carichi di zolfo, dalla

profondità fino alla superficie. Tali strutture di elevazione presentano alla sommità delle enormi e

imponenti "gabbie" o "castelletti", dove è collocato l'argano e il sistema di trazione, tuttora rimasti

in piedi in molte miniere della zona. L'arganista era in contatto con gli operai che lavorano negli

scavi sotterranei attraverso un linguaggio di comunicazione basato sui colpi inferti sul metallo. Gli

esemplari più suggestivi di tali strutture sono visibili nei siti di Floristella, Baccarato e Zimbalìo.

Vagoni, carrelli e struttura ferroviaria: negli ultimi decenni di attività delle miniere, il trasporto

del materiale grezzo avveniva per mezzo di vagoni trasportati da un locomotore. Un doppio binario

in ferro (uno per l'andata e uno per il ritorno) collegava il punto di scavo e caricamento con quello

esterno di scaricamento. Alcuni operai erano addetti a tale che avveniva continuamente, 24 ore su

24. Rimangono diverse tracce di questo sistema di trasporto su ferro di cui le più interessanti sono

quelle del sito di Floristella, dove, sparsi tra i ruderi delle officine, si possono ancora osservare

numerosi carrelli e qualche piccolo locomotore. Particolarmente interessante il punto di arrivo della

ferrovia con in complesso sistema di svuotamento meccanizzato dei carrelli.

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Ulteriore elemento di interesse, oltre alle strutture in muratura che ospitavano le officine, la mensa

degli operai e altri locali, risulta essere, a Floristella, il sistema di pesatura dei mezzi di trasporto

pesanti per la misura del minerale che usciva dalla miniera. Situata all'ingresso del complesso

minerario, l'enorme stadera, interrata nel piano carreggiabile, aveva una guardiola apposita per

l'operaio addetto al controllo quantitativo; in essa è ancora visibile il pannello elettrico di controllo.

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Detti, proverbi e racconti della cultura mineraria

La categoria dei minatori ha prodotto, al pari delle altre categorie lavorative, un corpus di detti, proverbi, motti, canti che testimonia un'attitudine espressiva tipica delle culture di tradizione orale. Il contenuto di queste espressioni è quasi sempre ispirato al dramma, all'avvilimento e alla disperazione che avvolgevano la vita dei minatori, mentre la forma assume diverse articolazioni stilistiche, siano esse detti, locuzioni, motti, proverbi, imprecazioni. Molto spesso tali forme espressive venivano cantate, con intonazioni austere e melanconiche, nei momenti di pausa o durante i tragitti da e verso le miniere. Si riportano, di seguito, alcuni esempi del patrimonio orale legato alle miniere, un patrimonio, tuttavia, di cui si è persa quasi totalmente ogni traccia nella memoria vivente. Per i canti di miniera, si rimanda al capitolo "Musica ed espressività orale".

Le imprecazioni

(Raccolte dal Pitré e citate in G. Candura, Miniere di zolfo in Sicilia, Caltanissetta-Roma, 1990.)

Maliditta mè matri ca mi crià! Porcu lu parrinu ca mi vattìa!

Cristu era megliu ca mi faciva porcu Almenu all'annu mi scannavanu La pigliava 'nsacchetta e muria!

Detti e motti di minatori raccolti nel territorio di Villarosa dal "Gruppo di cultura e Tradizione di Villarosa" (L.S.U. ex art. 23, legge 67/88), coordinato da Paola Calabrese. Tali detti, patrimonio orale recitato soprattutto dai carusi, i bambini delle miniere, venivano spesso cantati con strutture melodiche ripetitive e intonazioni piuttosto melanconiche. Parte di essi è riportato, con varianti lessicali e trascrizioni dialettali differenti, anche in M. Castiglione, Parole del Sottosuolo, Palermo, 1999.

"O mamma, m'ammazzu! A purtari lu saccu 'n cuddu Nun ci la fazzu"

"Lu vù sapiri quantu n'aju fattu? Quantu pila di baffi javi u gattu"

"E chi ti pari ca vaju a muriri? A Trabunedda vaju a travagliari"

"Quannu pigliaru lu sùrfaru a Gaspa Lu capumastru divintà na vespa"

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"Ni sta pirrera nun si vidi cchiù lustru Quant'à ca ccè u Lupu capumastru "

Proverbi della tradizione orale dei minatori, tratti da M. Castiglione, Parole del Sottosuolo, Palermo, 1999.

Terrenu a parmu e sùrfaru a ugnu, (il terreno si misura a palmi, lo zolfo a "unghia", cioè in piccole quantità).

Sùrfaru tagliatu è mezzu scippatu. (zolfara già tracciata facilita l'estrazione del minerale)

Lu picuni è poviru ma pulitu. (il piccone è semplice ma preciso, al contrario del metodo dell'esplosione delle mine)

Turrenu sutt'acqua e pirrera senz'acqua. (si riferisce alla situazione perfetta per i terreni agricoli, pieni di acqua, e per le miniere, asciutte e senza pozze d'acqua).

Muriri comu lu surci sutta la bbalata. (morire come il topo schiacciato sotto la forma di zolfo. Modo di dire legato ai frequenti incidenti che accadevano in miniera per i crolli delle gallerie)

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Canti di miniera

I canti dei minatori, nati dall'esigenza di esternare il proprio vissuto, sono espressione poetico-musicale fortemente contestuale alla condizione esistenziale e lavorativa che descrivono, ora con toni meditativi e solitari, ora con toni di denuncia sociale. L'espressione del testo verbale è primaria rispetto alla forma melodica che riprende la struttura della canzone popolare siciliana.

Puviri surfarara sbinturati

Ca notti e jornu sutt'a terra siti

Sempri amminzu li periculi ci stati

E pallita la facci vi faciti

Ddi fatti a cincu grana ca vuscati

Subbitu a la taverna li spenniti

E quanno duppu muriti, chi lassati?

Ddu strazzu di picuni si l'aviti

Luogo di rilevamento: Villarosa (registrazione a cura di Maria Nicoletti)

denominazione locale: canti 'r 'a surfara

esecuzione: voce maschile

Strumenti musicali: occasionalmente.

occasione-funzione: tragitto di andata e ritorno dalla miniera, pause lavorative.

(Traduzione: poveri minatori sventurati/ che giorno e notte state sottoterra/ sempre in mezzo ai pericoli siete/ e pallido vi si fa il viso/ dei pochi soldi che guadagnate/ subito li spendete all'osteria/ e dopo morti che lasciate?/ uno straccio di piccone se l'avete.)

note musicali: ottava di endecasillabi con melodia che si ripete uguale ad ogni distico. Impianto tonale minore con ritmo ternario, ma nell'esecuzione vi è ampia libertà interpretativa. La libertà ritmica è caratteristica della musica siciliana antica. L'ambito melodico raggiunge l'intervallo di tredicesima, con andamento ondulante: ascendente nella prima parte del verso e discendente nella seconda.

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note dell'informatore: L'informatore, ex minatore di Villarosa, è tra i pochi a ricordare il repertorio musicale della sua categoria lavorativa. Un altro informatore, Filippo M., del circolo zolfatai "Pippo America" di Valguarnera, non ricorda i canti, ma la "gerarchia" di mestiere: "Ho lavorato dal '55 all' '84. Ho cominciato a 7 anni facendo il caruso, caricavo zolfo a spalla e lo portavo nei vagoni. Poi, a 13 anni circa si diventava garzone di miniera, vagonaro a 18, poi manovale specializzato e picconiere. Il picconiere doveva essere bravo a salvare la vita a lui e al manovale che stava con lui perché tutti i giorni si rischiava la vita, un minatore che scendeva non si sa se tornava, c'erano crolli, fughe di gas".

Il racconto di un minatore

Trascriviamo, qui di seguito, un brano sintetico dell'intervista a Giuseppe M., minatore di Aidone, che, negli anni cinquanta, ha lavorato presso la zolfara Baccarato.

"Nel '53 sono entrato alla miniera Baccarato come conduttore del treno a vagoni (lu locumuturi) che trasportava il materiale grezzo della miniera. Il lavoro era articolato in tre turni, di otto ore ciascuno, che coprivano le 24 ore. La miniera lavorava senza interruzione, 24 ore su 24. Nella miniera di Mazzarino ci lavoravano 18 operai per ogni turno di lavoro. Nella più grande (Baccarato) ci lavoravano circa 40 persone a turno, tutti di Aidone o Piazza Armerina. I vagoni scendevano a 300-400 metri sottoterra dove gli operai (rricivituri e ntivaturi) scavavano e li riempivano di zolfo, uno alla volta. C'era un doppio binario lungo il percorso, uno per il vagone che scendeva e uno per quello che saliva. Quando il vagone era pieno, gli operai suonavano un colpo (esisteva un codice di comunicazione basato sui colpi di lamiera sulla struttura metallica) e io andavo a prenderlo con il locomotore. Se c'era un incidente qualsiasi gli operai suonavano due colpi. Quando il carrello arrivava in superficie, altri operai provvedevano a svuotarlo nella cisterna apposita. Il materiale lo portavano poi a Catania, con i mezzi di trasporto pesanti, dove veniva lavorato in maniera più fine. A 300-400 metri di profondità faceva tanto caldo ed era tutto nero. Dovevi stare sempre con la maschera (anti-gas) e con il lume a gas. Si scavava tutto con i picconi a mano. Molto spesso dovevamo restare tutta la notte in profondità per tirare fuori l'acqua che si creava nei cunicoli. Quando si rimaneva tanto là dentro, anche se avevamo le maschere anti-gas, si usciva fuori e non si riusciva a vedere più niente; mia moglie allora mi metteva delle fette di patata negli occhi per far passare il bruciore. Mi ricordo un incidente che è avvenuto nel periodo in cui ci lavoravo io; due operai sono morti schiacciati da un crollo di un cunicolo in cui stavano scavando. Tutti e due giovanissimi. Le gallerie avevano dei rinforzi molto fragili, fatti da noi con le tavole di legno. Ci pagavano molto poco. In quel periodo prendevamo circa 35.000 lire al mese. Però eravamo tutti messi in regola in quel tempo; il lavoro era più organizzato di prima. I primi anni, noi minatori scendevamo a piedi da Aidone al Baccarato (circa 5-6 km.); poi più tardi, hanno messo un autobus che faceva da navetta. Nel '63 la miniera è stata chiusa dall'Ente Minerario Siciliano e tutti i lavoratori sono stati messi in cassa integrazione."

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Strumenti e oggetti di miniera

Probabilmente, alla necessità di dimenticare un capitolo storico così drammatico e buio come quello dello zolfare, è da ricondurre il motivo per cui rimangono poche tracce del patrimonio di strumenti e oggetti della cultura mineraria (escludendo quelli raccolti e conservati dall'Ente Parco Minerario Floristella-Grottacalda, comunque attualmente non fruibili da parte di chi ne fosse interessato). La tendenza del minatore è quella di disfarsi dei materiali legati al proprio mestiere e di dimenticare il patrimonio di tradizione orale, così ricco in passato, articolato in canti, detti, proverbi, di cui scarse tracce rimangono nella memoria attuale. Si riportano, di seguito, alcune schede sui principali oggetti e strumenti di miniera, ancora in qualche modo presenti sul territorio presso i siti minerari, collezioni private o presso alcune abitazioni di minatori.

A "lumera"

Nome (dialettale): lanterna (lumera)

Funzione: Utilizzata per illuminare i cunicoli di accesso e i luoghi di scavo sotterranei

Descrizione: Lanterna in terracotta alimentata da olio vegetale, con becco sporgente per la fuoriuscita della fiamma

Luogo di rilevamento: abitazione privata a Villarosa

La "citalena"

Nome (dialettale): lampada ad acetilene (citalena) Funzione: Utilizzata per illuminare i cunicoli di accesso e i luoghi di scavo sotterranei

Descrizione: Lampada in metallo, di forma cilindrica, alimentata dall'acetilene (liquido infiammabile) o carburo di calcio, che sostituisce, all'inizio del novecento, la precedente lanterna a olio (lumera). Luogo di rilevamento: abitazione di un ex minatore a Villarosa

"Lumi di sicurezza"

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Nome (dialettale): lampada elettrica (lumi di sicurezza) Funzione: Applicata sull'elmetto del minatore, serviva per illuminare i cunicoli di accesso e i luoghi di scavo sotterranei. Descrizione: lampada elettrica con alimentazione a batteria, applicata all'elmetto del minatore, con annessa batteria legata alla cintola della tuta da lavoro. Si tratta, cronologicamente, dell'ultimo sistema di illuminazione adottato dai minatori

Luogo di rilevamento: abitazione di un ex minatore a Villarosa

Li "scarpi canzati" Nome (dialettale): scarpe in gomma (scarpi canzati) Funzione: Costituivano parte integrante del corredo di indumenti utilizzati dal minatore fino ai primi decenni del '900. La gomma del pneumatico garantiva solidità e resistenza nel tempo.

Descrizione: Sorta di scarpe ottenute ritagliando pezzi di pneumatici in gomma; alcune stringhe applicate alla gomma permettevano la tenuta delle scarpe sul piede del minatore. Luogo di rilevamento: Piazza Armerina; collezione privata presso la sede dell'Associazione Nazionale Carabinieri.

U "Picuni"

Nome (dialettale): piccone (picuni) Funzione: Utilizzato per lo scavo vero e proprio, sia dei i cunicoli di accesso, sia per l'estrazione del materiale grezzo, in alternativa al metodo più grossolano della dinamite

Descrizione: Usuale piccone in ferro con manico in legno

Luogo di rilevamento: Presso diverse collezioni private e abitazioni dei minatori

"Palu - rriscidituri"

Nome (dialettale): palo (rriscidituri)

Funzione: Utilizzato per effettuare fori nella parte bassa del calcarone (fornace) allo scopo di far uscire lo zolfo liquefatto. Un tipo simile veniva utilizzato anche per praticare fori nella cava, dove poi inserire la dinamite

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Descrizione: Palo in ferro della lunghezza di poco più di un metro. Il secondo tipo di palo, più moderno del primo, aveva ad un'estremità una feritoia per l'innesto del martello pneumatico

Luogo di rilevamento: Aidone; agriturismo Cammarata, collezione privata

U "stirraturi"

Nome (dialettale): cesto di giunco (stirraturi)

Funzione: Utilizzato dai carusi (giovani minatori) per trasportare a spalla il minerale grezzo dal punto di scavo fino alla superficie

Descrizione: Cesto realizzato in fibre vegetali (in genere di giunco o di olivo selvatico) a forma conica; poteva trasportare circa 15 kg. di materiale grezzo

Luogo di rilevamento: Circolo Zolfatai di Assoro

A "pala" e u "furcali" Nome (dialettale): pala e forcone (pala - furcali) Funzione: Strumenti utilizzati per raccogliere il materiale grezzo e per il caricamento delle fornaci (calcaroni)

Descrizione: Ambedue in legno e di forma usuale. Si confondono, per le analogie funzionali, con quelli utilizzati nel mondo agricolo per paglia, fieno, granaglie, ecc.

Luogo di rilevamento: presso diverse collezioni private (agriturismo Cammarata di Aidone; Associazione Nazionale Carabinieri di Piazza Armerina) e presso abitazioni di minatori

U "gàviti"

Nome (dialettale): recipiente (gàviti) Funzione: Utilizzato per raccogliere lo zolfo fuso che cola dal calcarone (fornace). Dopo il raffreddamento, ne usciva fuori una forma trapezoidale di zolfo più facilmente trasportabile e di peso uniforme (circa 50-80 kg.)

Descrizione: Simile alla forma della maidda (madia) utilizzata per l'impasto del pane, il gàviti era in legno e di forma trapezoidale. Lo zolfo solidificato, prelevato dal gàviti, veniva poi trasportato nelle bisacce degli asini

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Luogo di rilevamento: qualche esemplare è ancora visibile tra i ruderi del complesso Floristella-Grottacalda

U "vaguni" Nome (dialettale): carrello (vaguni) Funzione: Carrello preposto al trasporto del materiale dal luogo di scavo in profondità fino alla superficie

Descrizione: Il carrello, in ferro e di notevoli dimensioni, veniva riempito di minerale e transitava lungo appositi binari fino al punto di svuotamento, trainato da un apposito locomotore.

Luogo di rilevamento: Vari esemplari sono visibili nei siti minerari di Floristella, Baccarato, Zimbalìo

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Agricoltura e cultura contadina

La forte vocazione agricola della provincia ennese trae le sue origini da un sostrato storico remoto, intrecciato con il mito e legato alle forme di sviluppo della proto-agricoltura nel mediterraneo, cioè alle prime forme di insediamento stanziale delle comunità neolitiche di cacciatori-raccoglitori. Testimonianze archeologiche dell'area centro-orientale siciliana ci indicano la presenza, in questi luoghi, di villaggi neolitici di epoca "cardiale" (così denominata per il tipo di ceramica utilizzata) in cui la popolazione, oltre alle attività di caccia e pastorizia, inizia a praticare la coltivazione dell'orzo. Connesse a tale protoforma agricola sono anche le prime rudimentali macine rinvenute nell'area, azionate a mano con l'aiuto di un mestolo d'osso del tipo diffuso nell'area balcanica.

La definitiva affermazione della coltivazione estesa del frumento nell'entroterra siciliano ha inizio durante il periodo ellenico e si estende a largo raggio nel corso della dominazione romana, epoca in cui la regione assume l'emblematico toponimo di "provincia del frumento". L'orzo e il grano, prodotti cerealicoli fondamentali nell'economia di sussitenza delle civiltà classiche, caratterizzano lo scenario agro-pastorale del territorio per molti secoli e, ben oltre le testimonianze storiche, fissano la loro rilevanza simbolica nel complesso mitico delle divinità greco-romane Demetra/Cerere e Kore/Proserpina. A tale complesso mitico, diffuso universalmente nell'area mediterranea, è attribuita la nascita del ciclo agrario stagionale; ad esso si ricollega la simbologia del grano come fonte di vita e di sussistenza promanante dalle divinità mitologiche, che proprio ad Enna vedono sorgere i più imponenti luoghi di culto ad esse dedicati.

