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ANTONIO NEGRI FABBRICHE DEL SOGGETTO Profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico XXI SECOLO Bimestrale di politica e cultura n. 1 – Settembre-ottobre 1987 © Tutti diritti sono riservati all’autore à Papageno, aux Comrades du Cinel 1

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Profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico.

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ANTONIO NEGRI

FABBRICHE DEL SOGGETTO

Profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico

XXI SECOLO Bimestrale di politica e cultura n. 1 – Settembre-ottobre 1987

© Tutti diritti sono riservati all’autore

à Papageno, aux Comrades du Cinel

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Indice

PARTE I. FRA SUSSUNZIONE FORMALE E SUSSUNZIONE REALE.PREFAZIONE p. 5

PARTE II. PROLEGOMENI DI UN’ONTOLOGIA DELLA SOVVERSIONE p. 19

Introduzione – La rivoluzione come preambolo p. 19

Capitolo Primo.

No future, ossia sull’essenza etica dell’epistemologia p. 271. L’indifferenza dell’universo della comunicazione p. 272. Rompicapi dello spirito p. 313. Terrore e contingenza p. 364. L’antagonismo come << principium individuationis >> p. 405. Per un’estetica trascendentale del corpo p. 446. Il concetto di costituzione pratica p. 48

Capitolo Secondo.

Metus-Seperstitio: ossia sulla produzione di soggettività nel capitalismo maturo. p. 541. Il concetto di sussunzione reale ed il problema dell’analitica p. 542. Analitica: il diritto come legittimazione p. 583. Il modello formalistico: Hans Kelsen p. 634. Il modello contrattualistico: Rawls p. 675. Luhmann: il modello sistemico e la sua critica p. 706. L’antagonismo nella teoria della legittimazione p. 747. Per una nuova determinazione del problema p. 79

Capitolo Terzo.

Compact – per una dialettica trascendentale del potere p. 841. Critica del concetto di potere p. 842. A proposito di movimento, oggi p. 893. Il lavoro del soggetto p. 944. Lavoro, territorio e libertà p. 985. Compact: fra diritto e rivoluzione p. 1046. Il concetto di pratica sociale p. 111

PARTE III. FRA CATASTROFE E RICOSTRUZIONE.APPENDICE p. 1181. Erkenntnistheorie. Elogio dell’assenza di memoria p. 1182. La potenza sociale del lavoro. Nota introduttivo alla ristampa di << Classe operaia >> p. 1253. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Jean Petitot p. 1354. Sull’orlo dell’essere. A proposito di un libro di Giorgio Agamben p. 1415. L’istituzione logica del collettivo e le fatiche dell’estetica. A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli p. 1476. Dell’aforisma << Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >> e della ragionevole opportunità di rovesciarlo p. 1577. Lenin a New York. Progetto di lavoro p. 179

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PARTE IFra sussunzione formale e sussunzione reale.

PrefazioneKarl Marx, Il Capitale: Libro I, Capitolo VI Inedito, trad. it. Firenze,

1969, pp. 53-54: << A questi cambiamenti, tuttavia, non si è finora accompagnata una trasformazione sostanziale del modo d’essere vero e proprio del processo lavorativo, del processo di produzione reale. Al contrario, è nella natura delle cose che la sottomissione (sussunzione) del processo lavorativo al capitale si verifichi per ora sulla base di un processo lavorativo ad esso preesistente, configuratosi sulla base di antichi e diversi processi produttivi e di altre e diverse condizioni della produzione: il capitale si sottomette un processo lavorativo dato, esistente - per esempio, il lavoro artigianale o il lavoro agricolo corrispondente alla piccola economia contadina autonoma, - e le modificazioni che possono tuttavia verificarsi all’interno del processo lavorativo, non appena esso soggiaccia al comando del capitale, possono essere soltanto conseguenze graduali della già avvenuta sottomissione dei processi lavorativi dati, tradizionali, al capitale. Il fatto che l’intensità del lavoro aumenti, che la durata del processo lavorativo si prolunghi, che il lavoro si svolga più ordinato e continuo sotto l’occhio interessato del capitalista ecc., questo fatto non cambia in sé e per sé il carattere del processo lavorativo reale, del modo vero e proprio del lavoro.

Tutto ciò contrasta decisamente con il modo di produzione specificamente capitalistico (lavoro su grande scala ecc.) che, come abbiamo visto, si sviluppa man mano che la produzione capitalistica progredisce; modo di produzione che, insieme al rapporti fra i diversi agenti della produzione, rivoluziona anche il modo d’essere del lavoro e la forma a reale dell’intero processo lavorativo.

Appunto in contrapposto al modo di produzione specificamente capitalistico noi chiamiamo sussunzione formale del lavoro al capitale la sottomissione da parte di quest’ultimo del processo lavorativo come l’abbiamo esaminato finora, cioè come sottomissione di un modo di lavoro già sviluppato prima che il rapporto capitalistico sorga.

Le due forme hanno in comune il rapporto capitalistico come rapporto di coercizione inteso a spremere il plusvalore dal lavoro salariato, dapprima solo prolungando la durata del tempo di lavoro-rapporto che non poggia su alcun legame di signoria e dipendenza personale, ma nasce unicamente dalla diversificazione delle funzioni economiche. Mentre però il modo di produzione specificamente capitalistico conosce anche altri modi di estorsione di pluslavoro e plusvalore, invece, sulla base di un modo di produzione esistente,

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quindi di uno sviluppo dato della forza produttiva del lavoro e di un modo di lavoro corrispondente a questa forza produttiva, il plusvalore può essere prodotto solo prolungando la durata del tempo di lavoro: sotto la forma del plusvalore assoluto. E’ a questa forma di produzione del plusvalore che corrisponde la sottomissione formale del lavoro al capitale >>.

Pp. 57-58: << L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine, e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente (solo questo lavoro socializzato è infatti in grado di applicare i prodotti generali dell’evoluzione umana, per esempio le matematiche, al processo di produzione immediato, allo stesso modo d’altra parte che l’intero sviluppo di queste scienze presuppone un dato livello del processo di produzione materiale), questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza - questo prodotto generale dello sviluppo sociale - processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure del lavoratori cooperanti nel processo di produzione.

Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale. E’ d’altra parte soltanto quit, che il significato storico della produzione capitalistica appare nella sua evidenza specifica, proprio attraverso la trasformazione dello stesso processo di produzione immediato e lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro.

Si è già dimostrato (capitolo III) che non solo nella << rappresentazione >> ma nella << realtà >>, l’aspetto sociale, << la socialità >> ecc., del lavoro si erge di fronte all’operaio come elemento non soltanto estraneo ma ostile e antagonistico, apparendo oggettivato e personificato nel capitale. Allo stesso modo che la produzione del plusvalore assoluto può essere considerata come l’espressione materiale della sottomissione formale del lavoro al capitale, la produzione del plusvalore relativo può considerarsi come l’espressione della sottomissione reale del lavoro al capitale. >>

Pp.68-69: << Sottomissione reale del lavoro al capitale. Permane qui la

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caratteristica generale della sottomissione formale, cioè la diretta subordinazione del processo lavorativo, comunque sia esercitato dal punto di vista tecnologico, al capitale. Ma su questa base si erge un modo di produzione tecnologicamente (e non solo tecnologicamente) specifico, che modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni - il modo di produzione capitalistico. Solo quando esso appare ha luogo la sottomissione reale al capitale. >> << La sottomissione reale del lavoro al capitale si sviluppa in tutte le forme che generano, a differenza del plusvalore assoluto, plusvalore relativo. Alla sottomissione reale del lavoro al capitale si accompagna una rivoluzione completa (che prosegue e si ripete costantemente) nel modo stesso di produzione, nella produttività del lavoro, e nel rapporto fra capitalisti e operai.

La sottomissione reale del lavoro al capitale va di pari passo con le trasformazioni nel processo produttivo che abbiamo già illustrate: sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e, grazie al lavoro su grande scala, applicazione della scienza e del macchinismo alla produzione immediata. Da una parte, il modo di produzione capitalistico, che ora appare veramente come un modo di produzione sui generis, dà alla produzione materiale una forma diversa; dall’altra, questa variazione della forma materiale costituisce la base per lo sviluppo del rapporto capitalistico, la cui forma adeguata corrisponde perciò a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro >>.

P. 74: << Primo: Poiché, con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti - chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico ecc., chi come sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto -, un numero crescente di funzioni della forza-lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro produttivo, e un numero crescente di persone che lo eseguiscono nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo processo di produzione e valorizzazione. Se si considera quel lavoratore collettivo che è a fabbrica, la sua attività combinata si realizza materialmente e in modo diretto in un prodotto totale, che è nello stesso tempo una massa totale di merci dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al

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lavoro manuale in senso proprio. Ma, d’altra parte, l’attività di questa forza-lavoro collettiva è il suo consumo produttivo immediato da parte del capitale, è autovalorizzazione del capitale, produzione immediata del plusvalore; quindi, come vedremo meglio in seguito, trasformazione immediata dello stesso in capitale. >>

Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, trad. il. Torino, 1976, vol. I, p. 722: << Come, con lo sviluppo della grande industria, la base su cui essa si fonda, ossia l’appropriazione di tempo di lavoro altrui - cessa di costituire o di creare la ricchezza, così, con esso il lavoro immediato cessa di essere, come tale, la base della produzione, poiché per un verso viene trasformato in un’attività prevalentemente di sorveglianza e regolatrice; ma poi anche perché il prodotto cessa di essere il prodotto del lavoro isolato immediato, ed è piuttosto la combinazione dell’attività sociale a presentarsi come produttore. Nello scambio immediato il lavoro isolato immediato si presenta realizzato in un prodotto particolare o parte di questo prodotto, e il suo carattere sociale comunitaria - ossia il suo carattere di materializzazione del lavoro generale e di soddisfacimento del bisogno generale - è posto soltanto attraverso lo scambio. Per contro, nel processo di produzione della grande industria, come da un lato l’assoggettamento della forze della natura all’intelligenza sociale è il presupposto della forza produttiva del mezzo di lavoro sviluppato a processo automatico, così dall’altro il lavoro del singolo, nella sua esistenza immediata, è posto come lavoro singolo soppresso, ossia come lavoro sociale. Così viene a cadere l’altra base di questo modo di produzione. >>

P. 716: << Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro, la quale a sua volta - questa loro poderosa efficacia - non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione >>.

Pp. 717-718: << La ricchezza reale si manifesta piuttosto - e ciò viene messo in luce dalla grande industria - nella straordinaria sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto a pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso sorveglia. Il lavoro non si presenta più tanto come incluso nel processo produttivo, in quanto è piuttosto l’uomo a porsi come sorvegliante e regolatore

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nei confronti del processo produttivo stesso. (Ciò che si è detto per il macchinario, vale ugualmente per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo del traffico umano). Non è più l’operaio a inserire l’oggetto naturale modificato come termine medio tra sé e l’oggetto; egli inserisce invece il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo tra sé e la natura inorganica di cui si impadronisce. Egli si sposta accanto al processo produttivo invece di esserne l’agente principale. In questa situazione modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale - in breve lo sviluppo dell’individuo sociale, che si presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di lavoro altrui, sul quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il lavoro eccedente della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle potenze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell’antagonismo. Il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la riduzione a un minimo del lavoro necessario della società, a cui poi corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e al mezzi creati per essi tutti. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo (per il fatto) che esso interviene come elemento perturbatore nel processo di riduzione del tempo di lavoro a un minimo, mentre d’altro canto pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro necessario, solo per aumentarlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; pone quindi in misura crescente il lavoro superfluo come condizione - questione di vita e di morte - di quello necessario. Per un verso chiama in vita tutte le potenze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e del traffico sociale, allo scopo di rendere indipendente (relativamente) la creazione della ricchezza del tempo di lavoro in essa impiegata. Per l’altro verso vuole misurare con il tempo di lavoro le gigantesche forze sociali così create, e relegarle nei limiti che sono richiesti per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali - entrambi aspetti diversi dello sviluppo dell’individuo sociale -

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al capitale si presentano soltanto come mezzi, e per esso sono soltanto mezzi per produrre a partire dalla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni materiali per far saltare in aria questa base.>>

* * *Ho qui riportato questi testi marxiani ad un solo scopo: introdurre il lettore in

medias res. L’argomentazione che segue, presuppone infatti una constatazione: viviamo nella sussunzione reale - meglio, stiamo sistemandoci in essa in maniera definitiva, dopo aver vissuto il compiersi del processo di assoggettamento formale della società da parte del capitale lungo gli ultimi secoli. E’ quindi utile aver presente la definizione marxiana di << sussunzione formale >> e di << sussunzione reale >>. Al lettore la possibilità di confrontare le categorie e la realtà: se l’utilizzo di quelle gli permette di meglio riconoscere questa, egli allora può forse seguitare la lettura. Va solo tenuto presente che l’accettazione di queste categorie marxiane non implica l’accettazione di << tutto Marx >> né, in alcun modo, l’adesione alle interpretazioni più o meno ortodosse del suo pensiero. Le definizioni di << sussunzione formale >> e di << sussunzione reale >> sono in effetti solo parzialmente dipendenti dallo sviluppo complessivo della teoria marxiana: sono illuminazioni su un futuro prossimo, piuttosto che l’analisi di un presente; sono tendenze che l’uomo politico e il profeta identifica per il nostro presente, piuttosto che determinazioni scientifiche di questo lo accetto e rilancio questa provocazione marxiana perché in essa trovo, ora, una formidabile adesione all’attualità, la verità dello stato presente delle cose. D’altronde, termini come << postmoderno >>, come << Civilisation >>, come << Nihilismus >>, come << Krisis >>, quando siano utilizzati per indicare la crisi del razionalismo occidentale nella maturità capitalistica - sono, ognuno nella sua specificità, sinonimi di << sussunzione reale >>. Ciò detto, va tuttavia sottolineato che, nelle categorie marxiane, è contenuta, assieme alla descrizione della tendenza, la chiave pratica del suo rovesciamento: in ciò le categorie marxiane si distinguono da quelle nietzscheane o freudiane, wittgensteiniane o adorniane, per non parlare, si parva licet, di quelle splengeriane o baudrillardiane. Non il contenuto della descrizione distingue Marx dalla filosofia contemporanea nella definizione del presente, ma il punto di vista: quello della liberazione, quello della soggettività antagonista. Lo voglio procedere su questa direzione del discorso marxiano: qui dunque non chiedo più al lettore di seguirmi sulla base di una constatazione comune - perché in questo caso non di constatazioni si tratta, bensì di scelte. Se vorrà farlo, lo farà a suo rischio. Della fondazione ontologica di una scelta di liberazione tratta comunque, in buona parte, questo libro.

Precisiamo un concetto. Si è detto: << fra >> sussunzione formale e

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sussunzione reale, ma evidentemente si intende come ormai l’accento cada essenzialmente sulla realtà della sottomissione della società al capitale. Di conseguenza, se la modificazione dei modi di produzione è un processo complesso e la tendenza che presiede alla modificazione, è estremamente articolata: pure l’egemonia del modo di produzione capitalistico è ormai totale e le differenze e le resistenze sono caratterizzate da una straordinaria precarietà - insomma, la sussunzione reale è effettuale. Il paradigma del modo di produzione è definitivamente mutato. Il capitalismo ha proceduto fino all’estrema istituzione formale del collettivo. Il lavoro e la produzione sono determinazioni ormai solo sociali: Se ci sono ritardi nello sviluppo complessivo, questi non toccano la sostanza del processo e non ritardano l’attualità del suo compimento. E’ dunque a partire da questa situazione, centralmente definita, che il ragionamento deve muovere. E tenersi strettamente a queste condizioni.

Salvo rovesciarle. Poiché la sussunzione reale, della quale lo sviluppo capitalistico virtualmente rivela le definitive condizioni, è - nell’effettualità - un sistema di contraddizioni. Ma queste contraddizioni sono state percorse dal sistema delle macchine ed estremizzate dalla sua logica fino al punto di essere condotte ad un’ultima alternativa: quella del comando e dello sfruttamento, appunto, ma spinta al limite del terrore, al ricatto della guerra, fino alla drammatica proposizione dell’alternativa dell’essere e della sua negazione. E’ su questo orlo dell’essere che il ragionamento filosofico e la decisione etica divengono oggi decisivi. E la tragedia che viviamo, dentro questa precarietà dell’essere, attraverso la violenza della nostra reazione morale, potrebbe aprirsi al godimento.

* * *I << Prolegomeni ad un’ontologia della sovversione >> costituiscono un

primo tentativo di raccogliere in una prospettiva di rottura e di trasformazione radicale la determinatezza delle modificazioni strutturali della produzione e del soggetto produttivo che abbiamo verificato in questo secolo. Lo sono e resto convinto che il più enorme evento di questo secolo sia stata la rivoluzione d’Ottobre. Essa ha cambiato il mondo. Essa ha imposto un’accelerazione straordinaria allo sviluppo capitalistico, - sia nei paesi laddove essa si è affermata, sia nei paesi a più antica vocazione e riuscita industriale. Le oblique e talora perverse risultanze del regime socialista non possono indurci in errore e a rinnegare Lenin perché dopo di lui è venuto Stalin, quanto la rivoluzione francese perché ha prodotto Napoleone. Ma v’è di più: la rivoluzione d’ottobre, contribuendo in maniera straordinaria alla modernizzazione industriale ed alla liberazione politica di tutti popoli, costruendo perciò - direttamente o

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indirettamente - le condizioni di un mercato mondiale, ed in ogni caso accelerandone la realizzazione, ha attratto nell’area della sussunzione reale ogni formazione storico-produttiva - e tutte le ha integrate e articolate lungo un medesimo e solo processo di sviluppo. Sul livello mondiale una nuova ontologia dell’essere sociale è venuta così formandosi. Lo l’assumo come dato - non mi interessa qui descriverla da un punto di vista sociologico (l’abbiamo già fatto altrove - io e molti altri studiosi - e la nostra tesi sull’ operaio sociale e multinazionale hanno fin qui ricevuto solo delle conferme - altrove approfondirò il discorso), m’interessa invece problematizzare l’ontologia del soggetto produttivo sull’orizzonte del mercato mondiale, mettendola a confronto con le tensioni catastrofiche attorno a cui, verticalmente, s’è riorganizzato il potere: potere di vita e di morte, potere nucleare, potere di determinazione del non-essere, - e soprattutto, tentativo del potere di costruire direttamente la soggettività, di togliere il soggetto produttivo all’essere ed alla verità. Per mia parte sono convinto - e tento di dimostrarlo - che la soggettività può opporsi, sul terreno ontologico, alla macchina del potere capitalistico, che può impedire la sua tensione di morte, che può autorganizzarsi e costruire opposizione, ed anche antagonismo, contro il dominio.

E qui ci troviamo su uno snodo importante, che vogliamo cercare di chiarire. Dentro l’enorme verticalizzazione del potere, il tema della pace è divenuto essenziale. Esso ci è proposto come ricatto, e ci si minaccia di toglierci, a questo livello della potenza produttiva, con la pace, l’essere, la vita, la riproduzione della specie. La difesa della pace è, a questo punto, il risvolto del dominio. Che cosa vuol dire allora, in questa situazione, formare antagonismo contro il dominio? Che cosa vuol dire rifondare la vita nel rifiuto della minaccia di distruzione dell’essere? Che cos’è oggi la critica dell’economia politica della pace? Rispondere a queste domande è fondare una nuova prassi collettiva, un nuovo diritto e una nuova società. Riconquistare la pace non come fondazione dell’oppressione ma come espressione di libertà, non come incubo di distruzione e necessità del dominio ma come desiderio: costruzione, innovazione, immaginazione e godimento - collettivi - è la grande operazione ontologica del secolo che si chiude. Si badi bene: il corrispettivo formale della possibilità di tutto distruggere, è la potenza materiale di tutto costruire. Ogni tabù cade - la ragione etica, quella potenza che più mettere le mani sull’essere e che solo in quanto lo fà, è storicamente significativa - ora, questa potenza è nella nostra nuova natura e nella nostra ontologica determinazione. Pace è legare la realtà del movimento all’espressione della potenza costruttiva - ai nuovi compiti etici che si aprono sui confini dell’essere, oltre il limite della datità, laddove si scopre che quel potere che può tutto

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distruggere, bisogna disarmarlo - attraverso quella potenza che può tutto costruire. L’essere soprattutto.

Gli scritti raccolti nella III parte e qui globalmente intitolati << fra catastrofe e ricostruzione >>, sono stati redatti lungo gli ultimi anni. In che cosa sia consistita la catastrofe, crediamo sia chiaro - soprattutto al lettore italiano: è la distruzione della continuità lineare della memoria storica della sovversione, è la sconfitta politica di un movimento di massa grande e generoso (quale la storia contemporanea aveva raramente conosciuto, nei paesi capitalistici avanzati). Ma anche che cosa sia la ricostruzione, credo sia possibile oggi intenderlo. E’ la ricostruzione di un comportamento sovversivo, di un nuovo movimento proletario, a partire da una condizione irreversibile della coscienza - il comunismo come preambolo, come alternativa concreta e prassi immediata, la coscienza della natura collettiva della produzione e della riproduzione come nuovo paradigma del sapere, l’immaginazione di nuovi processi di valorizzazione sociale come compito. Noi viviamo in una società archeologica: vi sono dei padroni capitalisti che, come sovrani assoluti, comandano la vita produttiva di milioni di uomini attraverso il pianeta; vi sono altre persone, gestori e proprietari dei media, che, come inquisitori medioevali, posseggono tutti gli strumenti di formazione dell’opinione pubblica; vi sono poi degli individui che possono, fuori da qualsiasi responsabilità personale, scelti - come in altri tempi gli stregoni - per cooptazione, condannare degli uomini alla prigione a vita o trattenerli entro istituzioni totali; ecc. ecc. - vi sono infine due o tre poteri al mondo che, imperialmente, garantiscono questo modo di produzione e di riproduzione della ricchezza e delle coscienze, sovraintendendolo in modo mostruoso - attraverso i1 ricatto nucleare, attraverso la minaccia di distruggere l’essere. Rifiutare tutto questo come si rifiuta quello che è vecchio e marcito - questo non è un compito ma una necessità, una precostituzione ontologica. Non è credibile che il mercato mondiale, e le enormi forza collettive che in esso si muovono, abbiano padroni; non è possibile, meglio, è senz’altro ripugnante il diritto della proprietà e dello sfruttamento. Tanto più se queste aberrazioni sono applicate alla formazione dell’opinione pubblica - qui i cittadini sono imprigionati nel momento in cui dovrebbero democraticamente sviluppare il loro diritto di informazione, di comunicazione e di critica. Archeologiche e odoranti morte e follia, sono poi le corporazioni giuridiche, amministrative, politiche dello Stato della sussunzione reale. Ma la morte che hanno nelle membra e nel cuore, esse rovesciano contro il mondo! Rompere con tutto ciò, ricostruire! Lo parlo qui di ricostruzione perché, dopo la crisi dell’ultimo decennio, ovunque ormai, in Europa come nel mondo, il processo rivoluzionario si è rimesso in moto. Con fatica, negli anni scorsi, nei saggi che qui metto insieme, lo abbiamo descritto in questa nuova figura - mano

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a mano approssimandone sempre di più le caratteristiche. La rivoluzione come preambolo, l’immaginazione al potere, questi sono dunque i poli del processo di ricostruzione, di uscita dalla catastrofe. Su questo bordo dell’essere noi ci troviamo davanti ad una natura umana modificata dallo sviluppo e dalle lotte - anche dalle sconfitte - ad un processo di autovalorizzazione che socialmente ha formato nuove soggettività e ha depositato una grande esperienza del futuro.

* * *Mi è capitato, in questi scritti, di utilizzare ampiamente, quando parlo

dell’immediatezza dell’esperienza di liberazione, il termine filosofico << estetica trascendentale >>; quando parlo dell’immaginazione e della sua funzione creativa, il termine << dialettica trascendentale >>; quando infine, ed al contrario, parlo della capacità capitalistica di comando attraverso gli strumenti del nuovo dominio e della stessa produzione di soggettività, utilizzo il termine << analitica >>. Ora, poiché temo che non tutti i miei lettori abbiano presente la definizione kantiana di queste categorie della critica, mi permetto qui di seguito di ricordarla (affinché in tal modo venga meglio compreso l’uso di queste categorie e la radicale anomalia che in quest’uso introduco). E’ comunque nel paragrafo 3 della Parte III (<< Per un nuovo schematismo >>) che si discutono alcuni temi kantiani.

Emmanuelle Kant, Critica della ragion pura, trad. il., Bari, 1949, vol. I, pp. 66-67: << Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità. Deve esserci una tal scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i principi del pensiero puro e vien [sic] denominata logica trascendentale.

Nella estetica trascendentale, dunque, noi isoleremo dapprima la sensibilità, separandone tutto ciò che ne pensa coi suoi concetti l’intelletto, affinché non vi resti altro che l’intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da questa ciò che appartiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la intuizione pura e la semplice forma dei fenomeni, che è ciò che la sensibilità può fornire a priori. In questa ricerca si troverà che vi ha due forme pure di intuizione sensibile, come principi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo, del cui esame noi ci occuperemo or ora. >>

P. 108: << Analitica trascendentale: questa analitica è la risoluzione di tutta la nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura intellettuale. E qui bisogna por mente ai punti seguenti: 1) che i concetti sieno concetti puri, e non empirici; 2) che appartengano non all’intuizione e alla sensibilità, ma al pensiero e all’intelletto; 3) che sieno concetti elementari, ben distinti dai derivati e da quelli risultanti da essi per composizione; 4) che la loro tavola sia

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completa, e abbracci interamente tutto i1 dominio dell’intelletto puro. Or questa compiutezza d’una scienza data non può ottenersi con sicurezza col calcolo all’ingrosso di un aggregato messo insieme per tentativi; quindi essa è possibile soltanto mediante un’idea della totalità della conoscenza intellettuale a priori e per mezzo della divisione dei concetti che la costituiscono, determinata in base a cotesta idea, e quindi per mezzo della loro connessione sistematica. L’intelletto puro si distingue assolutamente, non solo da ogni elemento empirico, ma anche da ogni sensibilità. E’ dunque un’unità per sé stante, sufficiente a se stessa, e non suscettibile di aumento per aggiunte dall’esterno. L’insieme quindi della sua conoscenza formerá un sistema, da essere compreso e determinato sotto una sola idea, e la cui compiutezza e articolazione possono fornire a un tempo una pietra di paragone per provare l’esattezza e il valore di tutte le parti di conoscenza che vi rientrano. Tutta questa parte della logica trascendentale consta di due libri, uno dei quali comprende i concetti, e l’altro i principi dell’intelletto puro.>>

Pp. 291, 293, 294: << Noi abbiamo detto più sopra la dialettica in generale logica dell’apparenza >>. << L’apparenza logica, che consiste nella semplice imitazione della forma razionale (l’apparenza dei sofismi) sorge unicamente da un difetto di attenzione alla regola logica. Appena quindi questa viene rivolta sul caso in questione, quell’apparenza si dilegua del tutto. L’apparenza trascendentale, invece, non cessa ugualmente, se altri già l’abbia svelata e ne abbia chiaramente scorta la nullità mediante la Critica trascendentale. E la causa è questa, che nella nostra ragione (considerata soggettivamente, come facoltà conoscitiva umana) ci sono regole fondamentali e massime del suo uso, che han tutto l’aspetto di principi oggettivi, per cui accade che la necessità soggettiva di una certa connessione del nostri concetti in grazia dell’intelletto venga considerata come necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé. Illusione, che è affatto inevitabile >>. << La dialettica trascendentale sarà paga per tanto di scoprire l’apparenza dei giudizi trascendentali, e di prevenire insieme che essa non tragga in inganno; ma di questa apparenza anche si dilegui (come l’apparenza logica) e cessi di essere un’apparenza, questo è ciò che non può giammai conseguire. Perché noi abbiamo che fare con una illusione naturale ed inevitabile, che si fonda essa stessa su principi soggettivi, e li scambia per oggettivi; laddove la dialettica logica, nella risoluzione dei paralogismi, non ha da fare se non con un errore nello svolgimento del principi, o con un’artificiale imitazione di essi. Essa è dunque una dialettica naturale e necessaria della ragion pura; non la dialettica in cui s’avviluppi, per es., il guastamestieri per mancanza di cognizioni, o che un qualunque sofista abbia escogitato ad arte per imbrogliare la gente ragionevole; ma la dialettica, che è inscindibilmente legata all’umana ragione e che, anche dopo che noi ne avremo

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scoperta l’illusione, non cesserà tuttavia di adescarla e trascinarla incessantemente in errori momentanei, che avranno sempre bisogno di essere eliminati. >>

Vol. II, p. 516, 517, 519: << Il risultato di tutti i tentativi della ragion pura non solo conferma quello, che noi già dimostrammo nell’Analitica trascendentale, ossia, che tutti i nostri ragionamenti, i quali vogliono condurci al di là del campo dell’esperienza possibile, son fallaci e senza fondamento; ma c’insegna nello stesso tempo questo di particolare, che l’umana ragione ha qui una propensione naturale ad oltrepassare questi limiti, che le idee trascendentali sono per essa altrettanto naturali che per l’intelletto le categorie, sebbene con la differenza, che le ultime conducono alla verità, cioè all’accordo dei nostri concetti con l’oggetto, laddove le prime generano una semplice, ma irresistibile apparenza, la cui illusione, appena si può rimuovere mercè la critica più acuta >>. << Lo affermo per tanto che le idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo, sicché per mezzo di esse possono esser dati concetti di certi oggetti; e che, ove esse siano intese a questo modo, sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Ma, viceversa, hanno un uso regolativo eccellente e impreteribilmente necessario: quello di indirizzare l’intelletto a un certo scopo, in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole convergono in un punto; il quale - sebbene non sia altro che un’idea (focus immaginarius), cioè un punto, da cui realmente non muovono i concetti dell’intelletto, essendo esso affatto fuori dei limiti dell’esperienza possibile, - serve nondimeno a conferir loro la maggiore unità con la maggiore estensione. Ora per noi sorge veramente di qui l’illusione, come se queste linee direttive si diramassero (come gli oggetti sono veduti dietro la superficie dello specchio) da un oggetto stesso, che gichampionsse fuori del campo della conoscenza empirica possibile; se non che questa illusione (che pure si può impedire, che non inganni) è tuttavia inevitabilmente necessaria, se oltre agli oggetti, che ci sono innanzi agli occhi, vogliamo vedere insieme anche quelli che ci stanno lontani alle spalle, cioè se, nel nostro caso, vogliamo portare l’intelletto al di là d’ogni esperienza data (parte della totale esperienza possibile), quindi anche alla maggiore estensione possibile ed estrema >>. << L’uso ipotetico della ragione per via di idee messe a fondamento come concetti problematici non è propriamente costitutivo, ossia non è di tal fatta che, se si vuol giudicare con tutto rigore, ne segua la verità della legge universale per ipotesi; come sapere infatti tutte le conseguenze possibili, che, derivando dallo stesso principio assunto, ne dimostrino la universalità? Esso invece è soltanto regolativo, per mettere, quanto è possibile, unità nelle conoscenze particolari e approssimare così la regola dell’universalità >>.

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* * *Fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra catastrofe e ricostruzione, e

un viaggio - un dislocamento eptstemologico ed anche un processo storico. Poiché, come Marx ci ha insegnato, il tempo della rivoluzione modifica lo spazio, meglio, segna di determinazioni temporali lo spazio e sceglie un tempo come luogo, più o meno privilegiato, di sviluppo di crisi e di trasformazione. Noi stiamo vivendo non solo il ciclo della modificazione del modo di produrre ma soprattutto la sua radicale innovazione, la sua sussunzione al livello più alto, - intendo, la sintesi terminale dello sviluppo capitalistico. E’ lì, dove lo sviluppo capitalistico appiattisce e riconduce ogni differenza, che il processo rivoluzionario deve riconoscersi come preambolo dell’esistente e del suo rovesciamento, come condizione dell’immaginazione. Diciamo, qua e là, in questo libro: << Lenin a New York >>, - per scherzare con la storia, attraverso l’immaginazione rivoluzionaria. New York è la sussunzione reale della società mondiale nel capitale, Lenin è il genio dell’antagonismo e della sovversione. Lenin a New York: sembra a me la divisa del comunismo per i prossimi decenni. Qui io presento solo un’introduzione - etica ed epistemologica - al problema. Credo tuttavia che questa introduzione sia fondamentale. Negli scritti contenunti in Appendice, ed in particolare nella << Lettera ai compagni di Montreal >>, sono indicati del terreni sui quali approfondire la ricerca. Ma non è possibile farlo se l’etica dell’immaginazione sovversiva non s’instaura alla base della ricerca. Se il preambolo rivoluzionario non si rivela, come tale, nella prassi. Transiti diversi, varie strategie sono qui possibili allo scopo di afferrare praticamente la maturità della trasformazione necessaria. L’urgenza del paradosso ontologico cui la vicenda del razionalismo occidentale e del capitalismo ci ha condotto, il quadro di morte che l’estrema accelerazione e maturazione dello sviluppo ci ha regalato - tutto ciò l’abbiamo dinnanzi. Non risultano tuttavia tali da imporsi un blocco della ricerca né una paralisi della volontà. Se il pensiero si impianta nella pratica e sceglie quest’ultima come luogo ontologico fondamentale, - il paradosso di morte e i rompicapi distruttivi che ci si presentano, possono essere risolti. Questa è dunque una propedeutica metafisica alla prassi trasformatrice.

7 aprile 1986AvvertenzaAlcuni dei testi qui pubblicati, sono già apparsi in varie riviste o sono stati

letti in cenacoli diversi. Così, ad esempio, l’introduzione alla Parte II (<< La rivoluzione come preamboli >>) è la traccia di una conversazione che ho avuto l’onore di introdurre, il 15 giugno l984, nel seminario parigino di Francois Châtelet. Il paragrafo 6 della Parte III (<< a proposito dell’aforisma:

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pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>) è il testo di un intervento che in forma solo leggermente semplificata è stato letto e discusso in alcune sedute del seminario dei prigionieri politici che si teneva nel carcere di Rebibbia Roma G12, nel settembre - ottobre 1982 Quest articolo nell’attuale forma e in traduzione francese, è ora in corso di pubblicazione nella rivista << Chemin de ronde >>. Il Paragrafo 7 della Parte III (<< Lenin a New York Progetto di lavoro >>), è una lettera scritta ai compagni che a Montreal, nell’ambito dell’Università del Quebec, hanno tenuto aperta una sede di lavoro teorico-politico spinato al marxismo critico rivoluzionario. La lettera è datata 15 aprile 1985, e si riferisce in particolare al risultati del convegno del novembre 1984 sui movimenti autonomi della classe operaia contro lo Stato. I Paragrafi 1, 2, 3, 4, 5, della Parte III sono stati rispettivamente pubblicati: << Erkenntnistheorie >>, con il medesimo titolo, in << Metropoli >>, n 5, anno III, Roma, giugno 1981, pp. 50-53 (il saggio porta comunque la data 25 aprile 1981); << La potenza sociale del lavoro >> come nota introduttiva alla riedizione di << Classe Operaia >>, Collettivo Libri Rossi/Area Milano, 1980 (la nota porta la data << agosto 1979 >>); << Per un nuovo schematismo della ragione >> é apparso, in francese, con il titolo << A’ propos de Logos et théorie des catastrophes de Jean Petitot >> in << Babylone >>, n 4, Printemps-Ete 1985, UGE 10/18, avril 1985, Paris, pp. 219-227; << Sull’orlo dell’essere >>, è apparso in << Alfabeta >>, n. 41, ottobre 1982, pp.21-22; << L’istituzione logica del collettivo >> è stato pubblicato in << Aut aut >>, n. 197-198, settembre - dicembre 1983, pp. 133-142. Ai direttori ed ai redattori delle riviste che ne hanno concesso a nuova pubblicazione, va il mio ringraziamenti.

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PARTE IIProlegomeni di un’ontologia della sovversione

IntroduzioneLa rivoluzione come preambolo

Ho tra le mani un piccolo libro, recentemente pubblicato da Suhrkamp, intitolato Mythologie der Vernunft. Hegels ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus (1). Esso raccoglie, oltre al testo e ad un’introduzione critica dei curatori, gli articoli che a questo piccolo e fondamentale scritto sono stati dedicati da Franz Rosenzweig, Otto Pögler, Dieter Heinrich, Annemarie Gethmann-Siefert. I curatori sono Christoph Jamme e Helmut Schneider. Non voglio entrare nella polemica sulla paternità del testo e fare un’ennesima congettura - se ne sia Hegel o Schelling o Hölderlin l’autore - tanto più che anch’io non sono in difetto in proposito, avendo studiato il problema nei miei primissimi esercizi filosofici (1958: sul giovane Hegel (2) e 1959: sulla storiografia (3) di Wilhelm Dilthey e della sua scuola) e poiché non mi sembra di poter rinunciare, sulla questione dell’attribuzione, alle conclusioni di Rosenzweig. Voglio solo riprendere questo << antichissimo >> testo come origine e farci attorno qualche considerazione.

Leggo qualche passo (in una mia libera traduzione) (4): << Un’etica. Poiché l’intera metafisica si concluderà nella morale - cosa della quale Kant con i suoi due postulati pratici ha solo dato un esempio senza ciò nulla esaurire - così quest’etica non sarà altro che un sistema completo di tutte le idee, ovvero, che è la medesima cosa, di tutti i postulati pratici. La prima idea è naturalmente la rappresentazione dell’io stesso, come di un’assoluta libera essenza. Con la libera, autocosciente essenza nel medesimo tempo vien [sic] fuori un mondo intero, dal nulla - l’unica vera e concepibile creazione dal nulla. - Io vorrei qui entrare nel campo della fisica, il problema è questo: come dev’essere costruito un mondo per un essere morale? Potrei così dar nuove ali alla nostra scienza fisica che avanza tanto lentamente attraverso esperimenti. Dalla natura vengo dunque all’opera umana. Innanzitutto l’idea di umanità - io voglio mostrare che non si dà alcuna idea di Stato, poiché lo Stato è qualcosa di meccanico, e non si dà idea di una macchina. Soltanto quello che è oggetto della libertà, questo si chiama idea. Noi dobbiamo dunque andar oltre lo Stato! Poiché ogni Stato deve trattare l’uomo come un ingranaggio meccanico; è appunto ciò che non si deve; quindi lo Stato dev’essere tolto. Consegue da ciò che qui tutte le idee di pace perpetua ecc. non sono altro che idee subordinate ad un’idea superiore. Vorrei nei medesimo tempo fondare principi di una storia dell’umanità e nel medesimo tempo mettere a nudo tutta la miserabile determinazione dello Stato, della costituzione, del governo, della legislazione. Vengono infine le idee di un

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mondo morale, la divinità, l’immortalità - rovesciamento dell’incredulità che è conseguenza del clericalismo - esso finge ora di usare la ragione, - bene, questo rovesciamento l’attueremo attraverso la ragione stessa. - Libertà assoluta per tutti gli spiriti che in sé portano il mondo intellettuale, che non debbono cercare né Dio né l’immortalità fuori di se stessi. In ultimo luogo l’idea che tutte le altre idee unifica, quella di bellezza...>>

Questo testo mi ha sempre sconvolto.Potrei dire che tutta la prima fase del mio lavoro filosofico maturo (negli anni

Sessanta: dallo studio sul formalismo dei giuristi kantiani (5) fino alla traduzione ed al commento degli scritti di Hegel del 1802-1803 (6), dagli studi sulla macchina dello Stato (7) alle parallele ricerche sul cartesianismo nell’ideologia politica e statuale (8) - che questa prima fase matura di lavoro filosofico non sia stata dunque altro che una riflessione sull’attualità di questi temi: riprendendone la fortissima valenza critica, e cioè guardando come l’opera umana della libertà venga resa meccanica e ridotta al nulla dai grandi poteri che le si oppongono la natura produttiva e lo Stato.

Ma debbo subito aggiungere che nei miei studi di allora, solo sulle sfondo resisteva il senso costruttivo di queste tematiche critiche, e cioè il tentativo di identificare che cosa potesse oggi essere una nuova mitologia della ragione, della libertà, un’estetica trascendentale che non fosse chiusa nelle maglie di una mediazione coatta. Quest’ultimo infatti era stato l’esito che quell’ << antichissimo programma >> aveva subito nello sviluppo della filosofia di Schelling e di Hegel. Di questo destino Hölderlin era impazzito. Noi lo rifiutavamo ma eravamo incapaci di liberarcene. Anche il marxismo era afflitto da questa malattia, inglobato nell’analitico specchio del potere. Quanto agli autori degli anni Venti e Trenta tedeschi, che soprattutti allora frequentavo: da Walter Benjamin a Theodor W. Adorno, da Ernst Bloch e Georg Lukacs - bene, per loro avvertire la crisi era un’esasperata dichiarazione di impotenza. Il cosiddetto pensiero della crisi, che tanta auge ha ora in Italia e altrove, noi allora interamente lo vivemmo (9).

Ma ritorniamo al frammento programmatico. La copia hegeliana è dell’inizio dell’estate del 1796. La grande Rivoluzione sta giungendo all’apogeo del suo sviluppo. Ora, nelle pagine del frammento, essa è il presupposto del sapere. Se la libertà umana è il fondamento, il sapere non può presentarsi che come etica e come costituzione. Giorgio Agamben, uno dei pochissimi filosofi italiani in questa stanca epoca, ha di recente nuovamente sottolineato questa verità (10). Come ha potuto allora, questa grande rivoluzionaria rifondazione, essere così brutalmente tradita? Come ha potuto, alla base della nostra cultura filosofica, la dialettica dell’idealismo tedesco, ripetere il gioco dagli atroci risvolti di una

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Dialektik der Aufklärung? Perché l’immediatezza di una nuova e potente estetica trascendentale, anziché svolgersi verso la sfera dell’immaginazione vera, è stata sottoposta alla mediazione dell’analitica trascendentale, a questa artificiosa prigione del desiderio di costituzione?

Leggo le Lezioni sulla fenomenologia dello spirito di Hegel tenute da Martin Heidegger (11). Vi sento, magistralmente interpretata, non una risposta alla questione bensì un’apologia di questo risultato. Heidegger mi offre il senso presente di un’ottusa analitica dello spirito, della storia e della libertà - che è divenuta impotenza dell’immaginazione e del corpo. L’effettivitá storica di questa comprensione aumenta il disagio a fronte della tragica consonanza con la quale l’autore l’accompagna.

Leggo Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritische Funktion der hegelschen Logik (12). Siamo qui fra gli epigoni della francofortese filosofia critica. Non v’è qui più alcuna illusione che l’analitica e la logica dialettiche possano riempirsi di contenuti di verità. V’è tuttavia, in questa recentissima e sofisticata operazione sulla dialettica hegeliana, a speranza che il negativo logico possa almeno continuare a rappresentare un’allusione, un’allegoria dell’essere e fondare perciò qualche formale orizzonte di significatività. Funzione ontologica del negativo, del differente, nella logica? No, non è possibile.

Se ho citato questi volumi, non è perché occasionalmente (non potendo, in questo periodo, frequentare se non episodicamente le biblioteche) me li sono trovati fra le mani. L’occasione non ne toglie il valore di indice generale. Ebbene, qui, emblematicamente, il sogno dell’unificazione logica del sapere e l’hegeliana Darstellung di una logica dell’essere si mostrano e sono offerti come radice dell’errore. In verità, dopo la rivoluzione, non è l’essere che si è appropriato della logica bensì è la logica che si è appropriata dell’essere. Con Hegel la logica è divenuta la matrice dell’ideologia ed un’analitica stringente si è opposta all’estetica trascendentale della libertà. Lo spazio dell’estetica trascendentale è stato ridotto, nel migliore dei casi, a misure fenomenologiche. Il rapporto costitutivo fra estetica e dialettica trascendentale dell’immaginazione vera è stato costrittivamente attraversato da un’analitica, da un’epistemologia, asfissianti ed onnicomprensive. Il più antico programma dell’idealismo tedesco è divenuto il suo rovescio - e noi viviamo questa tragedia.

Quando la filosofia contemporanea avverte questo esito diviene impotente. La caduta della dialettica, nella sua figura hegeliana, sembra comportare la rovina di ogni possibilità di costruzione.

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Così, nei momento nel quale la tragedia della ragione dialettica diviene storica e la ragione meccanica raggiunge l’apice della sua espressione determinata, realizzando completamente, fra Auschwitz e Hiroshima, il rovescio dell’antico programma di libertà dell’idealismo tedesco ed insieme mostrando l’efficacia distruttiva del decorso storico della dialettica, la filosofia si sente sull’orlo estremo dell’essere. Un orlo di distruzione, ove soffia e risucchia il vento del vuoto, - e l’orrore è moltiplicato.

La favola della filosofia non può tuttavia aver fine. Questo nostro essere sull’orlo dell’essere ci rivela non solo la disperata effettualità della crisi del sistema del valore - ci pone anche di fronte alla genealogia di questa crisi e ci colloca, attraverso questa scoperta, sul solo terreno sul quale l’intelligenza riflette su se stessa. Viviamo un’età barocca: non la meraviglia o l’ammirazione ma il terrore sono alla base del risveglio alla filosofia. L’orrore della distruzione ci incolla al corpo, alla sensibilità, alla vita - alla necessità di una riflessione intelligente. L’orlo dell’essere ci obbliga al cuore dell’essere, ci stringe su quel punto sul quale una estetica della libertà può nuovamente coniugarsi con una dialettica dell’immaginazione produttiva.

<< Un’etica >>.Con forza di anticipazione e capacità di raccogliere l’anomalia di una

straordinaria condizione storica, Spinoza ci ha indicato questo cammino. Di nuovo qui posso ripercorrere la mia esperienza filosofica e i miei scritti degli anni settanta - una seconda fase del mio pensiero. Ora, fino a quando non ho incontrato Spinoza (13), se mi era chiara la necessità di rompere la subordinazione della volontà di valorizzazione dei soggetti alla meccanica della ragione analitica, non me è stato mai chiaro che a questo scopo andava interrotto il circolo vizioso delle omologie analitiche che continuamente si determinavano quando dall’esperienza soggettiva si passava all’oggettiva - e viceversa. Nel migliore dei casi, quando si scioglieva, lo spirito di sistema liberava (in polemica con l’analitica) volontà anarchica; viceversa, lo spirito anarchico resolve, alla maniera di un surrealista progetto, alla volontà di sistema. Nello schema filosofico tradizionale che subivo, la critica indicava la trascendenza del valore anziché assumere la possibilità radicale di sviluppare la potenza ontologica del soggetto. In tutti i miei scritti degli anni settanta (14), che apparivano come scritti politici ma erano essenzialmente scritti di metodo, mi sono mosso in questo circolo vizioso. E’ il circolo vizioso di un atteggiamento dialettico che rifiutavo ma non riuscivo ad evitare - anche nei momenti di più fervida rivendicazione del vero materialismo marxiano (15). Dall’autovalorizzazione dei soggetti all’autorganizzazione del partito, si diceva, dalla ricchezza cosciente della spontaneità all’autodeterminazione dei soggetti,

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al politico - e poi al comunismo (16). E’ sbagliato. Dentro questa trafila l’autodeterminazione diviene trascendenza. E’ trasfigurazione analitica della pratica del valore, è surretizio recupero della mistificazione trascendentale della ragione meccanica. No, l’autodeterminazione viene prima, è il preambolo. L’etica nasce dalla rivoluzione come preambolo. Il comunismo viene prima, come pratica.

Non solo Schelling, Hölderlin, Hegel hanno conosciuto la rivoluzione come preambolo: anche noi abbiamo piantato i nostri alberi della libertà. Fra il 1917 e il 1968 lo sviluppo pauroso dell’analitica della ragione ha avuto come corrispettivi il gioioso liberarsi di un’estetica della libertà ed un’immaginazione vera. Di nuovo una mitologia della ragione si è presentata come possibilità filosofica. Di nuovo, di contro, contemporanei, il tradimento, il pentimento e l’analitico sistema del terrore hanno schiacciato questa possibilità. Ma questo nostro destino è troppo feroce e le sue componenti troppo esasperate perché noi possiamo ancora illuderci. L’analitica ha immediatamente il volto della morte. A queste condizioni, l’estetica della libertà ha l’immediata robustezza ontologica dell’esistenza del corpo. Una nuova mitologia della ragione, un’ontologia dell’etica, della sensibilità, del corpo: non è possibile spostarle. Sono condizioni di esistenza.

Troppi << nuovi credenti >> (come li chiamava Leopardi), troppe anime pallide, ricercano nella trascendenza la via d’uscita da questa tragedia nell’essere. << Asylum ignorantiae! >>. No, davvero questa forma dell’andar oltre il terrore analitico ha la figura del salto mortale. Già nella Germania degli anni Venti e Trenta, in questa comunque straordinaria vicenda culturale, questa via non significò evitare la catastrofe ma annunciarla. Un pensiero autodistruttivo. L’<< angelus novus >> non intendeva la rivoluzione come preambolo bensì come soluzione delle aporie analitiche della ragione. Non come condizione e Umwelt bensì come sviluppo ed Aufhebung. Il passaggio dall’estetica alla dialettica dell’immaginazione fingeva così 1 superamento dell’analitica, in realtà ne subiva il dominio e di conseguenza scartava l’estetica come fondazione. L’Angelus novus non svolgeva l’estetica in liberazione ma la traduceva piuttosto nell’idea della redenzione. Erlösung - ci dice quello stesso Rosenzweig (17) che pure ci aveva restituito il Systemprogramm, quando, alcuni anni più tardi, non resiste alla potenza della morte che vede prendersi i suoi compagni nelle trincee della Bielorussia.

Tutti noi abbiamo visto in questi anni la morte sedersi alla nostra tavola. Eppure non è questa, di Rosenzweig, la via per vincere la morte. Rosenzweig ripete il terrore analitico nel soffrirne i disperati effetti. Come invece rompere l’implacabile circolarità analitica e dare significato all’esistenza, a fronte del

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senso nullificante che in essa l’analitica mette in moto? Come proporre, nelle maglie del capitalismo maturo e della sua analitica, la rivendicazione di una nuova dialettica trascendentale dell’illusione vera? Come sviluppare il preambolo rivoluzionario di un’estetica della libertà verso la costituzione del reale? Rispondere a questi interrogativi, operare in questo senso, è oggi ricostruire un’etica.

La rivoluzione come preambolo, il senso della grande trasformazione in corso e della tragedia incombente - come contenuto elementare dell’estetica: che cosa significa questo? Se, sull’orlo dell’essere, tutto può essere distrutto, tutto può essere anche costruito: il contenuto dell’estetica è un paradosso metafisico trasformato, attraverso le dimensioni delle possibilità, in paradosso pratico. L’essere è, il non-essere non è: recita l’antico adagio. Ma oggi l’essere può non essere. La possibilità della non esistenza, come competenza del soggetto, è una nuova attribuzione dell’analitica. Ma questo essere, divenuto assoluta contingenza, è possibilità di nuovo essere. La costituzione soggettiva filtra la possibilità di costituzione ontologica e radica [sic] quest’ultima nell’estetica trascendentale. L’analitica ci ha restituito il mondo come assoluta contingenza: con ciò si fonda la radicale possibilità dell’innovazione alternativa. Il contenuto assoluto della verità, posto dall’analitica come trascendenza sull’estetica, risorge invece dal basso - non è una richiesta di altro e d’assoluto bensì un altro e un assoluto che vivono prima.

Un’etica, dunque, una costituzione della libertà. Il cammino che sale dall’immediatezza estetica della rivoluzione già data, posta come preambolo, su, fino alla dialettica dell’immaginazione vera - è questo il cammino che dobbiamo percorrere attraverso etica e costituzione, costituendo un’etica. Imponendo all’ontologia un’etica. Rovesciando così il processo che ci ha sempre portati fuori dalle dimensioni etiche dell’essere trasformato e ha sottoposto questo al dominio dell’analitica. Non può più essere concesso che la logica sia la matrice dell’ontologia e che l’etica si trovi di conseguenza relegata sull’orizzonte della trascendenza, gioia delle anime belle e preda del cinismo.

Ancora dal Systemprogramm << Nel medesimo tempo noi sentiamo sovente dire che le masse hanno bisogno di una religione sensibile. Non solamente le grandi masse, anche il filosofo ne ha bisogno. Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell immaginazione e dell’arte, questo è ciò di cui noi abbiamo bisogno! Parlerò quindi d’un’idea che, per quanto ne so, mai è venuta alto spirito di nessuno, non ancora almeno - noi dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee - essa deve divenire una mitologia della ragione >>.

Commentiamo questo brano. Oggi, l’unificazione logica dell’umanità ci si

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propone nuovamente con conseguenze disastrose. L’insignificanza dei linguaggi e la guerra sono divenuti l’orizzonte dell’esistere: hobbesianamente solo il dominio ci propone possibilità di esistenza. Quale è la nostra miseria! Le differenze fra gli uomini sono organizzate sulla gerarchia del dominio. La grande macchina della rappresentazione logica del reale si è formalizzata e toglie la vita agli uomini, proiettandola nell’insignificanza e spingendola sull’orlo della distruzione assoluta (18). Come distruggere questa ristrutturazione analitica della ragione e proporre invece alla ragione un altro, diverso, umano orizzonte - una mitologia della ragione, un’estetica dell’immediatezza ragionevole?

Ho percorso l’orizzonte della guerra armato di una mitologia della ragione, di una religione sensibile, perciò di quell’orrore non ho subito il dominio. Ora è per me il momento di riaprire, attraverso la più radicale critica dell’analitica, il canale di scorrimento fra la resistenza all’orrore e l’immaginazione sensibile della libertà. Entro in una terza fase del mio lavoro filosofico (19).

Il misticismo di Wittgenstein e l’ascetismo dell’ultimo Husserl ci hanno mostrato il grande quadro dell’essere ormai spostato sulla linea della più assoluta Sinnlosigkeit del significante. Il post-moderno e le ideologie sistemiche hanno accolto e sviluppato in maniera apologetica quest’apprensione del mondo - senza il dolore che, in casi simili, è proprio della grande filosofia. Questo morto mondo può essere rotto dal lavoro vivo, dall’immaginazione vera del soggetto, da un’etica ragionevole dell’immediatezza. La possibilità del mito è interna alla contingenza feroce di questo mondo, al suo affacciarsi sull’orlo della distruzione. Solo l’etica può rappresentare la possibilità di una ontologia, di una filosofia dell’essere vero.

Un’etica? Sì. Una politica.

NOTE INTRODUZIONE1) Mythologie der Vernunft. Hegels << ältestes >> Systemprogramm des deutschen ldealismus.

hrsg. von C Jamme und H Schneider. Suhrkamp, Frankfurt, 1984.

2) Antonio Negri, Stato e diritto nel giovane Hegel. Studio sulla genesi illuministica della filosofia giuridica e politica di Hegel, Padova, CEDAM, 1958, pp. 288.

3) Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano, 1959, pp. 303.

4) Cfr comunque anche la traduzione di P Naville in Hölderlin, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1967, pp. 1157-1158.

5) Antonio Negri? Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962, pp. 400.

6) G W F Hegel, Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), traduzione e introduzione di Antonio

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Negri, Laterza, Bari, 1962.

7) Antonio Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 345; Scienze politiche 1 (Stato e politica), << Enciclopedia Feltrinelli-Fischer >> n. 27, a cura di Antonio Negri, Feltrinelli, Milano, 1970.

8) Antonio Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 212,

9) Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1965), in << Annuario bibliografico di filosofia del diritto >>, Giuffrè, Milano, 1967; Antonio Negri, La filosofia tedesca del Novecento, in << Storia della filosofia >>, diretta da Mario Dal Prà. Volume X, << La filosofia contemporanea: il Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978.

10) Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, 1982.

11) Martin Heidegger, La << Phénoménologie de l’esprit >> de Hegel, Gallimard, Paris, 1984.

12) Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritisce Funktion der hegelschen Logik, Suhrkamp, Frankfurt, 1980.

13) Antonio Negri, L’anomalia selvaggia. Potenza e potere in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 300.

14) Antonio Negri, Operai e Stato, Lotte operaie e riforma dello Stato capitalistico tra Rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano, 1972; Antonio Negri, Crisi dello Stato piano, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Proletari e Stato, Feltrinelli, Milano, 1976; A Negri, La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, Area ed, Milano, 1977, pp. 224; A Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano, 1978; A Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, Multhipla ed, Milano, 1979, pp. 176.

15) Antonio Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano, 1979.

16) Antonio Negri, Il comunismo e la guerra, Feltrinelli, Milano, 1980.

17) Franz Rosenzweig, L’Etoile de la Rédemption, Le Seuil, Paris, 1981.

18) Antonio Negri, Macchina-tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione, Feltrinelli, Milano, 1982.

19) Antonio Negri, Pipe-line, Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino, 1983.

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Capitolo Primo.<< No future >>, ossia sull’essenza etica dell’epistemologia.

1. L’indifferenza dell’universo della comunicazione.Ci sono tre elementi che caratterizzano l’orizzonte metafisico della nostra

epoca. Il primo dato è che viviamo in un mondo nel quale solo l’immagine traduce l’esperienza. Ogni autonomo momento di produzione, ogni rapporto dal senso della proposizione al significato reale dell’evento, ogni trascendimento del contesto della comunicazione appaiono impossibili. La logica si muove su questo terreno: perciò non riesce mai a farsi epistemologia, senso e significato del nostro linguaggio sono irrimediabilmente separati. A partire da questa prima constatazione vengono molte conseguenze: in primo luogo sembra chiaro che di questa situazione linguistica non possiamo neppure parlare - ci siamo dentro, e qualsiasi tentativo di cogliere un riferimento reale non è altro che un trascendimento. Questa logica è autoreferenziale - meglio, è tautologica. Certo, il complesso delle proposizioni che descrivono la vita non può immediatamente essere riportato alla tautologia, - per la semplice ragione che la tautologia non può ricoprire la complessità. Ma è anche vero che la tautologia è il minimo comune denominatore di questo universo, che un’immaginaria riduzione ad elementi semplici degli insiemi linguistici non potrebbe che mostrare la tautologia come chiave di tutto l’universo logico. Ma allora come funziona (perché malgrado tutto funziona) questo nostro universo logico, questa nostra vita organizzata da giudizi e da inferenze logiche?

Vi è un secondo elemento che è assolutamente fondamentale ritenere, ed è che questo universo linguistico, logico, che non possiede verità ma semplicemente movimento, - dunque, questo universo logico, è anche un universo produttivo. Esso comprende, nel momento stesso nel quale fissa delle relazioni di comunicazione, parametri sociali, strutture e figure, socialmente efficaci a rendere valido il linguaggio. Si tratta di veri e propri rapporti di produzione: il linguaggio infatti traduce nella sua propria struttura quella gerarchia che è alla alla riproduzione della società. Dentro questa circolazione permanente di flussi linguistici, di immagini che precedono il reale, di un reale che è incarnato dalla forza della comunicazione, la produzione del mondo si ripete in maniera continua. E’ qui chiaro lo sviluppo dell’intuizione marxiana del completarsi del capitalismo nella fase della sussunzione reale. Vale a dire che ogni elemento dello sviluppo sociale è qui compreso ormai nella totalità della circolazione delle merci: questa comprensione rende evidentemente produttiva tutta la società, ma nello stesso momento in cui opera in questo senso, toglie la specificità del produrre, la oblitera espandendola in ogni direzione, la rende eguale a tutto ciò che esiste. Il paradosso è solo formale:

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sostanzialmente il suo significato è che tutto ciò che esiste è capitalisticamente produttivo, - vale a dire non semplicemente produttivo, ma produttivo dentro una determinata relazione di sfruttamento.

La sfera linguistica nasconde la totalità del processo produttivo, meglio, l’assume per distruggerne le caratteristiche antagonistiche. E’ un fatto che quando tutto è produttivo non può esistere un criterio assoluto di misura - la misura cade, e con ciò cade anche ogni rapporto reale tra sfera della comunicazione e sfera della produzione. Ma se la sfera della produzione é completamente implicita nella sfera della comunicazione - come articolare il rapporto, come descriverlo, come dominarlo? Si conosce la risposta: è la moneta: quella merce universale che deve valere per queste funzioni. Ma è ben vero che per la moneta può essere detto esattamente quello che si è detto più in generale per il linguaggio. Con la moneta chiamo gli oggetti in maniera diversa, do loro un nome che è un prezzo - ma tutto ciò subisce la stessa circolazione insensata che è propria del linguaggio ed ormai nessuno può dire della moneta che i suoi nomi corrispondano, meglio fissino un reale. Forse è solo la forza che discrimina e rende ricchi: antica banalità, al di là della quale resta la necessità di comprendere.

Siamo dunque dentro un universo di sensi molteplici, ma sempre circolanti e tendenti all’unità linguistica (ed alla nullità epistemologica) della tautologia. Quest’universo registra la crisi della comprensione del rapporto fra senso e significato, fra nome e cosa, tra società e produzione. Ma questa crisi è dentro lo stesso orizzonte, lo stesso livello della circolazione. Ne viene, con la caduta di ogni parametro di confronto, di misura, un regno di indifferenza. L’indifferenza è la tendenza. Quanto più questo mondo si sviluppa, quanto più si matura e si perfeziona, tanto più esso diviene indifferente. Noi immaginiamo per questo mondo un’intercomunicabilità totale - ma laddove non esiste criterio di misura, riferimento oggettivo, ivi la comunicazione è caotica - meglio, è appunto indifferente. Ogni determinazione viene meno, ogni capacità di riferimento reale è annullata.

Io ritengo che questi siano il termine e l’esaurirsi necessari del pensiero occidentale, da quando e perché esso ha scelto di privilegiare l’orizzonte del Logos, cioè l’orizzonte del comando, e di assumerlo a proprio esclusivo fondamento. Noi abbiamo bisogno di liberarci da tutto questo, da questo sviluppo del pensiero che non è stato altro che una trascrizione mistificata dello sviluppo del rapporti di sfruttamento. La ragione ha costruito la sua analitica, dentro la quale lo studio dell’esperienza ed il riferimento al reale sono stati di volta in volta depurati o distrutti. La logica ha finto di eliminare ogni finzione estranea alla specificità del suo proprio cammino. Ma con ciò si è isolata dalla

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vita - meglio, è servita a mistificare il senso della vita. Qui ora ci ritroviamo dinnanzi ad una spaventosa crisi di questo cammino. L’analitica trascendentale della vita ha fatto cilecca, è entrata in crisi, talora s’è fatta prendere da eccessi paranoici. Come porre, dentro le condizioni di questa crisi - non al di fuori, non al di là di questa crisi ma, lo ripeto, dentro questa crisi - come porre le condizioni di una riconquista dell’esperienza? E’ inutile qui ricordare come Kant abbia posto con forza questo medesimo problema, per la prima volta nel corso dello sviluppo del pensiero occidentale: quali sono le condizioni di pensabilità dell’esistente, qual’è la forma nella quale il mondo della vita può essere percepito? E’ inutile anche ricordare che in Kant erano presenti, come sempre nella grandezza degli inizi, le varie risposte che a questo interrogativo potevano essere date ma è certamente vero che la via fondamentale percorsa, in Kant e nei suoi seguaci, fu quella dell’<< analitica trascendentale >>. L’analitica si pose come schermo forte e determinante fra << estetica >> e << dialettica trascendentali >> - mentre la prima fu man mano ridotta a mostrarsi non come esperienza irriducibile ma come contenuto dell’analitica, la dialettica trascendentale venne essa stessa costretta a progettarsi sugli schemi dell’analitica. Oggi abbiamo il risultato di questo processo. Un risultato che, in una specie di parallelismo, registra l’equivalenza del processo reale: una sfera analitica della conoscenza che si è fatta sfera astratta della comunicazione e, in parallelo, un modo produttivo divenuto sempre più comunicativo e informativo, ma soprattutto autoreferenziale e tautologico. In ogni caso è indifferente il riferimento al reale: l’estetica trascendentale è negata.

Un terzo elemento è caratteristico della nostra percezione del mondo, oltre a quelli già detti, della percezione comunicativa e della consapevolezza della sussunzione produttiva. Questo terzo elemento è proprio dell’esperienza che conduciamo dentro questi livelli critici. Vale a dire che se l’indifferenza è la caratteristica della situazione, se la tautologia è la chiave di volta del sistema comunicativo, pure tutto questo non può funzionare quando emergono su questi terreni i problemi della scelta e della decisione etiche. Vale a dire che lo posso ben muovermi nella pura circolarità delle esperienze che mi sono proposte fino a quando non mi trovo dinnanzi alla necessità della scelta, vale a dire alla necessità di mettere in atto le determinazioni del mio volere. Non è, questa, la ripresa di una nota e prometeica rivendicazione dell’esistenza - stavo dicendo rivendicazione << esistenziale >> dell’esistenza! Non lo è perché qui questa contraddizione non è una rottura, non è un << atto puro >> e cioè un’incisione che riqualifica e dà senso all’indifferenza del contesto analitico questa percezione è solo un arricchimento del quadro fin qui descritto. Vale a dire che l’insensatezza del rapporto fra logica tautologica, comunicazione circolare e contesto produttivo rivela, con l’indifferenza del rapporto, la precarietà del

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rapporto stesso. Questo emergere della volontà che chiede senso per l’esistenza, non concede, né forma il senso dell’esistenza. La volontà non è creativa - si trova messa in scacco a fronte dell’indifferenza dei significati. Ma una cosa essa rivela, ed è che la componente etica, pratica, materialmente determinata, corre attraverso l’intero quadro dell’analisi e in nessun momento è possibile da questa sganciarla. La società della comunicazione è dunque percorsa da un insieme di rapporti di volontà che, se sono impliciti nella relazione che essa intrattiene con la produzione, divengono espliciti quando l’esperienza pratica individuale viene assunta entro l’analisi. Se di nuovo rileggiamo, anche a questo proposito, il vecchio Marx, di nuovo troviamo un inizio di risposta - ed è, questo inizio, legato alla definizione dell’esperienza stessa. Vale a dire che, come è largamente chiarito dalle << Glosse su Feuerbach >>, il tessuto dell’esperienza non è logico ma trasformativo. E’ quest’affermazione quella che qualifica il materialismo dell’epoca moderna, su da Machiavelli, attraverso Spinoza, fino appunto a Marx e ai grandi movimenti di trasformazione della società. Vale a dire che il disorientamento che l’universo della comunicazione, portato a questo piano di indifferenza, determina in noi, non riguarda semplicemente i momenti logici dell’esperienza né quelli produttivi, ma coinvolge la complessità della figura umana. Ed è evidente che non possa che essere così: poiché quella mancanza di misura, quella mancanza di criterio che creano il disorientamento, sono in effetti null’altro che indici della contingenza del rapporto nella sua complessità, e cioè dell’esistenza intera. La tautologia logica è mancanza di senso della vita. La mancanza di senso della vita è impossibilità di recuperare un qualsiasi criterio di scelta, di direzione, di soddisfazione etica. Il tessuto etico corre attraverso, e ricopre, l’intero mondo della comunicazione. In Marx questa percezione della sostanziale eticità dell’esperienza del mondo è continuamente presente. La caduta delle funzioni della << teoria/misura del valore >> nella fase della sussunzione reale non comporta la caduta delle caratterizzazioni di valore che l’intera esperienza umana, comunicativa come produttiva, possiede.

Siamo così al centro della definizione di questo mondo dell’esperienza. In esso si incrociano a globalità della produzione, l’insensatezza della comunicazione e l’assoluta contingenza dell’agire. E’ questo cammino una specie di crescere delle condizioni dentro le quali il nostro problema, e cioè il problema del senso dell’esperienza, viene ponendosi. La mia tesi è che non sia possibile ricostruire un’epistemologia (nel senso proprio di teoria della verità) se non fondandola sul carattere etico dell’universo dell’esperienza. Le condizioni di un’estetica trascendentale dell’esperienza, date le dimensioni del mondo della vita che conosciamo, debbono dunque essere impiantate sul tessuto etico. Non certo perché esse appaiono come elementi imprescindibili

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dell’esperienza stessa (soprattutto se essa è riguardata dal punto di vista individuale), ma perché è sul tessuto etico che la contingenza del mondo si rivela tanto più forte quanto più le sue caratteristiche reali e la sua sussunzione nella produzione si siano realizzate. Lo vedremo meglio avanzando nella ricerca, ma fin d’ora possiamo dire che la contingenza etica ha, rispetto allo sviluppo della nostra ricerca, la stessa importanza centrale che ha il dubbio logico nell’esperienza Cartesian dei primordi della rivoluzione capitalistica. Vale a dire che se l’insensatezza logica e la nullità epistemologica possono, come tali, nel mondo della comunicazione, sviluppare una funzione di mistificazione e perciò esistere, - il problema della contingenza del mondo etico, intesa in termini assoluti, e cioè come possibilità o meno dell’esistenza del mondo, bene, questo problema non può essere mistificato. Non è qui il problema religioso o moralistico dell’<< essere-per-la-morte >> che porta al centro dell’analisi: qui il problema è il fatto che la distruzione dell’essere è divenuta possibile nella misura stessa nella quale l’universo produttivo è stato sussunto nel capitale e l’universo linguistico è stato ridotto a comunicazione indifferente. Fra queste operazioni di portata storica esiste un nesso profondo, ed è a partire da esso che la contingenza generale dell’universo, questa indifferenza etica dell’universo, saltano in primo piano. La radicale contingenza dell’essere non è semplicemente possibilità di un punto catastrofico - è una tendenza, è un’essenza, è un fluire che ha la stessa estensione della costruttività umana dell’essere.

Tre elementi dunque, in questa crisi dell’epistemologia moderna, insieme cause ed effetti di questa. Tre elementi che si incrociano e che si nutrono a vicenda. Il problema sarà dunque quello di vedere quale sia il punto più debole di questa crisi e come sia possibile definire, oltre le condizioni di un’estetica trascendentale, di un’esperienza portata a questo livello di maturazione storica, la fondazione di un progetto epistemologico globale. O semplicemente se sia possibile muoversi in questa direzione.

2. Rompicapi dello spirito.Se seguissimo una di quelle vie che si raccolgono nella grande categoria

filosofica del << ritorno a Kant >>, giunti a questo punto della nostra indagine cercheremo comunque di forzare, dentro l’indifferenza nella quale si configura il mondo della vita, le sue dimensioni, i suoi orizzonti - cercheremo cioè di identificare limiti dell’indifferenza e di ricostruire le possibilità di un’analitica trascendentale. Si badi bene: il fatto di escludere una fondazione logica dell’epistemologia non toglie la possibilità di organizzare un’analitica critica della ragion pratica. Nel momento più importante dello sviluppo del neokantismo, Windelband e Rickert seguirono questa via contro la linea di

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esasperazione del formalismo della ragion pura, perseguita da Cohen e Natorp.No, qui si tratta di escludere comunque un progetto analitico, foss’anche

riguardoso della densità di caratterizzazioni etiche che il mondo della vita rivela.

D’altra parte è proprio quando si approfondisce l’orizzonte dell’estetica trascendentale, vale a dire il campo dell’esperienza, nel tentativo di produrre un orizzonte interno di mediazione e/o di costituzione - è proprio allora che il cammino dell’analitica si mostra impercorribile e che la ricerca si rivela prigioniera di una serie di rompicapi insolubili. Per rompicapo intendo un limite essenziale del linguaggio che uso, l’impossibilità di fondare il concetto che esprimo e l’imbroglio di ogni processo di verifica cui io possa sottoporre il rapporto linguaggio-concetto-realtà.

Ora, assumendo le caratteristiche del mondo della vita che abbiamo sottolineato, tentando per ipotesi di costruire un’analitica trascendentale a partire da quelle condizioni, mi trovo, davanti ad almeno tre rompicapi fondamentali. Di nuovo insisto: non si tratta semplicemente di singoli punti del ragionamento che emergono in forma contraddittoria bensì di contraddizioni irresolubili che partecipano dell’intero meccanismo concettuale che regge ogni tentativo di costruzione di un’analitica della ragione-logica logica o etica. Guardiamo questi rompicapi uno per uno.

Il primo rompicapo è quello che si può chiamare del comando o della misura. Esso può essere espresso in questi termini: quando mi trovo in un universo completamente sussunto, quando rapporti che si stendono fra soggetti-oggetti di questo universo, frazioni e produzioni, non posseggono misura possibile, allora è solo una sovradeterminazione quella che può rendere senso, e un qualche ordine, a questo universo. Ma, come abbiamo visto e come meglio vedremo andando avanti, se è vero che a mancanza di misura di questo mondo esprime la radicale contingenza di tutti gli elementi che lo compongono, se è vero che questa equivalenza dei soggetti contingenti si riferisce all’estremo apprezzamento dei limiti dell’essere, cioè alla scelta fra esistenza e non esistenza collettiva, è chiaro che la sovradeterminazione non potrà darsi in termini risolubili dentro un processo di verifica del senso logico (o etico) della proposizione, e quindi verso una determinazione di significati reali. La relazione di potere è qui dunque statica - allude e tende alla nullità.

Rivediamo il discorso da un altro punto di vista. Se l’orizzonte del mondo della vita è completamente lineare, se ogni sovradeterminazione risulterà perciò contraddittoria, può ben darsi che la relazione di potere possa essere definita in termini appunto relazionali. Vale a dire che, come fanno i matematici che

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tentano di definire la potenza naturale numerica come limite di serie equipollenti, anche il concetto di potere - cioè la misura e la discriminazione degli eventi sociali - potrebbe essere definito non come sovradeterminazione ma come limite geometrico di serie, volontà, atti formalmente equipollenti. Tale è ad esempio il meccanismo che conduce alla definizione della << Grundnorm >> nel pensiero di Hans Kelsen. Più che di sovradeterminazione si dovrebbe in questo caso allora parlare di << determinazione della determinazione >> - come di un processo cumulativo che costituisce man mano un referente decisivo. Ma anche questa ipotesi non regge il peso dell’assoluta contingenza. Certo, lo schema aperto che sta alla base di questa definizione, ci aiuta a comprendere la realtà del contesto etico nel quale ci muoviamo - ma esso non risolve il rompicapo né può rendere efficace un concetto di potere a questo livello. Così ci troviamo nell’assoluta impossibilità di definire cosa sia << l’uno >> sull’orizzonte etico e nel quadro della sussunzione. E’ evidente che questo imbroglio logico è profondo, tocca tutte le determinazioni del problema. E’ evidente che, riguardando il problema del comando dentro le prospettive della sussunzione reale, ci troviamo nell’impossibilità non solo di risolvere questo problema, ma addirittura di impostarlo.

Se il primo rompicapo riguarda il problema << dell’uno >>, ovvero il problema del potere, il secondo rompicapo cui ci troviamo confrontati riguarda il problema dell’<< altro >>, e cioè di tutto ciò che si oppone all’uno, della moltitudine che si oppone al potere. Ora, nella tradizionale teoria costituzionale, ed anche nella teoria economica, a differenza è che, come per i soggetti costituenti nella teoria politica, il concetto di moltitudine è rotto — nella rozza solidità dell’insieme che rappresenta - e i suoi materiali sono condotti a medietà. Per medietà s’intende una dimensione di valore che unifica in termini equipollenti le molte unità che costituiscono << l’ altro >> (che può essere chiamato il popolo, la classe, la forza-lavoro… ). La forzatura che viene operata per ridurre la molteplicità alla medietà, l’importanza che in questo caso assume il concetto di valore (sia esso produttivo, etico o politico) hanno indubbiamente un ruolo fondamentale nella riqualificazione dell’orizzonte del mondo della vita. Non perciò tuttavia questo metodo risulta conclusivo. Infatti anche in questo caso ci ritrova di fronte ad un imbroglio insolubile: la mediazione è qui imposta nella forma di una sorta di sottodeterminazione del valore. Ma, non diversamente da quanto avviene nella sovradeterminazione del potere, così questa sottodeterminazione del valore si scontra radicalmente con la contingenza dei soggetti. E la relazione non ha in tal modo la possibilità di riportare il senso al significato.

Come nel caso del primo rompicapo, anche in questo caso abbiamo una

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forma subordinata di approccio al problema: neppure essa conduce, tuttavia, alla soluzione del rompicapo medietà / moltitudine. In che cosa consiste questa seconda redazione del problema? Consiste nel porre il rapporto fra le singole soggettività non in termini di mediazione (di sottodeterminazione) bensì in termini di composizione (di interdeterminazione). E chiaro qual’è il vantaggio di questa posizione: essa sembra costruire il soggetto come cumulo di determinazioni specifiche, l’analisi dei soggetti e il processo del loro unificarsi son visti come un processo cumulativo di comportamenti, azioni, bisogni, tradizioni... insomma come un insieme storico di determinazioni. E’ in questo caso estremamente importante sottolineare l’utilità di questa impostazione: sulla sua base una prassi ricompositiva è spesso data e molti dei valori di una cultura democratica possono fondarsi su un apprezzamento siffatto, rispettoso delle molteplicità come singoli. Ma, ciò detto, il rompicapo resta. Medietà e moltitudine, anche in questo caso, si oppongono irriducibilmente e la costituzione pratica di una dimensione comune, di un tempo comune, quando non siano pura utopia, divengono mere illusioni.

Se ora, prima di trascorrere all’analisi del terzo rompicapo, guardiamo quanto residua dalla definizione dei primi due, sembra che alcuni risultati importanti siano stati definiti. Non solo quelli già segnalati (e cioè, sia attraverso il primo che il secondo rompicapo, l’approfondimento della figura lineare dell’orizzonte del mondo della vita) ma soprattutto la critica di ogni caratteristica strutturalistica nella concezione del valore. Intendo dire che la teoria del valore, la si assuma in maniera oggettivistica, oppure in maniera soggettivistica, la si prenda dentro la prospettiva del comando oppure la si ricostruisca in termini di composizione - comunque rappresenta una struttura rigida che impedisce un processo di pensiero che rompe con l’analitica trascendentale. Per dirla altrimenti: la teoria del valore, nelle sue diverse dimensioni e nelle sue differenti applicazioni, è la forma più alla nella quale si presenti l’analitica trascendentale. Ed è appunto da questo punto di vista, e dentro l’apprezzamento di questi rompicapi, che noi cogliamo l’inadeguatezza di tutti i concetti che comunque alle teorie del valore si riferiscono (e, fra questi, quello di dittatura e di democrazia, quello di sviluppo e di crisi) - inadeguatezza di tutti questi concetti ad esprimere la radicale contingenza dell’essere.

Il terzo rompicapo sta nel coniugare il rompicapo primo (o del comando) con il rompicapo secondo (o vero della costituzione). Questo rompicapo può dirsi [dirci] rompicapo della rivoluzione. Rivoluzione è la contraddizione che si apre fra costituzione del comando e libertà della moltitudine. La soluzione di questo rompicapo si è voluta spesso costruire sulla base dell’apprezzamento del dinamismo particolare della rivoluzione. La rivoluzione, infatti, da un lato

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distrugge e comunque destruttura, dall’altro ricostruisce e comunque struttura: si è cercato allora un soggetto dinamico di questo processo, un partito, un’avanguardia, un principe, una classe rivoluzionaria... comunque un soggetto, al quale riferire la continuità dei passaggi del processo, quasi questi ultimi rappresentassero delle espressioni del suo spirito. E’ chiaro che questa definizione è completamente ipostatica. Se il primo paradosso e il secondo sono insolubili, tanto più lo è la coniugazione dei due. In questo caso, poi, troppo spesso la crisi dei paradigmi ideali si è mostrata come tragedia storica. (Si tenga presente che anche in questo caso esiste un approccio subordinato alla soluzione del rompicapo - approccio che distende sull’orizzonte del mondo della vita, in termini storici ed empirici, la descrizione dei processi eversivi. Questa seconda figura, o forma attenuata della teoria della rivoluzione. mostra il processo come << dualismo dei poteri >> e cerca di definire la crescita di un soggetto come prodotto di una regola puramente antagonista. E’ evidente che, anche in questo caso, ci si trova di fronte ad una soluzione che è del tutto inadeguata: in effetti, da questo punto di vista, dentro la rigidità della relazione, non è tanto l’antagonismo che regola la crescita del potere rivoluzionario bensì quest’ultima è comandata da una sorta di ricalco e di riflesso negativo del potere avverso. Il potere rivoluzionario in questo caso finisce per essere complementare, negativamente complementare, rispetto al potere sovrano, e la libertà del suo sviluppo è solo apparente).