Le rocce, i valloni, le grotte e le fertili colline del territorio ennese vengono a rappresentare, quindi, nell'immaginario delle civiltà classiche, la culla, reale e simbolica, dell'attività agricola sistematica, basata sulla coltivazione non occasionale ma strutturata e intensiva di orzo e frumento. Una connotazione agricola storica e mitologica, pertanto, rappresentativa della primaria importanza che questa attività deve aver avuto per lunghi secoli nell'area in questione.

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Un ulteriore sviluppo dell'agricoltura, in termini di tecniche e di prodotti, viene apportato in Sicilia dalla dominazione araba, momento in cui alla tradizionale produzione cerealicola viene affiancandosi la diffusione degli ortaggi, degli agrumi, degli alberi da frutto. Furono gli Arabi, infatti, i primi ad introdurre arance e limoni, frutti come la pesca e l'albicocca, ortaggi delicati come gli asparagi ed i carciofi, altre coltivazioni come il cotone, il carrubo, il riso, il pistacchio, le melanzane. La contaminazione culturale

indotta dalle continue invasioni di popoli diversi si esprime anche in questa ricchezza di prodotti naturali e nella raffinatezza delle tecniche di domesticazione e di miglioramento delle piante commestibili.

La diffusione del sistema del latifondo nei secoli XVI e XVII, come già accennato, viene a limitare questa estrema varietà di prodotti coltivati per dare spazio alla monocoltura estensiva del frumento, sistema di sfruttamento intensivo dei terreni legato alle particolari dinamiche socio-economiche imposte dall'organizzazione dei feudi. I terreni fondiari, molto spesso estesi su diverse centinaia di ettari, prevedevano una rotazione alternata dei seminativi (fava, frumento, orzo), secondo il tradizionale sistema legato al necessario ciclo di fertilizzazione e riposo delle terre coltivate. L'acquisizione di enormi possedimenti agrari da parte della classe baronale, sottoposti a coltivazioni cerealicole intensive, produce una pesante trasformazione del territorio, con forti disboscamenti e espiantazione delle colture arboricole.

Il latifondo e il connesso insediamento a masseria viene a caratterizzare il paesaggio agricolo della zona, in particolare nelle zone collinari che circondano Enna, Aidone, Valguarnera, Piazza Armerina e Villarosa. L'impianto delle colture è caratterizzato dal prevalere dei seminativi che occupano gran parte della superficie agraria e forestale; il paesaggio acquista una persistente uniformità interrotta unicamente da oasi olivicole. Fanno eccezione, inoltre, pochi appezzamenti riservati ai mandorleti, noccioleti e ai fichi d'india, cosparsi un po' ovunque nella regione, soprattutto in prossimità dei torrenti, nei terreni più scomodi e nelle aree non coltivabili. Tali colture arboree, a cui attualmente viene riservato sempre meno spazio (mandorle e nocciole vengono prodotte principalmente nei territori di Barrafranca e nell'agrigentino), hanno costituito a lungo un essenziale supporto per le tradizioni gastronomiche tipiche del luogo, ingredienti basilari per molti prodotti dolciari di antica origine.

Nella zona a nord di Enna, nell'area circostante i comuni di Leonforte, Nissoria e Assoro, la particolare morfologia del territorio, con presenza di rilievi collinari più aspri e di profondi valloni torrentizi, impedisce al sistema del latifondo di estendersi in maniera assoluta e vi permangono, pertanto, colture arboree di tradizione millenaria: distese di ulivi centenari, il cui olio veniva utilizzato in precedenza anche per l'illuminazione, agrumi, ortaggi e baccelli (tipica e universalmente nota la fava di Leonforte). I vigneti costituiscono un'ulteriore tradizionale presenza in quest'area: la vite ad alberello, le cui origini risalgono sicuramente al periodo greco-romano, viene coltivata per secoli senza soluzione di continuità, come dimostrano gli antichi palmenti a cielo aperto, scavati in blocchi compatti di rocce calcaree, largamente diffusi nella direttrice Assoro, Nissoria, Nicosia. Tali palmenti, per la loro

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conformazione e dispozione, testimoniano un'intensa attività vinicola e un sistema collettivo di utilizzo legato al territorio piuttosto che a spazi privati di lavorazione.

Le tecniche e le procedure agricole, nel periodo latifondista, vedono una fase di stasi e di immobilità caratterizzata dall'uso di strumenti di lavoro arcaici, scarsamente soggetti a innovazioni e trasformazioni, che rimangono immutati per secoli con la conseguente necessità di ingenti quantità di manodopera per il lavoro nei campi, fenomeno cui si pone rimedio mediante il richiamo di masse di braccianti stagionali dai paesi limitrofi. Il sistema organizzativo delle masserie, già descritto nel precedente capitolo "Territorio e Paesaggio Rurale", condiziona a lungo i processi di sviluppo dell'agricoltura nella zona, relegandola per secoli alle dinamiche feudali fondate sull'estremo sfruttamento della manodopera, da un lato, e sugli esigui sviluppi tecnologici e strumentali dall'altro. Questa persistenza di modelli lavorativi tradizionali continua fino a pochi decenni orsono e, folkloristicamente parlando, ci offre la possibilità di assistere tuttoggi, in alcune aree rurali, al peculiare metodo della pisatura, la trebbiatura del grano effettuata mediante muli e cavalli che calpestano l'aia (attività ancora largamente esercitata per la lavorazione delle fave).

Il sistema di misurazione dei terreni contemplava unità di misura peculiari, non connesse al sistema metrico-decimale, ma con categorie proprie, spesso variabili tra paese e paese, tra baronia e baronia (queste, approssimativamente, erano le unità di misura utilizzate: Salma: 34.000 mq.; Tumolo: 2.145 mq.; Mondello: 535 mq.; Molitura: 135 mq.). Di questo sistema di misurazione rimane ancora traccia viva nel linguaggio locale, soprattutto degli anziani, così come rimangono ancora parzialmente in uso le unità per la misurazione del grano e delle derrate alimentari, effettuate con appositi recipienti di diverse dimensioni (Tumulo, Mondello, Mottura). Allo stesso modo, persiste nel territorio la presenza di attrezzi, strumenti e oggetti della cultura contadina di particolare rilevanza antropologica,

sapientemente conservati e collezionati presso abitazioni, ristoranti, agriturismo, musei privati. Questa forma spontanea di collezionismo ci indica il profondo radicamento, nella coscienza popolare, dell'universo simbolico legato alla cultura contadina, un patrimonio di usanze, costumi, tradizioni orali, icone, rituali e linguaggi che ha plasmato a lungo l'identità culturale degli abitanti.

Di questa peculiare identità rimangono tracce piuttosto evidenti, oltreché nel patrimonio strumentale gelosamente conservato, nelle forme di tradizione orale (detti, motti, proverbi), nei rituali connessi alle attività quotidiane (formule propiziatorie e scaramantiche), nelle festività legate ad antichi culti agresti. Come illustrato nel capitolo "Le Feste tra sacro e profano", gran parte del complesso festivo tradizionale poggia su un sostrato pagano fortemente caratterizzato da rituali correlati ai cicli agrari stagionali, che proprio in quest'area rivivono nei miti ellenici. Retaggi evidenti di questa ritualità connessa ai prodotti della terra sono ancora riscontrabili in determinate feste mariane o santoriali, in cui tuttoggi si usa portare mazzi di spighe di grano, fave o altri prodotti agricoli a scopo propiziatorio o come forma di ringraziamento. Emblematico esempio di questa attitudine è la festa di San Filippo a Piazza Armerina (12 maggio), tradizionale festa dei "massari" (agricoltori) in cui i contadini sono soliti portare simbolici fasci di fave, appositamente disposti sul fercolo della statua durante la processione, per

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sottoporli alla benedizione del santo. Allo stesso modo, le spighe di grano adornano gli altari durante i Sepolcri della Settimana Santa o accompagnano i pellegrinaggi verso i santuari mariani di campagna.

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Gli oggetti della cultura contadina

Numerosi e diffusi ovunque nel territorio considerato, gli oggetti e gli attrezzi della cultura contadina costituiscono un patrimonio strumentale fortemente legato alla sfera affettiva ed emozionale degli abitanti degli otto comuni in questione. Chiunque sembra aver conservato, nell'abitazione o nel magazzino, qualche elemento o oggetto tradizionale, come se, inaspettatamente, fosse chiaro nella coscienza delle persone il valore storico e culturale che tali attrezzi preservano intrinsecamente. Questo inatteso fenomeno ha, in qualche modo, provocato una sorta di inflazione del corredo strumentale contadino, e diverse collezioni private, più o meno ricche e interessanti, si possono osservare presso ristoranti, agriturismo, aziende agricole, abitazioni, magazzini e via dicendo.

Una buona raccolta di oggetti e strumenti è stata messa in atto dal consorzio degli agriturismo operanti nella provincia ennese; quasi tutti espongono in maniera ricercata vecchi aratri, basti, selle, e altri attrezzi agricoli, tutti ben restaurati. Il patrimonio strumentale contadino costituisce sicuramente l'aspetto più documentato della realtà agro-pastorale della zona, e questa sorta di collezionismo spontaneo gioca un ruolo determinante per la conservazione di elementi di origini e fattezze molto antiche, di estremo valore testimoniale.

Per una serie di fattori storici e culturali specifici dell'area considerata, gli strumenti del lavoro contadino hanno conservato a lungo le fattezze e le sembianze dei prototipi arcaici, così come sono ritratti nel mito di Cerere e Trittolemo. A lungo, per lo meno fino alla rivoluzione tecnologica degli anni '50 e '60, si è utilizzato l'aratro in legno col vomere a penna, gli stessi tipi di zappe, tridenti, falci, vanghe. Il legno era il materiale più diffuso nella strumentazione contadina e gli oggetti di uso domestico conservano ancora, al contrario di altri luoghi, forme, materiali e funzioni di un quadro culturale decisamente pre-tecnologico.

Si riportano, di seguito, alcuni esempi di questo patrimonio strumentale, selezionati per la loro particolare originalità e significatività.

Il calesse

Nome (dialettale): carretto o calesse

Funzione-descrizione: calesse in legno con sedile; utilizzato come mezzo di trasporto (massimo tre persone) trainato da un cavallo

Luogo di rilevamento: Masseria Mandrascate, collezione privata (Valguarnera)

Tridenti - forconi

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Nome (dialettale): tridenti (trirenti)

Funzione-descrizione: forconi in legno usati per sollevare o rivoltare il grano, la paglia, il fieno e altre fibre vegetali

Luogo di rilevamento: Masseria Mandrascate, collezione privata (Valguarnera)

Mazza in legno

Nome (dialettale): mazza

Funzione-descrizione: strumento in legno massiccio sagomato; utilizzato per battere il grano durante la fase di pulitura

Luogo di rilevamento: Agriturismo Cammarata (Aidone)

Pale per forno

Nome (dialettale): pale per forno

Funzione-descrizione: pale in legno, con manico lungo, utilizzate per infornare il pane

Luogo di rilevamento: Masseria Mandrascate, collezione privata (Valguarnera)

Tummulo

Nome (dialettale): contenitori di tre diverse capacità (tummulo, mondello, mottura)

Funzione-descrizione: contenitori in legno con rinforzo in ferro di tre dimensioni differenti; utilizzati come diverse unità di misura per il grano o per altre derrate alimentari

Luogo di rilevamento: Agriturismo Cammarata (Aidone)

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Manione

Nome (dialettale): struttura del basto (manione)

Funzione-descrizione: struttura in legno per il basto; viene in genere ricoperta da una stoffa di canapa o di tela olona; la parte interna viene imbottita con la paglia di armena o segala.

Luogo di rilevamento: Masseria Mandrascate, collezione privata (Valguarnera)

Pila

Nome (dialettale): pila

Funzione-descrizione: piccola vasca in pietra calcarea per il lavaggio degli indumenti; presenta un piano con ondulazioni per lo sfregamento delle stoffe. Molto diffuso nelle abitazioni rurali.

Luogo di rilevamento: Abitazione privata (Piazza Armerina)

Madia

Nome (dialettale): madia (maidda)

Funzione-descrizione: oggetto domestico, ricavato da un unico blocco di legno e di forma trapezoidale, utilizzato dalle massaie per lavorare l'impasto del pane

Luogo di rilevamento: Abitazione privata (Aidone)

Sbria

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Nome (dialettale): gramola (sbria, sbrigghia, sbriula)

Funzione-descrizione: gramola di legno per la lavorazione dell'impasto per il pane; presenta, ancorato ad una estremità, un palo utilizzato per modellare meglio l'impasto

Luogo di rilevamento: Abitazione privata (Aidone)

Circu

Nome (dialettale): scaldino (circu)

Funzione-descrizione: strumento utilizzato per asciugare o scaldare indumenti e lenzuola umide; veniva anche posizionato nel letto, tra le coperte, per riscaldarlo; allo scopo, presenta un cupolotto di stecche intrecciate per distanziare le stoffe da asciugare dalla brace

Luogo di rilevamento: Collezione privata presso Associazione Nazionale Carabinieri (Piazza Armerina)

Giara

Nome (dialettale): giara o anfora (bummulo o quartara)

Funzione-descrizione: contenitore in terracotta per acqua o vino

Luogo di rilevamento: Abitazione privata (Villarosa)

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Strumenti lavorazione ricotta

Nome (dialettale): mestoli e colini (cazza)

Funzione-descrizione: strumenti di lavoro del pastore per la produzione casearia, in rame o ferro; vengono utilizzati principalmente per la lavorazione della ricotta e del formaggio

Luogo di rilevamento: Collezione privata presso Associazione Nazionale Carabinieri (Piazza Armerina)

Scappulara

Nome (dialettale): mantella (scappulara)

Funzione-descrizione: mantella di "albagia", anticamente realizzata con il telaio a mano, le cui fattezze ricordano un indumento ancora più antico, la "ciucca", indossato nel periodo della Festa dei Morti (novembre).

Luogo di rilevamento: Abitazione privata (Aidone)

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STRUMENTI E MACCHINARI AGRICOLI

Erpice

Nome (dialettale): erpice o aratro a chiodo

Funzione-descrizione: attrezzo di lavoro in ferro battuto di fine lavorazione; trainato da una sola bestia da tiro e comandato dall'uomo mediante un manubrio posteriore

Luogo di rilevamento: Agriturismo Cammarata (Aidone)

Frangizolle

Nome (dialettale): frangizolle o voltazolle

Funzione-descrizione: strumento di fattura piuttosto recente, in ferro, utilizzato per il voltare le zolle del terreno precedentemente arato; viene trainato da una bestia da lavoro e comandato dall'uomo per mezzo del manubrio

Luogo di rilevamento: Agriturismo Cammarata (Aidone)

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Trebbiatrice

Nome (dialettale): trebbiatrice (tregghia)

Funzione-descrizione: macchinario dei primi del '900 per la trebbiatura del grano; veniva alimentato da una grossa puleggia mossa dal motore di un trattore; presenta diverse componenti per la divisione della paglia dal grano; nella zona considerata tale macchinario è arrivato molto tardi e per lungo tempo si è praticata la trebbiatura con muli o cavalli (pisatura)

Luogo di rilevamento: Istituto Professionale di Agricoltura e Ambiente (Aidone)

Trattore a vapore

Nome (dialettale): trattore a vapore

Funzione-descrizione: singolare tipo di trattore dei primi del '900, alimentato dal vapore generato da una camera di combustione a carbone;

Luogo di rilevamento: Istituto Professionale di Agricoltura e Ambiente (Aidone)

Trattore Diesel

Nome (dialettale): trattore

Funzione-descrizione: trattore degli anni '40, con alimentazione diesel e sistema di preaccensione della camera di scoppio mediante una fiammella a olio

Luogo di rilevamento: Istituto Professionale di Agricoltura e Ambiente (Aidone)

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Aratro in legno

Nome (dialettale): aratro

Funzione-descrizione: aratro semplice in legno, di antica origine, con vomere "a penna", anch'esso in legno e con punta in ferro; trainato da una sola bestia da tiro e comandato posteriormente dall'uomo mediante un manubrio ad asse singola.

Luogo di rilevamento: Agriturismo Cammarata (Aidone)

Canti della "pesatura"

Canti intonati durante la trebbiatura del grano condotta con metodi tradizionali. Nell'aia si dispongono i covoni sciolti sui quali vengono fatti camminare cavalli, muli o asini. Questa pratica è stata attiva in Sicilia fino agli anni '70. Come per i canti agricoli, il contenuto è di carattere propiziatorio, con toni d'invocazione religiosa, ma qui vi è anche una sorta di dialogo con l'animale, guidato nel suo lavoro proprio dalle parole cantate del suo padrone. Il lirismo e la cadenza melodica modale accomunano tali canti alle lamentanze che si eseguono durante la settimana santa. La dicitura "Calila calila" è rivolta al cavallo per indurlo a calpestare il grano, ammassato al centro dell'aia, ed abbassarne il volume ("assalta 'u muntuni", ossia sali sul covone). Gli ultimi due versi si cantavano prima degli ultimi tre giri e gli animali, avvertendolo, andavano più veloci.

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Esempio di canto:

Calila calila

Assalta 'u muntuni

Vai lesto vai lesto

che poi gli e la curremu

L'ultimi tre giri

poi te ne vai alla gramigna

(Traduzione: calala, calala (la paglia)/ salta sul covone/ vai veloce, vai veloce che poi ce ne andiamo/ gli ultimi tre giri e poi te ne vai a mangiare erba.)

Luogo di rilevamento: Piazza Armerina

denominazione locale: canti "di paglia" o canti della pisatura

esecuzione: voce maschile senza accompagnamento

strumenti musicali: assenti

occasione-funzione: trebbiatura tradizionale nell'aia con cavalli o muli

note musicali: canto monodico, eseguito da una sola voce, con note lunghe e legate; ritmo libero, melodia premodale, con ambito vocale che non supera l'estensione dell'esacordo (modo frigio mi fa sol la si do). Melodia monostica: comprende un solo verso che si ripete su tutti i versi del componimento e con varianti d'ornamentazione. Profilo melodico discendente che si appoggia al registro elevato della voce. L'incipit muove dal IV° o dal V°grado, sale sul VI° e, con fioriture, discende sulla tonica (nota fondamentale della scala utilizzata)

Note dell'informatore: L'informatore riferisce che il cavallo, a differenza di muli ed

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asini, era "fedele" e adatto a quel lavoro; capiva benissimo tutte le parole che gli si rivolgevano: "quannu entrava il cavallo iddu faceva dei salti no, allora noi auti ci dicimu 'calila calila', cantannu, e iddu si calmava. Quanno calava così ci dicevamo 'asaltammu 'o muntone', doveva saltare perché non putiva camminare piano. Poi, quannu gli dicevamo "gli ultimi tri giri" iddu capiva e faceva svelto".

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Detti e racconti della cultura contadina

Il patrimonio di tradizione orale legato alla cultura contadina è estremamente ricco e articolato in forme stilistiche peculiari: motti, mottetti, proverbi, historiolae, poesie, preghiere, ecc. La loro funzione si inscrive nel quadro del complesso magico-religioso che informa tale cultura, un sistema di credenze che oscilla tra precetti religiosi cristiani e rituali pagani di origine antica. Le forme dell'oralità scandiscono i momenti della vita quotidiana, accompagnano le diverse attività lavorative, segnano particolari momenti operativi dell'artigiano, della massaia, del contadino, del pastore, rimandano alla volontà di Dio o dei santi il buon esito dell'attività intrapresa. Di seguito sono riportati due esempi di questo fenomeno poietico, creativo del mondo contadino: il primo costituisce una forma codificata, il mottetto, recitazione in versi di un'historiola legata al lavoro della trebbiatura; il secondo rappresenta un testo libero, raccolto in occasione di un intervista ad un ex contadino di Piazza Armerina, che racchiude in se espressioni codificate (canti e locuzioni di incitamento) e colorate descrizioni di prima mano, sempre relative al processo della trebbiatura.

Mottetto raccolto nel territorio di Villarosa dal "Gruppo di cultura e Tradizione di Villarosa" (L.S.U. ex art. 23, legge 67/88), coordinato da Paola Calabrese. Si riferisce al momento della trebbiatura, pisatura, effettuato con il tradizionale metodo dei cavalli o muli che calpestano l'aia. Questo tipo di locuzioni verbali aveva lo scopo di accompagnare e stimolare l'armonia lavorativa, nonché di invocare la benedizione divina per il buon esito dell'attività agricola.

QUANNU SI PISA

Quannu sona la campana Gesu Cristu a tutti chiama E ni chiama a unu a unu Pi 'nsignarini u pirdunu.

Oh Mari duci Patruna Accittati sta curuna Stu Rusariu binidittu Aggraditi u nustru affettu.

Oh chi fu bedda sta vutata Viva Di' e la 'mmaculata E la 'mmaculata si Vica lu Carminu Marì. E firrija tri voti e tri gira Ca a la turnata ni jamu a lu vintu.

Il racconto di un contadino

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Trascriviamo, qui di seguito, un brano sintetico dell'intervista a Salvatore G., contadino di Piazza Armerina, che ha svolto l'attività agricola fino alla fine degli anni '70. Descrive minuziosamente il procedimento della trebbiatura (pisatura) come si svolgeva tradizionalmente nell'aia, con l'aiuto del cavallo. Lo stesso contadino, durante l'intervista, intona i particolari "canti della pesatura" riportati nel capitolo "Musica ed espressività orale", un patrimonio canoro in via di totale estinzione, di cui solo alcuni anziani conservano la memoria.

" Dopo la mietitura, si raccoglievano i covoni (gregni) di grano sul campo, a mucchi di 5 o 6; c'erano delle persone addette proprio a questo lavoro (i cuglituri). Poi si caricavano sul carro, 20 o 25 per volta, e si trasportavano fino all'aia, una spianata di terra pulita, dove si ammucchiavano i covoni fino a formare un balcone, una catasta alta (muntuni). Noi li rivoltavamo più volte con il forcone (trirenti) per farli asciugare meglio; il grano doveva essere ben secco e quindi si aspettava il periodo più caldo, luglio o agosto. Poi il cavallo saliva sul mucchio, tenuto da una persona con una corda, e cominciava a girare al trotto per calpestare bene il grano. In realtà si rivoltavano i covoni quattro volte e ogni volta il cavallo faceva una passata di un'ora circa, così si riusciva meglio a separare i chicchi di grano. Dunque, una persona teneva il cavallo e gli altri raccoglievano le spighe sparpagliate fuori dell'aia (runghiavano l'aria) con il tridente e le rigettavano nel mezzo.

Quando il cavallo entrava nel mucchio, spesso si cantava un canto particolare (calila, calila) che serviva per aiutarlo a lavorare, doveva "calare" il mucchio; il cavallo sentiva, capiva quello che doveva fare. Doveva girare mezz'ora in un verso e mezz'ora nell'altro e per fare questo noi gli dicevamo: Aah, guarda a mmia!, e lui si voltava da solo, conosceva tutti i comandi, le parole. L'ultimo canto che si faceva per il cavallo (vai lesto vai lesto) serviva per incitarlo a finire presto perché poi lo portavamo a mangiare l'erba (la gramigna). Quando gli dicevamo "gli ultimi tre giri" lui capiva e ne faceva tre esatti, poi scendeva dal mucchio.

I cavalli erano abituati a fare questo lavoro; certo gli si insegnava prima come fare legandolo ad uno più anziano, poi piano piano faceva da solo. Il cavallo era più fedele dei muli e degli asini, era più intelligente e volenteroso.

Una volta separato il grano dalla paglia, si alzava al vento con le pale e i tridenti, così si divideva completamente; Si cercava di trebbiare scegliendo una giornata particolarmente ventosa per fare in modo che il grano si separasse più facilmente. A volte il vento smetteva di soffiare e noi dovevamo aspettare che tornasse. A volte si spagliava (trebbiava) di notte quando c'era la tramontana.

Poi si misurava la quantità di grano prodotta, utilizzando il tumulo, il contenitore più piccolo, il tumulello; piano piano, raccogliendolo un po' per volta con il tumulo, si metteva nei sacchi, quattro tumuli corrispondeva ad un sacco."

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La pastorizia

La pastorizia ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo economico della zona considerata e le sue origini sono così

antiche da confondersi con il mito. La stessa etimologia della parola "Erei", che indica la catena montuosa a nord della

provincia ennese, deriva dal greco erea che significa lana e denota la millenaria presenza, sulle sue alture, di numerose

greggi, produttrici di ingenti quantità di lana. Inoltre, sempre secondo la mitologia tramandataci da antichi scrittori,

proprio sulle pendici del Monte Ereo nasce, dal Dio Ermes e da una ninfa locale, Dafni un giovane pastore dedito alla

cura e all’allevamento delle greggi. Nel periodo ellenico, le capre e le pecore venivano scambiate come doni dotali tra le

famiglie o come forma di riscatto per la restituzione dei prigionieri.

Un complesso di fattori ambientali favorevoli ha permesso la rapida diffusione della pastorizia transumante nel contesto

considerato, un fenomeno basato su spostamenti ciclici e stagionali legati al rinnovarsi del manto erboso. Spostamenti

effettuati annualmente sulle tracce di antichi itinerari rappresentativi sul piano del rapporto con l'ambiente e degli

scambi culturali. Le antiche vie della transumanza si snodano tra montagne, valli e pianure, toccando trazzere, luoghi di

ricovero, insediamenti rupestri e tracciando l’identità culturale del territorio.

Nel suo processo di adattamento all’ambiente, l’economia pastorale ha inevitabilmente influito a sua volta sul territorio

apportando trasformazioni e modifiche funzionali alle proprie esigenze. Testimonianze di questo reciproco adattamento

sono alcune forme di insediamento come il pagghiaru (capanne di paglia), costruzioni per la sosta (marcatu) e vari

ricoveri rupestri. La presenza di nicchie votive scavate nella roccia e di simboli religiosi incisi è una testimonianza

tangibile della profonda esigenza di sacralità del pastore, che imprime sul territorio i segni del suo intimo rapporto con

le entità divine.

La necessità intrinseca di spostarsi continuamente costringeva il pastore a disporre di una "tecnologia" essenziale,

ridotta a pochi attrezzi per facilitare i trasferimenti, e a sfruttare locali e ricoveri preesistenti per proteggersi dal freddo e

per caseificare. Una volta giunto sul posto egli risistemava capanne semplici e precarie, procedendo alcune volte ad una

ristrutturazione completa delle stesse, utilizzando pietre, arbusti, rami. Ciò determinava una facile deperibilità della

costruzione, destinata a scomparire nel giro di pochi anni.

L’attività del pastore si effettua su alcune procedure organizzative che lo impegnano quotidianamente, come la

conduzione del gregge, la mungitura, la caseificazione, nonchè annualmente (macellazione e tosatura). La maggior

parte dell’attività pastorale svolta all’interno del marcatu è una pratica collettiva, che richiede la collaborazione di più

persone per l’espletamento delle varie funzioni, tradizionalmente svolte dai membri di uno stesso nucleo familiare.

Il ruolo di guardiania e di conduzione del gregge obbligava, in passato il pastore a lunghi periodi di isolamento, durante

i quali affinava la sua abilità e manualità con la produzione di oggetti e di manufatti come collari di legno, strumenti per

la caseificazione, bastoni riccamente decorati, realizzati sfruttando le risorse naturali del luogo. Per la conduzione degli

animali, ancora oggi si adotta un linguaggio particolare, un gergo costituito da un complesso codificato di suoni e di

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grida, associato qualche volta all’utilizzo del bastone e delle pietre per spingere ed indirizzare gli animali verso luoghi

prestabiliti.

Il mondo pastorale è un mondo chiuso nel suo orizzonte, i luoghi delle attività lavorative sono dispersi in spazi molto

vasti, i contatti con i centri abitati e con gli addetti all’agricoltura sono ridotti e minimi per poter dare luogo a solidi

scambi sociali. Momento di integrazione comunitaria è rappresentato dalla fiera del bestiame, luogo di polarizzazione

commerciale situato generalmente sulle vie della transumanza, per l’acquisto e lo scambio di attrezzi, bestiame e merci

varie. Altri momenti di socializzazione sono costituiti da occasioni rituali collettive, come feste di fidanzamento o

matrimonio, nonchè ricorrenze religiose. In passato, durante le cerimonie religiose i pastori attraversavano i centri

abitati, invadendo le strade con le proprie mandrie riccamente ornate e distribuendo ai presenti il latte appena munto in

segno di ringraziamento e di propiziazione.

La pastorizia nell’area considerata ha costituito una importante attività economica che si è adattata facilmente alla

conformazione dell’ambiente, ma con il passare degli anni la realtà produttiva e il relativo contesto culturale si sono

modificati. Lo sviluppo delle tecnologie nel settore ha in parte migliorato la qualità della vita del pastore, non più

costretto a lunghi periodi di isolamento, ma nello stesso tempo ha contribuito ad "innovare" alcune pratiche di

lavorazione modificando le connotazioni culturali e strutturali dell’attività pastorale. Nonostante ciò, rimangono ancora

nel territorio alcune tracce peculiari di tale economia tradizionale, testimonianze storiche di un mondo pastorale in via

di estinzione.

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La fiera del bestiame

Origine storiche: fin dall’antichità, il fenomeno fieristico era ampiamente diffuso tra i popoli del Mediterraneo seppure con caratteristiche socio-territoriali differenti. Mercati periodici, con cadenza di nove giorni erano presenti già all’epoca romana (nundinae) e

avevano assunto una forma istituzionale fin dal V secolo a.C..

Nel Medioevo la fiera diventa un fenomeno strettamente integrato nelle strutture feudali, legato alla nascita di un capitalismo mercantile sviluppatosi sulla rete dei flussi

commerciali internazionali. Accanto a questo tipo di fiera nasce e si sviluppa, quasi contemporaneamente, un genere di mercato più strettamente locale e di carattere

periodico, che si svolge solo in alcuni giorni ad intervalli regolari; vi sono presenti sia generi alimentari che altri prodotti funzionali alle esigenze e alle necessità della comunità

agro-pastorale.

I luoghi : le fiere sono generalmente situate nelle zone perifiche dei centri urbani, data l’esigenza di disporre di un consistevole spazio per esporre i diversi oggetti e attrezzi,

nonchè per la vendita dei diversi tipi di animali.

Descrizione:

nel passato la fiera era situata su alcuni percorsi della transumanza, e nel corso degli spostamenti il pastore poteva rifornirsi di oggetti e strumenti oltre che scambiare e vendere

il proprio bestiame. In questa occasione collari di legno minuziosamente decorati, realizzati dallo stesso pastore, venivano posti sugli animali più belli in forma di

ostentazione e di richiamo degli eventuali acquirenti.

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Tra gli oggetti tradizionalmente acquistati dal pastore vi è il campanaccio, fondamentale per la conduzione del gregge in quanto dalle diverse tonalità del suono si può individuare la posizione del singolo animale o del grosso della mandria. Distese di campanacci invadono le strade della fiera e il pastore ne sceglie qualcuno accuratamente, sentendone il suono, per accertarsi che non siano stonati o forati, il che ne diminuirebbe la durata e l’efficacia. Attualmente la fiera che raccoglie la maggior parte dei contadini dell’entroterra e anche molti curiosi, si presenta strutturata in diversi settori a secondo del tipo di prodotto. Vi sono intere aree assegnate all’esposizione di alimenti tipici e di un complesso di oggetti e strumenti connessi alla cura e all’allevamento del bestiame, nonché svariati attrezzi agricoli. Spazi molto ampi sono riservati alla vendita delle diverse specie di animali: ovini, caprini, bovini, suini, gallinacei e anche animali domestici. La fiera, momento molto forte di integrazione comunitaria e di scambi sociali, si caratterizza per una forma tradizionale di contrattazione svolta dalla figura del sensale, generalmente un commerciante depositario dell’esperienza e dell’arte della negoziazione. Egli media il rapporto tra il venditore e l’acquirente, cercando di portare a buon fine la vendita da cui percepisce un utile economico. La contrattazione si cadenza sulla base di codici comunicativi particolari e di un linguaggio di gesti e parole che esprimono il senso teatrale e brioso della trattativa.

Rilevanza nel contesto attuale: la fiera del bestiame, mercato periodico che si svolge il 28 di ogni mese nella zona tra Piazza Armerina e Aidone, raccoglie la maggior parte dei venditori e degli acquirenti dell’entroterra siciliano. In questa occasione è facile incontrare personaggi caratteristici come anziani pastori e contadini che indossano tradizionali vestiti di velluto scuro e l’immancabile scoppola.

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La produzione casearia

Il mito: il processo della caseificazione si intesse con i fili della leggenda e della storia trovando le sue origini nel contesto mitico ellenico. La mitologia narra di Aristeo, divinità custode delle greggi dell’Olimpo, figlio di Urano e di Ge e allevato dalle ninfe, che insegnò all’uomo l’attività pastorale e di conseguenza l’arte della caseificazione, subito appresa dai pastori e tramandata nel corso dei secoli.

I prodotti realizzati: tuma, ricotta e caciocavallo.

Materiali utilizzati: latte, caglio vegetale ( ad es. il succo lattiginoso del fico selvatico) e animale (latte coagulato e inacidito nello stomaco dei mammiferi lattanti)

Strumenti utilizzati: la caldara, utilizzata per far bollire il latte, è una grossa pentola di rame; richiede una relativa manutenzione che consiste nel passarvi uno strato di stagno

ogni due o tre anni affinchè i componenti chimici del latte non reagiscano con il rame;

- la ruotula, realizzata dallo stesso pastore, consiste in un bastone di legno di fico o di faggio pulito della corteccia alla cui estremità sono posti dei rametti di olivo selvatico a forma di ellisse di circa 20 cm.; la lunghezza del bastone è di circa un metro e mezzo.

Svolge la funzione di mescolare il caglio con il latte e di rompere il latte addensato;

- il riminatore è un bastone di circa un metro e venti di legno di olivo, di fico o di masticogna con un pomo di legno posto all'estremità, serve per rimestare il siero,

mescolare il latte che viene aggiunto nel corso della lavorazione e agevolare l'affioramento della ricotta;

- la cazza, apposito mestolo di rame bucherellato per raccogliere la ricotta ed eliminare le impurità presenti nel latte.

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I luoghi della caseificazione: capanne di paglia (pagghiaru), luoghi di ricovero e di sosta (marcatu)

Descrizione del processo lavorativo: nel periodo da ottobre a maggio il pastore si dedica fin dalle prime ore della mattina, alla lavorazione del latte che porta in un primo momento alla produzione della tuma, poi della ricotta e qualche volta del caciocavallo.

La prima fase di questo ricco processo prevede la raccolta del latte, filtrato per privarlo di tutte le impurità e versato nella caldara, con l’aggiunta del caglio sciolto in precedenza nell’acqua tiepida. Il caglio viene lentamente amalgamato con il latte, servendosi della

ruotula che dopo circa un’ora si coagula e si addensa in superficie. L’esperienza accumulata permette al pastore di cogliere il momento esatto in cui la massa rappresa raggiunge il giusto grado di addensamento, per poi procedere alla separazione della

cagliata dal siero. Per "rompere la cagliata" (rumpiri a quagghiata) si utilizza la ruotula che spezzetta, sulla base di movimenti precisi e coordinati, la quantità di latte rappreso

facendola precipitare sul fondo della caldara. Il formaggio ottenuto (la tuma), raccolto e sistemato nelle fiscelle di giunco, viene pressato con le mani per farne uscire il siero

(lacciata) e poi cosparso a vari livelli di pepe nero e sale. Successivamente si procede alla preparazione della ricotta utilizzando la lacciata avanzata nel recipiente. Questa viene portata ad ebollizione e nello stesso tempo mescolata velocemente con il riminatore, in modo da far salire in superficie le impurità, tolte con un mestolo di rame bucherellato (la

cazza). Dopo un pò di tempo il pastore aggiunge altra quantità di latte, girando con il riminatore che, da questo momento in poi, non potrà più essere sollevato dalla caldara fino alla formazione completa della ricotta. Raggiunta la temperatura di ebollizione si forma in superficie un sottile strato schiumoso; un attimo prima, il pastore aggiunge due pezzi di ramo di fico selvatico incisi dai quali fuoriesce un succo lattiginoso che conferisce alla

ricotta un sapore più intenso e aiutandola ad affiorare; poi mescola per altre due volte il liquido recitando particolari preghiere. Seguendo un antico rituale, toglie il riminatore dalla

caldara e fa il segno della croce toccando con il bastone le estremità del recipiente. Secondo la tradizione, l'iterazione di questi movimenti serve ad aiutare la ricotta a salire e l'orazione è un segreto di cui è depositario soltanto il pastore. Ciò denota un legame intimo

ed individuale con il santo protettore, per assicurarsi il buon esito del suo operato . Poco dopo il liquido improvvisamente smette di girare, si ferma, ed in pochi secondi la ricotta

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affiora (acchiana a ricotta). Viene raccolta con il mestolo, scolata e infine sistemata nelle apposite fiscelle. Fino a pochi fa la ricotta veniva posta nelle "cavagne", contenitori

affusolati alla base e fatti di listelli di canna.