Ora, a me sembra che ogniqualvolta, a partire dall’esperienza, si tenta di risalire e di definire delle categorie analitiche che strutturino l’andar oltre il livello empirico ed i significati immediati del mondo della vita, - bene, in ognuno di questi casi, si resta prigionieri nella rete dei rompicapi. Questo non significa che il livello dell’esperienza non debba essere superato, questo non significa che i grandi fenomeni della comunità umana, della sua organizzazione, della sua rivoluzione, non debbano essere presi in conto anche secondo le leggi generali che a questi universi presiedono. Quello che i rompicapi ci rivelano, non conduce all’inesistenza dei fenomeni, mostra bensì l’impossibilità di una loro spiegazione dal punto di vista della ragion pura. E non solo di astratta e impotente spiegazione si tratta: quando ci si muove sulla base dell’egemonia e dell’esclusività del Logos, si perviene piuttosto ad una serie di perversioni pratiche - ad una coniugazione e moltiplicazione, cioè, dello sgorbio teorico con la crudeltà etica. In questa forma, il primo dei rompicapi è il problema del giacobinismo, il secondo dei rompicapi è la mistificazione del riformismo, il terzo rompicapo rappresenta il paradosso del cinismo politico, ovvero del machiavellismo.

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3. Terrore e contingenza.Per contingenza intendo il fatto che l’essere possa essere e/o possa non essere

- effettivamente. Ovvero l’essere nella sua totalità. Il pensiero classico, nel considerare la contingenza, non l’ha mai strappata al particolare. Le due coppie, universale e particolare, necessario e contingente, stabilivano fra loro un rapporto univoco. Il necessario con l’universale, il contingente con il particolare. Qui noi viviamo in una situazione nella quale per a prima volta l’essere intero può essere distrutto. L’universalità dell’essere può praticamente essere messa in dubbio. L’essere può essere distrutto.

Se ora, a partire da questa prima immediata constatazione, ritorniamo a quanto detto nei primi approcci di questo lavoro, possiamo cominciare a meglio comprendere la specificità della condizione metafisica nella quale siamo inseriti. Vale a dire che il massimo grado di astrazione dell’essere che abbiamo registrato, e la sua indeterminatezza, si colorano qui di una determinazione pratica che ne sconvolge interamente la definizione. Dal quadro generale, astratto, indeterminato, indifferente, non può uscire una determinazione logica: esce solo una determinazione etica. Perché quel quadro è appunto contingente, e la contingenza è in questo caso vera e propria precarietà dell’essere, condizione di negatività che in generale ed individualmente subiamo. Un tempo si diceva che l’essere che la sua compiutezza che la sua fatticità non potevano essere disfatte. L’essere insomma era il fondo stabile della nostra esistenza e tutto all’essere poteva ritornare, così come dall’essere si era staccato. Ma ora l’essere può essere disfatto. Questo disfacimento non è una legge fisica ma una possibilità storica, - può essere la conseguenza di un atto. L’essere può essere distrutto da un soggetto: non questa o quella porzione dell’essere, ma l’essere intero, il mondo, il mondo della vita. Viviamo l’indifferenza e la massima astrazione dell’essere, ma improvvisamente, come nella luce di un lampo, intendiamo che quest’enormità dell’essere nel quale il nostro spirito si confonde, può essere volontariamente distrutto. L’essere rivela dunque una natura etica: esso, per esistere, è sottoposto alla volontà, alla soggettività, all’etica.

Con ciò siamo davanti ad un’inversione epocale del senso umano della vita. E chiaro che, se ci poniamo il problema di una analitica del conoscere e della sua crisi, non possiamo più porcelo nei termini di una epistemologia tradizionale. Poiché infatti l’oggetto stesso del nostro rapporto conoscitivo può scomparire e comunque è sottoposto ad una congiuntura radicale che ne impedisce un apprezzamento statico. Ogni apprensione del reale non può dunque, in questo momento, che porsi su quel punto dove la volontà e la conoscenza pratica percepiscono la possibilità dell’essere di essere e di non

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essere, di essere disfatto, ma anche e soprattutto di poter essere ricostruito. Ma di questo più avanti.

Torniamo al filo del nostro discorso. Abbiamo inizialmente osservato la generale indifferenza del quadro ontologico nel quale siamo inseriti. Abbiamo poi identificato alcuni grossi rompicapi, che impediscono ogni nostra logica, in termini tradizionali, da quell’indifferenza. Il problema della determinazione, il problema scelta, il destino del conoscere filosofico, sono in dubbio dentro quella situazione. Ora, noi avvertiamo che la massima astrazione dell’essere è la sua totale, radicale, definitiva, resa alla contingenza: con ciò noi comprendiamo l’essere come essere etico. Ma quando raggiungiamo questa coscienza, noi la raggiungiamo dentro le articolazioni dei rompicapi analizzati. Se infatti logicamente le alternative dell’uno e dei molti, della medietà e della moltitudine, della potenza e del potere, non riescono ad essere logicamente superate, pure esse per prime alludono ad un contesto etico nel quale ogni processo fenomenologico si conclude: sicché la scoperta della contingenza radicale è il coronamento di quelle prime annotazioni e il complemento formale del loro presentarsi al nostro spirito.

Ma la scoperta della contingenza non è semplicemente una nuova chiave per riuscire ad affermare che il processo conoscitivo deve muoversi, direttamente dentro il piano dell’esistenza, non è solo a capacità di affermare in maniera indistinguibile il rapporto fra mondo della scienza e mondo etico, e quindi di ridefinire l’ontologia come ontologia dell’etico: tutto questo non basta, perché il rapporto tra indifferenza del mondo, sua qualità etica e radicalità della contingenza ci pone in una situazione assolutamente tragica e deve quindi riqualificare in tal senso il nostro metodo.

Intendo dire che, attraverso a scoperta della contingenza noi poniamo in termini radicali il problema del fondamento: ma di nuovo in maniera completamente irriducibile alla tradizione, perché qui il fondamento non è il punto a partire dal quale il mondo si spiega - al contrario, questo fondamento è il punto a partire dal quale si dà il massimo allargarsi della dimensione della possibilità. Una possibilità tragica, un’eventualità che la nostra ragione e il nostro cuore non riescono talora a sopportare, - la distruzione, appunto dell’essere, una morte tanto generalizzata da non possedere ripetizione, - la fine, insomma, del tempo. Il fondamento non è quindi il più semplice degli elementi nei quali possiamo scomporre il linguaggio etico e logico, quasi il seme da cui sorgono gli alberi della vita: no, il fondamento è qui una cellula che può scindersi nella vita e nella morte, l’elemento semplicissimo dell’affermazione, della negazione, dell’essere e del non essere. Qui la dialettica non è evidente, anzi, non ha davvero nulla a che fare con il reale. In effetti qui esiste una regola

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esclusiva: o c’è l’essere o c’è il non essere. Tutta la logica tradizionale e tutta la metafisica classica, entrambe basate sulla partecipazione e su una qualche commistione dell’essere e del non essere, qui vengono meno. La dimensione metafisica ci si presenta come dimensione antagonista, la crisi è l’assoluto. Eccoci dunque a spiegare di nuovo come i rompicapi non siano altro che delle superficiali modalità rispetto alla profonda essenza di un essere per la prima volta portato alla potenza del non esistere. Nella fenomenologia del mondo contemporaneo questa situazione metafisica ci è presentata come terrore. La contingenza è il terrore. Vale a dire che la sovradeterminazione come linea di soluzione del rompicapi, come analitica della ragione che si oppone alla radicalità delle determinazioni empiriche, si presenta come terrore. La soluzione trascendentale o formalistica dei rompicapi dell’esperienza e della contingenza dell’essere è terroristica.

Non è la prima volta nella storia del pensiero occidentale che una situazione di crisi, dinnanzi all’immediatezza dei contrasti dialettici ed all’impossibilità di raggiungere altrimenti una sintesi, cerca una soluzione sovradeterminata dal terrore. Le pagine del << Leviatano >> costituiscono un punto di riferimento costante dell’esperienza metafisica. E quanto più la situazione diventa indifferente, tanto più il mondo delle immagini che regolano l’esistenza degli uomini è sottoposto a reazioni d’ordine, ad operazioni di semplificazione esemplare e terroristica: il capro espiatorio, la sostituzione del reale con l’immagine, la necessità metafisica del potere, queste favole vengono raccontate da sempre e da sempre funzionano come terroristica medicina alle malattie dell’umanità. Ma ora noi ci troviamo di fronte ad una determinazione del terrore che non tocca il mondo delle immagini, ma investe quello reale. Non è un capro espiatorio attraverso il quale, pur rudemente, l’essere possa essere risanato - non è questo che ci viene preparato, non è la vecchia morale, la potenza del bene e quella del male che accrescono o diminuiscono l’essere e che talora debbono essere esemplificate << in corpore vili >> - non è qui in gioco una concezione anche terroristica della pena come restaurazione dell’essere in riparazione di una colpa che l’essere aveva offeso: niente di tutto questo, - qui il terrore tocca la radice stessa dell’essere. Il terrore è tanto assoluto quanto è assoluta la contingenza dell’essere. Il terrore non tocca il regno delle immagini, dell’analitica, ma quello del reale, dei significati. Vige nel regno dell’estetica trascendentale.

Come sono poveri tutti i tentativi di rinnovare i fasti idealistici dell’analitica trascendentale in questa situazione! Si pensi al contrario a quel passaggio, già da noi ricordato, a quel passaggio centrale nella storia del pensiero contemporaneo, che è registrato nel << Primo abozzò di programma sistematico

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dell’idealismo tedesco >> il senso della crisi era inteso nella sua radicalità e si voleva, a fronte della crisi dell’individuo e dei lumi, identificare il passaggio che dall’estetica trascendentale potesse direttamente condurre ad una dialettica dell’illusione vera. Ebbene, quel passaggio per quanto sproporzionato nelle dimensioni nelle quali oggi la radicale contingenza dell’essere si presenta, pure è anche oggi metodologicamente adeguato. Ed invece eccoci di fronte alla ormai secolare storia dell’analitica plasmata in dialettica, eccoci alla ripetizione di analitici stereotipi neokantiani su questo frangente, alle chiacchiere fra Hegel e Heidegger, eccoci insomma di nuovo davanti alla apologia impotente della Krisis!

La determinazione esistenziale che segue la scoperta della radicale contingenza dell’essere ci si presenta ora con due caratteristiche. La prima riguarda la posizione che l’analisi filosofica assume nell’affrontare il tema dell’essere, la seconda riguarda la natura dell’essere. Ma sia la prima che la seconda di queste caratteristiche sono legate, in maniera inscindibile, nell’estetica trascendentale che qui viene definendosi. Vale a dire che non sarebbe possibile concepire il restringersi della ragione al campo dell’estetica trascendentale Se, contemporaneamente, la ragione non fosse enormemente potenziata dall’apprezzamento concreto della nuova potenza metafisica, che è appunto, insieme tragica ed etica. L’alternativa che l’essere presenta, nella sua assolutezza, nella sua esclusività, implica la definizione pratica della ragione. Questo senso della radicale contingenza dell’essere ci pone in una situazione Cartesian, - non astratta tuttavia bensì eticamente motivata. Come è difficile esprimere tutto questo nel vecchio linguaggio della filosofia: com’è difficile dire dell’eticità dell’essere e di questa metafisica precarietà che tocca il livello dell’estetica trascendentale in quanto tale! La metafisica si è sempre organizzata in un sistema di livelli per cui il superiore illuminava l’inferiore, o in un sistema di incastri, quasi un grande gioco di bambole russe, dove l’oggetto più grande conteneva il più piccolo e, per così dire, lo spiegava. Qui il linguaggio antico e specialistico della filosofia fa difetto, ed aveva ragione Foucault quando, rinnovando il metodo nietzschiano della << Genealogia della morale >>, rinnova anche le regole sintattiche del linguaggio della filosofia morale. Io vorrei qui tentare una simile via per quanto riguarda il linguaggio della metafisica.

Ora, siamo in una situazione Cartesian, ma non individuale, come si è detto, bensì collettiva e astratta, eticamente rilevante, - con ogni probabilità qualificata in termini antagonisti. Deve essere chiaro che qui noi dobbiamo risalire, trattenendoli dentro il livello dell’estetica trascendentale, a quei soggetti della descrizione fenomenologica che abbiamo inizialmente colto. L’alternativa

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dell’essere riguarda così l’intero campo sul quale l’astrazione delle potenze conoscitive e produttive diviene indifferenza, riguarda tutte le trafile che percorrono e qualificano queste dimensioni. Nel prossimo paragrafo cercheremo di vedere come il paradosso della contingenza dell’essere possa riproporre un cammino positivo per la ricerca: qui ci basti insistere sempre di nuovo sulla forza di comprensione e sulla capacità di riassumere in sé la totalità, che ha l’alternativa tragica dell’essere. Questo nuovo territorio ontologico ed etico riguarda perciò l’epistemologia nella sua totalità. E’ evidente che tutti problemi andranno riportati alle dimensioni di questa drammatica dualità delle potenze dell’essere. La contingenza è totalità anche e soprattutto sul piano dell’epistemologia.

4. L’antagonismo come << principium individuationis >>.Se dunque la definizione dell’essere come assoluta contingenza ci ha

permesso di cogliere le condizioni per così dire negative di un’estetica trascendentale, ora probabilmente l’approfondimento del discorso potrà permetterci di toccare alcune condizioni positive di questo medesimo problema. Abbiamo già sottolineato come per contingenza assoluta s’intenda la possibilità della distruzione radicale dell’essere, - e come l’antico principio << Factum infectum fieri nequit >> venga in tal modo messo in crisi. Ma nell’approfondire la potenza negativa di questa percezione, non possiamo né dobbiamo dimenticare l’altro aspetto inerente a questa strutturale determinazione: vale a dire che, se la contingenza assoluta mostra l’estrema possibilità di distruzione, di perciò stesso essa indica una radicale possibilità di costruzione. E’ come se fossimo messi dinnanzi ai materiali semplici che compongono l’essere, in una situazione limite di possibilità costruttiva. Nella filosofia, più volte questi principi di costruttività sono stati proposti: e forse la forma eminente nella quale il principio si è espresso, è quel << Verum ipsum Factum >> che dobbiamo a Gianbattista Vico. Risparmio qui, a me e al lettore la farraginosa ermeneutica delle fonti e delle interpretazioni: se il principio sia idealistico o materialistico, se assoluto o relativo, se spiritualistico e creativo o semplicemente filologico e costitutivo, ecc. ecc.. Certo, il principio riguarda il mondo delle immagini, interpreta il reale e non lo fonda radicalmente. Qui invece, quando ci troviamo di fronte al principio della contingenza assoluta, viviamo un paradosso che investe interamente lo spazio, meglio la separazione, estesi fra negatività e positività assolute. Non so come meglio spiegare questo paradosso, questa tensione estrema del concetto, questa condizione anche emotiva - che ci coglie quando tentiamo di metterci in situazione! Perché infatti non è semplicemente il << Verum ipsum factum >> quello che qui affermiamo - qui affermiamo qualcosa di molto più profondo: << Ens ipsum factum >>. La storia umana,

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pervenuta all’orlo della distruzione dell’essere, rivela a se stessa, e a tutti i soggetti umani che vivono la storia, che questa, e il mondo e la natura stessa, sono una loro continua produzione. Non ci sarebbe mondo senza questa produzione. Quest’affermazione che è sempre stata fatta passare per idealismo assoluto, - oggi, la consapevolezza della possibilità materiale di distruggere il mondo, ci rende come affermazione di un assoluto materialismo.

Lo abbiamo già accennato, ma ora, continuando nella ricerca, vale la pena di sottolinearlo più ampiamente. Dentro questa radicalità fondativa della contingenza assoluta noi non verifichiamo un punto catastrofico bensì una tendenza ontologica. Se pensiamo il punto catastrofico, se pensiamo il terrore, è solo perché questi poteri costituiscono delle spie su un profondo corso dell’essere, e cioè sul rapporto fra serie delle azioni umane e loro cumularsi complessivo. Il mondo è questo cumulo, è questa complessità. La materialità che costituisce il passato del mondo viene così mano a mano riassunta nella tendenza della storia. La natura diviene (sempre più) storia. Anche in questo caso è l’attuale possibilità della sua distruzione che ce lo rivela, poiché la distruzione mostra la natura, il mondo naturale, come contingenza e quindi come qualcosa che nella misura stessa in cui può essere distrutta, può essere conservata - ma conservare significa qui ormai produrre, riprodurre, sviluppare... La natura diviene una protesi dell’uomo. Sempre di più, non è dell’uomo la condizione ma ne è piuttosto la conclusione. E questo vale non semplicemente per la natura, ma per la totalità fenomenologica, per quella enorme quantità di beni, di infrastrutture, di condizioni materiali che la storia umana ha costruito e che ora, su questo passaggio epocale (nel quale tutto è sussunto nel capitale e tutto può dunque essere distrutto), è insieme condizione di distruzione o determinazione rinnovata da una potenza d’innovazione. Alla radicale contingenza dell’essere corrisponde così, proprio sul paradosso della mancanza di fondamento, una dinamica continua, tendenziale, totalizzante, - il problema dell’essere vi è implicato e con esso, necessariamente, quello della storia e quello dell’ecologia, quello storico e quello scientifico.

E’ chiaro che questa apertura di prospettive e di sublimi orizzonti in qualche modo potrebbe qui lacerare il drammatico ed estremo paradosso della contingenza assoluta, - è chiaro inoltre che questa serie di intuizioni del tutto metafisiche, se da un punto di vista iniziale sono linearmente distese, potrebbe appiattire l’indagine svigorendo l’evidenza del continuo rinnovarsi del problema - al contrario, tutto ciò annulla la percezione fondamentale della contingenza se la natura di questa viene coerentemente e continuamente definita come antagonistica. Voglio dire che quell’elemento di rottura, di contrasto, di antagonismo, che risulta definire la medesima percezione fondamentale

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dell’essere - come rapporto tra positivo e negativo, tra essere e non essere - che tutto ciò permane, si prolunga, si ripresenta su ogni punto dello sviluppo della tendenza. Questa determinazione antagonista è qualcosa che partecipa di ogni azione umana, nella misura in cui ogni azione umana contiene una particolare densità, costruttiva o distruttiva dell’essere. Ed è proprio dentro il continuo ridimensionamento del positivo e del negativo, dentro l’infinita serie di rapporti che in questo modo si determinano, è dunque in questo modo che l’individualità, la singolarità umane vengono definendosi. Nella filosofia seicentesca, quando l’atomismo propone per la prima volta l’alternativa tra distruzione e creazione dentro la prospettiva del meccanicismo, quest’idea dell’individuazione antagonista prende corpo. Oggi, quando il principio del rapporto fra distruzione e costruzione è strappato all’intelligenza aurorale dell’atomismo e condotto alla sperimentazione etica, sembra dunque che quel criterio di individualismo possa essere ripreso. Ma di ciò più avanti.

Qui, prima di ritornare sul criterio di individuazione, val la pena di sottolineare come le forti intuizioni che il pensiero moderno alle sue origini aveva sviluppato, sul terreno dell’estetica trascendentale, in vista della definizione della singolarità, siano state ampiamente negate nello sviluppo successivo del pensiero filosofico. L’analitica trascendentale è la forma, come abbiamo visto, nella quale questa negazione si costruisce e si sviluppa. Ma non è la sola forma: assistiamo infatti, con frequenza, ad una negazione che non è, per così dire, l’assolutizzazione di un momento del processo conoscitivo - e con ciò la sua alienazione analitica della totalità, - è bensì una specie di storicistica o teleologica forma di sottrazione del conoscere, dell’uso conoscitivo dell’essere. Vale a dire che il pensiero moderno, tutto teso alla ricerca e alla giustificazione delle forme tecniche della riproduzione umana, ha rifiutato di cogliere nell’antagonismo - nell’assolutizzarsi di questo - la chiave di volta dello sviluppo, e contemporaneamente della determinazione dell’identità umana. Una teodicea della scienza e della tecnica è così venuta sostituendosi all’analisi dell’essere. I problemi del valore sono stati di volta in volta sottratti alla centralità che pretendevano sul terreno dell’essere, e portati davanti a tribunali di grado inferiore. Di fatto l’essere viene in tal modo depotenziato, ed è un processo di depotenziamento, di subtribunalizzazione continua, quello cui assistiamo. Anziché mantenere la tragedia dell’essere come elemento che ne qualifica la presenza - e ciò era già stato ampiamente mostrato alle origini del pensiero moderno - invece dunque di mantenere questa potentissima presenza, la si fugge. Il pensiero contemporaneo quando coglie la crisi, non la coglie come elemento di costruzione ma come incentivo alla fuga. Trasforma la crisi in nihilismo, trasforma la morale della crisi in irresponsabilità ontologica. La dimensione globale, metafisica, profonda nella quale si presenta il rapporto fra

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essere e non essere deve essere sfumata, sfuggita. Ci si dedica alla scienza ed alla tecnica - ma non sono appunto queste ultime che ci riconducono ineluttabilmente su quell’orlo della distruzione dell’essere? Che significato ha più, a questo punto, parlare di laicizzazione, o riguardare con una punta di scetticismo, o con elegante e colta ironia, la possibilità della distruzione? Il tragico percorre la nostra vita, ma è solo in quanto lo riconosciamo, lo assumiamo, facciamo di esso la disutopia positiva della nostra conoscenza - è solo in questo modo che riusciamo a garantire la libertà dalla distruzione e la sopravvivenza dello spirito. E’ completamente idiota la rivendicazione della laicità, contro la religione, se quella rivendicazione nasconde che la nostra determinazione nasce sul ritmo della distruzione, è insomma una condizione tragica per eccellenza. Alla religione non si oppone il laicismo ma si può solo opporre un’altra religione - quella del materialismo, quella di chi sa che vivere o morire è problema suo.

Eccoci dunque in una situazione nella quale qualsiasi tipo di fuga dai problemi dell’essere ci diviene impossibile. La volontà amaramente si confronta con se stessa nell’ambito di questa contingenza - e anche la ragione guarda all’opposizione che la costituisce, con fredda ma non meno timorosa attenzione. Ciò detto, v’è di contro e contemporaneamente quell’aspetto dell’essere nel quale risiede la possibilità di ricostruzione, di una ricostruzione radicale e profonda, - v’è dunque quest’aspetto dell’essere cui tentare di adeguare il cammino metafisico. Questo tentativo di adeguamento deve essere operoso - lo dico con qualche distacco, per distinguere le condizioni nelle quali oggi un discorso sulla speranza è possibile, dall’emergenza che questo tema ebbe nell’ambito della filosofia contemporanea fra le due guerre. Voglio dire che << Das Prinzip Hoffnung >>, il principio della speranza, non può qui essere concepito, come invece lo fu da Bloch e da Benjamin, come blitz irrazionale che si sottraeva alla crisi, all’esaurimento delle condizioni della rivoluzione - qui la speranza nasce dopo Auschwitz e Hiroshima, qui nessuno fugge più nulla. Qui speranza, dunque, è la stessa cosa dell’operare, e un senso della mancanza di fondamento talmente profondo (e che ci teniamo sulle spalle), è la sorpresa del vivere quotidiano - la nostra speranza non ci fa attendere nulla se non il miracolo della nostra quotidiana riproduzione. Ma tutto questo è una forza enorme, tutto questo contiene il principio etico dell’estetica trascendentale. Dagli anni `30 a noi è cambiato solo questo - ed è enorme e cioè che l’approfondimento del concetto di crisi è pervenuto all’essere, ha strappato i veli letterari e filosofici che lo mostravano come risultato intellettuale dell’analitica, per diventare una cosa. Una cosa reale, che si tocca, un incubo che si vive, un terrore che si subisce. E’ questa materialità della crisi e dell’essere nella crisi che la speranza interpreta. La chiamiamo speranza perché

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non sappiamo come altrimenti chiamarla; e qualcuno potrebbe ironizzare, e dire la desuetudine di questo termine, senza tuttavia per questo scandalizzarci. Prendiamola dunque questa parola come un neologismo per identificare quel rapporto operoso che si stende tra la condizione negativa e catastrofica e quella positiva e creativa dell’essere.

Solo su questo terreno, dentro cioè l’antagonismo oggettivo che l’estetica trascendentale rivela, dentro il presentarsi con polarità contrarie dell’essere, dentro l’eticità del nesso che tutto questo collega ma che nello stesso tempo tende in maniera insopportabile - qui il processo di individuazione si dà. Sarebbe bello - altrove lo faremo - riportare a questo proposito la nostra memoria al << Libro di Giobbe >>, dove appunto il problema metafisico dell antagonismo, della colpa e della retribuzione materiale, pervengono poeticamente ad una fantastica quanto materialmente determinata definizione dell’individuo. Ora, è appunto questo il terreno sul quale, rompendo con l’indifferenza dell’orizzonte postmoderno, del capitale sussunto, della comunicazione onnicomprensiva ed equivalente, la soggettività si pone. Credo che il processo logico attraverso il quale la determinazione complessiva si realizza, sia qui ormai chiaro. Ma non si tratta, in primo luogo, di rompere o di interrompere il meccanismo circolare che costituisce il tessuto fenomenologico del mondo. Si tratta invece di considerarne la condizione metafisica, e cioè quella destinazione alla distruzione che esso ha in se stesso. In secondo luogo, questa contingenza rivelata, si mostra come paradosso: quindi essa si apre ad un’alternativa completamente etica, l’alternativa dell’essere e del non essere. Questa alternativa qualifica in termini tendenziali l’intero universo dell’esistente. Noi la percepiamo ed è collocandoci nell’intreccio delle pulsioni negative e positive che da questa tendenza sono prodotte, che determiniamo la nostra individualità. L’orizzonte analitico negava ogni individualità, meglio, confondeva la singolarità in una circuitazione continua ed equipollente. Quest’orizzonte era insuperabile, era un labirinto logico, una Babilonia linguistica ed una sodoma morale. E’ solo il senso della distruzione, di questo mondo logicamente ed analiticamente corrotto ma anche, con esso, dell’essere stesso, è dunque solo questa distruzione che ci rimette davanti all’essere. Un essere fondamentale perché lo si può distruggere o ricostruire, un fondamento che è contingenza assoluta. E la singolarità viene determinata dalla tensione che a contingenza comprende in definizione. L’estetica trascendentale viene così positivamente determinandosi.

5. Per un’estetica trascendentale del corpo. Zenone a Socrate: << Il volgo infatti ignora che al di fuori di questa strada

che passa per ogni dove, di questo trascorrere di cosa in cosa, è impossibile fare

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in modo che la nostra mente incontri la verità >>. (Parmenide 136e).Quando si pone, contro l’analitica, il problema dell’estetica trascendentale, e

lo si pone in termini propri, è bene subito aggiungere che la ricerca non potrà che passare << per ogni dove >> e cioè esercitarsi attraverso approssimazioni successive, sciogliendo per così dire le categorie analitiche dentro l’esperienza, innalzando i contenuti dell’esperienza a trasparenza concettuale. Questo processo di ricerca è un vero e proprio processo costitutivo. Abbiamo visto le condizioni generali, metafisiche che stanno alla base di questo nostro avanzare: qui dobbiamo vedere come giudizi analitici vengono costituendosi, in maniera necessaria, a posteriori. La costituzione del giudizio analitico a posteriori è quindi, in questo paragrafo, il nostro fondamentale problema.

Deve essere chiaro - e questo lo diciamo prima di entrare nel merito dell’argomentazione - che quando si parla di giudizio analitico a posteriori, e cioè di giudizi dotati di un contenuto empirico che in quanto tale garantisce, mostra, produce, la verità del giudizio stesso - quando dunque si parla di giudizio analitico a posteriori, non solo si assume con la massima forza un’estraneità logica dai giudizi a priori o a posteriori in generale, ma soprattutto si prende distanza dalla teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori. Nel rovesciamento dei termini (poiché sintetico può stare per a posteriori ed analitico per a priori) uno spirito sofistico potrebbe infatti facilmente arzigogolare di simiglianza di approccio ed analogie di contenuto. Non è così: nella gnoseologia kantiana l’elemento assolutamente preminente è quello a priori in quanto esso rappresenta un attività formativa e la sintesi empirica è completamente subordinata all’orizzonte trascendentale, - vale a dire a quell’orizzonte sul quale si condensa ogni attività produttiva della ragione. Quali che fossero le ambiguità kantiane a questo proposito, nessuno può negare la profonda coerenza dell’interpretazione idealistica del fondamento trascendentale. Nella nostra terminologia, e al fondo del nostro progetto, << analitico a posteriori >> rovescia radicalmente l’impostazione kantiana. Significa infatti che l’elemento necessario della conoscenza, il momento formativo del processo e della tendenza conoscitivi, risiedono nell’esperienza empirica. Tutto ciò può avvenire (e in questo può essere verificato il superamento delle aporie tradizionali dell’empirismo), perché la nostra empiria, il mondo nel quale noi recuperiamo verità è quello disegnato, in termini di comunicazione, dai grandi flussi di significati che costituiscono ogni orizzonte sensato. Strano paradosso questo: nella grande corrente dello scetticismo linguistico moderno, formatasi tra Frege, Russell e Wittgenstein, la distinzione tra l’orizzonte del senso e quello del significato era intera ed insuperabile; di fronte alla precarietà ed alla contingenza dell’orizzonte del senso, sfumava

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dentro una lontananza irraggiungibile l’universo materiale dei significati; ma ecco il rovesciamento: poiché nella misura stessa in cui il mondo del senso linguistico e comunicativo diveniva esclusivo, su quel mondo si scaricava l’essenzialità fondamentale del vivere. Così la grande svolta linguistica della filosofia contemporanea indefinitiva non solo non produce scetticismo ma al contrario ci restituisce un’ontologia dei significati, un mondo sí circolare e fluente ma dentro il quale, a posteriori. La necessità della determinazione si articola all’emergere della verità. Ecco dunque in che senso per noi, qui, il giudizio analitico a posteriori può darsi.

Direi che un ulteriore paradosso è qui verificabile ed utilizzabile in nostro favore. Vale a dire, riprendendo la terminologia kantiana: l’analitica trascendentale aveva, in Kant e nell’idealismo per così dire divorato, a valle, l’estetica e, a monte, la dialettica trascendentale. Ed aveva, di quest’ultima, fatto un feticcio scettico, un regno di illusioni, false ma non per questo meno efficiente. Ora, la riconquista dell’estetica, la denuncia dei processi di significazione che l’analitica dovrebbe produrre, l’emergere della determinazione vera sul piano dell’effettualità comunicativa: tutto questo ci restituisce una dimensione della dialettica trascendentale non più soggiogata nel regno delle illusion, false bensì intesa come tessuto di continuità conoscitiva e proiezione di immaginazione vera. E’ nel dislocamento di questi livelli, nell’articolazione tra queste funzioni parziali, che mano a mano viene costituendosi << l’analitico a posteriori >>.

Ma che cos’è dunque (oltre la pregnanza gnoseologica della dizione: analitico a posteriori) il contenuto conoscitivo che è, attraverso questo giudizio, innalzato a verità? Ora, iniziamo in termini polemica. La verità della determinazione non può essere colta in termini intuizionistici né comunque condizionata dalla pretesa psicologica di apprensione di un reale che, in quanto tale, indipendentemente si dia. Noi viviamo un mondo attraversato da mille sensi, siamo collocati dentro una rete di relazioni che sole rendono questo mondo significativo. Ciò che è fondamentale, non è dunque indurre, al di là di questa rete, dei sostrati stabili quanto irraggiungibili - importante è fissare la materialità, la irresolubilità di queste relazioni. Che la definizione dell’oggetto non, possa passare se non attraverso la categoria della totalità e cioè la conoscenza sia della relazione oggettiva che di quella soggettiva che s’addensano sull’oggetto: è una verità ormai solidamente piantata nel tessuto scientifico del materialismo moderno. Eppure spesso il criterio della relazione, se non il suo contenuto specifico, era convalidato da un elemento esterno alla relazione. Tipica è, a questo proposito, la posizione di Marx: per lui i rapporti costituenti soggetti, gli antagonismi, processi di produzione e le articolazioni di

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questa, sono garantiti dalla teoria del valore, - ed è da lui solo lontanamente prevista una fase (la sussunzione reale della società nel capitale) nella quale i rapporti di produzione e i valori reali non si distinguono né si duplicano in funzione astratta. Dobbiamo attendere la più vicina modernità, ed in particolare gli autori della << svolta linguistica >>, per ritrovare la garanzia del criterio dentro le relazioni che formano l’oggetto. Quest’operazione è pagata da talora consistenti concession al formalismo - questo, almeno, in Frege e in Russell - molto meno è vero però già nell’ultimo Wittgenstein dove l’orizzonte linguistico esalta una certa ombrosa ontologia. Non basta: dobbiamo liberarci di ogni minimo residuo dialettico, formalistico o tautologico che esso sia. E’ questo il programma positivo che presiede alla definizione dell’analitico a posteriori. Ora, quando noi assumiamo l’oggetto, non possiamo perciò che verificarne fin da subito, con l’insistenza della relazione che lo definisce, la potenza e la direzione, il vettore insomma sul quale esso si orienta tra le relazioni che lo costituiscono. Vale a dire che le condizioni conoscitive non vengono logicamente poste - le condizioni conoscitive sono condizioni di esistenza: solo l’ << a posteriori >> libera l’analitico dalla tautologia, dall’isolamento nella sfera del puro senso logico, dall’incapacità di farsi corpo. In effetti la relazione dev’essere per così dire scissa, interrotta, geometricamente trasformata in una serie di funzioni diversamente disegnate, che sempre tuttavia si ricondensano sull’oggetto. Tutto questo non è logico nel senso che esaurisce la proposizione in un mondo autosufficiente capace di una propria circolare riproduzione. No, qui il termine logico va, alla maniera classica, riportato alla capacità di piegarsi, di modularsi, dentro il concreto. L’analitico sorge dunque qui, da questo non poter essere diverso dal reale che è descritto dalle relazioni, da questa immanenza assoluta dell’approccio filosofico. L’analitico dunque può e deve trovare il suo rapporto con la contingenza. Il problema logico di un’estetica trascendentale di tipo nuovo muove, come abbiamo visto, dalla rideterminazione dell’essere come contingenza. La contingenza è l’essere così come ci è presentato, nella sua mobilità, nella sua versatilità, ed insieme è l’affermazione che l’essere non può essere diverso. Vi è una verifica analitica della contingenza ed è la necessità che l’essere sia contingente. Con ciò noi parliamo dell’assoluta necessità che la dimostrazione scenda sempre a scontrarsi con il reale e a nutrirsi di esso e ad esasperare il rapporto in esso. Le condizioni di un’estetica trascendentale sono in questo processo. Se ci chiediamo di nuovo se esse siano sufficienti, in quanto condizioni logiche, a garantire la costituzione dell’oggetto, possiamo ora dichiarare l’insufficienza dell’affermazione. Meglio tanto la sua necessità quanto la sua insufficienza. Della necessità abbiamo detto, e qui, in conclusione, possiamo sottolineare ancora l’importanza di questo procedere <<

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per ogni dove >>, ma non senza una precisa direzione. Che questo processo non arrivi ad una conclusione definitiva è d’altra parte necessario: perché la contingenza che caratterizza l’analitico nella figura che questo assume sull’orizzonte comunicativo, in nessun caso permette una chiusura logica del discorso La contingenza, come abbiamo visto, è a chiave che apre la logica all’ontologia - ma soprattutto apre l’ontologia all’etico. E’ su questo terreno, è nella prospettiva del fare, del costruire, del costituire a nuova realtà del mondo e della comunicazione - e dunque in questo processo etico che l’estetica trascendentale del materialismo viene definendosi. Potenza, tendenza, antagonismo si disegnano dentro questo sviluppo etico, ed il rapporto tra processo conoscitivo e verità, fra contingenza e necessita deve essere a questo contesto riportato. Ma, insisto, questa conversione etica del processo conoscitivo non indebolisce, né toglie né elimina la specificità della ricerca logica: ne indica semplicemente l’insufficienza, esattamente quella che nella filosofia di Frege, di Russell e di Wittgenstein è stata definita. Ne qui, sul a definizione di questa insufficienza, ci si può ancora fermare. Basti aggiungere che non v’è specialismo che possa trattenere e imprigionare la ricerca filosofica, se gli stessi termini della logica rivelano un limite e richiedono un dislocamento. Questo dislocamento va compiuto - su di esso ogni strumento del pensiero filosofico va riapplicato. Così torniamo al rapporto fondamentale - quello definito dalla contingenza - ai suoi diversi aspetti, ai suoi diversi gradi , al dualismo radicale che la domina. La logica è il corpo. L’etica è il corpo.

6. Il concetto di costituzione pratica.Lo sviluppo della ricerca continua a spingerci verso l’ontologia etica. E’ solo

sul terreno dell’ontologia etica infatti che le antonomie e i rompicapi della conoscenza potranno essere risolti.

Nella nostra introduzione abbiamo letto e commentato il << Systemprogramm >> - qui, ora, siamo collocati laddove esso intuisce il passaggio fra estetica e dialettica trascendentale. Questo passaggio è, qui come là completamente inserito nella trama dell’essere. Era il momento più alto di una concezione idealistica a natura si faceva storia, idea. Qui quell’assoluto si rovescia, come sempre avviene quando lo spingiamo - meglio le forze materiali della storia lo hanno spinto - fino al suo opposto. Qui è la storia che s fa natura, o meglio, è la natura che assume un ventaglio di protesi organiche e strutturali. La natura si modifica attraverso una sorta di assimilazione cibernetica di tutte le protesi intellettuali che ad essa si sono applicate. E’ uno straordinario arricchimento, quello cui assistiamo: non è solamente a forza produttiva del lavoro umano che raggiunge altissimi punti di qualità, assimilando a sé tutto il sapere, e l’intelligenza, e l’immaginazione che una civiltà superiore sanno

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produrre - non è solo questo, anche se il processo avviene sui ritmi dello sviluppo della produzione e dell’arricchimento della forza lavoro: è in realtà l’intero mondo umano a conquistare questa strana e nuova figura. Si potrebbe parlare di una << seconda natura >>, ma forse anche di una terza, o di una quarta, o di un’ennesima potenza della natura tanto l’insieme delle facoltà umane è venuto modificandosi, poi trasformandosi ed arricchendosi. Nessuno può dire quale sia il senso, in meglio o in peggio, di questa trasformazione - non ci sono teleologie storiche o antropologiche che possano fissare un termine alla querelle degli antichi e dei moderni. Detto ciò, e messe le mani avanti in ogni senso, v’è un’unica cosa che si può dire con certezza: ed è che è aumentata la capacità di fare, quella specifica capacità umana di fare che è legata all’uso degli strumenti. Ma questo incrementarsi della ragione strumentale ha condotto al di là dell’orizzonte degli strumenti: il fare è divenuto natura, ha di questa colto la forza immediata, l’essenza irreversibile, a corporeità irriducibile.

Con ciò il discorso sulla costituzione pratica dell’essere e sulla fondazione etica della logica divengono sempre più evidenti. Innanzi tutto quella soggettività naturale, che fino a questo punto abbiamo seguito nella sua trasformazione, si presenta come essenza collettiva. Questa essenza collettiva é tale in senso proprio, vale a dire che ogni soggetto è attraversato da un insieme di relazioni che lo definiscono in quanto tale. Ma collettivo in senso proprio significa anche che la capacità produttiva individuale e l’essenza umana singolare così costituitesi, sono una determinazione universale. Il divenire sempre più astratto dell’intelletto umano, il divenire sempre più astratto della forza-lavoro - questo processo di astrazione, questo straordinario incremento della ragione strumentale producono il paradosso di una nuova singolarità (e la reale soluzione di questo paradosso). L’astrazione astrae sulla vecchia natura, costruisce indecenti protesi su un vecchio corpo mutilato - ma a partire da ciò l’astratto è assorbiti nella nuova corporeità e le protesi si perdono nel prodursi del nuovo corpo. Tutto questo è tanto collettivo quanto sempre il concetto di natura è stato universale: collettivo è qui dato in termini di ontologia logica. Vi è di più: ed è che questa corporeità nuova rivela due caratteristiche fondamentali. Tanto fondamentali quanto lo sono, in genere, le caratteristiche strutturali dell’essere. I due caratteri sono quelli della virtualità e della irreversibilità, il primo come funzione elastica e il secondo come funzione rigida nello sviluppo di un’etica costitutiva. Per virtualità intendo quella estrema determinazione del pratico che rappresenta l’essenza della sempre nuova determinazione singolare dei soggetti. Parlo di possibilità pratica, reale, come rapporto fra una serie di determinazioni e la semplificazione di queste nella scelta. Rifiuto qui ogni determinazione della possibilità che ne annulli la capacità costruttiva, immergendola in una serie indefinita di predisposizioni e di

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opportunità. Virtualità è, di contro, il rapporto che, in maniera determinata, si costruisce fra un contesto storico già consolidato, nel quale solo una serie di tendenze sono prevedibili, - e, d’altra parte, quella pratica di decisione che fra queste storicamente imitate ma ricche opportunità razionali, sceglie e quindi costituisce realtà singolare. E’ chiaro che quando si parla di ontologia etica si assume un tale profondo intreccio di logica e di etica, di giudizi di fatto e di giudizi di valore - intreccio inteso alla costituzione della realtà stessa - che non si può più distinguere nettamente fra i due livelli. E’ questa constatazione un abbassamento del potenziale di libertà che è proprio del soggetto? Io non lo credo poiché è solo se noi consideriamo il tessuto delle scelte come tessuto preformato e percorso da tendenze concrete, è solo in questo caso che un concetto di libertà in quanto concetto di un’attività pratica, può darsi. Intendo dire che la nozione di possibilità diviene reale solo trasformandosi in concetto di virtualità, con lo spessore e l’intensità che questa differenza registra.

Ma ciò detto è evidentemente chiarito anche il concetto di irreversibilità. Esso è, per così dire, il momento rigido della virtualità, la statica che completa la dinamica. L’irreversibilità è quel punto sul quale una piccola ma essenziale catastrofe, un salto di qualità, si danno all’interno dell’essere, nel processo della sua costituzione. L’accumulo di tutte le esperienze ad un certo punto diviene un evento rivoluzione. E’ come quando guardiamo un disegno ed improvvisamente cogliamo la bellezza di un particolare che ci era sfuggito e questo ci sembra trasfigurare l’insieme dell’opera che consideravamo. Irreversibile è il mutamento della logica dell’esistente: vale a dire che d’ora in avanti, quando questo passaggio sia stato rivelato, tutti gli elementi della considerazione dovranno essere organizzati da una nuova logica, interna all’esistente considerato. Irreversibilità è chiusura di un processo genetico ed apertura di nuove genealogie. Irreversibilità è definizione di nuove virtualità e rivelazione di nuove tendenze.

Nel definire queste caratteristiche essenziali dell’essere nell’ambito di un ontologia etica, noi perveniamo al concetto di virtualità e di irreversibilità da vari punti di vista. Innanzittutto, come si è visto dall’apprendimento del rapporto tra logica ed etica, fra giudizi il fatto e giudizi di valore, - meglio, dalla soluzione pratica dell antinomia che la considerazione separata di codesti due giudizi può produrre. Solo infatti la dimensione pratica, l’atto razionale di volontà, qualora siano inseriti in un orizzonte collettivo, possono permetterci di riconoscere positivamente, e di agire costruttivamente, quello lato che distingue il conoscere dal valore e di riconquistarlo all’unità dell’essere. Ma vi sono altri punti di vista dai quali una nuova concezione dell’essere - quando sia considerata attraverso la rappresentazione della natura, può essere avvicinata.

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Ci spingono innanzitutto avanti le versioni più attuali e critiche della teoria delle innovazioni nella ricerca scientifica intendo riferirmi alla teoria dei paradigmi. Essa non ha un fondamento neo-kantiano, - essa è una teoria ontologica della scienza vale a dire una considerazione del rapporto che la scienza intrattiene con la natura per modificarla, per costituirla, quindi per conoscerla. Quando assistiamo ad un mutamento catastrofico del paradigma scientifico noi percepiamo allora un vero e proprio sussulto dell’essere. Il nuovo paradigma sarà irreversibile ed aprirà nuove virtualità. Ancora, un altro punto di vista a partire dal quale possiamo avvicinarsi a questa concezione della natura, è quello storico intendo il punto di vista di quella storiografia dei movimenti sociali che permette di definire il passaggio dall’una all’altra composizione del soggetto storico, e di costruire tendenze e virtualità a partire dal salto qualitativo, dalla novità radicale, che una nuova composizione mostra a fronte dell’accumularsi delle stesse esperienze intervenute nel suo processo genetico. Anche in questo caso vi è una catastrofe, una modificazione radicale, che talora in termini storici diciamo << rivoluzione >>, - che in ogni caso residua una qualità assolutamente nuova dell’essere collettivo.

Ecco perché, per l’oggi, parlavamo e continuiamo a parlare di nuovo giusnaturalismo. Qual’era lo statuto teorico del giusnaturalismo classico dei secoli dal XVI al XVIII? Era questo: la teoria giusnaturalista si poneva come immanenza catastrofica contro a concezione teistica dell’autorità e del valore, come teoria progressiva, individualistica contro la concezione organica e tradizionale del valore. Vale a dire che la teoria del giusnaturalismo era una chiave dinamica di proposta trasformativa, di distruzione dell’unità sociale ipostatica, di trasformazione pratica e di lettura moderna di questa. Il salto avviene all’interno del progetto: che la teoria giusnaturalistica fosse essenzialmente individualistica non toglie il fatto che essa rappresentasse, in termini logici, l’universalità di una pretesa di rinnovamento, anzi la sua progressiva effettualità. Così, dirsi nuovamente giusnaturalisti significa assumere il nuovo concetto di natura, questo concetto di una natura trasformata, dentro la quale la rivoluzione è divenuta fondo stabile del sapere e dell’agire - come fondamento irreversibile e come definizione di possibilità nuova.

Altrove ho cercato di definire questo processo di singolarizzazione dell’essenza astratta come apparizione del tempo della vita contro il tempo del potere, dimostrando come il secondo costituisce una macchina che riduceva a zero la potenza del lavoro e del sociale. Ma quest antinomia può essere moltiplicata - ed anche nel corso di questa ricerca abbiamo visto all’opera alcuni rompicapi che ci sono sembrati avere una radicale funzione di rottura rispetto all orizzonte logico della tradizione. Mi chiedo: in un estetica

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trascendentale del corpo e della comunità, quand’anche le condizioni logiche fossero date, non resta troppo generico il rinvio ad atti di significazione etica perché se ne possano trarre indicazioni efficaci al superamento dei rompicapi. Altrimenti detto è possibile costruire comunità senza risolvere, logicamente ed anticipatamente, i rompicapi dello spirito? Ora, io penso che a questo interrogativo si possa dare risposta positiva. E penso anche che la sola soluzione dei rompicapi sia pratica. La ricerca deve quindi procedere. Ma l’abbiamo fatto, credo, in maniera da non essere imprigionati dalle caratteristiche esterne del rompicapo. Vale a dire: il rompicapo non è un’antinomia in generale, esso è un’antinomia costruita dentro un paradigma e quindi una determinazione storica precisa, una produzione determinata.

Non vi è superamento del rompicapo, vi è solo modificazione del paradigma. Ecco perché una risposta diretta alle questioni poste dai rompicapi, non può essere una risposta diretta, ed ecco perché possiamo rispondere al quesito su come sia possibile pensare il corpo e la comunità, prima di, e fuori da, una soluzione dei rompicapi. Questa possibilità è essa stessa pratica perché il paradigma è pratico. E’ solo sulla base di un dislocamento globale che la questione diviene risolvibile. Di nuovo allora possiamo pensare che l’andare avanti nel pensiero della rivoluzione è, come prevedeva il << Systemprogramm >> e come dicevamo nella nostra introduzione, possibile solo a partire dalla rivoluzione come preambolo. Come preambolo storico determinato, dato. Come modificazione di paradigma già intervenuta.

Nel << Systemprogramm >> si auspica la costruzione di una nuova mitologia sensibile. Questa richiesta è del tutto collegata sia all’urgenza di passare dal terreno della logica a quello dell’agire etico-collettivo, sia dalla necessità di trascorrere dall’estetica trascendentale alla dialettica trascendentale. Il superamento dell’analitica consiste in queste due operazioni. Invero, di una mitologia abbiamo bisogno. In questo mondo nel quale ogni determinazione positiva si è trovata travolta nell’insensatezza di una circolazione pura; in cui ogni insistenza etica è stata subordinata ad emergenze ciniche ed i valori e i disvalori sono intercambiabili - bene, una mitologia, un disegno empirico del valore sembrano nuovamente necessari. Non certo per fondare pretese profetiche o retoriche, non certo per legittimare riduzioni della complessità problematica, insomma, non per dare fondamento a ciò che fondamento non ha: ma solo per aprire un orizzonte che sappia di nuovo... Una mitologia della ragione etica diviene così non tanto indicazione positiva di un cammino da percorrere quanto definizione di un orizzonte da riconquistare. La dialettica trascendentale, oggi, non può configurarsi che come momento di costruzione dell’immaginazione vera, a partire da un’estetica trascendentale

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dell’immediatezza. Contro ogni analitica, contro ogni pretesa regola della ripetizione, e contro ogni coazione formale, anzi, assumendo tutto questo come oggetto specifico della critica razionale, di una critica che attraversa l’empirico per esercitarvi la scelta etica, la pratica trasformativa - questo è il passaggio dall’estetica alla dialettica trascendentale. Ed è qualcosa di straordinariamente pieno di incompiuto - direbbesi, di inconcluso a monte; a valle di una straordinaria virtualità creativa. La conclusione di questo processo infatti si potrà cominciare a scorgere solamente quando esso si svolgerà completamente sul terreno della realtà corporea, della storia politica e della costituzione comunitaria. Noi possediamo - è quanto attiene alla modificazione del paradigma, è il contenuto della << rivoluzione come preambolo >> - noi possediamo un’irreversibile virtualità di astrazione completa del mondo, di sua singolarizzazione adeguata, quindi, di costruzione di una nuova corporeità creativa, di un sapere portato al più alto livello dei bisogni, del desideri, dei piaceri. Questo processo si svolge: ma ogni verifica completa è solo costruzione piena. Nelle attuali condizioni l’indefinitività di questo processo è rappresentata da un passare continuo da uno ad un altro grado dell’essere ed il passaggio è indefinito quand’anche esso si dia da un grado minore ad un grado maggiore di essere. Certo, vi è comunque un arricchimento, dentro questa rivoluzione continua, dentro questi movimenti dell’essere. Ma quando riusciremo a dare un senso collettivo e una definitiva logica compiutezza a questo processo? Quando la soddisfazione e la gioia etiche si sovrapporranno all’etica della ricerca e della lotta? Io non vedo risposta. Siamo giunti al punto che nella scissione che domina questo mondo, nelle dinamiche che contro l’ontologia etica sono messe in atto dal potere, questa istanza e questa urgenza di mito, sono mistificate nella miseria del media. L’illusione falsa viene opposta all’immaginazione vera. Così come il tempo dell’uno, dell’organizzazione e del potere vengono opposti al tempo dei molti, della comunità e della potenza. Una lotta mortale si sviluppa fra queste opposte tendenze - e noi abbiamo visto come questa lotta mortale sia inserita alla stessa radice dell’essere - laddove la contingenza, nella sua assolutezza, costituisce assoluta mancanza di fondamento e radicale possibilità di alternativa. Di vita o di morte. Di essere o di non essere. Un’estetica della ragione è tuttavia, proprio per questo, oggi possibile – e, contrastando ogni pretesa analitica, è con tutta probabilità possibile progettare, a partire da quell’estetica, determinazioni dialettiche.

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Capitolo Secondo<< Metus-superstitio >>: ossia sulla produzione di soggettività nel

capitalismo maturo. 1. Il concetto di sussunzione reale e il problema dell’analitica.Il processo di sussunzione reale della società nel capitale ci restituisce a

società come un enorme involucro di atti circolari ed uniformi. Noi viviamo dentro quest’ordine, dentro questa << Umwelt >> ordinata. La ricerca storica si combina qui con la ricerca teorica nel dare, di questa forma della società, il quadro compiuto. E mentre la ricerca storica ci permette di seguire l’intreccio delle varie funzioni sociali ed il loro costituirsi in un tutto unico il confondersi del lavoro produttivo e del lavoro improdutivo dentro un circuito del valore che ne toglie la differenza, - la ricerca teorica ci propone il problema della sovrastruttura e ci mostra come il rapporto, altre volte evidente, con l’infrastruttura, sia ormai definitivamente concluso. Concluso dentro un’indifferenza materiale che, se permette di cogliere la genesi delle due formazioni materialmente ce le dà completamente unificate, indistinguibili, inseparabili << Da Marx ad Althusser >> la teoria marxista ha descritto la crisi del rapporto struttura-sovrastruttura mostrando lo sviluppo del processo già indacato. Da ultimo Althusser, descrivendo il funzionamento delle apparecchiature ideologiche dello Stato, ha ampiamente mostrato come questi momenti cosiddetti sovrastrutturali fossero essenziali alla riproduzione della società capitalistica in quanto tale. Ma le indicazioni di Althusser, per quanto corrette, non sono sufficienti a descrivere la situazione determinata nella sussunzione reale. Qui il reciproco compenetrarsi del vari livelli di produzione, delle merci così come delle norme, diviene totale. Quella che già si chiamava sovrastruttura, ovvero gli elementi ideologici, teorici, dottrinali, ecc. ecc. che descrivevano la realtà registrandone in maniera mistificata il riflesso e riproponendolo efficacemente verso e contro l’empiria - ora vive una vita completamente interiore allo sviluppo delle strutture produttive.

Quest’orizzonte che abbiamo dinnanzi, questa << Umwelt >> nella quale siamo immersi, non permettono di operare fini distinzioni: certo gli apici delle determinazioni, più empiriche o ideologiche, possono essere sempre indicati ma la determinazione fondamentale è quella della compenetrazione e dell’interna articolazione. Tutto questo ha un risvolto pratico, immediatamente pratico. La nostra società è organizzata per questa confusione di livelli per mistificare la sua totalità produttiva e gli antagonismi che questa totalità reggono. Gli strumenti di potere e i momenti normativi, da questo punto di vista, sono completamente interni al sociale. Si potrebbe dire che il sociale non potrebbe esistere - nella forma, è ovvio, adeguata al grado di produttività attuale - se

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questa compenetrazione degli elementi di comando e delle regole normative, alle articolazioni del sociale non fosse data. Ma vi è di più. Non solo il sociale è genericamente assunto nel meccanismo di capitale, non solo le apparecchiature ideologiche di Stato diventano fondamentali nella riproduzione ordinata della società, non solo infine la produzione di merce e di norme si articola e si confonde sul livello sociale: non solo tutto questo dunque, - la società della sussunzione reale si caratterizza anche come tentativo di produzione diretta della soggettività. C’è un nesso evidente fra determinazioni strutturali e determinazioni sovrastrutturali, che attraversa la soggettività. Tutto questo è stato ampiamente sottolineato nella teoria. Ma oggi ci troviamo di fronte a ben altro, poiché questo nesso (che interpreta e veicola la forma specifica del comando capitalistico) tende a costituire la soggettività. La costituzione capitalistica della soggettività diviene così momento centrale nella fase della sussunzione reale. Avevamo detto << da Marx ad Althusser >> per descrivere la crisi e le modificazioni del rapporto struttura e sovrastruttura, - ora possiamo dire << Da Althusser a Marx >> per indicare quanto si sia approfondito il rapporto di produzione della soggettività: è come una nuova accumulazione primitiva; come in quella, in questa fase di sussunzione reale, si costruiscono non solo le condizioni della riproduzione sociale ma anche gli attori, i portatori, i soggetti di questa produzione. Come in quel Marx dell’accumulazione primitiva, così qui la totalità del quadro è indistinguibile dalle componenti. Questo quadro compatto si presenta sovente come mondo della comunicazione, come complesso di strutture informatiche, come insieme meccanico-razionale di una strumentazione intelligente del controllo e della produzione.

Ora, questa situazione presenta alcune difficoltà, che non possono essere trascurate dall’analisi. Intendo dire che questa << Umwelt >> schiaccia, per così dire, la possibilità della ricerca sulla linearità, e la disorienta nella circolarità dei nessi fra singole emergenze soggettive. La stessa emergenza di un punto di vista critico sembra da ciò vietata. Ci troviamo quindi di fronte a delle posizioni che, nel tentativo di resistere all’indifferenza, spesso organizzano la prospettiva di ricerca e quella di intervento in termini volontaristici, - per esempio, in termini di rivendicazione di autonomia del punto di vista scientifico. Vediamo un caso. E’ fuori dubbio che, se nella situazione data (sussunzione reale) la forma valore e la sostanza di valore del processo di produzione tendono a sovrapporsi, l’analisi deve assumere la << Wertform >> e la << Wertsubstanz >> come elementi complementari nella configurazione della totalità determinata da analizzare. Ma dire complementari, non significa dire indifferenti - e con ciò accettare il blocco della ricerca. Infatti, pur tra queste complementarità ed indifferenze, un quadro del genere è normalmente molto ricco di impliciti: la determinazione infatti, nel mentre

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mostra i contenuti specifici dei meccanismi di produzione del valore, sta dal punto di vista degli strumenti tecnologici, sia dal punto di vista della pertinenza dei contenuti, - dall’altro si mostra come tendenza, come apertura potenziale di nessi produttivi generali, come articolazione di composizioni diverse della soggettività. Si tratta allora di approfondire il nesso tra ricerca di valore ed analisi materiale laddove invece, spesso, l’incapacità di procedere in questo senso, dovuta a permanenze ideologiche o a resistenze nei confronti della nuova prospettiva, implica una ricerca che fra valore e sostanza ripropone indifferenza o unità indifferenziate o confuse a connessioni analogiche, - sicché questo rapporto, in sé scoordinato non può che essere sempre di nuovo riportato all’analisi e alla pratica del dominio. Le teorie dell’autonomia del politico, da questo punto di vista, sono teorie attardate su una imperfetta comprensione degli effetti della sussunzione reale. Di contro, la nostra ricerca assume l’inerenza di strutture e di sovrastrutture, di forma e di sostanza, come assolutamente data. Ed è a partire da ciò che i meccanismi di produzione della soggettività nel capitalismo maturo potranno essere finalmente definiti.

Ma proprio nella misura in cui procediamo in questo senso tanto più il problema definitivo sarà quello etico. Vale a dire che non è l’analisi dei rapporti di potere che può permetterci la comprensione di questo mondo compatto che abbiamo dinnanzi, è bensì, a permetterci questo, l’inerenza della nostra volontà, della nostra lotta. alla composizione della società. Offe dice chiaramente << Il problema di una teoria dello Stato che si proponga di dimostrare il carattere classista del dominio politico consiste dunque nel fatto che, in quanto teoria, in quanto rappresentazione oggettivante di funzioni statali e del loro riferimento ad interessi, essa non è assolutamente attuabile. Soltanto la pratica della lotta di classe ne soddisfa la pretesa conoscitiva... Questa limitatezza della conoscenza teorica non è tuttavia determinata dall’insufficienza dei suoi metodi, bensì dalla struttura del suo oggetto. Questo si sottrae alla chiarificazione in termini di una teoria di classe. Semplificando si può dire che nella società industriale capitalistica il dominio politico è il metodo del dominio di classe che non si fa riconoscere come tale >>. Questa dichiarazione di Offe ci sembra fondamentale. Vale a dire che l’indifferenza del quadro sociale che si presenta nella sussunzione reale è semplicemente una mistificazione oggettiva: è anche un momento di falsificazione, meglio di conoscenza falsificata, nella prospettiva di dominio del soggetto. Ci scontriamo qui con un’operazione di mistificazione che investe il sociale intero, con un’operazione di mistificazione che tenta di sottrarre alla coscienza la possibilità di identificare le condizioni dell’antagonismo.

Questa sottrazione è sostanziale, è reale, - la mistificazione é non solo

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efficace ma produttiva. Vivere questo mondo della mistificazione produttiva, fino al punto nel quale essa investe la soggettività, è vivere una condizione eccezionale - evidentemente il problema della rottura di tutto questo, della definitiva insopportabilità di tutto questo, ci riporta ai grandi temi etici dell’essere e della sua distruzione o della sua riproduzione. Ma sull’argomento non vale certo la pena di fermarsi di nuovo. Quello che è fondamentale invece è notare quanto sostanzialmente pratico sia questo orizzonte della sussunzione reale. Le produzione materiali tendono verso la soggettività, abbiamo detto: ma bisogna aggiungere che questa soggettività va soprattutto considerata in termini di volontà. Sono le soggettività della lotta di classe quelle che qui sono assunte, mistificate, sottratte alle condizioni dell’antagonismo. Ora quest’analitica della società, di una società riguardata soprattutto dal punto di vista della volontà, dal punto di vista della possibilità di lotta e quindi della creazione della differenza, - quest’analitica è puramente e semplicemente il diritto.

Quando parliamo di diritto parliamo del complesso di norme attraverso il quale la società costituisce il suo ordine in riferimento alla produzione e alla riproduzione di se stessa. Intendiamo anche la serie di strumenti che sono messi in azione per garantire l’efficacia di questa normativa: ma non riduciamo a normativa a questi strumenti perché essa è infinitamente più larga e la sua efficacia infinitamente più estesa di quanto gli strumenti specifici dell’organizzazione giuridica possano il diritto, così come noi i assumiamo, è, dunque, un’analitica sociale della volontà. La definizione può essere immediatamente chiarita se risaliamo alla nozione di sussunzione reale ed agli effetti teorico-pratici che ne seguono. Vale a dire che il diritto ha, rispetto al mondo della sussunzione reale, lo stesso ruolo che in un universo di rappresentazioni individuali ha avuto l’analitica kantiana. Il diritto vale qui a fissare le condizioni di pensabilità di una società capitalistica matura. Solo la legalità, vale a dire la normatività diffusa ad ogni elemento costitutivo, permette di pensare la società. L’analitica è la produzione di una mediazione sociale nella quale tutti i rapporti sono ricondotti alla necessità della riproduzione sociale. Fondamentale è, ovviamente, il rapporto soggettivo. Ora, l’analitica non costituisce il soggetto - al soggetto è costituito dal rapporto produttivo in generale - ma l’analitica, la normatività, il diritto, si estendono lungo tutti i passaggi che costituiscono il teatro di azioni e reazioni, di rapporti di senso e di rapporti di significato, costitutivi della sussunzione reale - quindi il diritto è qui coestensivo, in quanto analitica, della sussunzione reale. Il fatto di essere qui coestensivo non significa essere identico (vedremo nel prossimo paragrafo perché). Quello che qui ci interessa di concludere e di sottolineare, è la densità del rapporto che il diritto ha verso, dentro, la società. E’ un vero e proprio investimento quello che il diritto opera: esso, in questo distendersi

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globale sul sociale, diviene una specie di abito senza il quale a società non può mostrarsi. Il diritto è ostensione del sociale, è il linguaggio della sua realtà profonda, è l’articolazione delle volontà che percorrono e costituiscono il sociale. Il diritto è una vera e propria kantiana analitica del sociale. Non ho più parole per esprimere questa inerenza se non quelle adeguate ad esprimere il rapporto tra il corpo e l’anima: figurazione certo non post-moderna ma fortemente intrisa di suggestione reale.

Detto ciò occorre aggiungere che questa analitica è la figura morta della società.

2. Analitica: il diritto come legittimazione.E’ stato Hegel a mostrarsi il funzionamento del diritto come analitica della

società civile. Quello che non ci si sarebbe aspettato - e che certo Hegel non si attendeva - è che il diritto man mano divenisse, da analitica, anatomia della società civile, usurpando così il luogo fin lì ricoperto dall’economia politica. Dico usurpazione perché il fatto di pervenire ad una tale interiorità nei confronti della società, non toglie al diritto le sue caratteristiche specificatamente e fondamentalmente analitiche: la società si è fatta astratta, i suoi movimenti si sono proiettati verso un’orizzontalità lineare, - il diritto qui dentro ci sta bene, è adeguato, usurpa una funzione alla quale l’economia politica, per il fatto di produrre questa società astratta, ha abdicato.

Il diritto segue l’evoluzione dei rapporti sociali di produzione. Ne è la forma. Ma, procedendo lo sviluppo sociale e proiettandosi questo verso quell’ordine particolare che è proprio della sussunzione reale, il diritto non è più solamente forma sociale, meglio, dell’ordine sociale, ma interviene strutturalmente in quanto funzione generale di legittimazione nella riproduzione sociale. La legittimazione assume sempre più figure processuali, procedurali, esecutive: la grande modificazione del diritto nel capitalismo maturo, la sua trasformazione funzionale, consistono appunto in ciò, nel fatto che il diritto non trascende più i rapporti sociali ma è ad essi immanente, è esso stesso un evento - quanto generale si voglia - del processo sociale. Oggi la forma della legittimazione è assolutamente specifica: vale a dire che essa si pone fra sussunzione reale e produzione di soggettività. Ciò significa che il diritto costituisce, in forma reale, i soggetti, dentro una rete di qualificazione delle loro azioni, - rete che non costituisce semplicemente realtà giuridiche, costituisce bensì il soggetto in quanto tale. Non v’è soggettività sociale senza che una serie di condizioni giuridico-istituzionali la configurino. Il diritto interviene dentro la società delimitando continuamente in maniera amministrativa o giurisdizionale possibili conflitti - ma non solo: costituendo gli stessi soggetti di un possibile conflitto, introducendo un sistema di valutazione che cerca di rendersi sempre

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più efficace.E’ chiaro come questo processo, del diritto in quanto potenza sociale,

rappresenti un morto paesaggio nella vita dello spirito. Si diceva << analitica >>: vi può essere qualcosa di più analiticamente deprimente di questo continuo tentativo di bloccare la dinamica detto spirito oggettivo? Il diritto è questo blocco - un blocco intelligente, una continua selezione dei materiali indistinti presentati sulla scena della sussunzione reale ed una loro formazione, un’identificazione - l’invenzione del soggetto. Ma una invenzione che gioca semplicemente i residui, i margini, le esclusioni. E’ chiaro allora che il processo di legittimazione in quanto insieme di delimitazioni, selezioni, esclusioni, del sistema di valutazione e della conseguente esecuzione amministrativa, tenderà sempre più a ripiegarsi e a chiudersi su se stesso. Ogni difficoltà di soluzione del processo non potrà che spingere verso la drammatizzazione del momento esecutivo - stato d’emergenza, situazione di necessità ecc. ecc. Ogni eliminazione di possibilità corrisponderà ad una tensione verso un’autolimitazione, un’indipendenza, un’autosufficienza del potere. La necessità di imporre un meccanismo di regolazione che sia un meccanismo regolare, costante, continuo - questa necessità spingerà continuamente verso quell’essenza del comando costituzionale che, con esagerazione linguistica ma con profonda adesione al reale, Carl Schmitt ha chiamato << dittatura >>. Il diritto è dunque latenza di dittatura, o meglio dittatura mistificata. Questa essenza gli deriva dal fatto di essere completamente interiorizzato nella società ma, in queste condizioni, di selezionare unilateralmente l’insieme delle potenze sociali. Il diritto, nella sussunzione reale, è di questa coestensivo - ma non è identico ad essa. Non è identico ad essa perché è un sistema di selezione, una griglia di valutazione, un meccanismo di esecuzione. Non è identico perché coglie coestensivamente il tessuto sociale della sussunzione reale ma solo nella figura negativa che questa permette. Vale a dire che il diritto organizza la continuità lineare dei processi, i compromessi e le articolazioni di valore che nel sociale si possono trovare - ma non riesce ad afferrare, né lo desidera, i nuovi contenuti collettivi che questo sociale attraversano, ed in generale non riesce a cogliere il passaggio dall’astrattezza del rapporto ad una soggettività superiore. Il diritto produce soggettività solo in quanto essa si presenti come limitazione. Limitazione anche dell’astratto. Il diritto teme a potenza della soggettività - della soggettività ha bisogno solo in quanto materiale su cui costruire la complessità dell’ordinamento. Insomma il diritto è pura e semplice analitica, tanto più povera e morta, quanto più lo sviluppo astratto del lavoro si è affermato come potenza.

Abbiamo detto che il diritto è coestensivo della sussunzione reale ma non

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identico ad essa, anzi, che esso è predisposto alla rottura degli equilibri dinamici che si sono formati nel processo di maturazione della sussunzione reale. E’ noto come sono andate le cose. Nel capitalismo maturo lo schema di regolazione dello Stato e della società insegue l’adeguamento continuo del rapporto fra forze produttive, consumi produttivi e stabilità politica. La regolazione è possibile quando essa avvenga su uno schema di valori unificato (o in ogni caso non immediatamente contraddittorio) a partire dall’identificazione di soggetti abilitati alla gestione del rapporto, alla contrattazione, insomma alla partecipazione al processo di legittimazione. Il fatto che, in questo schema, il più alto ideale sia quello di un’alla produttività e che la ripartizione del profitto fra soggetti produttivi si svolga secondo una regola che introduce nella riproduzione sociale, e dentro questa amplifica, i benefici della riproduzione secondo moltiplicatori adeguati allo sviluppo - il fatto insomma che la legittimazione marci a pari passo con la continua riforma dei rapporti di produzione, esalta in maniera importante la funzione del diritto nella sussunzione reale e la mostra come articolazione necessaria di questa.

Ma non appena elementi di crisi si rivelano, non appena il diritto è richiamato in maniera stringente ad esercitare la funzione analitica, ci troviamo dinnanzi ad una serie di eventi - meglio, di operazioni - che ampiamente caratterizzano il funzionamento parziale del diritto nella nostra società. Voglio dire che la legittimazione analitica post-moderna trova una sua specificità quando, scoprendosi coestensiva della sussunzione reale, rivendica la propria identità, quindi la separatezza dalla propria funzione. Su tre punti si sviluppa questa ricostruzione della specificità analitica del diritto: in generale, sulla ripresa, reinvenzione, ristabilimento, dell’egemonia della forma sopra, contro la sostanza sociale. In secondo luogo la legittimazione analitica è portata, nel sistemismo, contro l’unità progressiva del sistema dei valori, e, terzo, nel neo-contrattualismo, contro il sistema dei soggetti che promuovevano lo sviluppo giuridico verso l’identità di produzione e riforme.

Accenniamo alle tre forme nelle quali vengono sviluppandosi questi fenomeni, dal punto di vista storico: procedendo nella ricerca le vedremo con molta maggiore attenzione, basti qui descrivere la condizione generale del loro presentarsi. Ora, è particolarmente interessante la forma nella quale si mette oggi in movimento quel processo che abbiamo detto di scissione fra forma e sostanza della regolazione sociale. E’ una specie di nuovo trascendentalismo quello che qui appare. Nella filosofia tedesca contemporanea, in particolare, nella crisi e negli esiti della scuola di Francoforte, noi soprattutto possiamo vedere come si sia sviluppata questa rinascita trascendentalistica. La ricerca di una fondazione critica ha cominciato ad impiantarsi come un bisturi dentro

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l’unità dell’orizzonte della sussunzione reale. Ma invece di trovarvi antagonismi, invece di sperimentare e di riassorbire nella scienza quanto in realtà stava accadendo - la crisi, l’impossibilità di rendere consensuale il nuovo modello di sviluppo ecc. - invece dunque di far ciò, la fondazione critica ha separato la forma dalla sostanza di valore: << ipertribunalizzazione >> della forma di contro alla << subtribunalizzazione >> della sostanza di valore. Vale a dire che, mentre l’orizzonte trascendentale della forma era fissato in maniera sempre più stabile, sempre più definitiva, d’altra parte invece la sostanza di valore era respinta verso i livelli più bassi dell’empiria. La sintesi che, nella sussunzione reale, si era data, qui scompare. Una costituzione unilaterale del reale viene così sempre meglio definendosi. Questa costituzione unilaterale è ottenuta attraverso la sostituzione formale del reale medesimo. L’essere è definito nella forma della sostituzione. I processi di sussunzione reale sono trasfigurati nell’immagine della sussunzione - diritto, moneta, rapporti informatici, simulacri sociali, cifre dell’automatismo sociale, sacro, violenza della forma eec. La sussunzione ormai ci si presenta solo secondo questa figura, solo entro questo quadro, prospettiva, orizzonte. Vedremo, procedendo nella ricerca, come il formalismo si sia modificato in questo periodo di sviluppo, - ma come questo sviluppo non sia stato altro che realizzazione del distacco fra forma e sostanza del valore.

Un secondo momento nell’evoluzione del diritto verso funzioni dirette di costituzione analitica reale (nella fase della sussunzione) ci è data in quell’episodio dello sviluppo della scienza del diritto che si richiama al sistemismo. Ora, la finalità essenziale di questa teoria è quella di cercare una forma della normazione giuridica (e sociale) entro cui l’autonomia e l’insistenza autentica dei valori, e del loro combinarsi in un’unità dinamica, siano distrutte. Quello che interessa è determinare una serie di punti di riferimento che si oppongano, che neghino, che trasfigurino, ogni fondamento ontologico dei valori. Esiste un antagonismo sociale ed esistono schemi teorici di organizzazione dinamica-normativa di questo? Non devono esistere. Gli antagonismi, qualora si diano, non possono essere che funzioni o soluzioni di processi restaurativi dell’ordine, meccanismi in grado di neutralizzare, di volta in volta, ogni complessità antagonista. Il diritto dovrà funzionare come strumento che sposta continuamente, costantemente, i termini di ogni problema ontologico e trasforma temi potenzialmente conflittuali in struttura di compatibilità. I soggetti vengono qui prodotti, esattamente come sono prodotti i valori. Quale terribile vitrea sostanzialità hanno questi soggetti. Quello che interessa è ridurre il processo di sussunzione reale ad un’immagine naturale - dove tutti i rapporti reali siano dissolti e gli antagonismi ridotti a fluttuazione - su questa evoluzione, senza soluzione di continuità, il controllo fila via, come

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appunto la volontà burocratica di dominio vuole.Non molto diverso, infine, è il terzo esempio che nel seguito della ricerca

ricorderemo. Se nel sistemismo il tema fondamentale è quello della permanente fluidità del processo e quindi dell’assoluta interscambiabilità dei valori, nel neocontrattualismo si pone come egemonica la volontà di far circolare la soggettività dentro uno schema paritario (di eguaglianza, di ricambio, di commutazione) che di questa soggettività toglie ogni caratteristica materiale. E’ chiaro anche in questo caso che la negazione del carattere ontologico dei soggetti comporta la massima formalizzazione dei valori. La comunicazione riflessiva, la commutazione dei soggetti nel neocontrattualismo esige valori di garanzia che siano assolutamente formali. Non si può scegliere se non l’equivalente: questo paradosso del valore è, nel neocontrattualismo, l’equivalente della contingenza dei soggetti nel sistemismo.

Dunque - su tutto ciò torneremo. Basti qui cogliere quello che abbiamo più volte detto essere ormai la caratteristica fondamentale del diritto come legittimazione, del diritto come analitica della sussunzione reale. I caratteri di morte che la funzione giuridica si porta dietro, risultano a questo punto quanto mai evidenti. Il diritto è la chiave forzosa che deve valere ad escludere la soggettività dal tessuto sociale della sussunzione reale. Il diritto è il modello di produzione della soggettività laddove la sussunzione reale sia stata assunta come semplice orizzonte di produzione e di organizzazione sociale pacificita. E non basta opporsi a questa onnivora teoria dei sistemi, quale nel diritto è manifestata, proponendo una semplice mediazione (naturalmente sempre sul terreno trascendentale) fra teoria dei sistemi e teoria dell’agire.

Occorre invece dare sostanza normativa, polemica ed antagonistica, alla critica: alla critica della ragione strumentale che qui, nella definizione di diritto come analitica dello spirito oggettivo, trionfa completamente. Posizioni che non assumano il punto di vista ontologico, che mantengano i processi di mediazione che sono propri del trascendentalismo, non riusciranno mai a definire la sostanza etica del processo critico. I soggetti continueranno ad essere considerati come semplici residui, non avranno mai la possibilità di esistere se non in quanto colonizzati dal sistema - elementi sí sempre irrisolti, ma mai capaci di costruire alternative. Questa è una manovra sofistica sul piano teorico - sul piano dell’esecuzione del diritto diviene una manovra repressiva. La razionalità strumentale vince sempre quando la scienza, e le funzioni dell’organizzazione sociale, non vengono confrontate con il reale. La mediazione, questa malattia mortale del pensiero filosofico, questa criminale intenzione del pensiero giuridico, deve scomparire dall’orizzonte della scienza.

Viene così configurandosi il terreno sul quale l’analitica, funzione centrale

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del sapere trascendentale, tenta di configurare un quadro del reale fatto a sua immagine e somiglianza.

3. Il modello formalistico: Hans Kelsen.Riconsiderare il pensiero di Hans Kelsen, dopo aver proposto il problema del

formalismo nei termini in cui abbiamo fatto nel paragrafo precedente, può sembrare inutile preoccupazione archeologica. Non è vero, perché il genio di Kelsen consistette appunto nel percorrere un cammino che, dal vecchio formalismo kantiano, portava ben oltre i limiti o le estreme estensioni di questo: anticipava quella formalizzazione del reale che oggi consideriamo propria della sussunzione e del postmoderno. In Kelsen il formalismo si presenta come sovrastruttura della realtà - e però, fin da subito, esso si arma di un’autonoma produttività, sicché l’avventura intellettuale di Kelsen descrive non solo una vicenda soggettiva ma piuttosto la tendenza storica del formalismo.

Formalismo come sovrastruttura, dunque. Sovrastruttura di un contesto socio-economico, forma logica, nella quale questo contesto è analizzato ed ordinato. Ma, se questa impostazione bastava a Stammler e ai suoi seguaci, se poteva essere condizione egemone nel revisionismo social-democratico ottocentesco, non bastava certo a Kelsen. La sovrastruttura è in Kelsen trascendentale. Come nella scuola di Marburg il trascendentale è produttivo, - produttivo di schemi della ragione, di tendenze regolatrici, di tipologie formali del linguaggio e della scienza. Eccoci dunque a scoprire non tanto una base quanto una sorgente del formalismo, ad identificare cioè il punto sul quale la regolazione del sociale si manifesta esplicitamente come gestazione di una rete di comando. A partire da ciò il neokantismo kelseniano si diluisce in un << Opus perpetuum >> che assume varie figure, tutte agganciate al presupposto neokantiano ma tutte anche capaci di sganciarsi da questo e di svolgersi, per successive stratificazioni, verso risultati imprevisti. In una prima fase, il pensiero kelseniano forma lo schema di lettura (e di organizzazione) del diritto sulla duplice funzione della purezza logica della teoria e della sua fondazione trascendentale (Grundnorm). Ma questo non basta: l’analitica deve svolgersi nello schematismo, la teoria pura del diritto deve accostare ad una statica una nomodinamica: insomma, il diritto deve produrre la sua realtà. Eccoci dunque, su un primo punto essenziale, al discoprimento dei meccanismi del formalismo. Lungi dall’essere semplice registrazione (sovrastrutturale o meno), la forma è un motore, un orizzonte, uno schema di comprensione. In realtà, la forma è un meccanismo di produzione sistematica. La Grundnorm produce il sistema. Il sistema si forma attraverso un meccanismo di gradi - Stufenbau - ed ogni grado è capacità di produzione del successivo. Gerarchia o meno, qui è egemone l’idea di produzione. Le critiche rivolte al primo Kelsen, ed appuntate contro la vuotezza del suo formalismo,

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sono pure e semplici banalità. Il pensiero di Kelsen è sempre un pensiero della produzione e la chiave che lo spinge ad una continua trasformazione, è il desiderio di cogliere e trattenere nella forma, la realtà. La validità del sistema delle norme deve farsi efficacia giurisdizionale delle stesse - la norma deve mordere il reale. Certo, questo senso della realtà che soggiace e regge l’elaborazione e lo sviluppo della teoria pura del diritto, non deve indurci in errore. Esso non è altro dal diritto, neppure come strappo, neppure come anticipazione del diritto: il senso della realtà deve essere prodotto dal diritto. Questo è il concetto del formalismo kelseniano, - una macchina produttiva, lanciata sulla realtà, e che a un certo punto non si pone più il problema di coniugarsi con il reale, si pone piuttosto il problema di produrlo, di sostituirlo attraverso la produzione, di creare qualcosa che sia simile al concetto che la teoria ha di se stessa e del diritto.