Nel siero avanzato ancora caldo, vengono immersi i recipienti della tuma precedentemente preparata per consentire la sterilizzazione della pasta e la cottura del formaggio che conferisce una maggiore consistenza e un colore giallastro alla crosta

esterna. L’ultima fase della lavorazione del latte consiste nella preparazione del caciocavallo, un tipo di formaggio che si realizza esclusivamente con latte di vacca,

facendo inacidire la tuma per circa 24 ore con il caglio del capretto.

Rilevanza nel contesto attuale: attualmente vi è ancora qualche pastore che realizza la tuma e la ricotta tradizionalmente ma solo per uso familiare. Infatti è in vigore una

normativa europea che regola la caseificazione, impedendo un tipo di produzione a carattere tradizionale e privilegiando quella industriale. Nella zona di Aidone è possibile

incontrare qualche pastore che lavora il formaggio e la ricotta secondo pratiche tradizionale e rituali; a Nissoria una azienda a conduzione familiare produce il tipico

caciocavallo.

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La transumanza

Origine storiche: fin dall’antichità, la transumanza è stato un fenomeno economico, politico e sociale di notevole importanza, molto diffuso tra i diversi popoli del Mediterraneo. Le sue origini sono incerte; alcune testimonianze storiche ne attestano la presenza già nel periodo dei Siculi e la maggior parte della letteratura classica fornisce conferme continue della presenza non secondaria della pastorizia ai tempi dei greci. Nel periodo romano, come dimostrano gli scritti di Varrone (I sec. a.C.) la pastorizia era considerata una attività nobile e redditizia, soggetta a rigidi controlli di ordine amministrativo. Successivamente, nel corso dei secoli, la pastorizia transumante si è sviluppata grazie alla presenza di un apparato burocratico di controllo che, dietro il pagamento di un pedaggio delle vie tutelate, garantiva sicurezza e protezione al pastore e al gregge. Nel XV secolo diventò una pratica trainante dell’economia degli Aragonesi, che istituirono un ufficio governativo apposito per il pagamento dei dazi e delle gabelle di passaggio.

I percorsi: la transumanza è una forma di nomadismo che porta il pastore alla ricerca costante e periodica di terreni più verdi per il proprio gregge. La tradizionale transumanza è uno spostamento alternativo e periodico degli armenti tra due regioni caratterizzate da climi diversi; tradizionalmente e fino a pochi anni fa essa consisteva nello spostamento delle greggi nelle zone collinari in autunno, per poi scendere nel periodo invernale verso il mare.

In primavera il percorso si inverte ed il gregge si dirige nuovamente verso la collina per poi spostarsi, durante l’estate nelle zone montuose, dove è più possibile trovare tappeti erbosi di cui nutrirsi. Il pastore con il suo gregge segue i cicli stagionali della vegetazione e i suoi spostamenti periodici sono strettamente connessi sia alla riproduzione ciclica del manto erboso, sia alla conoscenza di itinerari legati al reperimento delle zone per la sosta, dei punti d'acqua (gli abbeveratoi) e dei luoghi per la caseificazione.

La regolarità dei tragitti permette agli animali di poter ritrovare i percorsi nel caso in cui se ne fossero allontanati e persi. In alta montagna gli itinerari di trasferimento sono costituiti generalmente da percorsi tortuosi e scoscesi e da viottoli larghi da pochi decimetri a qualche metro. Nelle zone collinari, le fasce di trasferimento sono formate dalle vecchie e larghe "trazzere" (antiche vie di collegamento tra le principale città della Sicilia, con una caratteristica pavimentazione a ciottoli) con luoghi di sosta e abbeveratoi, o dalle strade interpoderali.

L'insieme dei luoghi della caseificazione e dei recinti dove venivano sistemati gli animali prende il nome di "marcatu"; questo è generalmente situato al centro della zona pascolativa e in una posizione strategica per la vicinanza ai corsi d'acqua e ad abbeveratoi per dissetare il bestiame.

Nel marcatu, uno dei pochi luoghi stanziali del pastore, si svolgono tutte le attività tipiche della produzione pastorale come la mungitura, la caseificazione, la macellazione degli animali e la tosatura.

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Tracce visibili sul territorio: la transumanza tradizionale va lentamente a scomparire mostrando qualche traccia della sua esistenza sul territorio, nel ricordo di una attività dura e faticosa. L'itinerario della transumanza tende a modificarsi sia per la scomparsa del pascolo di marina, il cui territorio è destinato a coltivazione intensiva, sia per lo spostamento delle greggi con mezzi motorizzati che ne consentono il trasporto in tempi brevi e in maggior numero.

A Valguarnera, nella Contrada Marcato, è ancora visibile un’antica stazione di transumanza, un vecchio marcatu con costruzioni in muratura tipiche di un ricovero di montagna. Inoltre, disseminati lungo il territorio considerato, è forte la presenza di abbeveratoi, trazzere, capanne e ricoveri rupestri, segni di un’antica cultura della pastorizia che oramai sopravvivono soffocati da arbusti e piante.

L'artigianato popolare e le forme della tradizione

La cultura agro-pastorale, profondamente radicata nel tessuto storico-sociale

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della zona considerata, si presenta abbastanza omogenea nelle sue strutture

espressive e figurative, ma caratterizzata da una forte creatività e una scaltra

abilità manuale, tali da imprimere all'arte popolare elevati livelli di raffinatezza

e di stile.

Le lavorazioni artigianali del sostrato popolare sono il risultato dell' "esperienza

storica" del territorio, che si sviluppa sulla base di un lento e profondo processo

di prestiti e innovazioni, di assorbimenti e re-interpretazioni dei tratti culturali

introdotti dai popoli e dalle culture succedutesi nell'isola nel corso dei secoli,

contribuendo al formarsi di un'espressività "contaminata", di un'arte popolare

sincretica che ha inglobato suggestioni greco-romane, arabe, normanne,

spagnole.

Pertanto, accanto ad attività con connotazioni tipicamente professionali si è

sviluppata una serie di tecniche complementari, risultato di un patrimonio

sommerso di procedimenti empirici e di competenze formali, e frutto di una

lenta sedimentazione di esperienze abituali e familiari. Queste pratiche

lavorative, come ad esempio la lavorazione del pane o l'intreccio di spighe

rituali, esprimono un notevole valore sociale e, al contempo, una scarsa

rilevanza economica in quanto non si fondano su un processo di

specializzazione artigiana, e la circolazione dei prodotti non si adegua alle leggi

di mercato, bensì alle regole dello scambio e del dono.

La sfera religiosa della cultura contadina si caratterizza per riproporre gli

schemi degli antichi rituali pagani, intesi a propiziarsi la rigenerazione del ciclo

vegetale, reinterpretati sulle credenze e i simboli della religione cristiana. Da

questa commistione di elementi pagani e cristiani, si sviluppa un tessuto

articolato e ricco di valenze antropologiche da cui emergono forme contaminate

e sincretiche intrise di ritualità magico-religiosa. Le stesse fasi lavorative

vengono spesso accompagnate da preghiere, detti popolari, secondo scansioni

ritmiche e temporali ben definite, sconfinando in una ritualizzazione del

processo lavorativo (pane, ricotta, spighe, ricami) in cui il senso del sacro

pervade il senso profano. Attraverso il rito, la ripetizione dei movimenti

secondo regole precise, si esprime il senso della liberazione, del riscatto, della

catarsi, e un legame profondo ed intenso con Dio, le divinità vegetali e l'uomo.

Funzioni nutritive e pratiche dei diversi prodotti si correlano ad altre che

appartengono alla sfera del sociale e dell'immaginario mitico-religioso. I vari

oggetti assumono un significato più complesso, che prevarica i confini del

campo strumentale per entrare con prepotenza nel terreno sacrale, acquistando

la valenza religiosa di un ex voto, di offerte devozionali, tale da creare momenti

di aggregazione e di socializzazione di intensa carica emozionale.

E' nell'ambito di questo panorama culturale così ricco e complesso, in cui il

confine tra il sacro e il profano diventa sempre più sfumato, che possono essere

lette ed interpretate le varie attività artigianali riscontrate nell'area ennese, come

la modellazione del pane santo, la lavorazione delle spighe, delle palme

devozionali, l’arte del pastore, che implicano la presenza di altrettante figure

artigianali non professionali, di particolare importanza in un'ottica

antropologica, come "u bardunaro" , "u cannistraro", "le careri", alcune in via di

estinzione per il venir meno della loro funzione pratica a seguito del processo di

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modernizzazione.

La modellazione del pane è un attività antichissima; in una semplice forma di

farina possono leggersi anni di riti e di cultura che vanno dagli antichi greci

fino ai nostri giorni. Le diverse forme che il pane acquista in occasioni di

alcune ricorrenze religiose, come la Festa di San Giuseppe (a Leonforte,

Valguarnera, Villarosa) e di San Calogero (Villarosa), sono una esplosione di

creatività ritualizzata secondo le cadenze di un tempo strutturato sui cicli delle

stagioni agrarie ed i ritmi calendariali delle feste. Si riaffacciano così come per

incanto sul palco di un teatro, gli antichi rituali agrari che rispecchiano le paure

e le ansie della società contadina, costretta a mettere in atto un insieme di

garanzie cultuali contro i rischi impliciti nel rinnovarsi periodico della vita della

natura.

Pertanto l'opulenza ostentata, l'offerta cerimoniale e la dissipazione del cibo,

che caratterizzano le feste suddette, sono l'espressione di una ritualità che

inserisce la stessa comunità all'interno di uno spazio e di un tempo sacralizzati

contro la minaccia dell'insicurezza esistenziale e i rischi della precarietà

alimentare.

La tradizione dolciaria si pone a metà strada tra una produzione strettamente

connessa alle ricorrenze religiose (colombine, savoiarde, sfinci ) e tra una

produzione profana legata alle feste laiche popolari (ad esempio i dolci legati al

Carnevale).

I dolci sono generalmente realizzati con ingredienti tipici locali quali il miele,

le mandorle, le nocciole, la ricotta, gli agrumi. Esistono ancora, peraltro,

prodotti artigianali che esprimono e continuano la lunga tradizione dolciaria

sviluppatisi fin dal XVI sec. nei monasteri femminili siciliani, depositari

esclusivi di antiche ricette millenarie. Prodotto tipico della zona è la mostarda,

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realizzata sia con il "mosto" bollito sia con i fichi d’india, che anticamente

veniva utilizzata come companatico per i bambini o come dolce da offrire a

persone di riguardo. E' possibile, tra Enna e Piazza Armerina, imbattersi in

alcune pasticcerie a carattere artigianal-tradizionale in cui tutte le fasi della

lavorazione dei prodotti sono svolte esclusivamente a mano, privilegiando, in

tal senso, la qualità alla quantità.

Nell'ambito della sfera agrario-religiosa si colloca anche la lavorazione delle

spighe rituali. In occasione delle Feste Mariane e durante i Sepolcri, spighe

singole o riccamente intrecciate sono presenti come offerte devozionali, così

come ad Enna in occasione della ricorrenza della Madonna della S.S.

Visitazione. La simbologia della spiga si connette ai ritmi alterni della vita e

della morte e viene intesa in senso sacrificale. Con la mietitura lo spirito del

grano viene simbolicamente ucciso per dare fecondità e fertilità al raccolto

seguente, ma la sua essenza permane simbolicamente attraverso un segno della

sua presenza, una parte della sua entità : la spiga. Gli steli vengono intrecciati

nel rispetto di una lavorazione tradizionale basata su una manualità inusuale. I

mazzi di spighe ottenuti, presentano un valenza estetico-ornamentale notevole

e, nello stesso tempo, preservano un potere apotropaico atto a garantire il buon

esito dei futuri raccolti.

Nel periodo prepasquale si effettua la lavorazione delle palme, intrecciate sulla

base di una sapere che si tramanda di generazione in generazione, che

solitamente accompagnano la celebrazione rituale dell'ingresso di Gesù a

Gerusalemme. Le foglie di palma tenute al buio per 40 giorni acquistano un

colore bianco pallido; vengono poi tagliate in lunghe liste e intrecciate con cura

e precisione a scopo ornamentale e come simbolo di immortalità e di

rigenerazione.

Le lavorazioni artigianali finora descritte, si qualificano come attività

prevalentemente collettive e familiari, caratterizzate da una divisione dei

compiti e dei ruoli che rafforzano i legami sociali e sanzionano l'appartenenza

ad un determinato gruppo familiare esteso. La stessa lavorazione del pane

rituale coinvolge più massaie che insieme procedono all'impasto (impopulare).

Il movimento dell'"impopulare" è esso stesso una fase di un rituale collettivo,

svolto nel rispetto di determinate regole codificate: dall'agilità del moto delle

mani delle massaie, che si alternano nel lavoro, dipende il giusto impasto per la

Page 49: Atlante antropologico

realizzazione del pane rituale.

Tra i fili del tessuto tradizionale ennese emergono altre figure artigianali tipiche

che conservano un patrimonio di tecniche e conoscenze manuali sempre più in

via di estinzione. Una delle più originali, e delle più rilevanti nel contesto

tradizionale del passato, è quella del "bardunaro", l'artigiano addetto alla

lavorazione delle selle e dei basti per gli animali da soma. L'attività svolta da

questa figura richiede una particolare sensibilità ed una conoscenza

approfondita della fisionomia dell' animale; dalla sua perizia dipende non solo

la qualità dell'oggetto prodotto ma anche il giusto adattamento del basto alla

conformazione fisica del cavallo, o del mulo, altrimenti soggetto a ferite e

lacerazioni compromettenti per il suo rendimento. La contaminazione con la

cultura araba, in particolare per le selle ornamentali, emerge chiaramente in

questi prodotti artigianali che presentano delle intricate trame ornamentali,

arricchite con specchietti e cianciane (campanelli dorati ) ispirati al patrimonio

figurativo orientale.

Nell'ambito delle attività legate all'intreccio di

fibre vegetali emerge la figura del

"cannistraro", figura popolare e tradizionale

tuttoggi esistente, dedita alla realizzazione di

ceste di vario tipo(le cavagne, fatte di canna e

saggina e le fiscelle, realizzate in giunco),

attualmente di valore estetico-ornamentale ma,

fino a pochi anni fa, ampiamente utilizzate per

il trasporto e il contenimento delle derrate alimentari (mandorle, frutta, ricotta,

formaggio). Questa attività, oltre all'abilità manuale rischiesta per l'intreccio,

presuppone una conoscenza approfondita delle piante da cui si ricava il

materiale, la scelta appropriata dei ramoscelli, il giusto momento per il taglio,

trattamento e conservazione adeguati.

Altro elemento tipico dell'area considerata è l'artigianato legato alla pastorizia. I

lunghi periodi di isolamento che caratterizzano la vita del pastore hanno

contribuito ad affinare la sua abilità e la sua gestualità, dando vita ad un corpus

di oggetti e strumenti peculiari come i collari

per il bestiame, i fischietti, i "firlizi" (sgabelli

utilizzati per tosare o per mungere), i bastoni

riccamente intarsiati e decorati, gli attrezzi e

gli utensili per la produzione casearia

tradizionale realizzati con materiali vegetali.

Ancora oggi alcune aziende (Assoro, Nissoria,

Aidone) mettono in mostra i collari

sapientemente lavorati con decorazioni

geometriche e fantasiose forme figurative.

Page 50: Atlante antropologico

L’artigianato tessile ha un rilievo storico piuttosto marcato in Sicilia,

considerando anche il fatto che nel periodo normanno venne istituito un

setificio di corte, l'"ergasterion", nel quale fu

tessuto il mantello utilizzato per

l'incoronazione degli imperatori del Sacro

Romano Impero. Fino alla fine del XIX

secolo, l’artigianato tessile è stato per lo più

un’attività di carattere domestico e familiare,

svolta prevalentemente dalle donne e

sviluppata in particolare nelle zone dedite alla

pastorizia. Con la crisi di questo settore,

l’attività tessile è andata lentamente ad affievolirsi fino a scomparire quasi

completamente ai nostri giorni.

La diffusione e il perfezionamento dei ricami e dei merletti si svilupparono

parallelamente all’affermarsi dell’artigianato tessile. La varietà di tecniche

ancora rintracciabile nelle attività delle ricamatrici siciliane è da ricondurre sia

a ragioni di carattere storico, sia alla notorietà raggiunta da due particolari tipi

di ricamo: lo "sfilato siciliano" e il "filet" (o rete ricamata). Attualmente, molte

donne dell'area considerata continuano la pratica del ricamo e, grazie a questo

spirito che tende a valorizzare tale tradizione artigianale, la pratica va mano a

mano arricchendosi di nuovi tecniche e stili. I prodotti realizzati (capi di

biancheria, merletti, lenzuola e tovaglie ricamate) sono spesso concepiti come

oggetti legati ai momenti cerimoniali della comunità (il battesimo, il

matrimonio, il fidanzamento in casa) e costituiscono ancora parte del "corredo"

tradizionale, offerto in dote nelle feste nuziali. Decorazioni e motivi variano

notevolmente (raffigurazioni tipicamente floreali o che ripropongono motivi

legati alla sfera religiosa), e, in qualche modo, risentono dell’influenza dei

motivi ornamentali delle stoffe bizantine o dei fregi quattrocenteschi a fogliami

ondulati.