Questo paradosso è quello di tutta l’analitica moderna. Ma qui assume una tale incredibile potenza, e violenza di espressione, che davvero c’è da rimanere sbalorditi. Soprattutto quando, continuando a rielaborare e trasformare il suo sistema, prima Kelsen proporrà una concenzione realistica e processuale, poi una concezione decisionistica della norma e del diritto. Per concezione processuale intendo un disegno del funzionamento del diritto che ricalca la dinamica procedurale della sua amministrazione nei sistemi giuridici aperti. Kelsen lavora espressamente su queste ipotesi fino alla definitiva redazione de << La dottrina pura del diritto >>, probabilmente il più perfetto esempio di come il formalismo possa fingere se stesso quale orizzonte ontologico! Ma, ancora, tutto questo non basta. L’ultimo Kelsen, quello della << Teoria generale delle norm >>, cercherà di sviluppare non più semplicemente un’ipotesi di concordanza fra sistema e realtà, fra dottrina pura e determinazione reale, fra validità ed efficacia: di contro, la potenza stessa della formazione della norma, in quanto fatto trascendentale, sarà sviluppata come possibilità di costruire il sistema.

Ora, se noi riprendiamo questo schema di sviluppo del pensiero di Kelsen e cerchiamo di comprenderlo come filo rosso di un processo storico di crisi e trasformazione del diritto, le cui fasi finali oggi sperimentiamo - se dunque ci muoviamo in questo senso ci accorgeremo che, come abbiamo detto, il formalismo kelseniano è qualcosa di molto più largo di una pura e semplice trascrizione giuridica del formalismo kantiano. Qui il formalismo è piuttosto vissuto dentro la realtà del processo storico che conduce dalla fase di << sussunzione formale >> del lavoro e della società nel capitale alla fase di << sussunzione reale >>. Che cosa significa questo? Significa che, in concomitanza con questo passaggio storico e assecondando le tendenze che in esso vivono,

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Kelsen interiorizza sempre di più e con sempre maggiore chiarezza il problema della produzione e della realtà giuridica, della validità e dell’efficacia. La sussunzione reale è, come ormai lungamente abbiamo sottolineato, quel momento nel quale la formalità dei rapporti di produzione viventi all’interno di una società è sottoposta all’egemonia del modo di produzione capitalistica. Nella sussunzione reale la forma si fa sostanza. La teoria pura del diritto non ha più quindi bisogno di una Grundnorm che faccia funzionare la sua egemonia solo in termini parziali e a partire da un fondamento di trascendenza. Nell’ultima fase del pensiero di Kelsen, ogni norma e una Grundnorm, il rapporto fra validità ed efficacia è per così dire rovesciato, e l’efficacia anticipa la validità, ogni norma è in qualche modo norma trascendentale, perché la sua fattualità non è riconducibile ad altro che alla propria esistenza. La teoria del diritto sfiora il decisionismo. Ma dello tutto questo, resta il fatto che quel reale è comunque dinamico. Il sistema produttivo, la sua potenza formativa vengono fatti combaciare con la realtà. Efficacia e validità che si sono talmente confuse che vivono ormai insieme la tensione produttiva del reale. Il formalismo kelseniano è un’ideologia della produzione.

E’ interessante, meglio, fondamentale questo riferimento a Kelsen. Probabilmente se il suo rapporto non si fosse fatto talmente importante nella storia del pensiero giuridico e politico contemporaneo, sarebbe stato difficilissimo elaborare, in positivo o in negativo, una teoria sistemica del potere. Quello che colpisce è tuttavia soprattutto, nel pensiero di Kelsen, la scoperta della impossibilità di evitare la produzione e, come abbiamo sottolineato, la capacità di far seguire a questa scoperta un sistema produttivo sempre più determinato, sempre più capace di rispecchiarsi nel reale. In Kelsen dunque noi troviamo completamente sviluppata quella rottura tra forma e sostanza del processo di valore che si pone come condizione fondamentale della trasformazione della teoria sul terreno della << sussunzione reale >>. Ma, come abbiamo visto, questa rottura è anche uno spostamento di livelli, un dislocamento. Dentro la realtà trasformata nel processo di spiazzamento, di dislocazione generale, dentro il linguaggio che registra questo orizzonte ed è, su questo strato della realtà, riorganizzato in termini di senso e di significato, - ebbene, qui Kelsen ricostruisce una nuova unità, che è un circolo di validità e di efficacia, di normatività e di decisionismo, di diritto e Stato. Il formalismo kelseniano, dopo aver vissuto una vicenda gerarchica che lo ha spinto di grado in grado, attraverso crisi successive, verso un nuovo livello di realtà, ricostruisce e riorganizza ora questo livello come circolo. Un circolo che è fatto muovere dalla materialità degli eventi che in esso sono registrati - potremmo dire che è la produzione ad essere la chiave di volta del movimento nell’orizzonte formalistico kelseniano.

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Vi sono interessanti analogie che a questo proposito si possono porre: fra queste, soprattutto importante mi sembra quella che permette di confrontare movimento e figura del pensiero di Kelsen e di quello di Keynes. Vale a dire che in entrambi questi autori la preoccupazione sistematica di controllare la realtà nel sistema (<< Dottrina pura del diritto >> per Kelsen, << Trattato della moneta >> per Keynes) è spinta ad una tensione massima, che configura l’astrazione del reale nella forma del sistema. Ma, pervenuti a questo punto, spinta avanti l’analisi fino a determinare il salto della dislocazione, gli autori si guardano attorno - scoprono allora che questo sistema dislocato corrisponde perfettamente al reale. L’operazione di innovazione scientifica ha riconquistato la realtà, la fiducia nella forma ha restituito la storia. Abbiamo dunque un secondo Kelsen ed un secondo Keynes (della << Teoria della norma >> e della << Teoria generale dell’occupazione e della moneta >>) nei quali questo rovesciamento che paradossalmente procede all’interno, investendo la tensione sistematica, è attuato fino in fondo. E la circolarità delle proposizioni e dei soggetti sistematici è garantita da un autonomo interno movimento - che è quello sollecitato dal reale. In questo secondo periodo del pensiero di Kelsen, - possiamo ora smettere l’analogia con Keynes - non vi è solo dunque nostalgia della realtà e quasi un senile riagganciarsi ad essa (come alcuni interpreti malevolmente suggeriscono) - vi è bensì la ripresa in carico del compito di spiegare la realtà giuridica e le trasformazioni dello Stato dal punto di vista della loro effettualità. La rottura fra forma e sostanza del processo di valore è quindi, per così dire, superata... naturalmente tutto questo si rivela essere solo una tendenza. Sarebbe senz’altro esagerato ritenere che il realismo giuridico - e soprattutto un realismo giuridico tanto sviluppato da essere capace di interpretare l’orizzonte della << sussunzione >> - divenga oltre che egemone, esclusivo nell’ultimo Kelsen. Al contrario è certo che tutti i passaggi in questa direzione, non riescono a togliere al sistema quel radicamento formalistico che gli è proprio. Ma quello che a noi interessa, è sottolineare come qui venga sviluppandosi quel dislocamento del terreno della considerazione scientifica, quella catastrofe del paradigma, che, nei paragrafi successivi, vedremo dominare l’analitica giuridica della << sussunzione >>. Per dirla in altri termini: Kelsen riconquista, nell’ultima fase del suo pensiero il primato della legittimità contro l’eminenza della legalità.

Perché è attorno a questi due concetti che dobbiamo portare la nostra attenzione. Legittimità è categoria dell’efficacia, è determinazione fondamentale del sistema, - mentre legalità è validità normativa, è l’orizzonte formale del medesimo. Ora la circolarità di questi due termini si presenta come asimmetrica: nel formalismo quest’asimmetria vede la forma prevalere sulla sostanza del valore. Ora Kelsen inverte i termini, - ma questa inversione non si

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fa a scapito della forma: si fa - tenendo conto delle nuove condizioni del circuito giuridico - ricalibrando il rapporto fra forma e contenuto, fra legittimità e legalità, che resta si asimmetrico ma è riequilibrato rispetto ad un concetto di legittimità estremamente ampio. L’analisi del pensiero di Kelsen ci propone dunque l’amplificazione dell’orizzonte formale, ci propone un vero e proprio meccanismo di produzione reale a partire dall’approfondimento dell’analisi della forma e da un rovesciamento dell’asimmetria fondamentale del rapporto giuridico. Un nuovo reale è quello che ci è consegnato.

4. Il modello contrattualistico: Rawls.Dobbiamo andar al di là del Welfarestate: ma verso dove? E’ fuori dubbio che

lo Welfarestate sia in crisi: ma che cosa sostituirgli? E’ certo che la situazione generale socio-economica si è trasferita e trasfigurata nella dimensione della << sussunzione reale >>: quail saranno gli assetti politici e giuridici che ne seguono?

E’ con queste questioni che si misura il neocontrattualismo anglosassone nell’ultimo ventennio. Un neocontrattualismo che assume varie figure, o puramente liberali e giusnaturalistiche (alla Nozick) oppure socialdemocratiche e consensualistiche (alla Habermas) - oppure, infine, propriamente neocontrattualistiche alla Rawls. Ora, a noi interessa soprattutto cogliere quel memento attorno al quale l’analitica del diritto, un’analitica radicata nella società della << sussunzione >>, comincia a configurarsi. E subito vedremo come il risultato del pensiero kelseniano sia qui assunto, come il suo formalismo sia qui utilizzato - ma vedremo anche come, dentro il nuovo livello di realtà che è assunto, vengano fatti vivere valori e posizioni ideologicamente pregnanti, volte a distruggere, veramente ab imis, ogni permanenza del Welfarestate.

La crisi del Welfarestate è dunque considerata irreversible. Al Welfarestate va opposta una concezione che sappia far valere un’ideologia individualistica nel sistema del diritto. Questo individualismo deve coniugarsi ad un orizzonte pluralistico ed egalitario e concorrere alla formazione di uno schema di legittimazione del diritto e della società economica, così come essi sono dati nello sviluppo capitalistico. Il contrattualismo non si propone di costruire schemi di regolazione, si propone piuttosto di determinare le condizioni affinché possa essere organizzata la società nel periodo dopo lo Welfarestate. Si badi bene: c’è un individualismo conservatore, legato a valori immobili, patrimoniali e monetari,. e c’è un individualismo egalitario: fra questi il contrattualismo sceglie, e sceglie decisamente, nel senso del secondo polo dell’alternativa. C’è poi un utilitarismo borghese e un utilitarismo che riguarda le finalità sociali complessive: anche in questo secondo caso il contrattualismo

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pretende di scegliere il secondo dei due principi. Sicché esso ritiene di potere costruire uno schema di equilibrio sociale orientato dal principio di eguaglianza, sorretto da un principio di reciprocità formale, sviluppato in termini sostanzialmente riformistici. E’ chiaro che mai come in questa posizione risulta evidente la paternità filosofica del kantismo e di una certa neokantiana fenomenologia: le figure di orientamento e di tendenza che sono definite nel neocontrattualismo stanno infatti a mezzo fra il formalismo dell’intelletto e lo schematismo della ragione.

Con ciò un certo tipo di dinamicità formale è impressa al circuito: laddove tuttavia deve essere chiaro che non v’è soggetto se non come imputazione formale del circuito stesso. Caratteristica del neocontrattualismo è il fatto di distruggere ogni soggettività indipendente, di considerarne la possibilità solo in termini di aggregazione formale. E’ difficile riassumere brevemente la complessità di mezzi che viene in proposito messa in atto per raggiungere la descrizione di uno schema di << reflective equilibrium >> sociale-giuridico. Da un lato giocano, nel senso di questa costruzione, gli elementi già ricordati della filosofia kantiana e fenomenologica - dall’altro giocano soprattutto le sollecitazioni che derivano dalle correnti anti-utilitaristiche degli anni ‘30 (Lionel Robbins, Hayek ecc.), e soprattutto che pervengono agli autori del contrattualismo da parte delle scuole scettiche e realistiche di Pareto, di Arrow ecc. Insomma i contrattualisti cercano di identificare un terreno sul quale dei soggetti fittizzi, eguali, equivalenti si confrontano l’uno con l’altro, determinando all’interno di questo confronto, e come riflessione su questo confronto, la loro costruzione come soggetti giuridici. Vale a dire che l’individualismo contrattualista vuole distruggere ogni referenza ontologica del soggetto. Ma non avevamo noi stessi sostenuto che l’unico livello interessante per l’analisi era appunto quello sul quale l’astrazione trionfava e il complesso delle relazioni socio-politiche e giuridiche si offriva solamente come contesto di equivalenze! Certo - ma questo non significa non cercare di reidentificare, una volta riconosciuto e fissato questo livello come terreno adeguato della ricerca, gli antagonismi soggettivi. Il problema non è quello di negare la trasformazione del reale che abbiamo dinnanzi - è bensì quello di cogliere in questo reale modificato, il riproporsi dell’antagonismo, il funzionamento dei meccanismi della soggettività. Sembra chiaro allora che la teoria neocontrattualistica, a fronte della crisi del Welfarestate e della prassi di regolazione giuridica del medesimo, pur riconoscendo che questa crisi è definitiva, tenta semplicemente il ricorso ad un nuovo formalismo - nello sforzo di comprendere analiticamente il nuovo. Ma è appunto questo il momento critico: quando il contrattualismo nega la possibilità di considerare i soggetti della contrattazione riformistica se non dal punto di vista di un’identificazione riflessiva e formale. Occorre andare

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a fondo su questo concetto di riflessività. Esso ha lo spessore della profondità, ha una liquida densità. Da esso non sembra possibile uscire. Detto tutto ciò risulta evidente che questa specie di formalismo al quadrato, questo riflettersi della forma in se stessa definisce esattamente la sostanza del problema e non ne costituisce la soluzione. Che cos’è infatti l’orizzonte della << sussunzione reale >> se non appunto questo ingigantirsi ed ispessirsi dell’orizzonte della forma? Ma, laddove lo stesso Kelsen comprendeva che dentro questo processo si definiva una nuova realtà, i neocontrattualisti godono nel giocare formalisticamente gli elementi di questo nuovo complesso. Davvero non può nascere determinazione in una notte siffatta - qui << tutti i gatti sono bigi >>.

Eppure questa insistenza sulla definitività della crisi di regolazione del Welfarestate, questa descrizione così approfondita della società attuale come insieme formale di relazioni riflessive, potevano permettere di inquadrare i nuovi elementi di conoscenza e di impostare una soluzione giuridica adeguata. Qui invece ci troviamo di fronte alla vittoria del momento di mistificazione. La legittimazione del potere dovrebbe nascere, in questo schema, dallo sviluppo ordinato delle relazioni formali - ma tutto ciò è pura e semplice mistificazione, e i valori formali non hanno certo la capacità di mordere criticamente la realtà, hanno al massimo la possibilità di veicolare lo stato di cose esistenti. Sicché, anche a questo proposito, sembra che il vecchio kelsenismo sia teoria, malgrado tutto, più scientificamente efficace: esso infatti sembra rappresentare il problema dentro un quadro dinamico e proporre la tematica dei coefficienti d’adesione dei soggetti ai principi della legittimità, in termini aperti ma, malgrado tutto, più definiti di quanto non faccia il contrattualismo.

E’ strano considerare il modo in cui la crisi dello Stato keynesiano si sviluppa fra questi autori. C’è infatti un’ostinazione nel negare la presenza di soggetti collettivi nello sviluppo della stessa crisi del Welfarestate - ostinazione davvero incredibile! Questa mancanza di concettualizzazione nei riguardi dei soggetti collettivi si regge fondamentalmente su due punti di vista: il primo consiste nel negare che in qualsiasi memento si possa dare un equilibrio sostanziale al rapporto di produzione, quando dentro questo rapporto si muovano soggettività collettive; il secondo punto consiste nell’affermare che non si potrà mai dare coerenza fra interessi dell’individuo e determinazioni collettive del soggetto. Sicché la stessa esistenza del contratto fra gli individui è sempre aperta alla crisi. La razionalità della produzione e la durabilità del contratti prevedono dunque l’autorità - ma dentro questa stessa previsione è escluso che ciò che deve essere garantito possa essere il garante - e la difficoltà insormontabile di costruire soggettività collettive ci costringe dunque a ripiegare sul formalismo. Ma è corretta questa impostazione? E chi garantisce che l’elemento

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fondamentale cui riferirsi sia l’individuo? Può mai funzionare un sistema produttivo moderno sulla base dell’individualismo? E che significato ha parlare oggi di contratti su base individuale? Se si parla di crisi del Welfarestate e di entrata in una fase di << sussunzione reale >> è appunto per porre il problema di una fondazione collettiva infinitamente più avanzata, per quanto riguarda la struttura del diritto e dello Stato! Eccoci dunque a cogliere quello che è il buco nero delle teorie neocontrattualiste nell’evoluzione della tematica della crisi del Welfarestate. Il formalismo che esse introducono è un passo indietro rispetto allo stesso formalismo kelseniano. L’unico contributo importante di queste correnti viene dalla forte caratterizzazione dell’orizzonte della << sussunzione >> che è il presupposto dell’analisi. Questo presupposto viene poi abbassato ad un intreccio di volontà e di intenzioni individuali. Ci è data cioè in forma mistificata, e solo in forma mistificata, la modificazione del quadro di riferimento. In forma mistificata, tutto questo ci è dato per una sola ragione: negare assolutamente l’esistenza del soggetto e la possibilità che rinasca antagonismo sul livello della << sussunzione >>.

5. Luhmann: il modello strutturale e la sua critica.Riguardando al modello analitico che è costruito dalle teorie

neocontrattualiste e connfrontandolo con l’impostazione sistemistica che adesso considereremo con cura, va subito detto che il neocontrattualismo si rivela essere una determinazione di passaggio, un fenomeno teorico transitorio piuttosto che una sicura conclusione del processo analitico stesso. Voglio dire che il neocontrattualismo rivela al suo interno una serie di componenti, che sono accostate più che sintetizzate, una serie di elementi tipici della tradizione anglosassone ed in particolare della sua variante conservatrice (non è tanto Locke, quanto Burke per intenderci). Il neocontrattualismo, nella sua fondamentale spinta verso l’appiattimento formale delle contraddizioni, verso un egalitarismo del tutto vuoto di pulsioni soggettive, vale in realtà a descrivere una serie di comportamenti diversi e a confondere le diversità, piuttosto che esaltarne un meccanismo di mediazione. Per riprendere la nostra terminologia (e quella marxiana) si potrà dire che il neocontrattualismo è una teoria giuridica del passaggio dalla << sussunzione formale >> a quella << reale >> che esso raccoglie gli elementi diversi di una tradizione composita per confonderli in un quadro sintetico, che ha bensì trovato una dimensione unitaria ma non ancora determinato l’efficacia di un unico motore. Stato e diritto vengono così reinterpretati dentro una fluida mélange di liberalismo, contrattualismo, federalismo e, insomma, di tutti quegli elementi che in qualche maniera hanno potuto caratterizzare lo sviluppo dello Stato liberale nell’ultimo secolo. Da questo punto di vista, e forse in tal modo correggendo delle affermazioni fatte

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nel paragrafo precedente, si può dire che qui permane una fondamentale tensione alla legittimazione, che essa si esprime attraverso queste resistenze ed insistenze tradizionali, che quindi l’egemonia della legalità sull’orizzonte della legittimità è comunque parziale e, in maniera latente ma reale, sempre insidiata.

Non così certo vanno le cose quando tocchiamo le teorie sistemiche. Il loro radicalismo configura definitivamente l’orizzonte del diritto nella << sussunzione reale >>. L’analitica è qui completamente sviluppata, è l’analitica di una cosa, di una formidabile morta potenza. Vi è un barlume di estetica trascendentale che si intravede alla base della monumentale costruzione analitica: è la definizione della contingenza delle relazioni sociali. Una contingenza, tuttavia, che non pone il problema di una determinazione e di una scelta ontologica che valgono a superarla; al contrario, questa contingenza è assolutizzata, ogni valore in essa circola in maniera completamente indifferente ed equivalente, nessuna selezione può essere ontologicamente definita, la circolarità è Completa e la tautologia, che su questa circolarità di referenze si forma, è anch’essa totale. Su questa base ci si pone il problema: << eliminare la tautologia nel sistema di autoreferenza: l’obiettivo risiede nell’autocatalisi nella riduzione della sfera del caso al momento della costituzione del sistema >>. Si vede quanto l’estetica trascendentale sia mero elemento di orizzonte, quanto il riferimento alla contingenza valga la pena ad identificare, in senso esclusivo, un rapporto verso la fatticità analitica. Il tramite della costruzione sistematica è la comunicazione: << la comunicazione è un processo necessariamente riflessivo che si integra in se stesso come comunicazione >>, << il Consensus è il telos della comunicazione >>. Tutto ciò per affermare infine che sono solo le dimensioni del senso quelle sulle quali le determinazioni della comunicazione includono la significanza di ogni fenomeno sociale ed escludono ogni rinvio al di là di questo orizzonte autoreferenziale.

L’illuminismo sociologico e giuridico di Luhmann diviene a questo punto lo strumento fondamentale per la costruzione del sistema, quando si tenga presente che questo illuminismo è la capacità di determinare connessioni formali, di semplificare il complesso, di costruire il sistema. Illuminismo è qui riduzione, ovvero la produzione di un orizzonte semplice, semplificato, che si ponga come condizione della logica sistemica. E’ incredibile come questo meccanismo totalmente formale cresca su se stesso, si espanda, si rafforzi. E’ una protesi della natura che domina la natura: << i concetti tradizionali di autoreferenza, di riflessività, di riflessione sono così trasferiti dalla teoria del soggetto alla teoria dei sistemi; essi sono trattati come strutture della realtà e la conoscenza appare allora nel sistema come un caso del processo di autoastrazione della realtà >>. Il meccanismo epistemologico che regge questo sviluppo conoscitivo interpreta

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una funzione fondamentale, che è quella della neutralizzazione degli antagonismi, meglio, della distruzione di ogni orizzonte di valore, della destrutturazione completa di ogni determinazione ontologica propria dell’universo dell’autodeterminazione (del mondo dell’astrazione del lavoro). Così si chiude il processo costitutivo dell’orizzonte... e chi può più dire di quale orizzonte? Orizzonte della legittimità o della legalità? Quando ogni elemento ontologico è chiuso in una indifferenza che è totale nei confronti di altre possibilità, quando la dinamica dei fattori è sempre manipolabile in maniera da poter essere compatible con la stabilità del sistema, quando ogni determinazione viene assorbita sul terreno del senso, - a questo punto la stessa indicazione di una alterità fra validità ed efficacia, tra legalità e legittimità risulta inafferrabile. Come dice giustamente Gozzi: da questa situazione << consegue un processo senza struttura, un’evoluzione senza soluzioni di continuità in cui il momento dello scontro viene allontanato nell’infinita possibilità di differenziarlo attraverso la struttura del potere (monetizzazione, giuridicizzazione, politicizzazione, spoliticizzazione, ecc.). NelI’evoluzione delle forme sistemiche anche la decisione diventa solo una funzione del mutare contingente delle strutture >>. Che dire dunque in questa situazione? Dove mai sarà la differenza fra quei sensi fondamentali - verso l’ideale, verso il reale - che caratterizzano l’esperienza? Qui dominano tautologia e fluttuazione, qui emerge un parmenidismo essenziale. Qui l’orizzonte della pura contingenza diviene una prigione che trattiene dalla ricerca del significato.

Eccoci, dunque, al centro di un’operazione resa necessaria dal passaggio compiuto alla << sussunzione reale >>: la distruzione dei valori. Come nella teoria neocontrattualistica avevamo visto i soggetti sfumarsi dentro un meccanismo formale di interrelazioni, così ora vediamo l’orizzonte del valore dissolversi dentro la mobilità del sistema. Al di là dello schema teorico v’è quindi un duplice meccanismo: il primo è quello della distruzione dei valori nel senso del riconoscimento che questi possono in ogni caso organizzare un elemento di blocco, di opposizione e di crisi, del processo di legittimazione dello Stato democratico-capitalistico; il secondo è un meccanismo di sostituzione dell’orizzonte stesso sul quale le contingenze si scontrano. Voglio dire che il sistemismo segue il processo di << sussunzione >>, coglie di questo il carattere radicalmente catastrofico ed innovativo, identifica la dimensione astratta che caratterizza questo nuovo universo, caratterizza in maniera adeguata (contingenza versus comunicazione) questo stesso universo, - ma fa tutto questo per eliminare ogni possibilità di opposizione, per eliminare le stesse condizioni dell’opposizione, delle determinazioni storiche. Il sistemismo costituisce al reale un mondo che non è finto nei meccanismi di astrazione che lo producono - diviene finto, posticcio, fittizio, solo nella mistificazione del risultato - quando

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cioè questo mondo viene svuotato di ogni vita.E’ esattamente quanto i critici rimproverano a Luhmann. Assumiamo e

seguiamo, ad esempio, le critiche di Habermas. Esse si concentrano contro le affermazioni di Luhmann relative alla possibilità di autoadattamento dell’amministrazione rispetto alla complessità dei problemi del capitalismo avanzato; inoltre, Habermas insiste sul deficit di razionalità che è sempre presente, e a cui certamente non si può ovviare in termini filosofici, nel rapporto tra amministrazione e controllo. In entrambi i casi Luhmann proporrebbe una pianificazione globale non partecipativa, una determinazione dell’intervento amministrativo priva di controlli che non siano puramente tecnici. Ma la tecnica non può in ogni caso sostituirsi al consenso, soggiunge Habermas, - ed è impossibile sottrarre lo statuto logico di un progetto di pianificazione o semplicemente di un disegno o di un’organizzazione amministrativa alla scelta politica di un certo (o di un altro) concetto di razionalità. Questa critica di Habermas coglie non solo del punti singoli della sistematica di Luhmann - essa coglie l’ispirazione stessa di quella teoria. Vale a dire che l’analitica viene qui svelata nella sua estrema e ultima prepotenza che è quella di togliere ogni possibilità di ricorso alla determinazione ontologica, al fatto, ai movimenti della vita. E’ quella di sostituire il reale. Si badi bene: non è contro la materialità, l’effettualità di questo passaggio che qui si polemizza, è piuttosto contro il fatto che la verità di questo passaggio è opposta alle dinamiche completamente umane, fisiche materiali che, sia determinano il passaggio, sia continuano a caratterizzare il risultato. Da questo punto di vista la stessa critica di Habermas è, per quanto corretta, solo parziale: qui infatti non si tratta di attaccare le insufficienze tecniche del discorso di Luhmann (il quale, tuttavia, illustra fino in fondo il passaggio alla << sussunzione reale >>), qui si tratta di andare a fondo sulla qualificazione di questo universo nuovo dentro il quale viviamo e di riqualificare le categorie sociali e la loro critica a questo livello.

Ora, è la posizione, critica e/o costruttiva, che le scuole tedesche (Habermas, Apel, Tugendhat, ecc.) assumono, sufficiente a rispondere agli interrogativi proposti dal sistemismo? A me non sembra. Infatti la linea alternativa al sistemismo, (sulla base della medesima fenomenologia che il sistemismo assume) è identificata in una nuova definizione di trascendentalismo. Vale a dire che il rapporto tra sfera del senso e mondo dei significati sociali viene identificata in genere qui su un terreno medio di espressione del valore. Il mondo della comunicazione e quello delle contingenze empiriche sarebbero attraversati da un asse, a sostanza etica, che può ridurre in maniera non tecnica, in forme non meccaniche, la complessità reale. Le differenze fra codici linguistici, fra determinazioni pratiche che discendono dai temi linguistici, fra le

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varie sequenze temporali entro le quali le determinazioni della comunicazione vengono svolgendosi, - tutto questo deve essere risolto attraverso un’operazione pragmatico-trascendentale che, per i filosofi tedeschi che si scontrano con il sistemismo, consiste nel principio del consenso. Laddove il sistemismo tiene, e forma, anche sul livello del massimo di astrazione, il principio tradizionale dell’obbligazione, vi questi nostri amici tedeschi (che ormai possiamo cominciare a chiamare filosofi critici) introducono il tema del consenso come tessuto sul quale costruire assi di legittimità. Quanto poco questo processo ci entusiasma, sarà già apparso chiaro dal tipo di esposizione che ne abbiamo fatto. Certo, onesto è il tentativo di opporsi a quella fondamentale e rigorosa distruzione della prassi che caratterizza il sistemismo; certo, è molto importante questo riagganciare il tema dell’etico e riproporlo come chiave di comprensione logico-teorica; certo è essenziale porre il problema di un attraversamento ontologico (sia pure, appunto, etico) sull’orizzonte della << sussunzione reale >>. Ed è a tutti questi problemi infatti che dovremo rispondere. Ma non v’è speranza di soluzione laddove ci si tenga, come fanno filosofi citati, all’orizzonte del trascendentale, alla dimensione della mediazione.

Ma su di questo già detto moltissimo e a più riprese, inoltre saremo più innanzi ancora costretti a tornare su questo vizio occulto della filosofia (e della filosofia critica in particolare) che si chiama analitica. Qui per concludere cerchiamo piuttosto di dare, e questa volta senza rivolgersi agli amici tedeschi, una valutazione complessiva e definitiva del sistemismo. Che dire dunque? Che dire se non che esso rappresenta un’ambiguità enorme? Esso è ambiguo infatti perché comprende e offre insieme due dimensioni, una prima - corretta - di analisi, ed una seconda di mistificazione. Il sistemismo definisce correttamente la dislocazione, il salto epocale, che l’organizzazione del sistema dei valori costruisce nel nostro tempo a fronte delle necessità dello sviluppo capitalistico maturo. Il sistemismo descrive questo universo in maniera ricca e per alcuni versi compiuta. A lato di questo esso mistifica il processo: ce lo dà come disperato orizzonte dal quale non e possibile evadere, sul quale si e obbligati ad autoriferirsi a se stessi. Ma a quale se stessi? Perché infatti qui, non solo non si danno soggettività, qui non si danno più neppure valori - qui si possono dare solamente forme di controllo su un contesto di indifferenza totale. Il sistemismo è dunque una via per la mistificazione: il fatto che la mistificazione risulti efficace risulta dal fatto che la fenomenologia sulla quale il sistemismo lavora, è esatta.

6. L’antagonismo nella teoria della legittimazione.Tentando di riassumere e di definire lo stato della dottrina del diritto nella

fase attuale dobbiamo notare con quanta forza il passaggio ad un’altissima

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integrazione sociale abbia influito sulla forma della scienza. In ciò consiste la faccia positiva delle discussioni che, sulla natura della scienza e sul suo sviluppo, oggi sono aperte. Ma d’altra parte questa pressione della farina dell’interazione sociale sulla farina della scienza si è prodotta in termini meccanici. Il pensiero borghese si presenta, quindi, nella sua versione forte, come sistemismo, nella sua versione debole, come funzionalismo e contrapposizione. Ma non sono queste definizioni, dentro il rapporto lineare che la lega all’integrazione sociale, piuttosto fossili risultati che prodotti viventi del rapporto fra scienza e società?

E’ caratteristico il modo nel quale le tendenze a trasferire il rapporto sociologico (e la sua sempre più stringente moderna qualificazione) versa il terreno della scienza, come l’apporto di Max Weber alla sociologia della conoscenza e della scienza, siano stati qui corrotti. In Max Weber la scivolare del significato, del valore, dal piano della realtà a quella della rappresentazione, costituiva un rapporto contraddittorio: non dialettico, ma contraddittorio. La contraddizione non si chiudeva in nessun caso ed il trasferimento delle tematiche castituiva [costituiva?], per così dire, un piano di intersezione, mobile, orientato in infiniti sensi, - sicché ogni passaggio versa l’astratto determinava conflitto, fissava ai valori direzioni politeiste, offriva alla scelta una dimensione tanto trasversale quanto multilaterale. Ma ora, che cosa avviene? Guardiamo a questi weberiani accademici: in loro ogni drammaticità inerente allo scontra dei valori è caduta - la loro unica preoccupazione è che i criteri di legittimazione possano scontrarsi - o non formarsi compiutamente ed egemonicamente sul lato del potere esistente. E per loro la democrazia è sempre un eccesso che va corretto (come un indimenticabile saggio della Trilaterale ha raccontato per il nostro secolo). Così in Raymond Aron la burocrazia diviene, molto poco weberianamente, non un prodotta di un processo di legittimazione fondato comunque su scelte ed antagonismi di valore, ma la base di ogni moderna democratica fondazione della legittimità. Così per Michel Crozier i processi di burocratizzazione diventano talmente centrali nella considerazione che, non prima o attorno o comunque fuori di essi, ma solo dentro di essi, processi di valore e di legittimazione possono definirsi. In questo modo il sistemismo tedesco ed anglosassone viene tradotto in francese, con il vantaggio di essere rivestito di politica, di esperienza amministrativa e di buon senso burocratico. La figura astratta, provocatoria, radicale del sistemismo tedesco e anglosassone è tolta. Il sistemismo viene ovattato - perde in realtà anche le sue caratteristiche fenomenologiche e descrittive, positive per quanto riguarda la nostra conoscenza dei fenomeni e delle trasformazioni della contemporaneità; ed in tal modo si riduce a pura e semplice fossile escrescenza di un processo concluso. L’antagonismo che è alla base del passaggio verso la << sussunzione

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reale >> è così cancellato in maniera, non più radicale, provocatoria, offensiva per la ragione - forse proprio per questa prepotenza, utile - bensì ne è imposta una negazione fluida e surretizia. Nel nostro tempo vediamo questa fossile mistificazione dei processi di legittimazione nella << sussunzione reale >> divenire assolutamente egemonica E quando si piange sulla spoliticizzazione o sull’indifferenza dei singoli e delle masse, è a ciò che occorre far risalire il pensiero: a questa fissazione, ormai indiscutibile, del tema della legittimazione.

Di contro, tessuti vari e campi diversi di esperienza. Vi è una nuova << Entzauberung >> che si sta mettendo in atto. Questa meraviglia, questo stupore filosofico che deve portare allo smagamento non può oggi esercitarsi che su questa dimensione formidabile del nostro esistere in quanto esseri sociali. La << sussunzione reale >> e le forme di legittimazione, fossili e spente, che di essa organizzano la struttura politica e quella giuridica si scontrano a tal punto con il sentimento comune, ed a tal punto rivelano la contingenza di ogni soggetto implicato in questo meccanismo, che il dubbio e la volontà di rispondere non possono che farsi radicali. Abbiamo già visto nella prima parte di questa nostra ricerca come appunto sia a fronte della << sussunzione reale >> e di quel << postmoderno >> che in parte letterariamente li incarna, che la coscienza della contingenza e l’estremo radicalismo delle sue scelte vengono emergendo. Qui non ci interessa tornare a quella profondità: qui ci interessa piuttosto restare in superficie, - eppure considerare come da questa superficie si diramino delle possibilità di domanda metafisica, e già, prima, delle domande che investono, attraverso il tema della legittimazione, la ragione dell’esistenza sociale. Quando l’uomo è completamente sussunto nella forma della società, la dignità della filosofia si fonda intera sulla sua adesione al sociale. Venendo al concreto: l’esperienza, quella stessa esperienza che si scontra con la rigidità delle mistificazioni del << postmoderno >>, determina un’insofferenza, una tensione di rottura, riapre in ogni caso del fronti di antagonismo che vengono vissuti drammaticamente dal soggetto. Certo, i processi di << sussunzione >> non lasciano spazi di agibilità per il soggetto, al di là di quella superficie totale sulla quale egli è schiacciato; certo, la domanda sull’essere è domanda sull’essere sociale quale questo viene rappresentandosi in questa nostra esistenza sussunta. Ma è appunto questo apparire della soggettività sulla, e come, superficie del mondo che ripropone un pluralismo a fortissima densità ontologica - ma pluralismo qui, non può che significare, sul largo orizzonte della << sussunzione >>, il costituirsi di chiaroscuro, il definirsi sempre meno evanescente dei nuclei di soggettività, insomma l’eventualità, meglio la possibilità, di antagonismo. Io non so come questa esperienza possa essere compiutamente descritta: qui è luogo, in questo nostro triste tempo, alla letteratura ed alla poesia più che alla filosofia. Ma è certo che quando, ad

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esempio, la genesi di questi antagonismi sul terreno sociale viene impattata da meccanismi di legittimazione rigidi e repressivi, è certo che allora lo scontro fra libertà e necessità, tra vita e morte, tra dinamica e forza fossile di questo mondo dominato, diviene un elemento di definizione ontologica della società. La soggettività come superficie del mondo è un paradosso - ma questo terreno paradossale è attraversato da tensioni inesauribili che definiscono ogni orizzonte di vita come terreno di scontro, di genesi e/o di equilibrio di valori.

Nella teoria della legittimazione ci troviamo quindi di fronte, da quello che siamo venuti dicendo, all’opposizione di due grandi prospettive teoriche. Da un lato vi è lo schema della legittimazione così come è proposto dalle forze che hanno dominato il processo della << sussunzione >>: qui, fra neocontrattualismo, funzionalismo e sistemismo, la macchina del potere tenta di costruire l’intera panoplia dei beni e dei soggetti giuridici. Che il diritto sia una macchina per la produzione di qualificazioni per l’azione umana, sociale, è noto: meno noto è il fatto che qui non si parla di valori da organizzare o di soggetti da qualificare, si parla bensì di valori e/o soggetti da costruire o da distruggere. Nella socialità della << sussunzione >> la produzione di soggettività da parte dello Stato si vuole totale. Totale significa, in questa accezione, esclusivo di ogni altra autonoma insistenza di valori o soggetti e di ogni altro meccanismo di produzione di valori e di soggetti. L’egemonia della produzione di valori e soggetti da parte dello Stato, o del potere, è organizzata nel processo di legittimazione - e questo processo è lineare, ha la violenza di un normale fenomeno naturale, è guidato da leggi di semplificazione tanto efficaci quanto lo sono le leggi naturali. Ma si sa bene che l’astrazione delle leggi naturali corrisponde solo eccezionalmente alla concretezza del reale. Ed é per questo che le teorie della legittimazione, funzionali, neocontrattuali, sistematiche, sono costrette a muoversi in un mondo di evanescenti figure o di irraggiungibili fantasmi. In questa teoria della legittimazione, l’astratto è astratto. Non così nella realtà della << sussunzione reale >>: dove l’astrazione è divenuta vita. Se non si capisce questo si resta prigionieri della forma mistificata dell’astrazione, sulla quale si basa il modello del dominio. L’uomo è divenuto diverso, si è arricchito di un’enormità di forze intellettuali e morali. Il suo cervello è divenuto mille volte più astratto, le sue mani non servono più ma le macchine sono sempre le sue mani. E’ questo rapporto, che deve essere rapporto di dominio dell’uomo su questa natura trasformata e meccanizzata, che costituisce la vita nella << sussunzione reale >>. La si potrà amare o no, ma è la vita. Ma è vita. Ed è talmente diversa, e mette in movimento un insieme di forze talmente opposte a quello che è il dominio e la nuova astrazione dell’analitica, - bene, è questo il terreno sul quale l’analisi va riportata. Se i meccanismi di legittimazione e i processi complessi che conosciamo attraverso le teorie del

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diritto, vogliono fissare nell’astrazione dei meccanismi di produzione di soggettività, noi d’altra parte siamo dentro un tessuto vitale che, per parte sua, continua a produrre soggettività.

Vale la pena di porsi il problema di una rifondazione della teoria del diritto? Per chi abbia fatto l’esperienza di quanto le teorie del diritto e dello Stato siano sempre state il prodotto di una volontà di dominio e come, addirittura, essendo la centralità e l’importanza di queste teorie eccezionale, le stesse figure disciplinari della logica, dell’etica, del sapere in generale, siano subordinate alle ingerenze di dominio delle teorie politico-giuridiche - per chi dunque abbia fatto questa esperienza la risposta è facilmente negativa. Noi continuiamo a costruirci la gabbia dentro a quale ci imprigioniamo. Ma questo forse giusto, certo mistico rifiuto, se vale a toglierci la volontà di rifondare teorie del diritto, certo non vale ad imporci [imporsi?]di capire che cosa avvenga sul terreno sociale della produzione e della regolazione di valori e di soggetti. Ora, è fuori dubbio che qui l’antagonismo non solo non può essere negato ma costituisce addirittura l’esclusiva chiave di ogni considerazione teorica. E non solo: qui l’antagonismo e le sue ragioni e il suo modo di essere provano la lore esclusività sul terreno della << sussunzione >>. La concezione dell’analitica, secondo la quale il modello teorico antagonistico (un antagonismo fondato su espressioni ontologiche) scoperto nell’estetica trascendentale, deve essere riplasmato per potersi collocare nell’analitica e per poter quindi essere trasferito, già in forma modificata, verso la dialettica trascendentale - bene, questa pretesa è insostenibile qualora ci si tenga a quella prova di irriducibilità che continuamente la moderna << Entzauberung >> produce.