Page 51: Atlante antropologico

La lavorazione del "pane dei santi"

"la serva cerni e ‘mpasta, lu furnu conza e guasta" (detto popolare)

Storia e mito: la lavorazione del pane a scopo rituale è un’arte antichissima, riconducibile al periodo ellenico e strettamente connessa alla celebrazione della divinità agraria

Demetra che, secondo la mitologia, insegnò all’uomo l’arte della panificazione. Il mito racconta che il Dio degli Inferi Ade rapì Kore, figlia di Demetra, sulle rive del Lago di

Pergusa nei pressi di Enna. Demetra cercò la figlia invano ed infine, accecata dal dolore, distrusse i campi e rese arida la terra. Zeus accorse in suo aiuto, concedendole di

incontrare Kore almeno una volta l’anno. In occasione della festa denominata "Megalartia", il pane modellato a forma di cervo, detto "achainai", veniva offerto in sacrificio a Demetra

per lenire il dolore dovuto alla perdita della figlia, e nello stesso tempo per ottenere la protezione della dea sui raccolti.

Il prodotto: il pane viene modellato in modo tale da conferirgli forme, figure e significati simbolici diversi a seconda delle ricorrenze religiose:

Per la festa di San Calogero (Villarosa), vengono offerti al Santo, a scioglimento di un voto, pani devozionali a forma di testa, braccia, mani e altre parti del corpo.

In occasione della festa di San Giuseppe si ha un vero trionfo di pani figurati a scopi votivi e, sugli altari addobbati con lenzuola ricamate, vengono collocati i pani modellati e offerti

alla Trinità (a San Giuseppe il bastone, alla Madonna la palma e a Gesù Bambino la croce), accanto ad altre forme di pane che raffigurano le parti del Santo (la barba, la

mano), gli utensili utilizzati per il mestiere di falegname, (la sega, il martello) e la spera

(l’ostensorio).

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Materiali utilizzati: Ingredienti alimentari come farina, olio, acqua, sale, albume d’uovo, sesamo, lievito naturale ("u criscenti).

(Un elemento fondamentale della panificazione tradizionale è il lievito naturale, "u criscenti", consistente in una piccola quantità di pane crudo lasciata inacidire per alcuni

giorni. Diverse massaie lo conservano tuttora, come in passato, in una ciotola di terraglia oppure in un barattolo di vetro posto in frigorifero per non farlo indurire, mentre

anticamente, per permettere al lievito di mantenersi lo si avvolgeva in una foglia di fico. Il prestito e lo scambio del "criscenti " tra le donne del vicinato è una antica tradizione,

un'usanza tesa a consolidare e vivificare i rapporti sociali e il senso di solidarietà della comunità. Inoltre, usare il lievito naturale, secondo quanto riferito da una donna di

Nissoria, rende il pane più fitto e compatto mentre l'usuale lievito di birra può procurare dei rigonfiamenti eccessivi, detti "papuli", e delle incrinature sulla forma di pane.)

Strumenti utilizzati: la maidda (la madia, ricavata da un unico blocco di legno o realizzata con tavole di legno di forma rettangolare, con i bordi laterali rialzati); la sbria ( gramola di

legno che presenta ad una estremità posto tra due tavolette parallele un bastone che viene alzato e abbassato per lavorare la pasta); per l’intaglio e per la realizzare delle parti decorative si usano semplici strumenti di uso quotidiano, come ad esempio forbici, fondo

di un bicchiere, ditali per imprimere i cerchi, aghi per rifiniture particolari.

La funzione: la modellazione ed il consumo dei pani figurati assumono un carattere propriamente cerimoniale, acquistando il valore di un dono, di un talismano o di un ex voto. Nell’ambito delle feste di San Giuseppe e San Calogero è possibile riscontrare

l’insieme degli aspetti tipici dei culti agrari come ad esempio l’opulenza ostentata, l’offerta cerimoniale e la dissipazione del cibo, inteso a propiziare l’abbondanza della natura, contro la minaccia dell'insicurezza esistenziale e i rischi della precarietà alimentare.

Figura artigianale: la preparazione del pane si colloca nell’ambito delle competenze funzionali ai bisogni domestici e familiari, tradizionalmente attribuite alle donne.

Diffusione nell'area considerata: Villarosa, Leonforte, Valguarnera

Descrizione dell'attività: La lavorazione del "pane dei santi" richiede un tecnica ed un sapere specifici e solo qualche massaia è rimasta depositaria di questa antica arte. Il

processo di panificazione richiede diverse fasi ed il rispetto di alcune regole, tra cui quella di non panificare nei giorni di festa per non mancare di rispetto a Dio e ai Santi. La fase più delicata è l’impasto. Questo, composto da farina acqua e un cucchiaio di olio, deve essere

ben lavorato e manipolato, comprimendolo con i pugni delle mani, e arrotolato in

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continuazione per renderlo più raffinato e denso. Trattandosi di un lavoro stancante, le massaie si alternano nella manipolazione e nello stesso tempo cadenzano i movimenti con

preghiere e detti popolari.

L’arte dell’impastare viene detta "impopulare". Dopo la lavorazione della pasta, ne vengono tagliati alcuni pezzi a seconda della forma che il pane dovrà assumere per la specifica ricorrenza religiosa. A poco a poco, attraverso un lavoro di intaglio e cesello, espressione di un manualità sedimentata, le parti vengono modellate nei minimi particolari fino a realizzare delle vere e proprie opere d’arte. Una volta modellati, i pani figurati vengono spennellati con l’albume dell'uovo, poi cosparsi di sesamo (anticamente si usavano i semi di papavero). Altra fase delicata è quella della cottura, fase che conferisce al pane l’aspetto finale: una cottura riuscita male può pregiudicare tutto il lavoro svolto a monte. Infine, nel caso di un pane devozionale inteso come ex voto, esso viene portato in chiesa per la benedizione, poi distribuito ai presenti e ai parenti.

Rilevanza nel contesto attuale: ancora oggi alcune famiglie conservano la tradizione di prepare il pane in casa per uso quotidiano, ma la panificazione del pane rituale è un

sapere di cui sono depositarie solo poche massaie, per lo più anziane. A Villarosa, nel periodo della Festa di San Calogero, è stato possibile assistere alla preparazione di un

pane a forma di "pupidda" (bambina) come atto propiziatorio nei confronti di una donna in stato interessante.

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Le spighe rituali

Storia e mito: la spiga di grano, fin dai tempi dei greci, ha avuto un ruolo simbolico nelle diverse celebrazioni legate ai riti agrari e al culto di Demetra. Secondo la mitologia, questa divinità, dopo aver ottenuto da Zeus la grazia di poter rivedere la figlia Persefone (Kore) ciclicamente nel corso dell’anno, elargisce all’umanità il dono del grano. Nelle cerimonie di iniziazione al culto demetrico (i Misteri Eleusini) la spiga simboleggiava l’atto finale del rituale, quale frutto completo che racchiude in sè il principio, la fine e la continuità della vita. Lo svelamento della spiga era il momento culminante del rito, corrispondente (nel mito) al momento dell’apparizione di Persefone alla madre.

Il prodotto: mazzi di spighe intrecciate, di diverse dimensioni e con varie articolazioni ornamentali.

Materiali utilizzati: spighe di grano e orzo; nastri colorati.

Strumenti utilizzati: molto semplici e di uso quotidiano: una bacinella, una piccola cesoia, un coltello.

La funzione: la lavorazione delle spighe, anche se realizzata in diversi contesti per scopi estetico-ornamentali, trova la sua collocazione religiosa e simbolica come offerta devozionale alla Madonna. In occasioni delle Feste Mariane e nel periodo dei Sepolcri le spighe, abilmente intrecciate, adornano le urne e gli altari preservando un forte potere propiziatorio per il buon esito dei futuri raccolti.

Descrizione dell'attività: la preparazione delle spighe è una attività che si svolge prevalentemente in ambito domestico. Come la maggior parte

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delle attività tradizionali, essa si basa su un sapere "sommerso", tramandato attraverso un catena generazionale che, purtroppo, corre il rischio di dissolversi nel momento in cui ne vengono meno i depositari.

Le spighe di grano, una volta raccolte, sono lasciate a bagno nell’acqua per almeno 24 ore; questo trattamento consente alle fibre di arricchirsi di acqua e di acquistare una maggiore elasticità, permettendo di lavorare il materiale senza correre il rischio che si spezzi. Successivamente gli steli vengono tagliati, lasciando le spighe all'estremità, e disposti in gruppetti di uguale lunghezza. Il mazzo può essere formato da un minimo di 10 ad un massimo di 40 elementi, legati da un nastro colorato; più è elevato il numero degli steli, maggiore diventa la complessità dell’intreccio. Le fasi seguenti sono il frutto del talento e della manualità dell’artigiano, che, con l’abilità delle dita, riesce a conferire al ramo centrale un intreccio particolarmente elaborato con senso ondulatorio. Nel corso della lavorazione possono essere saldati tra di loro altri steli, creando delle biforcazioni laterali, fino a realizzare un mazzo formato da tre o più rami, abbellito con nastri colorati.

Rilevanza nel contesto attuale: abbastanza diffusa nell'area considerata in particolare nelle zone prettamente rurali. La lavorazione delle spighe, strettamente connessa al patrimonio culturale agro-pastorale, tende tuttavia a perdere la sua valenza rituale per acquistare sempre più un significato meramente estetico-ornamentale.

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La lavorazione delle fibre vegetali

Il prodotto: ceste di varie dimensioni e forme per il trasporto di derrate alimentari (cavagnu, panaregghiu, cannizzu, curbedda ), contenitori per la tuma e la ricotta (fasceddi, cavagne, gistra), coperture per recipienti di vetro e oggetti particolari come "u panariello" tradizionalmente utilizzato per la cattura del furetto e "li cancieddi" grosse ceste che a coppia si ponevano sugli animali da soma.

Materiali utilizzati: fibre vegetali di diversa natura come il giunco, la canna e l’olivo selvatico (agliastru).

Strumenti utilizzati: forbici, coltellino, spago, bacinella con acqua, piccola cesoia

Figura artigianale popolare: il "cannistraro" svolge l’attività dell’intreccio presso la sua dimora rurale e nelle piazze, in occasioni di feste patronali e di fiere. E’ depositario di un sapere e di una conoscenza specifica sulla natura e sulle piante e si caratterizza per la sua abilità nel combinare armoniosamente diverse fibre vegetali. Molto spesso questa figura si identifica e coincide con quelle del pastore e del contadino, che fabbricano autonomamente diversi manufatti in fibre vegetali per soddisfare le proprie esigenze pratiche e quotidiane.

Descrizione dell'attività: la lavorazione dell’intreccio richiede la conoscenza ed il sapere delle proprietà delle piante, connessi ai tempi e ai modi per la raccolta ed il taglio,

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accompagnati da un patrimonio di gestualità e scaltra manualità che si tramanda di padre in figlio. La prima fase si caratterizza per la preparazione del materiale: tagliare i listelli di canna, scegliere appropriatamente i rami da intrecciare raccolti nel corso dell’anno, disporli in gruppetti della stessa lunghezza. Per la realizzazione di alcune ceste come "u panariello" è utilizzato l’agliastru, (l’olivo selvatico) facilmente manipolabile data la sua elevata elasticità; in genere, nel corso della lavorazione, i rametti vengono più volte bagnati per evitare che si secchino. La gistra e la fascedda, contenitori della ricotta e della tuma, sono fatte con giunco selvatico non spinoso, seccato e poi tenuto un giorno a bagno nell‘acqua per renderlo più tenero. La lavorazione inizia dalla base, intrecciando i fili di giunco, appropriatamente trattati, disposti in gruppi perpendicolari tra di loro e legati trasversalmente a partire dal centro; dalla base partono nuovi

fili che vanno a incrociarne altri disposti orizzontalmente. La fascedda e la gistra, una volta finite, vengono immerse nella scotta calda per impedire che possano trasmettere il verde del giunco al formaggio e infine prima dell’uso vengono lavate accuratamente nell’acqua calda.

Rilevanza nel contesto attuale: l’intreccio è una lavorazione molto antica, tesa a soddisfare le esigenze pratiche e funzionali di una comunità agro-pastorale. Oramai in via di estinzione, la rilevanza di questa pratica è attualmente connessa ad una valenza solamente estetico-ornamentale. A Piazza Armerina è stato possibile assistere alla lavorazione completa di un panaregghiu (piccolo paniere) e comunque, in occasioni di ricorrenze religiose associate a fiere e mercati, è consuetudine vedere u cannistraro intento a fabbricare diversi tipi di ceste.

Frasi : "oramai i cesti sono stati sostituiti dai recipienti di plastica" (il cannistraro di Piazza Armerina)

L'arte del pastore

I prodotti : tra le attività del pastore vi è la produzione di un corpus di oggetti e strumenti peculiari come collari per il bestiame (cuddaro), fischietti, "firlizi" (sgabelli utilizzati per tosare o semplicemente per sedersi ), bastoni e bicchieri di corno riccamente intarsiati e decorati, attrezzi e utensili per la produzione casearia tradizionale, nonchè stecche da busto, conocchie, arcolai e altri manufatti di legno incisi a punta di coltello.

Materiali utilizzati : diversi tipi di legno come quercia, frassino, bagolaro (millicucco), pero, castagno.

Funzione degli oggetti prodotti: alcune tipologie di oggetti sono generalmente realizzate dal pastore per uso lavorativo, connesse all’attività pastorale, e altre per uso personale,

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portate in dono a qualche persona cara o alla donna amata, come nel caso delle stecche da busto, delle conocchie e degli arcolai (strumenti utilizzati per la tessitura), i cui motivi decorativi ricorrenti, cuori, nodi, catene, esprimono simbolicamente un messaggio di amore. In particolare i collari svolgono una funzione determinante nella conduzione del bestiame o del gregge, permettendo al pastore di individuare, attraverso la traccia acustica del campanaccio, la posizione della mandria, che per la presenza di versanti ripidi e scoscesi, può sottrarsi alla sua vista. I collari, fittamente decorati con motivi geometrici e in alcuni casi con immagini devote, sono destinati agli animali più belli e mostrati in occasione delle fiere del bestiame e delle feste agresti.

Descrizione dell'attività (realizzazione di un collare): i lunghi periodi di isolamento o di semi isolamento hanno portato il pastore ad affinare la sua manualità e abilità produttiva, sfruttando le risorse naturali del luogo e producendo raffinati oggetti di legno, tali da far parlare di un’arte del pastore. La lavorazione e le decorazioni dei collari sono rappresentative di questa arte, esprimendo un patrimonio figurativo con un linguaggio arcaico, mantenuto in forme essenziali, riproducenti una simbologia naturalistica. Il collare (il cuddaru) è composto da una striscia di legno priva di nodi, con uno spessore di circa uno o due cm. e larghezza da tre a dieci cm., a seconda che sia destinato a pecore, buoi o capre. Questa striscia, immersa nell'acqua per diversi giorni, acquista una maggiore elasticità e morbidezza. Il pastore, modellandola, gli conferisce una forma a U, aiutandosi con una struttura di ferro o poggiandola sulle ginocchia e tirandone le estremità. Sulle parti ricurve sono praticati dei fori per farvi passare una fascia di cuoio, trattenuta all’estremità da due tasselli di legno, alla quale sospendere la campana. I collari sono spesso scolpiti e intarsiati con la punta di un coltello, secondo un semplice linguaggio figurale che esprime aspetti della vita quotidiana e raffigurazioni devozionali. Nelle ornamentazioni tende a prevalere il carattere decorativo geometrico, composto da linee rette, punti, cerchi, figure a forma di rosoni, riportando alla memoria alcuni motivi ornamentali tipici dell’iconografia dell’antico Oriente e della grecità arcaica (X -VI sec.a.C.).

Rilevanza nel contesto attuale: le forme dell’arte pastorale tendono con il passare degli anni a dissolversi in concomitanza con una crisi della pastorizia tradizionale. Lo sviluppo dell’uso delle tecnologie nel settore ha in parte migliorato la qualità della vita del pastore, non più costretto a lunghi periodi di isolamento per la conduzione e il controllo del gregge, ma nello stesso tempo ha modificato le connotazioni culturali e strutturali di questa attività tradizionale, con la conseguente perdita di un ricco patrimonio antropologico. E’ stato possibile incontrare alcune testimonianze tangibili di questa attività ad Aidone, dove un pastore con sentimento e passione crea collari e bastoni variamente decorati; a Nissoria c’è un’azienda a conduzione familiare che conserva nella stalla collari di legno con decorazioni geometriche e lineari; a Villapriolo un anziano pastore realizza ancora l’antico "firlizi".

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Frasi: "la sera guardo la televisione, mi vedo le partite, non mi metto certo a decorare i collari …lo potevano fare prima quando non c’erano distrazioni" (giovane pastore di Assoro); "quando ce la passavamo male, queste erano le sedie" (anziano pastore di Villapriolo, indicando il "firlizi").

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Lavorazioni tessili e ricamo

"la bedda a lu tilaru tessi e canta, e tessi e canta cu tanta mastria ,

tessi la tila dilicata e bianca pri quannu chi ci servi, armuzza mia"

(Canto popolare "A la careri")

Storia e mito: l’artigianato tessile, una delle attività più antiche e fiorenti nella zona considerata, come peraltro riportato negli scritti di Cicerone e di Plinio, ha ricevuto notevoli stimoli e impulsi nel periodo della dominazione araba, caratterizzandosi per un tipo di produzione su larga scala, senza eccessive pretese artistiche. Nel periodo normanno, la tessitura trova una sua collocazione istituzionale con la creazione di un setificio di corte, "l’ergasterion" (termine bizantino), in cui lavoravano sia tessitori greci che ricamatori arabi. Tale opificio reale, nel quale fu tessuto il mantello per l’incoronazione degli imperatori del Sacro Romano Impero, introdusse nella regione l'attività di tessitura della seta, già fiorente nella Grecia bizantina, e perfezionò le tecniche arabe della filatura e dei ricami.

Figura artigianale non professionale: la produzione tessile e del ricamo rientra nell‘ambito di quei mestieri tradizionalmente attribuiti alle donne, come attività secondaria rispetto ai ruoli domestici e familiari. Figura tradizionale ormai in via di estinzione è quella delle "careri", le tessitrici che realizzavano pazientemente i tessuti con il telaio a mano, accompagnando le fasi del proprio lavoro con canti e preghiere per propiziarsi il buon esito della tessitura.