L’antagonismo è il processo di sviluppo della << sussunzione >>, è la << sussunzione >> in atto. L’antagonismo è quindi l’esperienza dentro la quale viviamo la crisi ed il suo superamento. L’antagonismo è d’altra parte la bestia nera, l’elemento assolutamente inaccettabile dalla parte dell’avversario. Ogni meccanismo di legittimazione dovrebbe concludere all’eliminazione dell’antagonismo. Ora, è proprio tenendo presente queste assunzioni, largamente dimostrate nelle pagine precedenti, che lo statuto logico dell’antagonismo emerge in maniera ineliminabile. Oggi il nostro problema è quello di ritrovarlo, di riqualificarlo positivamente nell’ambito della << sussunzione reale >>. Il problema non sarà quindi certo quello di rifondare teorie del diritto e dello Stato, - è solo quello di identificare l’antagonismo come chiave del processo di integrazione sociale, di amministrativizzazione della << sussunzione >>, insomma come nuova natura del processo scientifico. Probabilmente, proprio perché l’antagonismo è questa nuova natura del rapporto scientifico, è probabilmente per questo che la scienza del diritto avrà

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finalmente mostrato il suo limite costituzionale, ovvero quel limite al di là del quale non vi è riproduzione. Di questa crisi non potremmo che essere contenti. Ma ciò che interessa, è cogliere la nuova natura della rappresentazione scientifica dell’antagonismo. L’analitica sola il diritto, e le teorie dello Stato, in un ambito disciplinare specifico per noi tutto questo non ha senso. La << sussunzione >> ha prodotto l’unificazione dei terreni disciplinari, ha reso concreta l’universalità del sapere. Ora, su questo terreno, la scienza del diritto e dello Stato possono solo essere subordinate a quella scienza sociale trasfigurata di cui la << sussunzione >> permette ed esige la vita. L’antagonismo è quindi rivelazione di una crisi ed, insieme, costruzione di un nuovo terreno. Nuovo terreno? Solo impropriamente possiamo dirlo, perché in realtà non si tratta di accedere ad un nuovo campo di indagine, qualificato in termini originari: si tratta bensì di ritornare a quella dimensione fenomenologica, a quella estetica trascendentale da cui siamo partiti. La conoscenza della << sussunzione reale >> si determina nell’immediatezza dell’esperienza. Questa pratica viene prima di qualsiasi nuova idea della scienza e della natura. Essa deve comunque distruggere ogni tentativo di mistificare attraverso la mediazione teorica il tessuto vivo dell’esperienza. Questo tessuto è caratterizzato in maniera esclusiva dall’immediatezza dell’antagonismo.

7. Per una nuova determinazione del problema.Da quanto siamo venuti dicendo in questa parte del nostro lavoro risulta

chiaro che un’epistemologia della legittimità non potrà ormai porsi se non su un terreno sul quale le vecchie antinomie giuridiche risultano ineffettuali. Ci troviamo davanti una possibilità molto interessante: è quella di muoversi dall’interno di un orizzonte, meglio, di una macchina, che caratterizza l’intero contesto della nostra esperienza. Sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, sia dal punto di vista individuale che da quello collettivo. La << sussunzione reale >> ed il suo mondo si manifestano come seconda natura. Ne hanno lo stesso spessore. Hanno della prima natura il colore e la forza, ma di quella hanno maggiore intelligenza e più consistente capacità di produzione. Ci dobbiamo dunque dichiarare, dentro questa natura rinnovata, dentro questa storia consolidata, a partire dalla capacità di far funzionare almeno parzialmente questa macchina nella quale siamo inseriti, - ci troviamo dunque a potersi [poterci ?] dire giusnaturalisti. Non è un paradosso: semplicemente il sentimento più forte che la protesi è divenuta più umana dell’umano e che natura e storia sono indistinguibili: sicché la salvazione dell’una o dell’altra e la riproduzione di entrambe si costituiscono in un solo atto.

Ma il nostro problema è evidentemente, su questo limite di analisi critica dell’analitica trascendentale, soprattutto quello di fissare il quadro

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epistemologico della legittimità giuridica. Ora, piuttosto che totalmente, noi possiamo qui solo definire alcune condizioni che rendono un approccio costruttivo, a questo problema, possibile. I tre punti sui quali ci fermeremo qui di seguito sono: la critica del funzionalismo, la critica dell’intuizionismo, la critica dell’autoreferenzialità del processo.

Per quanto riguarda il funzionalismo - ma potremmo [potremo ?] anche dire di tutta quella serie di ipotesi che stanno fra formalismo e sistemismo - possiamo dunque concludere l’analisi già così largamente sviluppata insistendo sul fatto che questa serie di teorie finisce per non spiegare nulla, nella misura in cui, anziché teorie, esse rappresentano dei materiali della costruzione del mondo sussunto. Certo, dentro questa coerenza del quadro, il funzionalismo produce, per quanto riguarda l’ambiente della nostra esistenza e riproduzione, una serie di spunti di valore. Vale a dire che la produzione collettiva di momenti innovativi ed in generale il passaggio ad una nuova epoca (che è quella della << sussunzione reale >> trova nel funzionalismo una specie di codice di regolazione, meglio una stabilizzazione, un’immediatezza, una coerenza che di quei valori innovati fanno un paesaggio. Una seconda natura, appunto. Detto questo tuttavia non si è aggiunto molto all’analisi, poiché infatti risulta sempre più evidente che su questa base possono a pari titolo trovarsi cose tanto diverse quanto un movimento di liberazione o operazioni di mistificazione. Non è il funzionalismo che può distinguere le une dalle altre - anzi, esso ci consegna entrambe le possibilità come equivalent,, o perché - su un lato - di tutte il funzionalismo ci propone un minimo comune denominatore formale, o perché - su un altro estremo - il sistemismo ci mostra la connessione e la possibilità di ribaltamento dell’un termine e dell’altro. Il funzionamento gioca sempre fra la statica formale e la dinamica sistemica. Il funzionalismo ci mostra un mondo nuovo, ma esso è, in questo mondo nuovo, dominato da un passivo sbalordimento.

D’altro lato, questa serie di valori, che si sono consolidati sul nostro orizzonte, noi possiamo intuirli. Il giusnaturalismo è sempre, per qualche verso, un intuizionismo. Infatti esso prevede l’immediatezza dei valore, il loro solido consistere e il loro materiale offrirsi. Il valore è, nell’intuizionismo, qualcosa di percepibile immediatamente - e anche quando questo nuovo giusnaturalismo si presenti nella forma della << sussunzione reale >> e/o del postmoderno, bene, allora i valori, conterranno una tensione a distendersi entro la circolazione generale - dentro la comunicazione che costituisce l’orizzonte: non per questo essi saranno meno mediabili e la loro scambiabilità, non per questo, rinnegherà la consistenza assiologica. Ciò detto, tuttavia, non ci resta che trarre, anche in questo caso, delle conseguenze critiche. In ogni intuizionismo infatti, ed anche

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in questo che pure è così sofisticato, vi è sempre un momento fondamentalista - vale a dire un momento nel quale il valore si sottrae alla circolazione - ma questo è contro l’ipotesi del passaggio alla << sussunzione >> sia formale che reale. L’intuizionismo è la filosofia delle anime belle - purtroppo, a questo livello di sviluppo, c’è poco spazio per queste filosofie. Logicamente l’intuizione propone, sia pure in forma introduttiva, una teoria della legittimazione come incontro di volontà, di soggetti e di valori, opposti ma convergenti. Da questo punto di vista ogni intuizionismo si sviluppa verso il contrattualismo - e viceversa. Ma come abbiamo visto criticando il contrattualismo, possiamo ora, sul piano dell’epistemologia, ripetere quelle critiche - cioè insistere sul fatto che in tal modo si finisce solo per alludere ad una specie di ventre molle della scienza, ad una confusa materialità che tutto dovrebbe mediare, ad una in fondo equivoca medietà scientifica. Che tutto questo sia un aspetto, un carattere, fissato ormai, del mondo della << sussunzione >>, è evidente. Ma proprio per questo ogni intuizionismo è insufficiente a determinare un atteggiamento critico complessivo.

L’autoreferenzialità del modello è un terzo momento da sottoporre a critica. Di nuovo ci troviamo di fronte ad una caratteristica che è fondamentale nel sistemismo, ma che lo è anche nell’intuizionismo. Si potrebbe dire che, mentre nel sistemismo l’autoreferenzialità è costruita dall’alto, in maniera estensiva, e quindi raccoglie orizzontalmente valori e soggetti in un circuito appunto di referenze esaustive - nell’intuizionismo l’autoreferenzialità è costruita dal basso, a partire dal fondamento intuito, e raccoglie così, in un disegno continuo, su assi verticali, le referenze di valore. Ora, in entrambi casi noi ci troviamo di fronte ad uno schema che corrisponde al prodotto del movimento verso la << sussunzione >> - ma nell’autoreferenzialità questo movimento è perduto, l’immagine autoreferenziale del prodotto non contiene né il ricordo né la nostalgia del movimento. L’autoreferenzialità è per qualche verso sempre ipostatica. Essa è d’altra parte contraddittoria con lo statuto ontologico degli elementi che ne costituiscono la definitiva figura, perché questi elementi di contingenza comportano, nel loro dinamismo, alternative radicali - che nella conclusione del processo sono invece bloccate e fissate. In più: vi è, in questo concetto di autoreferenzialità, qualche cosa che colpisce negativamente perché il processo sembra obbligato a svilupparsi in maniera lineare, a possedere un meccanismo costrittivo - insomma, l’autoreferenzialità esprime un risultato che era già tutto implicito nella sua origine, non ha quindi movimento. Come già si è detto, l’autoreferenzialità è parmenidea. Di contro la critica della scienza e la comprensione delle sue interne dinamiche - la critica della scienza dunque ci mostra quanto sia reale un processo opposto a quello fissato nel modello di autoreferenzialità. Lo sviluppo scientifico è uno sviluppo per salti, attraverso

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modificazioni radicati di paradigmi, ed innovazioni qualitative. La regola che domina lo sviluppo scientifico è la medesima che regola i processi di fondo, naturali o storici - nella loro realtà: e quindi le regole della trasformazione innovativa dei movimenti e della loro sempre nuova dinamica di aperture multilaterali. Non voglio qui giocare al piccolo Engels, né voglio troppo stringere una dialettica della natura e la dialettica della scienza - ché, ciò facendo, si introdurrebbe una connessione lineare del tutto ingiustificabile fra questi due orizzonti. Ciò su cui voglio insistere è il fatto che tutti i possibili orizzonti si collegano dentro una grande quantità di possibilità multilaterali di trasformazione.

Le contingenze sono contingenze vere e proprie — non v’è nessun nesso, neppure logico, che possa ad esse essere precostituito. Qui verifichiamo fino in fondo la potenza di quell’ipotesi sull’analitico a posteriori sulla quale, nella prima parte di questo lavoro, abbiamo tanto insistito - e non è senza grande emozione che il pensiero si volge verso quelle teorie logiche delle << notiones communes >> che tanta importanza ha avuto nel momento di nascita della scienza moderna.

Assunti questi elementi, ed escluso dunque che il problema epistemologico della legittimità possa essere posto a partire dal funzionalismo, dall’intuizionismo e dall’autoreferenzialità, - ammesso, tuttavia, che in tutte e tre queste impostazioni è rivelato qualche aspetto essenziale della trasformazione degli universi culturali che abbiamo vissuto - assunto dunque tutto ciò, e con ciò la critica di ogni analitica trascendentale che voglia porsi come scienza - eccoci dunque a riproporre il tema della legittimazione. E’ chiaro che qui non possiamo che riprendere le conclusioni della prima parte del nostro lavoro. Abbiamo fatto un détour, piuttosto lungo e comunque tanto approfondito quanto ne nasceva la necessità in relazione alla natura stessa delle cose analizzate. Ma è fuori dubbio che qui siamo arrivati alla stessa conclusione a cui era arrivato il nostro progetto di una possibile estetica trascendentale. Voglio dire che questo mondo dell’immediatezza, di una immediatezza talmente astratta e sviluppata, non può trovare senso logico e soluzione teorica se non sul terreno della pratica. Di nuovo siamo pervenuti a quel limite di crisi che è lo sviluppo dell’esistente nella << sussunzione reale >>, di nuovo siamo arrivati a definire quel mondo nel quale astrattamente siamo collocati e quell’indifferenza nella quale soffochiamo. La logica, l’analitica sono chiave di volta di questa realtà: una chiave di volta in senso proprio, perché sono infilate nell’edificio e da esso sono indisgiungibili. Una via d’uscita da questa situazione non può darsi che sviluppando una pratica emancipativa, alternativa, una proposta di liberazione. Qui, di nuovo, l’ontologia si libera della logica e chiede uno sbocco

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etico. Non uno sbocco quanto una rifondazione. Il problema della legittimazione non è distinguibile da questa operazione di dislocazione ontologica. Fin qui abbiamo seguito il processo nella sua figura mistificata: ora dobbiamo vedere finalmente che cosa possa essere, di là da questa mistificazione analitica, un nesso diretto e costruttivo fra trascendentale e schematismo (o dialettica ?) della ragione. Ma è una ragione piantata nella pratica, questa che seguiremo – una ragione etica.

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Capitolo Terzo<< Compact >>, per una dialettica trascendentale del potere.

1. Critica del concetto di potere. Siamo dunque in grado di affrontare il problema dialettico, ovvero di

procedere sul terreno dell’illusione vera. In questa parte, dopo che nella prima abbiamo cercato di identificare quella rete etica e quel punto di vista pratico che soli possono permettere lo sviluppo della teoria e, ad essa, di non perdere il rapporto con l’immediatezza reale, - dopo che nella seconda parte abbiamo visto come la soggettività, i suoi nomi, sensi, orizzonti, possono essere prodotti dal potere, direttamente, ma in forma non meno antagonista - in questa parte, dunque cercheremo di articolare l’immediatezza del fondamento sia riguardo alla fenomenologia dei soggetti che con riferimento alle finalità del movimento.

Procedere su questo terreno, significa produrre un concetto di potere. Questo non ci aiuta certo a chiarire le cose - anche se ritenessimo infatti il concetto di potere subordinato ad una gerarchia di valori, che in qualche modo lo predeterminano o lo collocano in assetti complessi, saremo preda di vecchie ambiguità concettuali. Recentemente, del concetto di potere si è molto discusso. Proprio queste immediate connessioni assiologiche sono state al centro della critica. Per approfondire la critica, sarà quindi necessario non solo rompere quelle connessioni ma affrontarle dal punto di vista della genealogia storica e teorica. Ora, su questo terreno, si avverte che le ambiguità del concetto di potere erano il frutto di una non conclusa sua secolarizzazione. Così, fissare la centralità del concetto di potere, significa inseguirne le determinazioni storiche, vedere come esse siano venute svolgendosi, e contemporaneamente sviluppare la critica. Ora, la mia ipotesi è che il concetto di potere sia mistificato ogni qualvolta esso è sganciato dalla concezione del soggetto. Ogni qualvolta ciò avviene, ed in particolare ogni qualvolta esso ci viene presentato o come immediatezza oggettiva o come pura rete di rapporti strutturali, bene, questi tipi ideali estremi di concettualizzazione del potere rappresentano pure e semplici mistificazioni. A questo proposito non troviamo nulla di diverso da quanto abbiamo già visto analizzando il concetto di legittimità - quando cioè abbiamo visto scontrarsi una concezione realistica ed una concezione formalistica/funzionalistica. Mutatis mutandis, ci troviamo nella medesima situazione ed abbiamo a che fare con le medesime mistificazioni. Per uscirne è necessario allora procedere nel senso già precedentemente identificato - cercare cioè un momento di sintesi per eliminare l’isolamento degli elementi conoscitivi, l’astratto che è e resta astratto - un momento analitico a posteriori, una volontà conoscitiva, soggettivamente determinata, dotata di potenza creativa. Questo fondamento a posteriori del potere, nella sua immediatezza, è

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dunque comunque soggettivamente definito, - anche se certamente non si conclude nella soggettività. La storia del concetto di potere ci mostra come questo venga man mano soggettivandosi, ma nello stesso tempo proponendo una concezione complessa del soggetto: se vi è un processo di secolarizzazione, esso non va certamente inteso come compimento dell’antropomorfismo nella concezione del potere, ma come sempre più complessa articolazione soggettiva del suo concetto.

Prendiamo un solo esempio: il rapporto fra concetto di potere e concetto di pace. Che la pace possa essere uno dei contenuti del potere è relazione nota. Che, con maggiore intensità, la pace debba rappresentare il concetto di potere, come tale, in maniera esclusiva, è una concezione che si è affermata quando le origini teologiche del concetto di potere sono state gettate via e la figura pessimistica del giusnaturalismo è divenuta egemone. Ma il rapporto tra pace e potere ha presto superato queste determinazioni, per così dire, trascendentali - perché esse, implicitamente ma non meno necessariamente, facevano di pace e potere forme tautologiche, indifferenti, morte. Di conseguenza presto il rapporto si è fatto soggettivo: e se qui si sono ripetute le alternative che nei periodi precedenti la razionalizzazione del problema era possibile cogliere, l’interrogativo cioè attorno alla funzione etica della pace e della soluzione del conflitto - pure, qui, lo sviluppo e la determinazione dei concetti sono stati caricati di una dimensione operativa, positiva, di una determinazione materiale sopra una genealogia soggettiva e creativa. Il potere diviene così sempre di più qualche cosa che cresce con un soggetto sociale, che quindi ha una sua specifica articolazione interna, un sistema di valori che è capace di esprimere - insomma il potere è la stessa potenza di esistere di un soggetto collettivo. Non c’è possibilità di definire il concetto di potere se non in termini sociali, dove cioè la relazione e i valori non sono esterni ma interni al soggetto, non trascendentali ma prodotti direttamente dal soggetto. La differenza tra potere e forza, tra potere e violenza consiste nella razionalizzazione che della forza e della violenza vien [sic] fatta dal soggetto collettivo - forza, violenza, in questo caso, possono anche chiamarci [chiamarsi ?] pace - è infatti del tutto chiaro che la pace deve essere conquistata, difesa e organizzata, ecc. ecc.

Entriamo dunque, in questo modo, su quel terreno sul quale la capacità di esistere costituisce un tessuto complesso. In questa prospettiva il potere diviene un luogo originario che va determinato. Potere è quindi, genealogicamente, in primo luogo, lavoro. Il lavoro infatti è, stando alla definizione dei classici, quella attività trasformativa che viene esercitata al fine 1. del dominio della natura e 2. della riproduzione della specie. Ma il potere tenta continuamente di introdurre, al di là di queste determinazioni, una nuova struttura: quella 3. del

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dominio dell’uomo sull’uomo. E di specificarla. Esso ha ragione di muoversi in questo modo, perché così, sia pure in form a mistificata, soggettivizza il concetto di potere. E’ esattamente lo sviluppo di questa soggettivizzazione mistificata che distrugge infatti quella terza determinazione: meglio, toglie ogni pretesa di razionalità alla definizione del dominio dell’uomo sull’uomo e riconduce le determinazioni del potere ad un luogo critico, aperto all’attività e alle qualificazioni sociali. Il lavoro dunque, e le sue modalità trasformative, l’insieme della forza lavoro, costituiscono la base del concetto di potere. E se quella legge infame che vuole che le ragioni del dominio corrano assieme, anzi si identifichino con quelle dell’organizzazione del lavoro, va distrutta, - si può qui subito aggiungere che ciò può darsi solo se essa sia colta ed estremizzata e, per così dire, spinta verso a sua estinzione materiale, dopo che la sua insensatezza logica sia stata provata.

Tutto questo in maniera generalissima. Qui di seguito cercheremo ora di vedere come il concetto di potere si articoli e si autodefinisca, interpretando quella soggettività specifica che è il prodotto dei meccanismi di sfruttamento del lavoro nella fase della << sussunzione reale >>. Cercheremo cioè di vedere come, in questa dimensione, il soggetto lavorativo si autorganizzi, quale rapporto esso stabilisca con altri soggetti sulla scena sociale, come i suoi bisogni e desideri vengano trasformandosi e infine come la sua egemonia possa organizzarsi. E’ su questa specificità che si raccoglieranno fili dell’analisi complessiva.

Su questa specificità. Significa che la prossimità di soggetti diversi costituisce un elemento centrale della percezione fenomenologica del sociale e del politico. Può darsi che questi soggetti collettivi siano confusi in formule generali di accordo, di consenso, di processo costituzionale, - può appunto darsi: ma per quanto? Se c’è una cosa che il processo di secolarizzazione e di soggettivazione complessa del potere ha mostrato, attraverso un irresistibile seguirsi di crisi e convulsioni, è il fatto che sulla scena costituzionale si presenta una irriducibile pluralità di soggetti collettivi. Il rapporto fra questi non ha nessuna caratteristica formale: esso si esprime, e si risolve (se si risolve), solo su una lunga prospettiva di rapporti di forza. Il potere è certo sempre funzione ed organizzazione costituzionali, è certo schema trascendentale di una serie di pulsioni e tendenze che vogliono trovare coordinazione logica fra di loro - ma il fatto di essere tutto questo non toglie, anzi sollecita il fatto che il processo si sviluppi dentro ed attraverso le singole separate soggettività. Il potere è sempre funzione costituzionale, ma e costitutivo non di un rapporto generale ma di un rapporto particolare, di un’articolazione specifica, all’interno delle singole grandi soggettività. Potere è costituzione, costituzione è specificità. Al di là di

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queste generalità si tratterà allora di determinare lo spazio, il tempo, la qualità di ogni singola emergenza soggettiva e di ogni specifica risultante costituzionale.

Quando affrontiamo questi problemi, noi sviluppiamo allora più importanti spunti di un’estetica trascendentale della prassi. Vale a dire che noi sviluppiamo il punto di vista del fare come punto di vista fondamentale. La centralità di questa prospettiva discende, con caratteristiche di necessità, dalla centralità ontologica dell’etica, meglio, dal fatto che noi ci muoviamo dall’interno di un’ontologia etica, vivendola, come si può vivere un’esperienza egemone nella sensibilità filosofica contemporanea. E’ una genealogia del potere o dei poteri, quella che è qui proposta. Il rapporto tra soggettività, punto di vista del fare, ontologia ed etica, è centrale perché questo solo sembra essere il tessuto sul quale poter determinare un orientamento metafisico. Foucault sosteneva che solo da un punto di vista storico queste filiere del fare potevano essere seguite - ed è vero. Ma non è men vero che, da un punto di vista metodologico, queste potenze possono essere spinte verso un punto di vista teorico e quindi essere considerate nell’indipendenza delle teorie, - senza, con ciò, che esse perdano la loro etica pregnanza.

Seguiamo ora questo cammino con riferimento al problema del potere. Ci siamo fin qui aperti alla critica del concetto e delle sue possibili mistificazioni, abbiamo poi definito un possibile punto di vista metodologico. Infine, nei prossimi capitoli, vedremo le interne articolazioni di questo processo. Ma ora, tra il prima e il dopo, ci resta da chiarire un concetto: ed è che il potere, se son veri i presupposti, si presenta sempre come molteplicità, come contro-poteri, meglio, come rete di contro-poteri. Parlando di etica avevamo sottolineato il ruolo fondamentale del principio di antagonismo: in forma generalissima basterebbe questo a dar ragione del fatto che il potere si dia come contro potere. Ma ogni condizione siffatta determina problema. Ne deriva che la singolarità delle determinazioni soggettive che costituisce il rapporto antagonistico dei poteri va analizzata specificamente - perché questa singolarità, questa forte individuazione attraverso forte antagonismo, non negano ma nutrono e costituiscono la complessità specifica del quadro. Troppo spesso, nella esposizione volgare dei concetti filosofici, ci siamo trovati di fronte a sequenze, cosiddette dialettiche, in cui, all’incrementare del grado di antagonismo, corrispondeva l’estinguersi della sua misura nella complessità. Questo è appunto un meccanismo espositivo, tanto comune e banale quanto perverso. Di contro, l’aver collocato il principio ontologico nel bel mezzo della vita etica, l’aver con ciò fissato una connessione indissolubile fra ontologia ed etica, ci permette oggi di dimostrare che sull’orizzonte dell’antagonismo è l’intera

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complessità del reale che si prova. Siamo nella << sussunzione reale >>. Siamo in una situazione nella quale ogni determinazione, tanto più se teorica, può essere completamente riassunta nell’insensatezza circolare di una fenomenologia del dominio. Solo il fare, il punto di vista pratico - solo quella determinazione che si colloca sull’orlo dell’essere e del non essere, a cavallo fra la catastrofe e la speranza - ecco dunque la collocazione aggressiva dell’immaginazione trascendentale, oggi. Essa non annulla ma evidenzia drammaticamente la complessità del processo storico. Un’enorme contingenza ha invaso l’esistente. A partire da questa contingenza che tocca tanto a natura del fare quanto le sue dimensioni e i suoi orizzonti, noi comprendiamo la complessità. Le collocazioni antagoniste, e cioè un loro certo porsi nello spazio, nel tempo, nel contesto dei valori, dunque, non tolgono complessità né all’essere né all’antagonismo. Né l’antagonismo cancella la complessità, né viceversa a complessità cancella l’antagonismo. Se uno dei due termini è eliminato, questa determinazione non dipende dal principio complementare ma da altre ragioni. Condizione comunque difficilissima da verificare.

La critica del concetto di potere, riassumendo le determinazioni che siamo venuti fin qui fissando, esprime, dunque, una situazione metafisica in cui soggettività, antagonismo, pluralità, complessità, convivono, si susseguono nel caratterizzare la potenza sociale. E’ una specie di universo leibniziano quello che abbiamo davanti, è l’universo nel quale la libertà etica vive della contingenza, quindi dell’indeterminatezza di traiettoria della soggettività. Leibniziana è anche l’idea che, quanto più si scontra con l’esterno, tanto più la soggettività scava in se stessa ed organizza la propria costituzione. Noi potremo dunque parlare di costituzione, se ne parleremo, a partire da un contesto di contro-poteri, e cioè da un contesto di determinazioni soggettive che abbiano scoperto in se stesse il massimo di articolazioni di potenza.

Per fare un esempio. E’ fuori dubbio che, ad un certo punto. nella storia del pensiero politico occidentale, è intervenuta un’efficace operazione di mistificazione, una vera e propria perversa modificazione di paradigma, in riferimento al concetto di potere. Vale a dire che il tessuto sociale, nel primo contrattualismo dell’evo moderno, era definito su un orizzonte, per così dire, piatto, orizzontale, appunto << contractum unionis >>. Ad un certo punto, tuttavia, un enorme potenziale antagonistico, un enorme potenziale soggettivo che pretende all’egemonia, vengono rovesciati su questo rapporto, al fine di determinare una sua verticalizzazione: << contractum subjectionis >>. Il pluralismo, così, non vien [sic] più dato come tessuto di eguaglianza, come terreno delle possibilità, come contingenza, - ci viene invece dato già organizzato dentro una struttura gerarchica. La società è sussunta formalmente

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nel capitale. In questo modo il potere viene tolto alla potenza dei soggetti. Questo peccato originale è un implicito nella storia del pensiero politico occidentale. Per continuare nell’esempio accennato si può allora notare in che modo il valore << pace >> venga giocato su questo passaggio: è la pretesa di garantire la pace che sta alla base della verticalizzazione del potere, cioè della sua perversa semplificazione, cioè della repressione del pluralismo e dell’antagonismo. Qui la pace è concepita come l’elemento di scarico di ogni tensione vitale, come tranquillità di fronte al movimento, come vuoto di fronte al pieno delle passioni, dei desideri, dei movimenti delle singolarità. La semplificazione del complesso: questo è la pace. Ma questo può essere anche puro e semplice terrore...

Ecco perché, dunque, insistiamo e reinsistiamo sul fatto che il concetto di potere, così come può essere definito attraverso la critica, non è altro che il concetto di movimento delle potenze sociali che noi sperimentiamo nel loro pluralismo e nell’antagonismo, che verifichiamo dunque come processo e rete di contro-poteri. E’ evidente che, per riprendere il nostro esempio, noi non semplificheremo i formidabili problemi sollevati dall’intreccio fra movimento dei contro-poteri ed esigenza della pace. Esiste qui una contrapposizione insolubile? Noi non lo crediamo. Anzi. Solo percorrendo questo cammino accidentato, che è quello che la storia e le nostre coscienze ci presentano, riusciremo a costruire a figura positiva della critica del potere. Materialmente.

2. A proposito di movimento, oggi.Quando diciamo movimento indichiamo quella dimensione sociale che è

costitutiva del potere. Come si rivela? Qual’è il rapporto che stringe, al livello attuale dei rapporti di produzione e di cultura, soggetto ed ambiente?

E’ chiaro, sulla base dei presupposti generali della nostra analisi, e cioè sulla base di quel singolare intreccio tra Krisis e Umwelt, fra risultanze critiche dello sviluppo e dislocamento generale delle condizioni di riproduzione, che abbiamo verificato - è chiaro, dunque, che l’inerenza di soggetto e ambiente è qui totale. Quando parliamo di dimensione ecologica come base costante dell’analisi, a tutti i livelli, oggi, noi non facciamo che evidenziare questa inerenza che costituisce la faccia, per così dire, superiore di quell’integrazione dei circuiti sociali che << sussunzione >> e post-moderno ci presentano. Ogni parametro del vivere sociale è oggi dato in termini ecologici - non che questo costituisce una grande novità rispetto alla condizione metafisica del rapporto uomo-ambiente, che sempre ha mostrato questa fondamentale relazione: oggi la modificazione consiste nel fatto che il conflitto che caratterizza, come ha sempre caratterizzato, la dimensione ecologica, non si svolge semplicemente attorno al confronto tra uomo e natura, bensì sul ritmo del confronto fra vari

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modelli di integrazione uomo-natura. Altrove, e precedentemente in questo stesso scritto, ho molto insistito sul concetto di << seconda natura >>, per indicare in questa categoria il risultato di una trasformazione del rapporto dell’uomo con la natura ed il consolidamento di una specie di nuovo presupposto naturale (che è evidentemente storico, dotato di una certa astrazione, ecc.) alla base dell’analisi dell’universalità umana, oggi. Se ora cerchiamo di definire questo rapporto ontologico nuovo in relazione all’idea di potenza, e quindi se cerchiamo di coniugare l’analisi delle condizioni ecologiche (<< seconda natura>>) con il concetto singolare di movimento ( <<contropotere >>, contropoteri), eccoci davanti al nostro problema.

Stranamente, quando approfondiamo questo rapporto, questo problema, abbiamo una prima serie di annotazioni che sembrano costringerci ad una considerazione << quasi scettica >> dell’oggetto in analisi. Voglio dire che, a prima vista, tutte le determinazioni che possiamo cogliere in superficie, ci riportano a quell’interpretazione di soggetto-ambiente che, nella sua circolarità, è ineffabile, comunque indifferente e inafferrabile. Si comprende bene, allora, come sul livello teorico e pratico l’ecologia abbia potuto presentarsi come ambientalismo, una specie cioè di fondamentalistica rivendicazione di valori naturali. Il fatto che questi valori, cosiddetti [cosidetti ?] naturali, fossero in realtà irriconoscibili, come tali, che dunque la rivendicazione fondamentalistica si muovesse fra il sogno di un’utopica restaurazione e l’esaltazione di un certo banale e posticcio equilibrio uomo-natura, nulla aggiungeva: l’utopia e la giaculatoria non aggiungono chiarezza all’indistinzione logica che l’assunzione di un rapporto strettissimo uomo-natura nell’immediato determina. Si può aggiungere che anche la definizione di una << seconda natura >> non modifica a banalità, l’insignificanza delle determinazioni che immediatamente emergono dall’integrazione/interazione uomo-natura. Insomma, una volta che la natura sia data come potenza completamente intercambiabile nell’ambiente umano, siamo di fronte all’impossibilità di discernere linee di movimento e tendenze di trasformazione. Non a caso il fondamentalismo ecologico non propone che una sempre potenziale e sempre frustrata alternativa o una paradossale conclusione: la catastrofe. Il fondamentalismo non riesce ad articolarsi se non assumendo il suo opposto come momento di identificazione, di interna autocoscienza, come indice costruttivo.

Se assumiamo di nuovo il discorso sul rapporto tra potere e pace, come traccia ed esempio, possiamo vedere quali siano le metamorfosi mistificatorie del fondamentalismo ecologico. Esso si tende verso la ricerca di un limite naturale assoluto, di una condizione naturale ideale, - ma per definirla, ha bisogno di distruggere le realtà tecniche e storiche che hanno modificato in

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maniera irriversibile la vita degli uomini. Essendo quindi impossibile questo passaggio, il fondamentalismo chiede aiuto all’immaginario collettivo e, nella ricerca della pace, quindi nell’esercizio di un atto di potere che alla determinazione della pace deve pervenire, cerca di inserire la sua utopica natura. Ma che cos’è quest’utopica natura? Non è nulla di reale, neppure una vestigia o un ricordo, è semplicemente il contrario della situazione catastrofica, rovinosa, che è intuibile dopo l’avvenimento distruttivo nucleare. La natura è il contrario della distruzione - la pace è il contrario di una guerra più che distruttiva, mortale per l’umanità. Dentro questa opposizione, in realtà nulla si muove. La forza degli opposti è talmente enorme da rendere impossibile l’analisi della singolarità, del corpi, che fra questi opposti vivono e si riproducono. Insomma la circolarità reale del rapporto uomo-ambiente impedisce che del modelli vengano formandosi ed ammette che questi modelli si diano solo come estremizzazione dell’esistente, della sua polarità. La pace diviene così un feticcio, altrettanto vuoto, nel rappresentare l’assoluto contrapasso rispetto alla morte catastrofica, quanto lo era nelle teorie del giusnaturalismo borghese, che assumevano il concetto di pace come momento centrale nella costruzione della sovranità e nella repressione dei contropoteri sociali.

E’ invece, appunto, questo il nostro problema: quello di identificare l’emergere e lo svolgersi dei contropoteri, proprio su quel terreno unificato che << sussunzione >> e post-moderno de finiscono. Un’altra obiezione, tuttavia, ci si presenta dinnanzi. Si dice: se la relazione singolarità/ambiente è tanto stringente, se la diversità può cogliersi solo nella forma dell’utopia, dell’alternativa radicale, nella progettazione totalmente altra, - bene, allora si tratta di sviluppare un programma radicalmente alternativo, che si ponga la totalità nemica come avversario e che, rispetto a questa, si misuri. Ma ecco, anche in questo caso, insorgere alcune difficoltà. Esse consistono nel fatto che anche qui, malgrado tutto, e cioè malgrado la forte attenzione allo specifico, si cade nella trappola della generale indifferenza. Qui l’opposizione, il contropotere, possono essere concretamente identificabili: ma, d’altro canto, qui l’alternativa deve accedere al livello della totalità del potere. Il rapporto simbiotico fra uomo e natura è allora, in questo modo, completamente trasfigurato e considerato su un terreno di totalità che è il medesimo che è attribuibile al concetto di potere. Non se ne esce: si determinano, così, una serie di omologie che impediscono la considerazione del diverso, delle singolarità, del riprodursi di questo e di quella, dentro meccanismi di contropotere. Così, essendo data l’indifferenza del contesto, l’analisi si sviluppa tra Scilla e Cariddi: laddove, su un lato, stanno l’impossibilità di discernere il singolare e il tentativo di riaffermarlo attraverso la produzione di opposizioni utopiche; su

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una seconda polarità sta, nel corpo dell’indifferenza, l’illusione di poter recuperare uno spazio politico e teorico, produttivo e riproduttivo, attraverso la totalità, quindi dentro l’omologia con il potere.

Dobbiamo riproporre il problema ab imis. Innanzi tutto giocando su quel punto di vista pratico, etico, di cui abbiamo rivendicato la validità. Ora, a partire da questo punto di vista, l’integrazione tra singolarità e natura non è una condizione statica, ma una condizione dinamica. Il rapporto che la << seconda natura >> fissa, non è un rapporto definitivamente dato - è data semplicemente la capacità di produrre unità fra uomo e natura, in forme sempre diverse e sempre più mature, a partire da quella base iniziale. Insomma la << seconda natura >> è, mi si perdoni il controsenso [contro senso?], una macchina. Ora, in secondo luogo, è appunto questa connessione che bisogna percorrere. Occorre percorrerla nel mentre essa si sviluppa, nel mentre essa costruisce nuovi e più stretti circuiti di integrazione. In questa condizione generale l’uomo si fa potenza naturale appropriandosi della natura. Il movimento reale è movimento di appropriazione. Il concetto di potere è forza che si apre fra le determinazioni già concluse del processo della << seconda natura >>. Il contropotere è appropriazione reale nel mondo della << seconda natura >>. Tutto questo significa che il potere non può essere condotto all’utopia del fondamentalismo né essere omologia con il potere esistente. Il contropotere è una forte e durissima movenza di appropriazione. Esso vive solo laddove può, per così dire, essere in osmosi con la Umwelt storica, solo laddove riesce a sviluppare un rapporto omeopatico con le determinazioni storico-naturali dell’ambiente. Il contropotere è un’esperienza pragmatica che attraversa e sussume l’esperienza e la prassi che su quei territori sussunti sono venute svolgendosi.

Probabilmente il concetto fondamentale che dalla definizione del contesto fenomenologico della prassi oggi si può trarre, è che ogni atto di potenza, sviluppato dalla singolarità, è equivalente su questo livello. Quest’equivalenza è prodotto della sussunzione. L’affermazione è tanto più importante perché insieme essa fissa un metodo e riqualifica una serie di categorie. Fissa il metodo di una costruzione filiforme e plurale del potere. Un potere lillipuziano, il contrario di una generalizzazione del suo concetto, eppure tanto potente da riuscire ad imprigionare qualsiasi Gulliver. Una metodologia. dunque, che veda il potere come momento analitico a posteriori, che lo considera come una dinamica che costruisce, in maniera sempre più larga, assetti determinati. Potremmo chiamare questo metodo in termini antichi: ideologia libertaria o impostazione << liberal >> (all’americana), concezione decentrata dell’amministrazione, democrazia di base,… ma ognuna di queste definizioni è parziale. Perché qui, muovendosi no, all’interno di una Umwelt sussunta, e cioè

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all’interno dell’indistinzione tra sfere diverse - nella fattispecie, nell’indistinzione fra economico e politico, fra produttivo e riproduttivo - bene, in questa situazione, la nostra metodologia è metodologia di riappropriazione materiale. Questa singolare filatura del concetto di potere ci mostra l’unità del livello politico e di quello economico e produttivo. Come vedremo andando più avanti nel nostro ragionamento, vi sono soggetti specifici, individui collettivi mutanti, che sono alla base di questa considerazione del concetto di potere. Qui ci basti continuare ad insistere su questo metodo, su questo punto di vista, su questa ricchissima considerazione delle articolazioni del reale. Il potere è questo.

Di qui si apre la considerazione di alcune altre categorie. Ma una, soprattutto, qui prendiamo in esame quella di legittimità. Altrove abbiamo notato come sempre esista una certa asimmetria fra il concetto di legittimità e quello di legalità (validità giuridica). Qui possiamo dire che questa asimmetria è finita, nel senso che non vi è più possibilità di assumere la legalità come << altro >> dalla legittimità. La norma giuridica non potrà che valere in quanto atto particolare sottoposto alla dinamica del contropoteri, raccolto nella concretezza della dialettica del consenso. Quando si parla di consenso e di legittimità, (che ci piace qui considerare come concetti assolutamente complementari) si parla, dunque, di nuovo, di quel metodo di contrasto, di << compact >>, di articolazione potente e di confronto fra interessi materiali diversi (sociali, economici e politici) - non certo di un equivoco prodotto generale del consenso, non certo di una volontà generale che lo sostituirebbe, e neppure, infine, di figure contrattuali entro le quali si eserciterebbero volontà astratte.