I prodotti: dall’incessante lavoro di tessitura delle "careri" hanno preso corpo svariati prodotti di lana e cotone connessi all’uso quotidiano, come lenzuola, cappelli, bisacce e manufatti particolari come l’orbace, tessuto di grossa lana di pecora, con trama irregolare, utilizzato dal pastore per proteggersi dal freddo. La notevole vitalità dell’arte del ricamo ha dato luogo ad una peculiare produzione di ricami e merletti, realizzati con diversi punti e tecniche, ispirati ai motivi ornamentali delle stoffe bizantine o dei fregi quattrocenteschi a fogliami ondulati. I tessuti realizzati ed abbelliti con pizzi e trine sono concepiti per una destinazione dotale e, in alcuni casi, votiva, come corredo e guarnizioni di immagine sacre, paramenti sacerdotali e altari.

Strumenti utilizzati: il telaio, i fusi, le conocchie (utilizzati per la filatura della lana, della bambagia, del lino e della seta) e l’arcolaio ( strumento per avvolgere la matassa). Queste ultimi due oggetti venivano anticamente realizzati dal pastore, in legno pregiato come il castagno o il bagolaro, e finemente intagliati. Per l’attività del ricamo gli strumenti utilizzati sono vari:

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il "tombolo", il cilindro imbottito con del crine e rivestito di stoffa più o meno pregiata;

i fuselli (bastoncini torniti con la forma di un fuso con un’estremità munita di capocchia sulla quale si ferma il filo; in passato erano realizzati in osso, o in legno pregiato, variamente torniti o incisi);

gli spilli (di ottone nichelato con una lunghezza non superiore ai due cm., generalmente conservati in scatoline con saponaria o talco per evitare l’ossidazione, un tempo erano realizzati con materiale prezioso come l’argento);

la spoletta per il "punto chiaccherino" e un insieme di altri elementi generici come ditali, aghi, filati di diversa natura, grembiule bianco e telaio per ricami.

Descrizione dell'attività: Fino a pochi anni fa, le operazioni relative alla filatura e tessitura della lana venivano svolte interamente a mano, secondo procedure tradizionali che richiedevano diverse fasi. La lana, dopo essere stata tosata, veniva sottoposta a trattamenti specifici e lavata, prima in acqua calda poi in quella fredda. Una volta asciutta, si procedeva al lavoro di cardatura e filatura con la conocchia per poi essere raccolta in matasse con l’arcolaio. Successivamente, la lana veniva posta in recipienti con sostanze coloranti, ottenute con la bollitura di prodotti vegetali, per diverse ore o anche giorni, fino a farle acquisire il colore richiesto. Alla fine, si stendeva l’ordito sul telaio e si procedeva al lavoro di tessitura. Parallelamente all’affermarsi dell’artigianato tessile si è diffusa e perfezionata l’arte del ricamo e dei merletti. La varietà di tecniche ancora rintracciabile nelle attività delle ricamatrici è da ricondurre sia a ragioni di carattere storico sia alla notorietà raggiunta da due particolari tipi di ricamo:

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- lo sfilato siciliano o 500 siciliano, di origine endogena, è una tecnica delle più antiche in quanto già praticata nel secolo XVI. Questo filato è ottenuto sottraendo dalla tela un numero determinato di fili nei due sensi e poi operando in questa rete. Dagli inventari dotali delle donne nobili dell’epoca, si ha la possibilità di individuare storicamente le diverse forme che lo sfilato ha assunto nel corso degli anni come "la tela tirata", il "punto tagliato" e a "reticello";

- il filet o rete ricamata raggiunse pieno splendore nella prima metà del secolo XVII in Francia e successivamente si diffuse omogeneamente nell’isola. Questa tecnica si caratterizza per effettuare, su un tessuto lavorato a rete, diversi tipi di ricamo con i punti più diversi.

E’ interessante ricordare un’altra tecnica, il tombolo, che ha caratterizzato storicamente e tradizionalmente l’arte del ricamo. La peculiarità del suo operato si basa su una manualità ed una esperienza inusuale, associata alla destrezza delle mani nell’intreccio dei fuselli. Il tombolo è un grosso cilindro imbottito con del crine e rivestito con stoffa più o meno pregiata, sul quale viene appuntato un disegno realizzato con un cartone forato. Su di esso vengono spillati dei fili di cotone, alla cui estremità sono posti un certo numero di fuselli; in base al punto e al disegno da realizzare essi vengono abilmente intrecciati in gruppi di quattro per volta (l’intreccio avviene sempre con un numero pari di fuselli).

Rilevanza nel contesto attuale: con la crisi della pastorizia l’attività tessile tradizionale è andata lentamente ad affievolirsi fino a scomparire quasi completamente ai nostri giorni. Attualmente, pertanto, mentre la tessitura sembra essere ormai quasi scomparsa, il ricamo è invece ancora presente; alcune tecniche sono state riprese, altre modificate, subendo sviluppi e trasformazioni che generano una vivacità di forme espressive e figurative. Anche lo sfilato è andato lentamente scomparendo in quanto la particolare tecnica richiede una abilità specialistica in via di estinzione, mentre risulta di un certo sviluppo le tecnica del filet, i ricami sulle lenzuola con il punto tagliato, il punto chiaccherino, il punto ago, il punto margherita, il punto broccatello. Presso alcune famiglie a Villarosa e a Nissoria è possibile ammirare alcuni prodotti di questa antica attività, come le lenzuola di cotone tessute a mano, le "tele di casa", ricamate con la tecnica dello sfilato siciliano, che tuttavia costituiscono solo una memoria storica del passato. Nella zona di Aidone, qualche anziano pastore utilizza ancora la tipica "scappulara", la mantella di "albagia", anticamente realizzata con il telaio a mano e le cui fattezze richiamano alla memoria un indumento ancora più antico, la "ciucca", indossato nel periodo della Festa dei Morti (novembre).

Frasi: vedevo lavorare mia nonna, mia madre e poi sono andata da una anziana signora che insegna durante il periodo estivo …….così molte ragazze hanno la possibilità di farsi il corredo perché magari non ci sono i soldi per acquistarlo" (giovane ricamatrice di Nissoria).

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La lavorazione delle selle e dei basti

"Tanti colori avrà il cavallo indosso sulla terra, quanti ne ha l'arcobaleno in cielo" ( tratto dal Corano)

Storia e mito: il crocevia dei popoli che ha attraversato la Sicilia ha consentito il sedimentarsi di un complesso di tratti culturali di diverse origini. La lavorazione del basto,

delle selle nonchè delle bardature dei cavalli sono espressioni contaminate di questo incontro culturale e rappresentativi di un modello figurativo orientale. Per la cultura araba il

rapporto tra l’uomo e la natura è di carattere mistico e sacrale, regolato da dettami religiosi; pertanto il cavallo (come altri animali) richiede una serie di attenzioni e di cure

non solo per la sua stretta utilità nella vita pratica, ma principalmente nel rispetto del Corano, tra i cui precetti vi è l’arte di ornarlo con bardature vistose e colorate.

Gli arabi lasciano i segni della propria presenza attraverso selle sommerse da decorazioni vistose, luccicanti di specchietti e di campanelli dorati (cianciane), bardature con intricate trame ornamentali e azzardati accostamenti di colori, che poi confluiranno nel patrimonio

espressivo della cultura contadina locale.

Prodotti: selle con decorazioni vistose e colorate; basti da soma ricoperti con grosse bisacce dette "vardune" e "vertole" ; finimenti dei bovini per i lavori agricoli; bardature con

trame ornamentali.

Materiali utilizzati: per la struttura di base del basto possono essere utilizzati sia il legno che il ferro; la parte interna viene riempita di canapa e paglia di segala; le rifiniture sono

effettuate con il cuoio e con la canapa.

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Funzione degli oggetti prodotti: i basti sono usati per il trasporto delle derrate alimentari, dei covoni di spighe durante la mietitura, delle giare con liquidi, degli strumenti caseari e del pastore in generale; i cavalli riccamente bardati, in occasioni di fiere e mercati, hanno

una funzione di ostentazione e di richiamo.

Figura artigianale popolare: il "vardunaro" si dedica alla realizzazione di selle e dei basti da soma e possiede una particolare sensibilità e una conoscenza approfondita della

fisionomia degli animali.

Descrizione dell'attività: l’attività del "vardunaro" ha avuto una notevole importanza nella comunità agro-pastorale, in cui il trasporto con i muli o i cavalli era determinante per lo

svolgimento delle attività lavorative. Strumenti di lavoro per la coltivazione dei campi, per la mietitura e la trebbiatura del grano e per la caseificazione venivano caricati sui basti

degli animali da soma e trasportati fino al posto di lavoro che poteva distare anche diversi chilometri dal centro abitato. A suo tempo la lavorazione dei basti e delle selle, troppo

complessa ed articolata per poter essere appresa autonomamente, richiedeva la figura di un "maestro", (come riferisce il bardanuro di Nissoria) depositario di un sapere

sedimentato e di un insieme di conoscenze e pratiche, da tramandare ai futuri apprendisti. Il basto consiste in una struttura di ferro o di legno detta "manione", ricoperta da una stoffa

di canapaccio o di tela olona; la parte interna viene imbottita con la paglia di armena o segala. Una volta effettuate le rifiniture, con il cuoio e con la canapa, vengono applicate

sul basto le bisacce, dette vardune o vertole a seconda del tipo di materiale da trasportare. Le "vardune" sono sacche di canapa, aperte lateralmente utilizzate per il trasporto ad esempio della paglia, del fieno, delle fave; le vertole, aperte nella parte superiore sono

invece utilizzate per portare i "bummoli" (recipienti di terracotta impiegati per il trasporto di liquidi).

La parte più difficile, che richiede una certa abilità ed esperienza da parte dell’artigiano, consiste nell’adattare il basto alla conformazione fisica dell’animale, per non causargli

lacerazioni o ferite compromettenti per il suo rendimento, e modificare di conseguenza la struttura stessa del basto; se questa è di ferro può essere ritoccata ed adattata con facilità,

se invece è di legno l’artigiano deve variare la quantità di paglia posta all’interno, stabilendone ad occhio il giusto volume.

Rilevanza nel contesto attuale: nel passato ha avuto una rilevanza storica ed antropologica di notevole interesse, attualmente è un attività in via di estinzione in quanto i

trasporti avvengono per lo più con mezzi motorizzati; la lavorazione delle selle anche se ridotta rimane ancora in vita.

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Qualche contadino (Piazza Armerina) conserva ancora le selle e le bardature che, applicate agli animali da soma (muli e cavalli), svolgevano la funzione di ostentazione e di

richiamo in occasioni di fiere e feste agrarie.

Frasi: "questo ormai va a terminare…..era il mio mestiere, mi piaceva, ci campavo, ci mangiavo, tutte cose e l'odore non lo sentivo….. ora non lo fa più nessuno perché non

sopportano il cattivo odore del cavallo e del mulo" ("Vardunaro" di Nissoria )

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La tradizione dolciaria

"cu nn’appi, nn’appi cassateddi di Pasqua" (proverbio popolare)

"Tintu cu’ ‘un mancia cassati la matina di Pasqua" (proverbio popolare)

Storia e mito: un ruolo importante nello sviluppo della produzione dolciaria è stato svolto dai monasteri femminili fin dal XVI secolo, anche se le usanze e le feste pagane di stampo ellenico, profondamente radicate nella cultura popolare, costituiscono il sostrato culturale

più antico del patrimonio gastronomico locale. Tra le mura del convento, le monache elaboravano particolari dolci per determinate ricorrenze religiose ed erano depositarie del contenuto di antiche ricette. La consuetudine di preparare i dolci da parte delle suore era inizialmente legata ad un atto caritatevole, allo scopo di aiutare le famiglie meno abbienti,

poi a poco a poco è diventata una forma di sostentamento economico, attraverso una produzione su ordinazione, e, allo stesso tempo, una forma di ringraziamento e di offerta.

In occasione delle ricorrenze religiose, vassoi colmi di dolci erano destinati alla sede vescovile, al confessore e ai benefattori.

Funzione degli oggetti prodotti: esiste una produzione dolciaria strettamente connessa al ciclo cerimoniale sacrale, con implicazioni simboliche e religiose, come ad esempio la

produzione legata al ciclo pasquale, alle feste patronali e mariane, mentre altri tipi di dolci sono di carattere laico e profano, realizzati in occasione del Carnevale, o nel caso di

ricevimenti di personalità di rilievo.

Figura artigianale popolare: una particolare figura popolare è quella del "tirrunaro", il "dolciere" del popolo, il venditore ambulante che segue le feste calendariali. Oltre a

produrre dolci generici, si occupa della realizzazione e della vendita dei dolciumi tradizionali o rituali, legati ad una determinata ricorrenza festiva.

Ingredienti utilizzati: i dolci tradizionali sono realizzati con ingredienti tipici locali quali il miele, le mandorle, le nocciole, la ricotta, gli agrumi.

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Prodotti tipici e loro caratteristiche: la varietà dei dolci prodotti nella zona considerata è molteplice e di svariata

natura; ne indicheremo alcuni omogeneamente presenti nel contesto e rappresentativi per il loro significato connesso a

ricorrenze particolari. Nel periodo pasquale si ha una vera e propria esplosione di

produttività di diversi tipi di dolci tra cui ricordiamo:

le colombine, (a palummedda) anticamente prodotte dalle suore del Convento di Piazza Armerina come simbolo di salvezza, fatte di un sottile biscotto e con la testa di pasta di mandorle, ricoperta con la glassa di zucchero;

la cassata, a base di formaggio o ricotta; "i cassateddi", dolce di origine agro-pastorale e di confezione casalinga, fritto nell’olio e composto da

pasta e ricotta; la "frutta martorana", realizzata con pasta di mandorle che riproduce minuziosamente i frutti

caratteristici della Sicilia (il pasticciere deve avere delle accortezze particolari per dipingere ed attribuire, ad ogni forma di frutto, il colore che lo caratterizza in natura);

le pecorelle (a picuredda) di pasta reale, ricoperte con zucchero e decorate con fiorellini e palline argentate.

In occasioni delle feste patronali vengono prodotti diversi torroni e dolciumi:

"u tirruni di nuciddi" realizzato con le nocciole; "il gelato di campagna" a base di frutta martorana e di frutta candita; i sfinci, frittelle con il miele che ricordano il mylloi, offerto alla divinità Demetra in occasione delle

"Tesmoforie"; i mostaccioli ("a mastazzola") composti di vino cotto, farina e zucchero (dolce di antica memoria,

come ci attesta il termine mustaceus riscontrato nei testi di Cicerone e Catone); la pignuccata, palline di pasta dolce lievitata, cosparse di miele e zucchero.

Nell’ambito della produzione dolciaria profana, trovano una loro collocazione particolari tipi di biscotti (desseri, termine ripreso dal francese dessert) come i "ventiquattore" (realizzati

a Piazza Armerina), a forma di bastoncino con le due estremità ricurve, così chiamati per il tempo che occorre per la lievitazione; le savoiarde, realizzate con uova e latte, che, per la loro particolare proprietà energetica, vengono tradizionalmente portate in dono a persone malate o a donne in stato interessante. Un posto importante nella dolceria profana spetta alle conserve, realizzate con i fichi di india e con il mosto. Anticamente la mostarda veniva utilizzata come companatico per i bambini o come dolce da offrire a persone di riguardo.

I dolci tipici prodotti in occasione del Carnevale sono: la pignolata (pagnuccata) che spesso assume la forma di una maschera addobbata con coriandoli e nastri; i cannoli di

ricotta, ripieni di crema (u cannolu); i "testi di turcu", realizzati con farina, zucchero e uova. L’insieme di questi dolci, pur avendo una più accentuata diffusione per specifiche

ricorrenze religiose, viene oggi prodotto anche in occasioni cerimoniali (compleanni, matrimoni).

Rilevanza nel contesto attuale: la tradizione dolciaria è abbastanza diffusa nella zona di nostro interesse, ma il processo di trasformazione e di frantumazione della cultura agro-

pastorale contribuisce a far perdere al dolce tradizionale la sua valenza simbolica e votiva, per laicizzarsi nell’ambito di una produzione a carattere industriale.

A Piazza Armerina, presso una pasticceria artigianale, è stato possibile assistere alla realizzazione della pasta di mandorle in maniera tradizionale. Tutte le fasi della

lavorazione sono rigorosamente svolte a mano, privilegiando in tal senso la qualità alla quantità.

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Lamentanze o "ladate"

Canto polivocale religioso intonato durante la processione del Giovedì e del Venerdì Santo. I cantori fanno parte di confraternite maschili. Il canto si dispiega per tutto il tragitto della processione ora nel silenzio, ora con sottofondo di tamburi, ora con la banda che si sovrappone alla melodia creando un effetto sonoro dissonante. La melodia è arcaica e si rifà al sistema modale medievale. Saper cantare questo repertorio è motivo di prestigio e vanto: pochi sono ormai in grado di eseguire melodie tanto lontane dalla sonorità moderna cui il nostro orecchio è ormai abituato.

Esempio di canto:

'O cruci Santa ti vegnu a vidiri

China di sangu vi trovu lavata

Cu fu ddu omu ca vinni a muriri?

Fu Gesù Cristu ch'eppi 'na lanciata

(Traduzione: O croce santa vi vengo a vedere/ piena di sangue siete intrisa/ chi fu quell'uomo che vi morì?/fu Gesù Cristo che ebbe una lanciata).

Luogo di rilevamento: Aidone

denominazione locale: 'o lamento d' 'o Signore

Esecuzione: due voci soliste alternate e coro

Strumenti musicali: banda e tamburi, ma non connessi al canto

Occasione-funzione: Settimana Santa

note musicali: il canto si compone di dieci quartine di endecasillabi di cui il primo cantore intona il primo emistichio (prima metà del verso), ripreso dal secondo cantore cui fa eco, sulla nota finale, il coro degli altri cantori. La pratica di cantare in due uno stesso verso deriva dalla vocalizzazione prolungata delle note che dà alla melodia un carattere fortemente melismatico. L'impianto è modale, come nei canti della pesatura. Nel sistema modale, che non possiede un centro tonale su cui la melodia possa far riferimento, la linea melodica rimane indeterminata e sospesa tra il maggiore e il minore. Il coro dei cantori, che alla fine del verso riprende la nota finale insieme al solista, oggi intona le voci all'unisono, sulla stessa nota, ma un tempo era polifonico, si muoveva su linee melodiche differenti.