Potere è contropoteri. Potere è l’immediatezza della potenza della singolarità. Potere è movimento, dimensione sociale di questo, totalità del rapporto fra soggetto ed ambiente. Potere è contropoteri eguali ed equivalenti, che tutti coloro che operano in una società, possono materialmente detenere. Ma se quest’eguaglianza è tanto reale da apparire come equivalente, la comunanza delle opportunità e dei beni è qualcosa di necessario, di implicito, di presupposto. Il comunismo è un presupposto del potere e non semplicemente un suo risultato. E parliamo a questo proposito di un comunismo pervasivo, etico, che caratterizza tutti i passaggi del rapporto fra uomo e natura, così come sono stati definiti nel processo di storicizzazione dell’universo: il comunismo come movimento, tanto esteso quanto è estesa la vita. Se non è possibile immaginare alcun rapporto vitale fra uomo e uomo, fra uomo e natura che non sia rapporto di potere, tanto meno è oggi possibile immaginare una società non comunista. Il reale che abbiamo dinanzi è illusione. Dietro l’illusione si nasconde la realtà del comunismo. Dobbiamo dunque scavare, rispondere a molti interrogativi: che

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cosa significa che potere è libertà, che nella particolarità dei contropoteri si annidano prodotti collettivi di libertà, meglio, che la libertà, nascendo dal rinnovato contesto uomo-natura si vuole come comunismo? Tutto ciò siamo venuti fino a questo momento analizzando da un punto di vista, per dire, di superficie. Ora, qui di seguito, dovremo approfondire l’analisi per vedere come questo contesto, questo ambiente, questo rapporto fra poteri, e fra natura e storia, e fra uomini, - come, dunque, questo rapporto di superficie sia organizzato da una macchina più profonda e potente.

3. Il lavoro del soggetto.Il tema della crisi e la critica del potere che lo attraversa, a partire da quelle

caratteristiche di sviluppo e di movimento che sono specifiche della sussunzione, non possono che concludere alla’riproposizione del tema del soggetto. Non esiste processo senza soggetto: neppure la più alla analisi formale è riuscita a darci uno schema plausibile di un siffatto meccanismo, a meno di non proiettarlo sul più screditato degli schermi, quello della ragion pura e dell’analitica. Né il materialismo ha mai escluso il soggetto, anzi la scoperta specifica del materialismo marxiano è appunto quella del carattere ontologico del soggetto. Tutte le determinazioni devono infatti rovesciarsi sul soggetto, perché è solo il soggetto che sa esprimere lavoro. Il lavoro non è solo sfruttamento, ma è anche paradossalmente e soprattutto questo: perché attraverso lo sfruttamento passa un attività di rifiuto, di lotta e, conseguentemente, di innovazione: è questa attività che mette in movimento l’intero processo storico. Il lavoro del soggetto è dunque la chiave di volta di ogni determinazione positiva dell’essere. Filando questo tessuto, seguendo la molteplicità dei suoi disegni, noi possiamo allora determinare il rapporto complesso che si stende fra sfondo ontologico e figura specifica del soggetto.

La mia ricerca, e quella di molti miei compagni, si è sviluppata lungo gli anni attorno a questo problema del rapporto fra sfondo ontologico e determinazione dell’attività soggettiva. Il logo << composizione di classe >> ha sempre infatti alluso a questo tema. E’ subito da aggiungere che troppo spesso, ma non sempre, la sua trattazione è stata rigida: il rapporto fra i vari elementi, storici, politici, tecnici, ma anche morali e più largamente etici, che caratterizzano il rapporto compositivo, è stato studiato e descritto secondo trafile lineari. Troppo spesso la dialettica, meglio, una specie di tradizionale e cieca fiducia nel realizzarsi di processi di negazione e superamento: da essi, appunto, è formata la cosidetta dialettica - bene, troppo spesso questa simulazione ideale si è sovrapposta alla concretezza del progetto. Inoltre, di nuovo troppo spesso, gli elementi di volontà politica e lo stesso formarsi della coscienza, sono stati visti sgorgare dalla composizione quasi si trattasse di una conseguenza logica e non

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invece - come era - di un salto e di un’innovazione storici. Eppure da questa autocritica non può derivare un annullamento delle grosse verità che nell’ambito di quelle ricerche erano state costruite: sia dal punto di vista metodologico che sostanziale.

Dal punto di vista metodologico. Il lavoro del soggetto consiste in due operazioni fondamentali: la prima è quella per così dire centripeta, vale a dire di attrazione ed accumulazione sulla figura del soggetto di tutti gli effetti dell’organizzazione del lavoro che il soggetto stesso coglie come elementi della propria costituzione e sviluppa criticamente verso orizzonti di rifiuto, di lotta e d’innovazione. Vi è poi un’operazione centrifuga: essa dipende o deriva o segue alla concentrazione di forza che permette quella costruzione delle soggettività: ora, nel rapporto che si stende tra la soggettività e l’ordinamento oggettivo del reale si determina una differenza di potenziale che, quando si scarica, determina insieme crisi e dislocazione del rapporto dato. Questa connessione fra lavoro e dislocazione del quadro oggettivo è, metodologicamente, il più alto risultato dell’analisi della << della composizione di classe >>. Tutto ciò lo riteniamo come contenuto del nostro conoscere e come strumento ancora importante per proseguire nell’analisi. Né quanto siamo venuti dicendo, potrà certo essere negato dall’approfondimento promesso in questo lavoro a partire dall’estetica trascendentale: perché infatti, quand’anche la relazione fosse spinta su quel limite di scissione fra essere e non essere di cui abbiamo parlato - ciò non ridurrebbe la relazione alla catastrofe ed anche in questo caso fondamentale resterebbe comunque l’apprezzamento dei contenuti progressivi della relazione - ed è rispetto a questi che l’analisi deve sempre essere rinnovata.

Anche dal punto di vista sostanziale il nostro vecchio lavoro lascia, poi, dei risultati positivi, e all’autocritica è dato solo di perfezionarli. La figura soggettiva, nello sviluppo del capitalismo, ci si è presentata in un gioco complesso di appropriazione di forme dell’organizzazione produttiva, ed almeno quattro grandi figure di soggetto produttore sono state identificate come egemoni in singole e successive fasi dello sviluppo: l’operaio indifferenziato, l’operaio professionale, l’operaio massa ed, infine, quella complessa e definitiva figura ch’è l’operaio collettivo-sociale. Siamo nel mezzo della grande trasformazione che, appunto, a questa figura sociale del lavoro sta compiutamente portandoci. Ed è, credo, attorno a questa trasformazione che vale, quindi, oggi soffermarsi e vedere come si svolge il lavoro del soggetto.

Il punto più interessante è quando verifichiamo una concentrazione di nuove capacità produttive. Cominciamo a fissarvi l’analisi. Ora, c’è un nesso sincronico che corre fra tecnologia, società e cultura. Ovvero, c’è un quadro generale entro il quale la tecnologia si presenta come produzione di socialità ed

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insieme le condizioni generali della società si presentano come elementi di produzione di tecnologia. E’ chiaro che il rapporto tra tecnologia e processo sociale, proprio perché investe un così ampio spettro d’esperienza, non è un nesso semplice - né sincronicamente, e cioè se identifichiamo le correlazioni puntuali che processo, soggetti lavorativi e sistema produttivo presentano; né diacronicamente, e cioè quando inseguiamo grandi passaggi storici di modificazione delle tecnologie e delle composizioni soggettive, che si accompagnano. Processo complesso dunque, mancanza di omologie: eppure riproposizione, in tal modo, di un tema fondamentale, ovvero, del tema della crisi e della dislocazione. Osserviamo come venga annunciandosi e come cominci a svolgersi il passaggio verso la composizione dell’operaio sociale e la sua presenza egemone. Una differenza di potenziale, come si diceva, viene qui innanzittutto determinandosi. Il lavoro produce valore: ma questo valore, meglio il plusvalore estorto, non è riunificato e trasformato in valori mercantili ed in profitti monetari sul luogo della produzione; di contro, solo la circolazione (come livello diffusivo, come massimo di estensione del mercato) e la riproduzione (come livello intensivo, di accumulo istantaneo di valori produttivi) ci mostrano il valore stesso. Siamo di fronte ad una modificazione del sistema produttivo che è caratterizzato dal fatto che esso, in termini propri, non produce valore, ma semplicemente ne è il motore di una globale trascrizione sociale. Almeno così appare. In tal modo l’origine del plusvalore è nascosta. Il meccanismo produttivo sociale diviene un velo che nasconde lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non a caso le caratteristiche tremende dello sfruttamento non si riveleranno - né saranno percepite - come immediatamente collegate al lavoro, bensì esse si riveleranno collegate alla società lavorativa - il numero degli esclusi, dei nuovi poveri, degli emarginati, dei carcerati, dei malati, dei pazzi, ecc. ecc., potrà solo essere calcolato sulla dimensione sociale dello sfruttamento. Ma qui l’apparenza si squaglia ed una serie di conseguenze divengono esplicite. La società dell’automazione si mostra come struttura di dislocazione della natura del valore. Non vi è più valore che possa essere riferito all’entità singola di sfruttamento. Il marxismo volgare degli economisti oggi non serve neppure come scienza di gestione. Vale, invece fino in fondo, il marxismo come scienza della società e della sua dinamica: quindi come conoscenza della dislocazione del valore. Il lavoro del soggetto è dunque, oggi, sociale nella sua estensione e collettivo nella sua qualità. Sappiamo questo da sempre - si potrà obiettare: ed in effetti da sempre il lavoro è stato sociale e collettivo ed è attraverso queste caratteristiche che esso ha sempre prodotto più della somma degli sforzi individuali. Ma questa obiezione non è molto significativa quando si consideri che oggi il lavoro individuale non è più distinguibile dal lavoro sociale e collettivo. Un tempo, il lavoro collettivo era un

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risultato, ora il lavoro sociale e collettivo è un presupposto. Avevamo cominciato col dire che ci si trova di fronte ad un meccanismo che non mostra l’estrazione del valore, anzi che la mistifica e nasconde, mentre esibisce su un piano di traslazione sociale l’insieme del valore prodotto dalla società. Ma più procediamo nella discussione e nella ricerca, più avvertiamo di essere dinnanzi ad una specie di autentica seconda accumulazione originaria. Autozione come struttura di dislocazione della natura del valore? Pare proprio di sí. Ma allora ritorniamo al lavoro del soggetto. Se la prima accumulazione originaria è consistita in un processo violentissimo attraverso il quale alla forza lavoro è stata imposta la forma-merce, la seconda accumulazione originaria rappresenta ora l’imposizione di uno schema generale di dominio ad una forza-lavoro che, attraversando il mondo delle merci, ha scoperto di possedere un’ernorme ricchezza ed una infinita sapienza produttiva. La traslazione del valore corrisponde così ad una dislocazione del soggetto. Siamo di fronte ad una delle grandi trasformazioni epocali della natura della forza-lavoro. Se volessimo seguire qui le mille articolazioni di questo processo potremmo farlo senza fatica: ma non interessa e altrove comunque lo faremo. Qui interessa solamente percepire come le leggi generali che regolano il lavoro del soggetto si siano di nuovo rivelate su un passaggio fondamentale, di modificazione radicale del modo di produrre. Di conseguenza, dentro e attraverso, fuori e contro questa trasformazione, si è venuto formando un nuovo soggetto - se è difficile farne un identikit, non è perché le caratteristiche complessive del processo di formazione siano ignorate ma perché una definitiva figurazione può darla a se stesso solo il nuovo soggetto, riproducendosi materialmente ma soprattutto politicamente.

C’è un altro livello, del tutto complementare al primo, rispetto al quale la ricerca deve ora procedere, muovendo dal vecchio concetto di << composizione di classe >>,: è quello che lega le determinazioni intensive, qualitative, nazionali del tema << operaio sociale >> alle dimensioni estensive, dinamiche e multi o transnazionali. Ci troviamo per la prima volta di fronte ad un processo che tocca i limiti del nostro universo conoscitivo. All’unificazione capitalistica del mondo, alla sua riduzione intera a mercato, corrisponde sia un susseguirsi di lotte, di resistenze e di dinamiche antagoniste sui singoli snodi del mercato - e di qui la necessità di controlli repressivi sempre più efficaci e di dislocazioni produttive sempre più astratte; sia un ripiegarsi mobile ed articolato del comando sulle dimensioni della giornata lavorativa - sicché la sua frammentazione, la sua flessibilità, la sua plasmabilità, ecc. possano essere rigorosamente ricomposte su un piano generalissimo, non perciò meno costrittivo. Prendiamo il mercato mondiale ed imponiamogli un sistema di assi Cartesian: avremo sull’ordinata la mobilità della giornata lavorativa e sull’ascissa l’estensione orizzontale del mercato, con tutte le sue difficoltà e i

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suoi intoppi. Ma dal quadro Cartesian uscirà, appunto, un meccanismo spazio-temporale completamente modificato rispetto alla tradizione. Questa dimensione, che chiamiamo trans o multinazionale e che comprende anche (non certo in termini secondari) quella figura temporale infranta della giornata lavorativa - questo quadro, dunque, si accompagna strettamente alle determinazioni tecnologiche già considerate. Nella dislocazione del soggetto noi non verifichiamo, dunque, soltanto la socialità della figura produttiva, ma anche questa dimensione multinazionale. Automazione, rottura della giornata lavorativa, mercato mondiale, misurano unitamente, simbioticamente, la figura dell’operaio sociale. Ecco dunque un esempio di dislocazione, un momento paradigmatico del lavoro del soggetto.

II mondo s’è chiuso. Quando tocchiamo questa verità dell’estetica trascendentale, noi non affermiamo una vecchia verità. Noi non ripetiamo quel sentimento di impotenza che spesso ha toccato l’uomo, pascalianamente, davanti all’incombere delle sue miserie. Qui la chiusura del mondo corrisponde all’enorme espandersi di tutte le componenti interne di questo medesimo mondo. Quello che scopriamo non è nuovamente il vecchio mondo medioevale - mondo finito per antonomasia - scopriamo invece come il mondo infinito della rivoluzione rinascimentale si sia esaurito, rovesciandosi riflessivamente su se stesso, e come l’infinita del rapporti che quell’immagine del mondo conteneva, si sia ora riqualificata dentro sequenze puramente intensive. Vale a dire che oggi il mondo è infinito solamente nella misura della divisibilità, non in quella dell’estensione. Il mondo è infinito verso il suo interno: indefinitivamente plasmabile ma non superabile. I suoi limiti sono rigidi.

Ecco dunque, il lavoro del soggetto pervenire, in maniera definitiva, alla riscoperta, ridefinizione e verifica di quei paradossi dell’estetica trascendentale che inizialmente avevamo colto e definito in termini di immediatezza. Il lavoro del soggetto ci si mostra qui come causa di quella situazione ontologica che l’estetica trascendentale ci attestava in prima battuta. Ora, è evidente qui che il soggetto non è semplicemente un prodotto del movimento storico: esso è il motore di quella serie di rapporti che si stabiliscono in un tutto unico che coinvolge l’ambiente e l’ontologia produttiva. Ciò è un primo risultato: l’unità e l’indifferenza del sostrato ontologico, produttivo, collettivo, sono qui verificate. In secondo luogo, poi, questa matrice pratica che costituisce la soggettività ci pone davanti all’estrema tensione dell’essere: ad un processo che, dislocazione dopo dislocazione, ha chiuso questo mondo su se stesso. E’ al soggetto muoversi, al suo lavoro scegliere di essere o non essere.

4. Lavoro, territorio, libertà.Stiamo riagganciando ontologia e soggettività. Non solo, stiamo anche

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rideterminando le caratteristiche storiche di questo rapporto. Un pensiero filosofico che muove dal punto di vista dell’immediatezza empirica, cogliendo in questa l’universalità delle determinazioni ontologiche, non può che procedere, appunto, come procediamo: riflettendo su se stesso, scoprendo in maniera totalmente dispiegata ciò che era implicito, e rivelando il dato dalla cui implicita ricchezza la ricerca è partita. L’estetica trascendentale offre alla dialettica dell’immaginazione vera un terreno di scoperta e di verifica. Il lavoro del soggetto si fa, dunque, soggetto del lavoro: vale a dire che quel lavoro che abbiamo visto svilupparsi come critica dell’esistente, come costruzione di movimento, come rifiuto di essere preda della produzione capitalistica di soggettività - quel lavoro ora smette << le vesti curiali >> e torna all’abbigliamento quotidiano, che è quello del lavoratore, che è quello dell’organizzazione collettiva del lavoro. D’altra parte, è solo la capacità che deriva dall’aver attraversato le regioni della << sussunzione >>, e cioè dall’aver toccato quell’incredibile misura di astrazione che lo sviluppo delle forze produttive e il comando su di esse ha determinato, a permetterci ora di cogliere il soggetto del lavoro nella sua storica corporeità. Il lavoro astratto diviene corpo. Non è un mistero, non è nuova incarnazione dialettica, tanto meno religiosa o simbolica - quest’incarnazione è quella che il lavoro conosce passando attraverso il macchinario informatico e le reti di telecomunicazione. Quest’astratto diviene concreto perché in esso si sviluppa l’appropriazione materiale dei contenuti di conoscenza che le tecniche e i sistemi producono. Come altrove abbiamo scritto la protesi diviene natura. Di più diviene corpo.

Ma i corpi sono singolarità. Qui lo sviluppo dei paradossi dell’essere nella fase della << sussunzione reale >> si incrementa ancor più, poiché, infatti, non solo quel mondo astratto che è la comune matrice di ogni corporeizzazione, si scinde nelle singolarità - ma queste singolarità assumono dimensioni specifiche, quiddità - e poi identità collettive, potenziali di libertà - tali che alle singolarità si accoppia un fortissimo grado di diversità. La grande rete dell’astrazione è qui percorsa, quasi sostituita, in ogni caso segnata << a contrario >> (ad ogni momento dell’indifferenza si oppone una differenza) da una rete multicolorata di espressioni singolari. Si potrebbe dire che queste due reti rappresentano due aspetti di un gioco ottico: ad un lieve movimento, l’uniformità incolore dell’astratto si tramuta in un trionfo di tinte. La costituzione dell’essere consiste in questo: in questa contemporaneità, simultaneità, di una contraddizione che è antagonista, tra il massimo di astrazione e il massimo di concretizzazione corporea. La regola antagonistica si manifesta qui come regola della costituzione. E’ per questa diversità che la rete dell’astratto si è sconvolta in rete di espressioni singolari. Ultimo, ma non meno importante elemento di questo processo, che ora cogliamo nelle sue fasi estreme, è il condensarsi comunitario

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di queste espressioni. Vale a dire che nello scontro che le oppone alla rete astratta ed uniforme del comando, le espressioni di libertà, di lavoro, di corporeità, raggiungono una sorta di equilibrio che le riterritorializza, cioè sistema gli elementi della diversità dentro una comunità, un territorio umanamente contrassegnato, uno spazio umano.

E’ importante sottolineare questa serie di passaggi. Probabilmente non vi è una legge che determini priorità, sequenze, rigidità - non può esservi. Abbiamo in ogni caso casistiche di percorsi differenziati. Ma ciò che è importante sottolineare è che questa serie di elementi, questa precipitata consistenza di materialistiche determinazioni, ha uno spessore ontologico fortissimo. Nei miei lavori precedenti, troppo spesso ho considerato il rapporto tra i processi di autovalorizzazione e processi di autorganizzazione come termini conseguenti, come tappe di un medesimo progetto - l’autovalorizzazione, la spontaneità del processo visto dalla prospettiva proletaria erano comunque prima, fondanti, ontologicamente superficiali ed evanescenti. Non a caso, di conseguenza, la determinazione aperta dei fili di autovalorizzazione - immagine che qui confermo - mi sembrava scaricare il quadro di caratteristiche ontologiche pesanti. Ci si muoveva nel soft piuttosto che sull’hard. Invece qui vogliamo proprio insistere sull’altro aspetto - vedere cioè come i processi di autorganizzazione procedano, o comunque siano contemporanei, a quelli di autovalorizzazione. Spieghiamoci. Innanzitutto i due processi sono complementari e la definizione dell’uno solo difficilmente (o del tutto erroneamente) può essere fatta senza la definizione dell’altro. Certo, vi saranno crasi, deviazioni, sentieri interrotti: ma è essenziale ricordare che autorganizzazione e autovalorizzazione si iscrivono su un medesimo contesto ontologico. In un secondo luogo, tuttavia, occorre affermare che l’autorganizzazione viene prima di tutto: essa è la via che va in profondità, quasi uno scivolamento tettonico, un radicarsi che non può subire strappi e comunque è capace di una sublime resistenza. Tutti i termini della rete di espressioni che costituisce (nel senso pesante di costituzione) l’essere del soggetto, troviamo qui una sistemazione, un ordinamento interno, una tendenza vitale, per così dire, diretta dalla ragione di queste connessioni. Immanente, autoriflessiva, potente. Di tutte queste caratteristiche che si può parlare senza attribuire loro qualificazioni organicistiche: la dinamica è descrivibile su un terreno meccanico - quando a questa meccanica sia garantita l’intera dimensione di potenza dell’essere. A me Spinoza è servito per leggere in tal modo, fuori da ogni tentazione organica, fuori da ogni scivolamento idealistico, questa potenza dell’essere. L’autorganizzazione, dunque, precede ontologicamente l’autovalorizzazione. Ma questa precedenza è, come abbiamo accennato, logica piuttosto che storica. Vale a dire che le vicende storiche, nel

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mentre si danno e variano e si moltiplicano, fanno comunque precipitare ed iscrivono segni sulla corteccia razionale dell’essere. L’autovalorizzazione organizza: ma non potrebbe farlo se questo passaggio attivo non possedesse una referenza solida, una rete dentro la quale collocare il significato degli eventi, un senso secondo il quale organizzarli. Se qui si insiste tanto su questa anticipazione (in ogni caso logica) della potenza ontologica su quella storica: è perché la nostra esperienza ci ha a questo condotto. Cioè a considerare che l’attività etica non poteva sviluppare il suo senso se non quando fosse inserita su un tessuto ontologico e che molti fallimenti, logici e pratici, avrebbero potuto essere evitati se la determinazione pesante dell’ontologia etica fosse sempre stata criticamente posta all’ordine del giorno ed esibita come prima linea di orientamento.

Tuttavia non è certo questa potenza ontologica che, sia pure come sfondo, può fermare la felice vitalità dei processi di autovalorizzazione. Dicevamo prima che i percorsi nell’essere, di produzione dell’essere, possono subire deviazioni ed intralci e conoscere difficoltà. Ma questo non solo è necessario: è anche bello. L’estetica trascendentale raccoglie qui, sia pure in termini di pura superficie, la felicità dell’evento. Ed è probabilmente su questa leggerezza dell’essere che un’eventuale dialettica può essere ritmata. Deviazioni, dunque, intralci, scontri: la potenza ontologica è una rete di contropoteri. E’ dentro questa vicenda, che noi ci ostiniamo a ritenere felice, com’è felice la superficie dell’essere, anche quando mostra risvolti di tragico, - è dunque dentro questa dimensione che le leggi di formazione della soggettività vengono fissandosi. Quelle leggi che, nel paragrafo precedente, abbiamo cercato di descrivere: leggi di condensazione, ma poi di appropriazione e di dislocazione, leggi che scandiscono il definirsi di identità collettive a livelli sempre superiori. Ma queste leggi di formazione devono essere esse stesse sottoposte a quel ritmo instabile che qualifica il rapporto fra autorganizzazione e autovalorizzazione, che lo colloca, in maniera fragile e pur duratura, dentro un territorio dello spirito e che attraversa con libertà queste temporanee determinazioni. Ogni linearità uniforme è rotta: meglio, può forse essere utilizzata come ipotesi, ma è solo una verifica portata su tutte le vicende del processo che ne convalida il senso ed il significato. Ogni teoria dello sviluppo attraverso determinazioni preconcette, stadi e fasi, è anch’essa rotta: di nuovo, può essere utilizzata come ipotesi di ricerca ma solo quando il meccanismo della ricerca non tenga dietro o si disperda fra pedagogiche tradizioni.

Ogni analisi concreta, fin qui condotta o sviluppata altrove, conferma la correttezza delle qualificazioni e tendenze del rapporto fra lavoro, territorio e libertà che sono state descritte. Torniamo, ad esempio, all’identificazione del

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soggetto sociale e multinazionale del lavoro e dello sfruttamento: vedremo, in questo caso, come appunto lo sviluppo della potenza produttiva del lavoro abbia raggiunto un consolidamento irreversibile, come sul ritmo di questo consolidamento si siano ovunque formale identità collettive del medesimo spessore. L’ultimo proletariato entrato nel mercato mondiale non deve percorrere tutti gli stadi dello sviluppo per pervenire a collocarsi nel circuito mondiale di scambio delle merci e di realizzazione del valore: tutte le tematiche relative ai prerequisiti sono enormemente semplificate, e non esiste dottrina che possa (in maniera rigida) proporre fissi scenari di sviluppo. Di contro: quest’ inserimento nel mercato, ed ai più alti livelli dei processi produttivi, esplicita momenti di resistenza e processi di identificazione al più alto livello. I rapporti che si pongono fra mercati diversi, vengono in gran fretta sospinti verso un massimo di orizzontalità ed una massima intensità di reciproco ricambio. Questo in generale. Tanto più tutto ciò vale per i soggetti che in questi processi sono insieme collocati (come ad esempio varie frazioni della classe operaia impiegata da una medesima trasnazionale, o diversi segmenti proletari partecipanti ad una medesima filiera produttiva) ed organizzati nelle dinamiche unitarie che corrono la produzione ed il mercato. Sicché l’operaio sociale-multinazionale si trova dinnanzi al compito di stringere il rapporto fra le diverse frazioni del proletariato mondiale perché la materialità stessa del rapporto produttivo mostra che l’interesse degli uni e degli altri deve coagularsi su un unico asse. L’internazionalismo non è certo morto!

E’ difficile, per noi stessi che abbiamo vissuto questo periodo, comprendere con quanta intensità questo processo di identificazione di soggetti collettivi abbia proceduto nei tempi stretti della << sussunzione reale >>. Ma è certo che, entro questi tempi strettissimi, è corsa una implacabile iniziativa del capitale. Ed è altresì certo che, di contro alla possibilità operaia e proletaria di forzare la costruzione soggettiva della resistenza, le regole del dominio si sono riproposte a quell’altissimo livello di unificazione, con straordinaria efficacia; e che, quanto più l’istanza di riterritorializzazione attraversava le nuove identità collettive, tanto più da parte capitalistica venivano astratti i modi dello sfruttamento e i contenuti del controllo. Ad esempio, un orizzonte di controllo puramente monetario, simbolico ma non perciò meno efficace, veniva imposto con strumenti terroristici durante il decennio che segue al ‘68 ed alla conseguente crisi nixoniana del dollaro e del petrolio. Da allora la moneta fluttua senza senso - senza un senso che non sia quello dell’adeguamento puntuale ed istantaneo alle necessità di repressione. Così i momenti potenti di autodeterminazione si scontrano ad una capacità di repressione esatta e feroce. Così i processi di appropriazione sono bloccati sul nascere. E ciò che sembrava divenire corpo, è in tal modo confinato all’astratto, ciò che tentava di divenire

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comunità è condannato al ghetto. Finché non si dia rivolta. Quale rivolta? Quale insistenza antagonistica? Dal 1982 è chiaro come questa resistenza possa formarsi: appunto sul livello e contro il terrore monetario, contro il ricatto e la repressione che si esercita attraverso l’equivalenza generale. Dentro questo passaggio si spiegano, in termini assolutamente espliciti, le dimensioni del rapporto di forza che al lavoro del soggetto sono in questo periodo imposte, - fra il 1971 e il 1982, fra la liberazione nixoniana del dollaro e la rivolta dei paesi indebitati contro la ferocia delle banche e degli Stati centrali.

Lasciamo per ora ulteriori esemplificazioni: su di esse potremo eventualmente più tardi tornare. Quello che invece qui non possiamo trascurare, è di osservare come, a partire dalla situazione esemplificata, il livello di resistenza ontologica si sia, per così dire, talmente fissato da rendere pressoché nulla l’elasticità del sistema. Dall’analisi di questa situazione possiamo indurre un’ulteriore modificazione del paradigma. Se non fosse paradossale dirlo in questo momento, e cioè proprio quando la funzione repressiva della moneta si sviluppa appieno, si potrebbe prevedere che, a fronte del grado di resistenza oggi verificata, gli strumenti monetari hanno concluso il ciclo storico nel quale era a loro affidata la funzione centrale nel controllo. Si può oggi, di fronte alle resistenze che contro il comando monetario si sono levate, parlare di capitalismo senza moneta? Non Sarebbe la prima volta che il comando si è esercitato, nella storia dell’umanità, fuori del rapporto monetario. Né l’eventuale conclusione del ciclo del comando monetario del capitale può garantirci [garantirsi ?] che altre adeguate forme di comando non subentrino alla moneta. Ma ciò che è qui estremamente interessante notare, è che, nel momento nel quale la funzione del comando monetario viene meno, gli aspetti, certo non esclusivi e comunque non secondari, progressivi della funzione monetaria, - sono ora fatti propri dal soggetto del lavoro. Voglio dire che quell’universalità di comunicazione e di movimento, quella mobilità e quella leggerezza che il danaro impone agli uomini e alle merci, - ed in tutto ciò è consistita un’enorme spinta progressiva per l’umanità - bene, tutto ciò è conquistato direttamente ed immediatamente dai soggetti produttivi. Nella stessa misura in cui il capitale distoglie dal denaro la funzione immediata, diretta del comando - il capitale oggi propone comando in termini militari e terroristici. Sicché uno dopo l’altro una serie di elementi di libertà si accumulano sul soggetto del lavoro: ma su di esso si condensano nella misura in cui, dall’altra parte, il controllo, il comando, il capitale, estremizzano l’esercizio del potere e ne portano la disponibilità direttamente sull’alternativa fra l’essere e il non essere. C’è una nascente metafisica che si mostra in maniera opposta, antagonista, per il lavoro e il capitale: ora, quanto più si determinano sviluppo e modernità, tanto più questo antagonismo perviene all’ alternativa

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dell’essere e del non essere, perché a questo punto al lavoro del soggetto è dato il rapporto con l’essere in maniera esclusiva, mentre al capitale è dato, in maniera sempre più stringente, il non essere. Dunque, ogni qualvolta il processo complessivo avanza, noi ci troviamo di fronte ad un allargamento di questa alternativa. Ogni qualvolta matura la grande capacità produttiva del soggetto del lavoro, tanto più la biforcazione si scandisce e si approfondisce. Siamo nell’epoca nella quale questa scissione, prodotto della crisi, del suo superamento, delle lotte e del loro futuro, è tesa al massimo dei livelli.

Nell’osservare tutto questo, abbiamo nuovamente affrontato il tema della simulazione astratta, per quanto concerne il controllo dei meccanismi di valore. Altrove abbiamo chiarito come i meccanismi di valore si configurino oggi sul terreno della circolazione sociale, meglio, in forma collettiva; e come, mentre è impossibile riferire all’individuo la determinazione del valore, questa si può costituire attraverso il lavoro di soggettività collettive. E’ interessante allora, sulla base del ragionamento che abbiamo fin qui condotto, aggiungere qualche considerazione su come il rapporto fra astrazione e comando venga disgiungendosi. Vale a dire che nella misura in cui l’astrazione diviene sostanza del soggetto ed il comando tende ad essere unico elemento caratterizzante del potere contrapposto - bene, in questo caso noi ci troviamo di fronte ad un’operazione con una immediata valenza etica. Vale, ancora, a dire che il valore è direttamente implicate in questo processo e che il processo stesso mostra una immediata divaricazione. Così da un lato, a questo livello dello sviluppo, il valore è strappato alla forza-lavoro individuabile e riproposto come figura dell’insieme collettivo delle attività sociali. D’altro lato, invece, ecco che il simulacro diviene pura e semplice falsità, ipocrisia, ideologia. Esso è puro comando, non contiene più l’allusione al valore, non è più neppure mistificazione. E’ violenza diretta, tanto folle, vuota ed assurda quanto lo è il comando di un despota. La simulazione è non essere, è paranoia, autoproduzione fantastica, espressione esasperata di un comando esasperato... Il lavoro del soggetto è il contrario di tutto questo. Questa simulazione potrebbe definirsi come il lavoro dell’oggetto: morto e cieco. Se dal lavoro del soggetto siamo risaliti al soggetto del lavoro e questo abbiamo collocato su un territorio di libertà, - simulazione è, assieme alla negazione del valore, negazione del lavoro, della sua territorializzazione e della sua libertà.

5. Compact: fra diritto e rivoluzione.Ci siamo fin qui mossi dentro la materialità dei rapporti sociali e la loro

immediatezza - che pur abbiamo trovato piena di senso. Ma questi rapporti vanno portati al pieno del loro significato, vanno dipanati e riguardati come elementi di coscienza. Questo compito è urgente: già sul terreno dell’estetica

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trascendentale lo sviluppo dei rapporti sociali si è mostrato come precipitazione verso un orlo dell’essere che noi abbiamo considerato aperto al nulla dell’essere. Ora, è appunto su quest’orlo, che la nostra necessità di rendere coscienti, e con ciò desiderabili, prevedibili, costruibili i rapporti sociali, si pone con estrema intensità. Questa necessità, sulla base dello sviluppo della coscienza, viene dall’interno dei rapporti sociali - quest’internità inoltre definisce come urgente il compito di sviluppare il processo di presa di coscienza, anzi, esalta la pertinenza dell’impegno. E’ un cammino che viene dall’interno dell’immediatezza: qui si dimostra come assolutamente inutile la mediazione, la presa di distanza che è un controllo sulla genesi dei processi che ci interessano - qui si rivela come vuota la pretesa totalizzante del controllo, della previa astrazione e separazione dei valori che comandano l’esistente. Questi valori sono ricchi. Il reale comprende, nella sua lussureggiante figura, un sottobosco in cui i valori si riproducono, contraddittori ma ricchi. Il sottobosco dei valori è la loro enorme potenza. Il cammino che attraversa la realtà, per promuovere in essa gli elementi di innovazione, di potenza e di creatività, non è quindi (e non può essere) una mistificata, previa e preconcetta selezione di valori - esso si distende ovunque - la vocazione è alla cucitura, al collegamento, all’articolazione del valori. Insomma, siamo al limite inferiore della dialettica trascendentale ma questa dialettica trascendentale non scende da un’analitica qualsiasi, deriva invece direttamente dall’interna articolazione dell’estetica trascendentale e di questa spiega la densità ontologica, trasformando quelle premesse in strumenti di conoscenza più generale e di fondazione dell’etica. Questa deviazione del cammino è prepotente - l’analitica è un fondo inerte della conoscenza e un residuo morto ed antagonistico (antagonistico in quanto morto) della coscienza. Solo questa denuncia, questa dichiarazione, già all’interno del minuto meccanismo dell’essere singolare, ci indicano l’interiorità della scelta - quest’eterno Cartesian o Socratic dubbio - nell’immediatezza.

Una dialettica trascendentale, dunque, che non sia una teoria della mediazione ed una conseguente pratica cosciente dell’immediatezza: eccoci a fronte di questo compito e delle sue condizioni. Meglio, le condizioni sono presupposte, si tratta di sviluppare il compito. Noi dunque muoviamo dall’interno del reale, dell’immediatezza - vogliamo costruire, ed immaginiamo tutti i passaggi e gli strumenti che possono permetterci di costruire veramente il mondo. Dialettica trascendentale diviene così l’insieme degli strumenti che permettono la realizzazione dell’immaginazione vera - di quell’immaginazione che tenta di raggiungere e contenere e modificare strati della realtà. Un’immaginazione creativa. Abbiamo visto come la rete che chiude l’orizzonte dell’esistenza, sul terreno dell’estetica trascendentale, possa essere strappata quando la sua coerenza è posta a fronte degli antagonismi elementari che la

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dominano - ora, è appunto su questo strappo che si apre la speranza ricostruttiva... Che contenuto di violenza esistenziale prevede la costruzione di un orizzonte etico, una prospettiva etica di ricostruzione! Non è certo qui luogo di pensiero debole: il pensiero è forte, energumeno - è ricerca di toccare la terra per averne tutta la sua forza. Né pensiero debole è quanto segue a quest’atto di rottura: un venire avanti progettando, mettendo all’opera schemi di conoscenza possibile, collegando momenti empirici e pulsioni ideali. Induzione, ma intrecciata alla deduzione - induzione profonda, quindi, alla Peirce, andar cercando e costruendo, secondo ordini che abbiamo trovato all’interno della nostra esperienza empirica... Ma questo andar per tracce, non è pensiero debole, di nuovo: è inseguire le linee interne dell’essere, è uno sforzo ontologico.

Con ciò cominciamo ad entrare nel merito di quello che più propriamente qui ci interessa. Rispondere cioè alla domanda: come può organizzarsi l’insieme di pulsioni etiche che ci permettono di costruire il rapporto sociale e di controllarlo nel suo distendersi temporale? Che cos’è una dialettica trascendentale dell’immaginazione vera?

Ora, quello che su questo terreno noi sempre di nuovo ci troviamo davanti è il tentativo di chiudere in formulazioni analitiche il processo costitutivo della realtà sociale. Questo tentativo di bloccare la fantasia creativa e il suo rapporto con l’innovazione reale va sempre battuto. Vale a dire che nello svilupparsi del punto di vista costitutivo deve risiedere sempre uno spunto antagonistico che lo individua. Ma questo spunto antagonistico non solo individua, singolarizza, esso pone anche il problema di come, fra queste differenze necessarie, possa svilupparsi punto di vista costitutivo. Problema: il modo nel quale essa possa determinare la prospettiva della ricostruzione, dello sviluppo dell’immaginazione vera: anzi, questa forza di rottura aumenta ed ingigantisce le differenze e dilata le difficoltà.

Ma perché diciamo questo? Non è vero, al contrario, che il contesto delle differenze è il contesto della ricchezza dell’esperienza? E che un processo costitutivo deve di conseguenza provarsi essenzialmente e soprattutto su questo terreno? Il punto di vista costitutivo è quello della costruzione interna del disegno innovativo, in ogni momento della nostra vita e della nostra esperienza; la costituzione si presenta come un processo umano, sempre aperto, sempre enormemente potente. Quando consideriamo tutto questo, percepiamo allora che la dialettica trascendentale della ragione si rappresenta qui, realmente, come dialettica ontologica fra singolarità, autovalorizzazioni, insorgenze di movimento, - e questo nella figura della differenza. E’ un processo del tutto formativo, che plasma la realtà, che soffre delle sue durezze ma che, nel contempo, di quegli antagonismi fa un momento propulsore. In fondo, il

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rapporto fra autorganizzazione e autovalorizzazione, e la stessa dialettica che fra queste funzioni si esercita, ritrova in questo formare, in questo processo continuo, la sua ricchezza. La sua articolazione e la sua potenza. Potenza è in effetti questo rapporto continuamente aperto. Il disegno costitutivo è la creazione che il sapere e la volontà esprimono, raggruppando e trasformando gli oggetti e gli uomini e il loro rapporto reciproco. Tutto questo avviene dentro quell’area di sostanziale omogeneità che l’ambiente determina - ogni punto di vista ha una dimensione ecologica cui riferirsi, laddove per ecologia riteniamo l’insieme di tutte le forze che costituiscono l’ambiente, - fisiche, morali, storiche.

E’ qui, dunque. che il discorso si fa esplicito: poiché pone attraverso l’interiorità ontologica, la necessità di riferimento, da una parte di questa potenza ontologica, all’esteriorità dell’essere. Dobbiamo muoverci [muoversi ?] dentro l’esteriorità dell’essere: la capacità critica consiste in questo, in questo aver portato il pensiero e l’esperienza fino alla loro esteriorità. Ora, si tratta di far incontrare ciò che percorre cammini diversi e vedere come possa, se non accordarsi, certo trovare la maniera di convivere - ma soprattutto si tratta di porre il problema di come le compresenze ontologiche, le contemporanee differenze possono costruire, attraverso il rapporto, nuovo essere, nuova potenza.