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Note dell'informatore. Riferisce Salvatore V. cantore e membro della confraternita di Santa Maria delle Grazie, che tali canti un tempo si intonavano anche in campagna, durante la mietitura e la trebbiatura, e si apprendevano dai più anziani: "C'era un libro che si comportava di 'sti cose antiche, ma quello che lo sapeva veramente era lunga la storia, no questi, non la sanno la storia, fanno due parti e basta". Spiega poi come procede il canto: "quanno parlano che fanno la voce il primo attore fa 'o santa croce', il secondo attore fa 'vi vegnu a vidiri', poi l'altro, il primo, ci fa 'o riporto 'aaa', per allungare la voce."

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Gli Stornelli

Lo stornello siciliano, detto anche ciuri (fiore), o muttetto, appartiene al genere lirico-monostrofico di cui fanno parte anche strambotti e rispetti. Si compone di strofe di endecasillabi combinati in distici e si presta molto all'improvvisazione soggettiva articolata in botta e risposta tra due sfidanti. Ancora viva è la tradizione, che accomuna la Toscana e la Sicilia, di gare d'improvvisazione di sestine e ottave d'endecasillabi. Da tale carattere competitivo nascono le diverse diciture di stornello "alla Leonfortese", "alla Nissorina", "all'Aidonese", con riferimento alla tradizione del paese d'origine.

Esempio di canto:

Vinne a cantariu cca'vi all'aria fina

a facci frunti di la tramuntana

Se si curcata miettiti susuta

E 'sti sturnelli te li metti a nota

Signorinelle schiette n'un v'offinniti

Ca' su' canzuni di li maritati

Ca' su' canzuni di li maritati

La notte quannu dormonu queti

(Traduzione: Venni a cantare qua, all'aria fina/ sono venuto con la faccia rivolta verso la tramontana/ se sei sdraiata mettiti seduta/ e ricordati questi stornelli/ ragazze nubili non vi offendete/ che sono canzoni per gli sposati/ la notte quando dormono tranquilli..)

Luogo di rilevamento: Leonforte

denominazione locale: stornelli alla Leonfortese: serenata e stornello per gli sposi

esecuzione: voce maschile e fisarmonica.

Strumenti musicali: fisarmonica, armonica, altri strumenti.

occasione-funzione: durante il lavoro o nelle pause (contadini, venditori ambulanti, carrettieri); momenti ricreativi e d'intrattenimento (osteria, feste familiari, di nozze, di paese); serenate.

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note musicali: la linea melodica si ripete ad ogni coppia di versi (distico) con inflessioni vocalistiche di tipo solistico. Ogni distico cantato è intervallato dalla fisarmonica che armonizza in tonalità maggiore con ritmo ternario. Il testo verbale varia a seconda delle occasioni (nascite, nozze, serenate, feste) e si basa su un canovaccio sul quale si improvvisano le rime.

Note dell'informatore. Ciccio S. riferisce che le stornellate di Leonforte sono "un'usanza antichissima, si cantavano nelle traverse e nelle occasioni, alla fidanzata, quando nasceva un figlio, quando c'era un matrimonio, in tutte le occasioni". Riferisce anche di uno "stornello alla pesatura" spiegando che: "Ognuno per dire che i suoi animali, buoi, cavalli, muli, erano più forti di quegli altri nel mezzo dell'aia, ci cantavano 'sti stornellate, che erano un momento di allegria per tutto il territorio, perché ogni due-trecento metri c'era un'aia di quelle, e tutti che cantavano questi stornelli":

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Le feste tra sacro e profano

Celebrazioni collettive di una ricorrenza sacra o profana, le feste, numerose e interessanti nell'area considerata, si articolano in un vastissimo panorama di eventi rituali presenti ciclicamente in tutto il corso dell'anno.

La maggioranza delle feste sono sacre, celebrative dei momenti salienti del culto cristiano e della vita dei suoi protagonisti (Gesù, la Sacra Famiglia, gli Apostoli, i Santi), momenti che coincidono con le fasi di passaggio stagionali nel ciclo dell'anno. Tale coincidenza permette di intravedere sotto ad ogni ricorrenza religiosa un più antico culto agreste del mondo pagano precristiano, legato alla produttività della natura. Le feste profane, con in testa il Carnevale, svolgono ancora quella funzione di rappresentazione del mondo alla rovescia, ribaltamento dei ruoli sociali, rottura con il quotidiano, tramandataci dagli antichi Saturnali latini. Tuttavia, l'interruzione del tempo quotidiano che permette di accedere, attraverso il rito, nel tempo "mitico" della festa, è elemento cardine che accomuna tutte le feste, sia sacre che profane. In particolare nelle piccole comunità agro-pastorali, come è il caso dei comuni dell'area considerata, il tempo "mitico" della festa permette un riavvicinamento dei partecipanti alla sfera divina, una possibilità di colloquiare direttamente

con Dio, Gesù, Maria o il Santo protettore, senza l'intercessione di intermediari ufficiali. I protagonisti delle vicende divine vengono così "umanizzati" e personificati dai membri della comunità che, prescelti allo scopo con diverse modalità, acquistano prestigio e la consapevolezza di essere i depositari della tradizione. Caratteristica delle feste popolari siciliane dell'area considerata è la notevole presenza di confraternite, ognuna legata ad un culto santoriale, patronale o mariano, ognuna preposta all'organizzazione di un evento festivo o di un suo aspetto: trasporto del santo in processione, celebrazione di messe votive, manutenzione dell'altare dedicato all'immagine tutelare, preparazione e distribuzione di cibi.

Il panorama delle feste, in particolare di genere liturgico religioso, negli otto comuni qui considerati è piuttosto ampio

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e variegato e rivela, per le forme e le modalità delle celebrazioni, l'antico sostrato pagano di origine greco-romana, con precisi riferimenti alle divinità e alle sostanze connesse ai culti agrari. La notevole diffusione delle feste e il complesso e articolato sistema di celebrazioni può essere riassunto, e più facilmente compreso, considerando alcune tipologie festive, tra l'altro caratteristiche di gran parte dell'area mediterranea. Le feste Mariane, dedicate al culto della Vergine, con diverse rappresentazioni iconografiche e notevoli differenziazioni devozionali, ma ricoducibili al complesso mitico-rituale della Grande Madre, figura ricorrente in ambito mediterraneo. Le feste dedicate ai Santi, molto spesso patroni delle comunità, in cui l'intreccio tra sacro e profano emerge con maggiore chiarezza e in cui il rapporto con la figura sacrale è avvertito come più confidenziale e immediato. I Pellegrinaggi, sovente legati ai culti agresti, che esprimono il retaggio di antiche esperienze estatiche connesse al "viaggio", momento di estraniazione e di rivisitazione della coscienza. La Settimana Santa, importante e maestosa celebrazione collettiva, ampiamente diffusa nell'area considerata, che rivela il forte legame rituale con il complesso mitico greco-romano connesso alle divinità del grano, alle figure di Demetra e Kore (Cerere e Proserpina, per i romani), che proprio in questi luoghi, secondo il mito, vedono ambientarsi i propri drammi. Altre feste non rientranti in queste tipologie, come il Carnevale o il Corpus Domini, pur presenti nel territorio considerato, non sembrano tuttavia assumere particolare rilevanza antropologica e risultano spesso legate al contesto celebrativo nazionale, più che a quello locale.

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Feste Mariane

Il culto dedicato alla figura di Maria, in tutta l'area mediterranea, ha assunto nel tempo molteplici forme di devozione e ha prodotto diverse figure speculari della Vergine, ognuna con una sua caratteristica legata a particolari luoghi, miracoli, apparizioni. Le sue forme di celebrazione e la loro concomitanza con il periodo in cui maturano le messi (le feste mariane si concentrano nel periodo che va da maggio a settembre), mette in collegamento il culto della Vergine con quello della Grande Madre, celebrato sin dall'antichità in tutto il Mediterraneo. In particolare nell'area considerata, a forte connotazione agricola, il rapporto di filiazione con il culto di Demetra o Cerere, dea del grano, è ancor più rafforzato da un'antica tradizione cultuale (la Rocca di Cerere ad Enna, è sede dell'antico tempio della dea).

L'identificazione della Madonna, e più in generale delle divinità cristiane, con le divinità pagane protettrici del raccolto è testimoniata da alcune celebrazioni come quella in onore di Maria SS.ma della Visitazione ad Enna, della Madonna delle Grazie ad Aidone o quella di S. Maria del Noce, oggi in disuso, in occasione della quale gli agricoltori chiedevano la grazia di un buon raccolto di nocciole. Alcune feste, come quella della Madonna della Catena, a Villarosa, fino a qualche decennio fa, erano precedute da fiere del bestiame ed erano occasione di scambi commerciali e culturali. C'è inoltre da ricordare che, in passato, durante i lavori nei campi, i contadini intonavano canti religiosi di devozione a Maria, a Gesù, al SS. Sacramento, al santo protettore, per invocare la grazia di un buon raccolto. Oggi, la vendita di oggetti esposti sulle bancarelle, la distribuzione e il consumo di cibi, i souvenir, la musica, gli spettacoli di strada, sono elementi di una laicità che stride con il tono raccolto e contenuto dell'espressività religiosa; ed è proprio la compresenza di elementi opposti e contraddittori, a fare della festa religiosa popolare un evento polivalente, a metà tra consumismo e misticismo, trasgressione liberatoria e profonda devozione.

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Importanti celebrazioni si svolgono ad Enna, in occasione della festa della Madonna dei Calderai, a testimonianza della devozione delle antiche corporazioni artigiane. Esse, fin dal medioevo, contribuivano all'allestimento della cerimonia, costruendo oggetti rituali.

Festa della Madonna delle Grazie (2 luglio)

Comune: Aidone

Genere: Festa liturgica cattolica

Luogo della cerimonia: chiesa di S. Maria delle Grazie, vie principali del paese

Oggetti rituali: macchina processionale (statua)

Oggetti relativi alle persone: Abiti di confraternita: fascia azzurra con stemma; saio bianco e cappuccio per i portatori della statua

Descrizione del rituale:

Dopo un ciclo di nove giorni di preghiere (novena della Madonna delle Grazie), il 2 luglio, alle 17,30, ha inizio la messa solenne presso la chiesa omonima. Alle 18,30, terminata la messa, la statua, portata a spalla da devoti che hanno fatto voto, viene condotta in processione per le vie principali del paese. I membri della confraternita guidano il corteo, seguono la statua e i fedeli. Al ritorno la statua viene accolta davanti alla chiesa con fuochi pirotecnici e scoppi di mortaretti.

Festa di Maria SS. della Visitazione (2 luglio)

Comune e provincia: Enna

Genere: Festa liturgica cattolica

Luogo della cerimonia: chiesa Madre, chiesa di Montesalvo, vie principali del paese

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Oggetti rituali: macchina processionale (statua)

Oggetti relativi alle persone: Abiti di confraternita: fascia azzurra saio bianco

Descrizione del rituale:

La festa si celebra dal 1412, anno in cui, narra la leggenda, gli ennesi ottennero la restituzione della statua da un artigiano di Venezia. In tarda serata la statua, chiamata "nave d'oro", esce dalla chiesa madre e viene trasportata in processione dai confrati omonimi detti "ignudi", poiché camminano scalzi. Al suono della banda, il fercolo viene portato alla chiesa di Montesalvo, in cui Maria si fermerà due settimane per far visita a S. Elisabetta e a S. Zaccaria. L'entrata in chiesa della statua è accompagnata da acclamazioni dei fedeli ("evviva Maria"), e da fuochi d'artificio che concludono i festeggiamenti.

Festa di Maria SS. Della Vittorie (15 agosto) (foto già acquisita, processione al santuario)

Comune: Piazza Armerina

Genere: Festa liturgica cattolica

Luogo della cerimonia: vie principali del paese con sosta nella chiesa degli Angeli e lungo il tragitto di pellegrinaggio al santuario della Piazza Vecchia, luogo dove, secondo la leggenda, venne trovata la cassetta contenente le reliquie della Madonna, un capello e un'antica immagine di Maria.

Oggetti rituali: Oggetti delle confraternite: croci, stendardi, lanterne, crocifissi

Oggetti relativi alle persone: Abiti di confraternita: veste, mantellina

Descrizione del rituale:

I festeggiamenti hanno inizio il 30 luglio con suono delle campane, sparo di mortaretti e pellegrinaggio (cui partecipano le Autorità Municipali) alla Cattedrale del Clero, dove si svolgono le funzioni della Quindicina Mariana. All'esterno della basilica si svolgono spettacoli teatrali, musicali, folklorici che culminano il 13,14, 15 agosto con il Palio dei Normanni e la solenne processione del Vessillo, portato in processione dalle autorità civili come simbolo della fede cristiana vittoriosa sugli "infedeli". La Madonna delle Vittorie, la cui immagine è conservata nella cattedrale di Piazza Armerina, non è sempre stata protettrice "ufficiale" della città; fino agli anni '50 quella che oggi è la festa della Madonna delle Vittorie era chiamata festa dell'Assunta. Un tempo l'immagine veniva fatta sostare nella chiesa di S. Martino, protettore dei Normanni e titolare della prima parrocchia fino al 15 Agosto 1349, anno in cui la Matrice viene dedicata alla Vergine Assunta. Dal dopoguerra l'immagine della Madonna delle Vittorie ha soppiantato definitivamente quella dell'Assunzione nella festa del 15 agosto.

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Il calendario mariano:

Madonna dei Calderai Enna (2 settembre) Maria della Visitazione patrona di Enna (31 maggio - 2 luglio) Madonna delle Grazie Aidone (2 luglio) / Piazza Armerina (ultima domenica

d'agosto) Maria SS. Delle Vittorie patrona di Piazza Armerina (30 luglio - 15 agosto) Madonna della Catena Villarosa (8 settembre) / Leonforte (2° domenica di ottobre) Madonna degli Angeli Assoro (3° domenica di agosto)

Feste Santoriali e Patronali

Il culto dei santi, protettori non solo di una comunità, ma di categorie di lavoratori, di animali domestici, di parti del corpo umano, di malfattori, rappresenta la sfera devozionale più accessibile e più sentita. Con il santo patrono, avvertito come essere umano mortale e quindi più vicino agli uomini, la comunità instaura un rapporto confidenziale, quasi familiare, e lo ritiene più disponibile alle richieste di aiuto, di grazia e di guarigione. E' esemplare in tal senso il caso della nota celebrazione (largamente diffusa anche in altre

aree della Sicilia) di San Giuseppe (19 marzo: Valguarnera, Villarosa, Leonforte) santo in onore del quale si allestiscono particolari "tavolate" votive. Ampie tavole, dette artara, ossia altari, vengono riccamente imbandite con ogni sorta di pietanza, di cui il pane, a forma di barba o bastone di San Giuseppe, di ciambella con uovo e semi di papavero (cuddura), testimonia la persistenza del culto preistorico della germinazione in cui si celebra il mistero della vita che promana dalla morte del seme.

Chi fa il voto a San Giuseppe può contare sull'aiuto di tutta la comunità, che si mobilita intorno alla famiglia promotrice contribuendo con offerte di ogni tipo, dai veli da sposa per gli addobbi alle pareti alla frutta fuori stagione. La sera del 18 marzo, vigilia della festa, i cittadini vanno di casa in casa per ammirare le tavole; il giorno seguente tre cittadini, scelti tra i meno abbienti, vestono i panni simbolici della Sacra Famiglia e vengono invitati alla cena secondo gli schemi di una sacra rappresentazione. Se le tavolate si fanno il 18 e 19 marzo, dopo la consacrazione di Pio XII a San Giuseppe Lavoratore, alcuni comuni, come Piazza Armerina e Villarosa, celebrano il santo il 1 Maggio, data che coincide con un altro avvenimento festivo importante: la Festa per S. Filippo Apostolo, patrono di Aidone, luogo di pellegrinaggio da parte di migliaia di devoti provenienti da tutta la Sicilia centro-meridionale. Ad Assoro la festa di San Giuseppe si celebra con la rappresentazione della "Fuga in Egitto". Alle 11 partono i Briganti dal Piano della Corte e contemporaneamente la Sacra Famiglia, preceduta dal Coro degli Angeli, dall'ex chiesa di Santa Caterina si sposta nell'antica piazza di Santa Croce, dove ha luogo la rappresentazione.

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Festa di San Giuseppe (19 marzo)

Comune: Leonforte

Genere: Festa liturgica cattolica

Luogo della cerimonia: chiesa di S. Giuseppe, piazza Margherita, vie principali del paese

Oggetti rituali: macchina processionale (statua), stendardo

Oggetti relativi alle persone: ceri votivi

Elementi e prodotti: tavolate rituali

Cibi rituali: pane votivo a forma di barba e bastone del santo, legumi, frittelle, frutta di ogni tipo, dolci

Descrizione del rituale:

18 marzo: alle ore 12, le tavolate sono pronte nelle case addobbate di chi ha fatto voto. Il prete passa a benedire le tavole; in seguito il pubblico comincia la visita degli "artara". Le visite durano fino a mezzogiorno del giorno successivo.

19 marzo: a mezzogiorno, i "poverelli" che impersonano la Sacra famiglia recitano le preghiere (u dettu), vengono poi invitati a pranzare assaggiando una porzione di tutte le specialità offerte.

Dopo un ciclo di nove giorni di preghiere (novena di S. Giuseppe), il 19 marzo, alle 17,30, ha inizio la messa presso la chiesa di San Giuseppe. Alle 18,30, terminata la messa, la statua viene portata in processione, su un camioncino, per le vie principali del paese.

Seguono i devoti, alcuni scalzi, altri con un grosso cero votivo. Al ritorno, la statua viene accolta davanti alla chiesa con fuochi d'artificio. La festa si conclude alle ore 22,30.

Festa di Maria SS. Ma Del Carmelo (16 agosto)

Comune: Leonforte

Genere: Festa liturgica cattolica

Luogo della cerimonia: chiesa madre di San Giovanni Battista, piazza antistante, vie principali del paese

Oggetti rituali: macchina processionale (statua), stendardo e lanternoni della confraternita maschile e femminile della Matrice.

Oggetti relativi alle persone: abito confraternale: mantellina (mozzetta) rossa, abito bianco per uomini e donne, cappuccio bianco per gli uomini..

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Descrizione del rituale:

Dopo un ciclo di nove giorni di preghiere (novena di Maria SS. Ma del Carmelo), alle 18, dopo la messa e lo scoppio di mortaretti, la statua viene portata in processione, su un camioncino, per le vie principali del paese. In testa sta la confraternita con lo stendardo e i lanternoni, segue la macchina processionale e la folla dei fedeli. Alle 22,30, dopo lo scoppio di fuochi d'artificio, la statua viene riportata in chiesa.

Calendario feste santoriali e patronali

San Lorenzo patrono di Aidone (10 agosto) San Cristoforo patrono di Valguarnera, (25 agosto) Maria SS. Del Carmelo patrona di Leonforte (16 agosto) Santa Petronilla patrona di Assoro (31 maggio) San Giacomo patrono di Villarosa (10 agosto) San Giuseppe Valguarnera, Villarosa, Leonforte, Assoro (19 marzo) -

Patrono di Nissoria (I° domenica di agosto) San Calogero Villarosa (18 giugno)

La Settimana Santa

Finito il Carnevale ha inizio, con il mercoledì delle Ceneri, la Quaresima, periodo penitenziale di preparazione alla Pasqua. Ad inaugurare la Settimana Santa è la Domenica delle Palme, rievocazione storica dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme, dove un ragazzo tra i sei e gli otto anni impersona Gesù percorrendo le vie del paese su un asinello. La festa è particolarmente sentita a Leonforte e a Nissoria. Dal mercoledì alla domenica di Pasqua è un intensificarsi di celebrazioni, processioni, sacre rappresentazioni, dove la tradizione di ogni singolo paese differisce dalle altre, e dove non sempre vi è concomitanza con la cronologia liturgica. Questo "asincronismo" della tradizione folklorica, in alcuni casi, è motivo di richiamo da parte delle autorità ecclesiastiche e a volte anche di aperto dissidio con le confraternite operanti all'interno delle parrocchie. Così a Leonforte, la rappresentazione della Via Crucis avviene il mercoledì sera, ancor prima, cioè, dell'Ultima Cena, di cui la rappresentazione simbolica sono i Sepolcri del Giovedì Santo.

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Forse più che per altre feste religiose, la Settimana Santa ha un rapporto di filiazione diretta con il culto ctonio di Cerere e di Adone. Il segno più evidente della sopravvivenza del culto agreste è l'usanza de "u' lavuri", il grano fatto germogliare al buio che adorna i Sepolcri, allestiti negli altari laterali delle chiese ed adornati con tutti i simboli della rinascita primaverile: fiori, spighe intrecciate, ceste con pane e uva (corpo e sangue di Cristo), zolle d'erba con grano germogliato. Drappi bianchi e celesti, con scritte dorate tratte dal Vangelo, sormontano gli altari. I germogli rappresentano la sopravvivenza dei "Giardini di Adone", divinità della vegetazione presso i popoli semitici di Babilonia e Siria, adottato dai greci nel VII secolo A. C e trasferito nelle colonie della Magna Grecia. In occasione della ciclica celebrazione della morte di Adone, le donne, fatto germogliare rapidamente il grano, lo gettavano in mare o nelle sorgenti insieme al simulacro del dio. La morte e la rinascita del dio, simbolo di paralisi e risveglio della natura nel passaggio stagionale, assicura e riconferma un ciclo vitale che, pur con forme diverse, accomuna le culture di tutto il mondo. Il Giovedì ed il Venerdì Santo sono solennemente celebrati in tutti i comuni dell'area considerata, ma solo poche comunità conservano l'antico uso della "lamentanza", o "ladata". Si tratta di canti polivocali, con melodia solista, alternata principalmente tra due voci, con accompagnamento corale sulla nota finale. I cantori di ogni confraternita, tutte maschili, intonano i canti durante la visita ai sepolcri del Giovedì e la processione del Venerdì Santo. Anticamente questi canti, basati sui due testi, 'la cruci santa" e "li ventiquattruri", ossia la narrazione della passione di Gesù e la ricostruzione delle ultime ventiquattrore di vita, venivano intonati durante il lavoro nei campi, sia con funzione euritmica, facilitando il ritmo lavorativo, sia per ricordare un testo verbale e musicale lungo e complesso.

Particolarmente suggestivi sono i lamenti di Aidone, che è possibile ascoltare il Giovedì sera, durante la processione notturna che parte dalla chiesa di S. Lorenzo, e il Venerdì successivo. E' interessante notare come ci sia un palese contrasto tra i canti della religiosità ufficiale, eseguiti dalla folla in chiesa, e i lamenti cantati durante la processione per le vie del paese. Durante la visita alle diverse chiese, i cantori smettono il canto per riprenderlo solo all'esterno. Le rappresentazioni del Giovedì e del Venerdì Santo durano fino a notte inoltrata.

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Momento cruciale della rievocazione del racconto mitico è il Venerdì Santo, la cui processione funebre è elemento presente in tutti i paesi e prevede il trasporto della bara, o fercolo, del Cristo morto, sontuosamente adorna di fiori, e accompagnata dall'immagine della Madonna Addolorata. Tra le processioni più imponenti vi è quella di Enna che conta la partecipazione di sedici confraternite. Momento risolutivo e catartico per tutta la comunità è la Domenica di Pasqua dove, per tradizione, avviene l'incontro ("lu ncontru", la "giunta" o la "paci"), tra la Madonna e Gesù dopo una ricerca di quest'ultimo da parte di S. Paolo. La festa si articola diversamente a seconda dei paesi, ma elemento comune rimane la caduta di un velo nero dalle statue al momento dell'incontro. Ad Aidone, i "Santoni" sono statue altissime in cartapesta, rappresentanti i dodici apostoli in cerca di Gesù.

Il Giovedì Santo

Comune: Aidone

Nome comune: i sepolcri

Genere: Festa liturgica cattolica

Luogo della cerimonia: chiese, vie principali del paese.

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Oggetti rituali: stendardi confraternali, ceri.

Oggetti relativi alle persone: abiti confraternali: fascia, stemma, veste.

Elementi e prodotti: palma intrecciata e drappo viola a forma di rombo che fa da sostegno.

Cibi rituali: uva, preparazione del grano germogliato al buio e del pane azzimo da disporre negli altari laterali delle chiese.

Descrizione del rituale

Alle 19, 30 davanti alla chiesa madre di S. Lorenzo, la banda musicale aspetta l'arrivo della confraternita omonima che, giunta nella chiesa gremita di fedeli che cantano, visita i sepolcri allestiti nell'altare laterale della chiesa. All'uscita la confraternita, seguita dalla banda, si dirige verso la chiesa dell'Annunziata, poi verso quella di San Leone, di S. Maria della Cava, S. Anna, infine S. Maria delle Grazie. Man mano che prosegue la visita dei sepolcri allestiti nelle chiese, si aggiungono le altre confraternite di Aidone, cinque in tutto, seguite dalla banda. I cantori della confraternita di S. Maria delle Grazie intonano i lamenti durante la processione nelle vie. In chiesa il parroco fa intonare ai fedeli "Ti adoriamo o mia regina, ti adoriamo o Salvator". Gli altari, sormontati da un drappo azzurro e scritta in caratteri dorati "Gesù Cristo pane per la nuova vita", sono allestiti con grano, fiori, candele accese, nastri rossi e fronde verdi che decorano le colonne laterali. La processione si conclude alle 22,30, ora del ritorno nell'ultima chiesa, all'entrata del paese, di SS. Maria delle Grazie.

Il Venerdì Santo

Comune: Enna

Genere: Festa liturgica cattolica

Luogo della cerimonia: Chiese confraternali, Duomo, vie principali del paese.

Oggetti rituali: fercolo del Cristo morto e della Madonna Addolorata, stendardi, misteri, lanternoni, ceri, palme intrecciate.

Oggetti relativi alle persone: abiti confraternali (veste, mozzetta, stemma, cappuccio) relativi alle sedici confraternite di Enna. .

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Elementi e prodotti: lenzuolo della bara e il cuscino di rose fatti dai fedeli per voto o grazia ricevuta.

Descrizione del rituale

Intorno alle 19 ha inizio la processione, dalla chiesa di S. Leonardo, che parte e si svolge in silenzio, con in testa i bambini recanti i misteri dolorosi di Gesù (tra cui un gallo vero) ;

seguono le confraternite col volto coperto dal cappuccio in segno di lutto. Giunte al Duomo, le confraternite, seguite dai cittadini, depongono il Cristo morto e l'Addolorata, baciano la bara ed escono a volto scoperto. Finito il pellegrinaggio funebre sulla bara di Gesù e della Madonna, la folla, dopo una lunga sosta davanti al Duomo con intermezzi

musicali dei complessi bandistici, si ricompone per tornare alla chiesa Madre

.

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Culti agresti e pellegrinaggi

Molti intraprendono ancora il "viaggio" a piedi (alcuni scalzi o con catene ai piedi), per grazia ricevuta o da ricevere. Il pellegrinaggio, come viaggio devozionale e penitenziale, rende sacro il tempo e lo spazio in cui si svolge. I pellegrini stessi sono sacri perché più vicini a Dio, attraverso la fatica, e più lontani dall'oikos familiare che li protegge nella vita di tutti i giorni, qui interrotta e momentaneamente abbandonata. Come per qualsiasi altro rito religioso, il pellegrinaggio è un momento di interruzione della quotidianità, dove ogni esperienza personale si riconduce a quella degli altri, dove si condividono momenti da ricordare ogni anno, dove si scandisce il tempo di un'esperienza che ridefinisce la presenza del singolo e la sua

appartenenza alla comunità.

Nell'ambito dei culti agresti, risale ad un'antica tradizione la festa della Zazza Vecchia a Piazza Armerina, il 3 maggio. La leggenda narra che, durante la peste del 1348, un eremita trovò, tra i ruderi della Piazza Vecchia, un capello e un'immagine della Madonna i quali, trasportati solennemente in città, fecero cessare la peste. La festa si svolge con una processione che segue la santa immagine della Madonna delle Vittorie fino al santuario appena fuori il paese, e si concludeva, un tempo, con la salita sull'albero della cuccagna. L'albero è retaggio di antichi culti agresti, simbolo di una divinità della foresta, "uccisa" nel bosco e poi "resuscitata" nell'area ecumenica. Questo simbolo è legato ad un'altra festa agreste di Piazza Armerina, San Filippo (12 maggio), attualmente poco sentita e con valore simbolico limitato. Tradizionalmente, San Filippo era la festa dei "massari", di coloro che lavoravano i campi; veniva da loro organizzata e vi si portavano fave e altri prodotti agricoli per la benedizione del Santo. Erano presenti anche cavalli e pecore ornate con bardature sfarzose ed era compito dei "carrettieri" (artigiani e trasportatori) organizzare l'albero della cuccagna (la gioia) con una serie di prodotti alimentari con funzioni di premio.

Festa di San Filippo Apostolo (1 maggio)

Comune: Aidone

Nome dialettale: festa du sanastru

Genere: Festa liturgica cattolica

Tipo di cerimonia: religiosa, pellegrinaggio

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Luogo della cerimonia: chiesa della Madonna della Cava, piazza antistante, vie principali del paese, tragitto di pellegrinaggio.

Oggetti rituali: macchina processionale (statua)

Descrizione del rituale: Le processioni verso Aidone e le visite alla statua di San Filippo hanno inizio l'ultima settimana di aprile e proseguono per tutto maggio. Pellegrini a piedi giungono dai paesi limitrofi e anche da alcuni luoghi più remoti. La statua di S. Filippo, d'ebano e in posizione inginocchiata, viene visitata e onorata dai pellegrini che, dopo aver percorso decine di chilometri a piedi, a volte scalzi, accorrono per beneficiare dei suoi poteri miracolosi e taumaturgici, portando con sé nastri di stoffa colorata (simbolo della benedizione del santo) e ceri accesi di varie forme. Dopo la sosta davanti alla chiesa, la statua viene portata in processione per le vie principali del paese. In testa sta la confraternita con lo stendardo e i lanternoni, segue la macchina processionale e la folla dei fedeli. La festa del primo maggio vede la presenza di numerose bancarelle e di venditori ambulanti di vario tipo; il paese si trasforma, per un giorno, in una sorta di fiera commerciale e la ricorrenza santoriale si mescola con il carattere profano del mercato, vista anche la numerosa affluenza di turisti. Di particolare interesse risultano alcuni banchi che espongono ex voto in cera, riproducenti parti del corpo (gambe, braccia, mani) che i fedeli acquistano e conducono sotto la statua del santo per onorarlo della grazia ricevuta, o per esprimere un voto relativo alla guarigione richiesta.

Feste del ciclo arabo-normanno

Diffuse in tutta la Sicilia e concentrate nell'area centro-meridionale, queste feste patronali si ispirano alla liberazione della Sicilia dai Saraceni ad opera dei Normanni (iniziata con Ruggero I nel 1061). A Piazza Armerina, il Palio dei Normanni ha inizio il 13 agosto e prevede la cavalcata storica di Ruggero con il Vessillo ritraente l'immagine della Madonna (detta appunto delle Vittorie). Segue un corteo di circa trecento fanti e cavalieri, in costume medievale, che sfila per le vie della città fino al Duomo, dove il Gran Magistrato, dignitari e dame, ricevono solennemente le chiavi della città liberata. Il giorno seguente, il 14 agosto, i cavalieri in rappresentanza dei quattro quartieri della città si cimentano in un torneo in cui si deve colpire il pupazzo del "Saracino", al fine di conquistare il Vessillo per il proprio quartiere e poterlo conservare fino al prossimo anno. Il 15 agosto, i festeggiamenti si concludono con la solenne processione del Vessillo di Maria SS. Delle Vittorie. Al

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suono di bande musicali e canti dei fedeli, la festa si conclude con fuochi d'artificio.

Patrocinata dalla Maria SS. Delle Vittorie e sempre appartenente al ciclo arabo-normanno, è la festa di San Lorenzo ad Aidone, il 10 agosto.

Corpus Domini

Da ricordare è la festa del Corpus Domini a Valguarnera nel mese di giugno, dove si allestiscono nelle strade altari adornati con fiori, statuette in ceraplastica, candelabri. La processione parte dalla parrocchia di S. Lucia e attraversa tutti i quartieri del paese dove il parroco benedice tutti gli altari. Fino a qualche tempo fa, la banda si fermava a suonare presso gli altari dove la folla si radunava danzando.

Carnevale

Momento rituale di ribaltamento dell'ordine quotidiano, parata collettiva di esorcizzazione della morte, dell'inverno, della fame, il Carnevale è una delle poche feste arcaiche legate al ciclo stagionale, rimaste essenzialmente pagane. Pur essendo celebrato un po' ovunque con il tradizionale pupazzo bruciato, questa festa è particolarmente sentita ad Aidone, dove comincia già la 1° o la 2° settimana dopo l'Epifania, anche in periodi di Pasqua alta. Ogni famiglia organizza i "festini" in garage o locali non abitati, per accogliere con cibo e musica la folla dei festanti mascherati. Una tipica danza per l'occasione è lo scotz, una specie di polka che si balla a coppie con figure coreografiche. Essendo Aidone uno dei paesi, insieme a Piazza Armerina, in cui ancora si parla il gallo italico, dialetto derivante dall'antica lingua lombarda, è possibile che questa danza abbia la stessa origine culturale. Il carnevale aidonese si conclude il sabato successivo al mercoledì delle Ceneri con una scampagnata detta "Carnevalone".

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Musei e Collezioni di interesse antropologico

Aidone: Museo antropologico e della cultura contadina (di prossima apertura)

Piazza Armerina: Museo Storico degli Attrezzi Agricoli Siciliani presso la sede dell’Associazione Nazionale Carabinieri (centro storico).

Enna: Museo privato La Sicilia delle miniature e della musica, via Roma 533 (tra il Duomo e il Castello), diretto da Sebastiano Occhino. Opere in miniatura di Antonio Cannizzo che ricostruiscono le architetture rurali della zona, con dettagli e particolari di ottima fattura.

Museo della Settimana Santa Ennese (presso la Chiesa di San Leonardo, Via Passione 11). La storia delle confraternite ennesi descritta con opere in terracotta raffiguranti i membri delle confraternite, i relativi costumi e le raffigurazioni dei portali delle chiese di appartenenza delle stesse.

Villarosa: museo antropologico (di prossima apertura) presso Villa Lucrezia. Il museo tratterà gli "usi e costumi" della cultura contadina e mineraria.

Museo di Arte Mineraria e Civiltà Contadina, presso la stazione ferroviaria di Villarosa, diretto dal capostazione (Primo David). L'esposizione si articola all'interno di vagoni appositamente adattati e mostra una copiosa raccolta di oggetti della cultura contadina e mineraria

Nissoria: museo antropologico (di prossima apertura), ubicato nei locali di un istituto scolastico in corso Vittorio Emanuele. Sarà articolato sulla cultura contadina e in particolare sul ciclo del grano e sul ciclo dell'olio.

Assoro: Di particolare interesse il Circolo Zolfatai, antistante il prestigioso palazzo Valguarnera, con esposizione di alcuni materiali della cultura mineraria (foto d’epoca, minerali, forme artistiche elaborate con lo zolfo, alcuni attrezzi e oggetti di miniera).

Valguarnera: All'interno della Masseria Mandrascate, perfetto esempio di masseria fortificata del '700 situata nella contrada omonima, esiste un'interessante e ben curata esposizione di oggetti della cultura contadina.

Diversi oggetti relativi alla cultura contadina sono inoltre collezionati e conservati dalle aziende agrituristiche della zona (attualmente riunite in consorzio). Alcune di tali aziende (in particolare l'Azienda Savoca a Piazza Armerina, l'Azienda Cammarata ad Aidone e l'Azienda Isola Felice a Nissoria) possiedono delle collezioni di rilievo, ben collocate in percorsi espositivi interni all'azienda.

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Credits

Grafica e Html: Maria Agostinelli e Vincenzo Bitti

Testi e ricerche: Paolo Buccieri, Nicoletta Cocchia, Cinzia D'Auria

Fotografie: Cinzia D'Auria (tutti i diritti riservati)