Il pensiero sul diritto ha sempre questo vantaggio, fra le varie forme di pensiero dell’essere: ed è quello di proporsi l’esteriorità, vale a dire il massimo della potenza dispiegata. Perché infatti, diversamente da quanto possano pensare i kantiani e tutti coloro che del diritto danno un’immagine banalizzata nella sua esteriorità, - ecco invece l’esteriorità divenire dignità ulteriore del pensiero e massimo punto di creatività, nel momento stesso nel quale essa si presenta come incontro di differenze ed articolazione, terribile e drammatica, di esse. La parola << Compact >> ci piace molto, in questo senso. Essa definisce ogni diritto come diritto federativo - essa scontra il giacobinismo in tutte le sue articolazioni, avendo, del giacobinismo, conosciuto preventivamente ogni possibile perversione. Essa mostra le differenze all’opera nel costruire l’ambito normativo della convivenza, della collaborazione, della costruttività sociale - senza nascondere come quest’ambito sia anche, e comunque possa essere, quello della dialettica distruttiva, fino all’ultimo antagonistica e feroce. Il diritto non nasce dall’attualità della pacificazione - nasce solo dalle condizioni di << compact >>, dalla possibilità di una pacificazione, meglio, di un passaggio in avanti del contrasto fra forze sociali, fra le soggettività antagonistiche, che sia tale da arricchire l’intero ambito della conoscenza e dell’interazione umane. Su questo termine << compact >>, sul contenuto federalistico e nello stesso tempo

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fortemente dialettico che esso comprende, noi naturalmente proseguiremo il discorso: ma quello che qui, metodologicamente almeno, va sottolineato, fortemente, è il fatto che solo la differenza crea diritto, ed il suo immediato e forte riconoscimento.

Ma occorre essere chiari. Il diritto non toglie la rivoluzione. E’ curioso notare come ogni concezione realistica del diritto, spesso molto aperta e sinceramente progressiva, veda quest’ultimo come forma nella quale la rivoluzione si organizza. E’ questo l’ultimo modo di togliere la rivoluzione: considerare che il diritto la organizzi. No, è la rivoluzione che organizza il diritto. Con ciò il diritto diviene normatività, tessuto nel quale si determina una trasformazione continua degli assetti sociali - insomma, è nel rapporto potente fra rivoluzione e diritto che si formano gli strumenti della costruzione continua della dialettica trascendentale, - tentativo di raggiungere il valore a partire dal reale, di autovalorizzazione a partire dal fatto di consistere ontologicamente. Altrimenti il diritto è solo comando idiota, buco nero nell’insieme collettivo delle coscienze, resto distruttivo dell’esistere. Dunque, quando la totalità si oppone alla differenza, o lo fa in quanto essa è pienezza delle differenze, ed allora è rivoluzione - e conseguentemente diritto - e ancora rivoluzione e diritto, ecc. - oppure la totalità è vuotezza delle differenze, ed allora il diritto è la forma zero del potere, l’organizzazione della pura volontà di potere spinta alla distruzione degli uomini e della loro capacità di immaginare sempre di nuovo il reale.

Il reale è un contesto di contropoteri. Il soggetto si configura come contropotere. Meglio sarebbe dire come potenza, come contropotenza, per definire l’inerenza dell’antagonismo alla definizione della potenza stessa. La potenza non solo esprime un contenuto metafisico ontologicamente originale, essa sviluppa anche una specificità, un differenziale che nasce dall’antagonismo, dalla particolarità, dalla singolarità che la contraddistingue. Ora è in questo gioco che la rivoluzione, dopo averlo legittimato, si differenzia dal diritto. Fra diritto e rivoluzione, infatti non c’è solo una differenza di potenziale: il primo è più debole, la seconda è più forte. No, c’è qualcosa di più - ed è la caduta di ogni omologia con lo stato nello svilupparsi della rivoluzione mentre il diritto può esistere anche in società statali - anche se esse sono società di morte. Il rapporto fra la rivoluzione e lo Stato, anche se la rivoluzione passa attraverso il diritto, è invece - lo ripetiamo - di nessuna omologia. La dimostrazione di questa affermazione va, com’è evidente, riportata all’analisi ontologica. Il tema dell’omologia, questo tema così profondamente criticato - ma prima di tutto posto all’ordine del giorno - da Foucault, bene, esso ormai domina i nostri pensieri. L’analisi ontologica apre alla scelta dell’essere etico. E’ perciò che noi vogliamo distruggere ogni omologia con il passato, con quella

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concezione del potere che ci ha imprigionato. Il diritto non toglie la rivoluzione - ma la rivoluzione che si articola a quelle figure del diritto naturale alle quali noi ci richiamiamo, toglie comunque lo Stato. Il reale è un libero contesto di contropoteri. Rivoluzione e diritto, se vogliono esser degni dello stesso nome, nascono sotto la stessa coperta.

Eccoci dunque a poter descrivere l’ampio e variegato gioco sul quale si esercita il << compact >> delle energie soggettive - questo terreno ampio, dentro il quale si formano e si distruggono i soggetti, ma che mostra sempre, di conseguenza, un disegno, un ordinamento. Questa vita del diritto e della rivoluzione, che nasce dal medesimo movimento, dalla medesima origine, - ecco, questa è la linea che dobbiamo seguire. Altri lo ha fatto dal punto di vista della genealogia della morale, altri dal punto di vista dell’intreccio fra istituzioni e volontà politiche - ma nel passato, guardando indietro a quanto era avvenuto, sia pure per averne un’indicazione positiva nel futuro. Per la teoria. Qui noi ci muoviamo sul terreno del presente. Riprendiamo quell’aurea linea teorica che è stata di Machiavelli, Spinoza e Marx - la prendiamo come si prende un’arma, pronti a colpire. E’ la linea del sapere pratico, del sapere che incide sull’ontologia, che in ogni momento opera quel miracoloso effetto che è il coordinamento tendenziale delle soggettività quand’esse siano intese alla costruzione del reale.

E’ assolutamente necessario togliere di mezzo qualsiasi sospetto di idealismo, quando si affronta questo tipo di analisi e si insiste su questa metodologia. Non è difficile comprendere che questo approccio metodologico non solo non è intenzionalmente idealistico - non lo può comunque essere: perché è la materialità delle istanze soggettive che qui si confrontano, ad escluderlo. Quando dico materialità delle istanze soggetttive [sic, soggettive] intendo tutto quello che cade nel potere dell’uomo, ovvero gli oggetti e le idee, che egli usa. Il concetto di prassi è materialistico non perché ripeta insulse definizioni meccanicistiche: non le ripete, infatti - ma perché comprende questo formarsi complesso del reale come conseguenza di atti diversi, ognuno dei quali ha una sua resistenza, una maggiore o minore elasticità, un potenziale diverso ecc. ecc. Qui tutto si crea e si distrugge. Non ci sono avveniri diversi da quelli che l’uomo costruisce, collettivamente, per se stesso e per la propria collettività. Quando risalgo appunto a quell’illustre tradizione alla quale mi richiamo - a Machiavelli, a Spinoza e a Marx - ai quali posso aggiungere alcuni nomi della filosofia contemporanea e, di nuovo a mezzo fra la modernità ed il presente, il ricordo del mio eroe Leopardi - dunque, in questo quadro io allontano non dico l’accusa ma solo il sospetto di idealismo. A meno di non considerare il materialismo come, ero giovane, alcuni marxisti di scuola sovietica lo

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intendevano: un catechismo per bambini scemi!Mi sembra che quanto sono venuto fin qui dicendo, sia da tempo consolidato

in un sapere che si intende quale prodotto di movimento, cioè di un processo collettivo, di trasformazione. Ma ecco, di nuovo, qui vicina, una obiezione seria: di quale diritto, dunque tu parli? Non hai sempre considerato, nelle tue precedenti opere, ed in consonanza marxista, il diritto e lo Stato come equivalenti? Ed ora come puoi dimostrare che il diritto è rivoluzione e non Stato?

Ora, non è per gioco che ho fin qui, nei capitoli che precedono, tanto insistito sul rapporto fra livello ontologico e livello storico, che ho tentato di spiegare come l’autorganizzazione venga prima e non dopo dell’autovalorizzazione. Non è per gioco che ho tentato di far capire come un nesso ontologico o comunque un momento di ordinamento interno della coscienza, non solo non siano opposti ma centrali nell’organizzazione del movimento esterno della coscienza e nella stessa formazione delle soggettività. Ora, detto tutto questo, e inserita, come fosse un segno di caratterizzazione profonda, la legge dell’antagonismo nel mezzo dello stesso meccanismo dell’individualismo, il diritto sembra possa essere recuperato al pensiero rivoluzionario. Come? Forse quel diritto del quale tutti abbiamo subito la pazzesca idiozia e volontà di repressione? L’arbitrio e il gioco al massacro, la simulazione e la ferocia della condanna? No, non è di questo che si parla - si parla invece della possibilità-necessità di far nascere un diritto come ordinamento aperto e vivace, vivente e forte, dall’interno del processo rivoluzionario, dall’interno del processo di distruzione della rigidità burocratica del mondo che conosciamo. Un diritto completamente impiantato nella libertà collettiva - un diritto mai vendicativo e sempre aperto alla gioia dell’innovazione.

Non vorrei più usare la parola diritto. E’ una parola sporca, è una parola che sporca alcune delle realtà che descrive. Intendo, le realtà nuove. Un ordinamento che nasca dalla vitalità collettiva e che si formi sull’urgenza di distinguere l’essere dal non essere, la violenza distruttiva da quella creativa - un diritto siffatto lo abbiamo spesso conosciuto e, quando lo abbiamo conosciuto, lo abbiamo amato. Ora, noi vogliamo seguire questa strada che abbiamo indicato e riconoscerla. Coordinamento di soggettività, coordinamento tendenziale, - abbiamo detto. Sia chiaro: nulla è precostituito, tutto è aperto, è giocato in quanto è giocabile attraverso mille tendenze. Che cosa significa allora coordinare, che cosa significa tendenza? Per rispondere non possiamo che riportarci a quanto abbiamo più volte ripetuto - e cioè che una sorta di condensazione è quella che, in maniera centripeta, si forma nello sviluppo delle forze soggettive che costituiscono le singolarità rivoltose, sovversive, cariche

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della dignità dell’essere e della liberazione. Che poi una specie di catastrofe si scatena, e su questa catastrofe di tutti i sensi finalmente si inquadrano nuovamente le figure dell’essere. Nuove composizioni si danno. Nuovi orizzonti si definiscono. La genealogia è ritornata ad essere cosmogonia - meglio, cosmologia, ma dentro, per un mondo che è completamente e definitivamente astratto: tra questa astrazione, non come medietà bensì come tendenza materiale e sempre di nuovo costruita, e sempre di nuovo verificata, il movimento del mondo va compiendosi. La sua ontologia è a posteriori, non esiste per essa necessità metafisica - ma è ben vero che una volta formatasi essa assume la verità dell’analitico. Senza esserlo, negandolo. Analitico a posteriori.

Eccoci dunque al termine di queste pagine e dello sviluppo di questa tematica. Abbiamo visto quanto il concetto di << compact >> ci possa concedere in termini di ricchezza e di utilità sistematica. Fra diritto e rivoluzione noi veniamo così raccogliendo gli elementi fondamentali della nostra ipotesi. Essa riconquista la metafisica per porla in prime piano sul terreno materialistico e ateo dell’analisi - sul terreno soggettivo della costruzione. Il senso della costituzione si traduce nel reale. Nell’operatività grandissima delle mute e mille energie che all’interno di esso si formano e si sviluppano. E’ un fiume quello che ci corre davanti: ma noi sappiamo che potremmo essere dentro ogni singola corrente che questo fiume, infinitamente, compone. Lo abbiamo visto nella nostra esperienza rivoluzionaria, ogniqualvolta l’abbiamo vissuta onestamente. L’abbiamo visto nella storia dei processi rivoluzionari e soprattutto nella formidabile avventura leninista e maoista. Ora, e forse in maniera più importante (dell’orgoglio della ragione occore [occorre?] andar fieri, se è vero che per esso l’Eden fu perduto) - ora dunque, queste gigantesche esperienze noi possiamo raccoglierle in uno schema ideale. Erasmo viene prima di Lutero. Melantone viene dopo: mi trovo ad essere l’un l’altro, al servizio di un Lutero eterno.

6. Il concetto di pratica sociale.Siamo così giunti al termine della nostra ricerca. Essa s’è mossa da una

fenomenologia del presente che ci ha mostrato come noi fossimo costretti a vivere un reale, completamente trasfigurato dallo sviluppo del capitalismo. E’ stato difficile riconoscersi li dentro - siamo stati risucchiati in una circolazione dalla quale non riuscivamo a liberarci ed i paradossi che immediatamente apparivano, ecco, essi pure erano per noi elementi di prigione e non momenti di liberazione. La prigionia dell’esperienza era nello stesso tempo prigione linguistica - la filosofia contemporanea si sviluppa in questo senso, raggiunge questi formidabili limiti - sono i limiti di un’illusione che non sa rompersi e non è possibile andare oltre a riconquistare il reale. Ho vissuto questo sviluppo nel

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mio pensiero, - assieme alla mia generazione, alla mia epoca. Marx ci ha mostrato, nello sviluppo del capitalismo, quello che Wittgenstein ci ha mostrato per lo sviluppo della filosofia borghese: la sussunzione reale, dove il linguaggio diviene la gabbia sociale che tutto comprende, e non c’è possibilità di romperla né di cogliere di là da essa un reale vero, un terreno su cui posare i piedi, una base che ci strappi all’irruenza del fiume della circolazione.

Eppure, sul limite estremo di quest’orizzonte, al quale pure eravamo obbligati, ma non solo, schiacciati piuttosto, legati – su questo limite, ecco la crisi mostrarsi in termini estremi, - non è la nostra intelligenza che ci porta di là del reale, né il nostro desiderio - vorrebbero: ma solo la violenza del reale, in questo caso, della contraddizione, dell’estremo antagonismo, vi riesce. Questo mondo chiuso e disperato nel quale ci siamo trovati a vivere, nella figura del quale l’intera storia del razionalismo occidentale si chiude - mostra un limite nel suo proprio cuore. Questo limite, lo sviluppo ci mette dinnanzi: è la scelta fra l’essere e il non essere, fra il continuare ed il finire - è la scelta della vita o della morte. Insomma, v’è un punto, dentro la circolazione totale dell’irrazionale, che sfugge alla circolazione, alla mistificazione che in essa si rivela - è il punto sul quale una scelta diviene possibile. Quel mondo che si è sempre nuovamente composto davanti a noi, fino al punto nel quale la composizione sociale e la stessa composizione di classe, si sono mostrate come prigione, quel mondo dunque ora viene rovesciato: deve essere scelto, quel mondo, perché la sua conclusione è la morte. Ma laddove vi è morte, là c’è anche la possibilità per la vita di riapparire. Essa deve riapparire, come alternativa. La vita non la troviamo più - laddove la troviamo. Essa è gettata all’irrazionalità ed alla possibilità di morte - la vita non la ritroviamo, bensì la ricostruiamo. Questo paradosso è il termine della nostra vita passiva, del nostro subire. E’ l’inizio del nostro desiderio, della vita attiva. Il principio della pratica sociale si determina solo a questo punto. La pratica sociale, nasce, si mostra, in primo luogo, come scoperta della tessitura ontologica della costituzione sociale. Nella crisi che lo sviluppo della razionalità occidentale ci ha proposto, noi scopriamo che la costituzione, che il principio costitutivo dunque, precede la composizione dell’essere, la sua datità. L’essere è quello che noi vogliamo, che noi accettiamo essere. E ciò, almeno nel momento più mostruoso dell’esperienza collettiva, e cioè laddove la scelta diviene esplicita fra la vita e la morte, fra l’essere e il non essere. Il concetto di composizione porta con sé la pregnanza di una relazione dialettica, di un fare soggettivo - ma non ha la potenza formativa del costituire, e la complessità della composizione deve perciò dissolversi nella felicità della costituzione, nella serie di rapporti innovativi, nella radicalità che questa ci mostra. Eccoci allora nel mezzo di questo cammino costitutivo - il principio della pratica sociale, che qui

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dobbiamo solo definire, è il principio creativo: un cogliere, analizzare e percepire, formare e sviluppare, costruire e seguire quelle linee che la volontà, il sapere, il desiderio costituiscono. Immediatamente.

Mille obiezioni vengono opposte a questa determinazione. In particolare la mentalità metafisica insegue sempre il reale, non per costruirlo, non per identificare regole e situazioni nelle quali il processo della datità e della passività possa essere invertito, - al contrario, sempre la metafisica ci rinvia, di mediazione in mediazione di ipotesi in ipostasi, a quel sostrato cieco e violento, sul quale l’essere inutilmente ripete una vuota identità. Il principio della pratica sociale è la negazione di tutto ciò. E’ il punto sul quale, poco o moltissimo - ma quasi sempre poco, un frammento, una traccia, eppure un elemento creativo - è creato. La pratica sociale nasce su questo limite, ed è qui che essa mostra quanto sia incontenibile questa sua pochezza: un atto di resistenza, di rivolta, di gioia, un atto intrattabile - l’essere che appare, e distrugge ogni blocco ed ogni compiacimento della miseria. Un atto che costituisce, un atto che mostra che la pratica ci pone effettivamente sul terreno della prassi costitutiva e che in ciò l’essere è raggiungibile e plasmabile. Il mondo della costituzione ci si rivela a questo punto come qualcosa che davvero non può essere mistificato. La scoperta alla sua base, di un concetto di azione, la scoperta che l’essere è fondato su un’operazione etica, tutto questo ci mostra il mondo della costituzione come un mondo che è segnato dal correre di fili magicamente costruttivi. Cartografie etiche, tessiture ontologiche, filature di atti, di operazioni dell’essere e dell’azione etica, insieme.

Quest’ontologia etica ha le caratteristiche di un orizzonte ecologico. Noi ci troviamo dentro, e di essa conosciamo già l’aspetto molteplice e le molte vite e le molte variazioni, e i fili che a percorrono e che ci permettono di orientarci. Siamo in essa immersi come in un mare vasto, del quale conosciamo molte articolazioni. Ma sempre di un mare si tratta - se vogliamo trasformarlo appieno in macchina controllabile, se vogliamo compiere quest’opera difficile ed onerosa, allora dobbiamo accettare di muoverci in esso... fino al riconoscimento dell’impossibilità di mettere questa macchina in nostro possesso. L’appropriazione è un processo che non riesce a farsi macchina risolta. La macchina è sempre irrisolta. Lo sfondo ontologico, che pure costituiamo, non si fa afferrare. L’ontologia è un’epistemologia - ma un’epistemologia solo dell’attraversamento - l’essere ecologico non può essere afferrato. Un attraversamento. L’epistemologia qui si segnala come una tecnica che solo a posteriori è comprensibile. Procediamo nell’essere - solo segni, tracce, sintomi, quelli che afferriamo - essi si aprono verso tendenze, che si aprono a loro volta. Verso dove? Anche queste tendenze non sono definitive - la struttura ecologica,

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in maniera caratteristica, reagisce come insieme di tendenze, sensi, e diramazioni - fino al punto in cui un nuovo equilibrio viene formandosi - ma anche questo, e queste macchine che lo esibiscono, e in generale queste stabilizzazioni del movimento dell’essere, non sono preformate. Perché l’ecologia non è uno stato, è un soggetto dinamico.

Ma come? Come possiamo rompere questa situazione nella quale la pratica sociale è presa dentro le mute antinomie e dentro le mille vegetazioni dell’ontologia della trasformazione? Ci siamo riconosciuti come partecipi di un orizzonte teorico e pratico autoreferenziale, di una fenomenologia chiusa, di un’insensatezza fondamentale - attraverso la percezione di quest’insensatezza, e del dolore che ne segue, abbiamo posto la domanda sulle condizioni di questa realtà, e del suo rovescio. Come possiamo, ora, dare all’atto costitutivo che è elemento di rottura del labirinto, di vendetta contro Babilonia, come possiamo dunque fissare una ragione della << pratica della pratica >>? Dico della << pratica della pratica >>, perché alla sola pratica è già concesso il vivere e il costituire - ma insensato. Esiste, e come si definisce, una << pratica della pratica >>, che ci permetta di rompere la volgare meccanicità di quest’universo che ci chiude?

Il concetto di pratica sociale è un concetto di pratica della pratica. E’ concetto di una decisione, di una scelta, di un passo in avanti decisivi. Qualcosa che ha l’intensità di un atto religioso, di un’operazione orgiastica. La pratica della pratica è la costruzione della pratica, il possesso indiziario ma efficace della sua macchina, è l’atto di innovazione ontologica. La pratica della pratica, e cioè il concetto completamente dispiegato della pratica sociale, è un surplus ontologico che noi aggiungiamo all’orizzonte del mondo. Certe volte non so spiegarmi: questo è il caso. Sono davanti ad un momento di modificazione dell’essere che non può essere concluso nel rapporto fra le mille determinazioni del divenire. Qui il rapporto fa un << piccolo salto >> in avanti - e si arricchisce, in maniera straordinaria. Qui il principio della pratica sociale, della pratica della pratica, cioè della riflessione del fare su stesso, si fa principio del soggetto. Il lavoro è la pratica, è la pratica che si spinge su se stessa. Il soggetto è la consolidazione del lavoro. Ed e così che questo innova: costruendosi, costruendo, trasformando il reale in sempre nuovo reale. Non so spiegarmi con me stesso, perché questo progredire è un processo indefinito e senza limite - sempre verso una comprensione maggiore, - che mai saprà darmi un concetto bell’e fatto e mettermelo fra le mani - riuscirà tuttavia a darmi una capacità sempre maggiore di comprendere. E di costruire. E di desiderare. Questo modificarsi è una pratica, una pratica inflessibile, una spada conficcata nel tempo, garantita dall’essere, dalla modificazione che sempre procede e

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costruisce: costruisce essenza. Il processo dell’ontologia si modifica. L’ontologia viene dopo, è il prodotto dell’essere vivente. L’ontologia non è più un presupposto, ma un prodotto. Prodotto della pratica, prodotto della soggettività.

Questa conclusione è epistemologica: vale a dire che nel principio della pratica si forma qui l’ontologia della conoscenza. Ma perciò stesso questo principio non è concluso: possiamo e dobbiamo parlare di inconclusività dell’etica - l’ontologia, noi la formiamo, ma la formiamo solo nella misura in cui continuiamo a formarla, a costruirla, a fissare criteri di direzione e di dinamicizzazione etiche. L’etica è conclusa. Essa costruisce essere stendendosi in un tempo reale, infinito nella sua estensione, nella pluralità che lo costituisce, ed indefinito nella sua durata, nella susseguente riapparizione [riparazione?] di mondi, di orizzonti, che forma il suo incedere. Ed è all’incrocio di questo meccanismo, di determinazione ontologica e indefinitezza etica, che si forma la singolarità, - singolarità dell’evento e del soggetto, singolarità dell’atto e del sostrato. La pratica della pratica consolida il principio del soggetto solo astrattamente: concretamente, singolarmente, questa pratica costitutiva attraversa mille emergenze e fissa mille precipitazioni di eventi. E’ una rete di antagonismi, reali e storici, di discriminazioni, logiche ed etiche, quella che si forma dentro questo incedere dell’essere. L’essere si forma in maniera continua, instancabile - la sua formazione non è altro che un continuo sovrapporsi di strati dinamici, una meccanica di argomenti e di alternative, che si conclude, di volta in volta, su singolarità specifiche. La pratica sociale diviene costituzione del soggetto, in termini propri, in termini veri, solo quando attraversa questa grande quantità di occasioni ontologiche, di singole costruzioni ontologiche. La pratica della pratica, la riflessione della pratica su se stessa, diviene elemento definitivo nella storia dell’ontologia, nella genealogia dell’essere, solo quando si accompagna ad una specie di sovrabbondanza nella costruzione di infinite sintesi, mai concluse, di singolarità, - sintesi aperte su ogni lato, e su ogni lato debordanti.

Di nuovo insorgono difficoltà di descrizione - meccanismi di rottura si accompagnano ovunque allo sviluppo dell’epistemologia costitutiva - di fatto, non riusciamo a fissare delle leggi generali - ogni omologia costitutiva è tolta - noi riusciamo solamente ad esaltare la singolarità e a considerare la singolarità come elemento che non può essere racchiuso in sequenze rigide. Si sviluppano tipologie costitutive - questo è il massimo dello sforzo sistematico cui possiamo accedere. Tipologie costitutive che ripetiamo sulla base dell’analogia empirica, e non sulla base di qualche criterio di scientificità. Quella rottura che il principio della pratica della pratica ha innanzitutto cercato, per definire se

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stesso, noi la ritroviamo ora come un dato - un dato che qualifica le tipologie, le distingue l’una dall’altra, determina - insomma - ogniqualvolta una singolarità è nata - un rinnovamento del senso dell’indefinitività del cammino della pratica. Il momento di determinazione ontologica è anche quello sul quale l’indefinitività del cammino etico si propone. La fissazione epistemologica dell’oggetto è definizione dell’inconclusività etica del soggetto.

La pratica della pratica sociale: è così anche questo continuo ritorno che la pratica é costretta ad operare su se stessa. Nell’oscillare fra certezza epistemologica e inconclusività etica, la pratica è costretta a piegarsi continuamente su se stessa, a riflettere. Riflessione della pratica su se stessa: non è dunque un principio idealistico, né un principio di autocoscienza o solamente di critica o autocritica - riflessione della pratica su se stessa è pratica della pratica, è un fondare essere e un prenderne le distanze, ma solamente in maniera pratica, e cioè attraverso la continua costruzione di essere, di nuovi scenari teorici e di nuove prospettive etiche dell’agire ontologico.

Perché allora non chiamare semplicemente rivoluzione questo movimento della pratica che costituisce essere, nello stesso momento in cui riflette su se stesso e propone un’instancabile e obbligata continuità del processo? Fra limiti e superamenti, che non hanno senso unitario ma solo determinazione e senso singolare? Perché allora non chiamare semplicemente rivoluzione la pratica della pratica, il concetto della pratica sociale?

Per rispondere a quest’ultimo quesito - ultimo nell’ordine della nostra ricerca - occorre rispondere che il concetto di rivoluzione è stato spesso confuso con operazioni politiche di dubbio senso e che spesso si sono intrattenute sulla più screditata superficie della storia. Noi siamo disposti a riprendere il termine rivoluzione solo se riusciamo a ricondurlo al significato ontologico della locuzione. Rivoluzione: accettiamo il termine solo se esso ci indica una modificazione della sostanza profonda del tempo storico, una trasformazione delle anime, una mutazione dei soggetti. C’è un punto di equilibrio, nella definizione del concetto di rivoluzione, - un punto di equilibrio ontologico che troviamo piazzato fra il senso del tempo lungo di Tocqueville e il principio di salto qualitativo, di catastrofe storica, che è di Lenin. Entrambe queste tendenze toccano la dimensione profonda dell’essere, - e non è nostra l’abitudine di distinguere specie, raffinate o meno, dell’essere. L’essere è l’essere. Non feticizziamo il tempo lungo o la catastrofe: entrambi possono intervenire in maniera rivoluzionaria sull’essere, - è quest’effetto che ci interessa, è quest’irriducibile qualità che ci piace. Ora, dunque, il problema è solo quello di strappare al concetto di rivoluzione le connotazioni estremistiche, utopiche, politicistiche, che contiene. Di rendergli le caratteristiche storiche, profonde,

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innovative, di mutazione, che possiede.Pratica della pratica diviene allora allusione a quest’evento dell’essere.

Rivoluzionario è dunque ogni atto della conoscenza che modifica i rapporti di potere, esprimendo potenza ed innovazione. L’innovazione dell’essere si realizza laddove la potenza la vuole. La relazione fra potenza delle singolarità, lavoro del soggetto ed innovazione dell’essere è, come sappiamo, non lineare ma certamente esistente. Noi non possiamo descriverla in maniera definita, non possiamo ricondurla a motivi astratti - ma possiamo viverla. Quell’evento dell’essere che chiamiamo pratica della pratica, principio rivoluzionario della pratica sociale è, più semplicemente, rivoluzione - è dunque una testimonianza continua e comune della nostra appartenenza all’essere collettivo, e sua trasformazione, sua mutazione. L’alternativa si alza, fuori della continuità indifferente della circolazione dei valori assoggettati dal capitalismo, e quest’alternativa si fa creativa. Creativa di altro essere. Basta che passi nella coscienza, questo principio di mutazione, in una coscienza - di lì, da questa ricchezza discende allora a rivoluzione.

Ritorniamo, ricollochiamoci nel paesaggio che ci è stato offerto all’inizio della nostra ricerca. Un orizzonte nel quale tutto circolava e l’epistemologia lineare di un comando astratto sostitutiva senza posa, al presente ed alla sua pesantezza, orizzonti insignificanti e funzionali. Abbiamo attraversato quest’orizzonte - lo abbiamo riconosciuto - abbiamo scoperto che, malgrado la sua atroce crudeltà, questo orizzonte costituiva la nostra seconda natura. Dentro la dislocazione che con ciò si determinava, era a noi dato, tuttavia, scegliere. Meglio, lottare. Lo abbiamo fatto. Abbiamo scelto se accettare o no che la seconda natura - dentro la quale, comunque, la nostra energia vitale e le nostre capacità costruttive erano moltiplicate - restasse nelle mani del vecchio potere, fosse assoggettata all’inerzia dell’antico potere. Un potere che annullava l’essere, che ne riduceva ogni qualità all’indifferenza ed ogni tempo a zero Abbiamo rifiutato. Nel rifiuto sta la nostra dignità. Nell’approfondimento del rifiuto, nel ricominciare la nostra bellissima via attraverso l’essere, nel ritorno all’essere, al senso della mutazione, sta principio di rivoluzione. La pratica della pratica sociale lo rinnova.

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PARTE III Fra catastrofe e ricostruzione.

Appendice.1. Erkenntnistheorie. Elogio dell’assenza di memoria.Lascia stupiti l’iterazione della dichiarazione che il ‘68 è morto. Per non dire

del ‘77. L’informazione di regime recluta suoi funzionari sulla base di un’esplicita vocazione: farò il becchino, quindi il giornalista politico, ecc. Il paradosso si ingigantisce quando si avverte che la memoria esistente del ‘68 e del decennio successivo è ormai solo quella del becchino. Il rinvio a giudizio del 7 aprile è memoria del becchino: la cerimonia (ma ciò si deve allo scarso gusto degli autori) ha poi il grossolano fasto del funerale meridionale. Avrebbe potuto essere più elegante. Peccato!

Forse per questo il proletariato metropolitano, da Berlino a Brixton, da Napoli a Zurigo, da Amsterdam a Varsavia, conosce la realtà ed è rivoluzionario secondo dispositivi che la memoria non gli ha consegnato.

Quello che mi interessa è dunque la mancanza di memoria. Come possano esistere un sapere rivoluzionario - ed esiste - ed una teoria della conoscenza su questo terreno - teoria che è effettuale - fuori dalla memoria storica del movimento, indipendentemente dalla sua continuità e dalle sue cesure e dai suoi problemi? La mancanza di memoria: la pongo a problema.

* * *Si potrebbe cominciare col dire: quello che era volontario si è fatto

fisiologico, senza che la trasformazione sia stata mediata dalla memoria, da una qualsiasi continuità più o meno cosciente.

La storia si è fatta natura, seconda natura, - così come avviene sempre sulla trasformazione della composizione di classe. E’ una ipotesi: ma non spiega lo specifico del nostro problema, che è quello della mancanza di memoria, non quello della pura e semplice trasformazione. L’epistemologia borghese e quella socialista conoscono questo passaggio dalla storia alla natura, alla seconda natura della composizione di classe trasformata, e lo tematizzano attorno al concetto di organizzazione del lavoro e di trasformazione dei rapporti di produzione. La sequenza << lotta di classe / ristrutturazione capitalistica / nuova composizione proletaria / nuovo dominio >> rappresenta la più astuta descrizione del processo.

Ma in questo caso, nel caso di mancanza di memoria, non serve. Infatti, nel quadro dell’epistemologia borghese e socialista, la dialettica di spinte e controspinte, di lavoro e conoscenza, è indistricabile: una termodinamica di

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evoluzione, da stato di equilibrio a stato di equilibrio, è sottesa allo schema esplicativo. Dialettica / storicismo / metafisica. Se l’uno si divida in due o il due ritorni all’unità: da Platone a Ciu En Lai la possanza dell’argomentazione s’è riposata in questa miseria di alternative: in realtà, di equivalenze. La chiave dell’ambiguità è sempre nella memoria. La dialettica è memoria. Un filo nero di coscienza la percorre.

Affabulazione del passato, consolidamento di discipline, lavoro, comando. Il tempo è azzerato dalla memoria così come dalla coscienza alienata. Il tempo è azzerato dal lavoro, - tempo misura di atti umani ridotti ad astrazione. Ma questo azzeramento è un’operazione reale e la memoria resta. Non è dunque il nostro caso.

Di contro, infatti, la composizione di classe del soggetto metropolitano contemporaneo non ha memoria perché non ha lavoro, perché non vuole lavoro comandato, lavoro dialettico. Non ha memoria perché solo il lavoro può costruire peril proletariato un rapporto con la storia passata. Non ha dialettica perché solo la memoria ed il lavoro costituiscono la dialettica.

Ma il non-lavoro è comunque un soggetto: tutti lo vedono. Privo di memoria e di dialettica. Ma un soggetto: tutti lo temono. Quindi un agente di conoscenza in quanto cumulo di sapere. Di quale sapere e di quale conoscenza?

Al termine dell’illuminismo e nel mezzo della trionfante rivoluzione capitalistica, Immanuel Kant si chiudeva quali fossero le condizioni di un conoscere che costituisse il nuovo mondo della libertà borghese. Concludeva la sua ricerca affermando che, sulla base della formativa della scienza e del lavoro capitalistici, si dovevano stendere schemi e progetti di ricostruzione del reale, di dominio sul proletariato come << cosa in sé >> inconoscibile, progetti giustificati non dalla certezza del risultato ma dalla necessità etica del conoscere e del lavoro. Al teorico borghese rivoluzionario il mondo si mostrava infatti come immediatamente scisso. Ma l’unità del mondo è l’ideale della ragione. Il conoscere ha una essenza unitaria, è dispositivo tecnico, è sapere che costruisce dominio ed esprime con ciò la natura del soggetto. Esso si dispiega nell’assalto all’oggetto, sfiorandolo prima, con continui tentativi di possederlo, organizzandolo poi entro reti di dominio produttivo. Per Kant libertà è produzione - quindi dominio dell’oggetto, della << cosa in sé >>.

Oggi questa rete della libertà è tutta distesa. Non abbiamo mai avuto tanta libertà, tanto dominio della libertà. Kant ha vinto: lo schematismo trascendentale della ragione si è fatto sussunzione reale del lavoro da parte del capitale. L’oggetto è stato posseduto, plasmato, trasfigurato. La cosa in sé tolta. Il sistema invece è posto. La norma è voluta. Lo stato delle cose presenti è la

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libertà. Il lavoro è la legge. L’apriori è il capitale, cioè il lavoro organizzato, sistematizzato, normativizzato. Il sapere è dunque conoscenza di questo rapporto di dominio, sua continua tessitura, memoria, iterazione, perfezionamento. Il conoscere e il ricordare sono funzioni di questo assoluto. Viva Kant, viva Hegel, viva Mao Tse Tung!

Ma, come dicevano i vecchi, antichissimi Horkheimer - Adorno, il trionfo dell’illuminismo e la sua crisi. Se gratti Kant, trovi Heidegger. Per parlare in soldoni: quando tutto il tempo della vita è tempo di lavoro, quale logica, quale conoscere distingue più il piacere della vita dal dominio del lavoro? Quando tutto il circuito della vita è chiuso in quello dello sfruttamento, trasposto nell’orizzonte del sistema, il mio rifiuto dello sfruttamento e del sistema sono un’altra vita.

* * *La mancanza di memoria è per il proletariato metropolitano una potenza

rivoluzionaria. Voglio spiegare il concetto di sussunzione reale. Parlare di proletariato metropolitano significa infatti fare un discorso insieme molto complesso e molto semplice. Il passaggio dal concetto generico di proletariato a quello specifico di proletariato metropolitano è un passaggio che prevede la determinazione reale della sussunzione del lavoro nel capitale. I processi della sussunzione si leggono nel Capitolo VI inedito del Capitale di Marx. Su questa base, io sottolineo il fatto che sussunzione reale significa l’estinzione della divisione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo [improdutivo] e integrazione dei circuiti della produzione e della riproduzione (circolazione) - in parallelo l’emergere del concetto di lavoro sociale produttivo e quindi la localizzazione metropolitana dell’operaio sociale.

La sussunzione reale determina un dislocamento qualitativo dell’essenza proletaria (della forma dello sfruttamento e della cooperazione, dei bisogni e dei desideri): nulla che abbia a vedere con il vecchio ritmo delle ricomposizioni e delle ristrutturazioni. Tanto è vero che in Marx il passaggio alla sussunzione reale del lavoro nel capitale è immediatamente il passaggio dal socialismo al comunismo. E’ un errore di Marx. Ma ci serve per chiarire il nostro punto di vista. Di fatto la sussunzione reale si verifica senza mettere in gioco la transizione. E’ un passaggio capitalistico.

Ma questo passaggio capitalistico è radicale. L’antagonismo che sorge all’interno della sussunzione reale è assolutamente radicale, anch’esso. Il problema della transizione non si pone in nome del passaggio capitalistico della sussunzione, ma si pone nel momento nel quale all’interno della sussunzione si chiarisce il nuovo antagonismo. Vale a dire che la sussunzione reale non elimina

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(come in Marx) l’antagonismo, ma lo disloca radicalmente (siamo nell’oltre Marx).

Ma cos’è allora l’antagonismo nella sussunzione reale? E’ l’emergere del proletariato come nuova essenza collettiva, separata, non dialettizzabile [dialetizzabile ?]. L’emergenza dell’antagonismo come istituzionalità.

* * *Ben vengano le ricostruzioni (tipo rinvio a giudizio del 7 aprile) degli anni

più belli della nostra vita: il loro distruggere la memoria ci fa gioco. Il loro falsificare il passato esalta il nuovo. La continuità soprattutto nelle sue figure terroristiche, è tutta loro. Giacobino di destra e giacobino di sinistra giacciono sotto la stessa coperta. Si coniugano. In questo mondo sussunto dal capitale l’unica memoria è quella del padrone.

Solo la negazione della memoria ci rende l’orizzonte della vita. La sussunzione reale del lavoro da parte del capitale distrugge ogni soggetto produttivo separato, assume la società intera nella produzione. Ma la sussunzione ha il suo antagonismo specifico: dove tutto il tempo della vita è tempo di produzione, l’antagonismo è determinato dalla diversa qualità della vita. Il tempo capitalistico misura e sfrutta la totalità sociale della produzione, - la vita quindi si oppone al tempo misura. Conquista una nuova qualità del tempo. Così procedendo, dunque, il capitale ci restituisce l’essenza collettiva del soggetto che si rifiuta allo sfruttamento, insistendo su una qualità della vita completamente separata e su un modello di vita alternativo.

La sussunzione capitalistica del lavoro ci rende la soggettività sociale e ce la rende nel senso di un completo dislocamento. Se v’è dislocamento non c’è memoria. Nel momento nel quale il capitale si sente tutto ed è tutto, l’antagonismo spiazza la sua propria collocazione. Gli schemi della memoria, e quindi la memoria del funzionamento della legge del valore (perché null’altro può essere la memoria proletaria), scompaiono nella catastrofe di una dislocazione radicale, nel buio di uno spazio interstellare. Il sapere proletario non comprende più la legge sul valore, neppure come sofferenza passata, come volgare coscienza del nesso servo-padrone. I miei figli non sono il mio passato. La dialettica si sfuma. La mancanza di dialettica, ha mancanza di memoria è ricchezza.

Alla caduta della memoria corrisponde l’apparire storico, la consistenza dell’istituzionalità proletaria. Non insistiamo tanto sulla separatezza: essa è indice e codice dello spessore materiale dell’istituzionalità proletaria, del suo processo evolutivo. Ma non la mistica della separatezza, bensì la logica dell’istituzionalità segnala la mancanza di memoria. Mancanza di memoria è

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libertà: non solo da un passato, ma da un futuro che non sia autonomamente determinato. Transizione comunista è mancanza di memoria.

* * *La teoria della conoscenza proletaria è la stessa cosa della sua istituzionalità,

separata. Ma la separazione della memoria del rapporto dialettico e dello sfruttamento. Istituzionalità separata è pieno sviluppo del lavoro negativo, del lavoro che distrugge il criterio del profitto e pone quello della felicità. Conoscenza ed istituzionalità proletarie: posseggono un fondamento, un metodo, uno sviluppo.

Il fondamento è la vita, il suo rispetto, la sua felicità. Questa convenzione è fondamentale. E’ convenzione che esclude il principio hobbesiano del ricatto della paura a fondamento della convivenza umana e toglie quindi anche il principio della pace - quando la pace venga intesa come risultato del ricatto del più forte, come valore che sovradetermina quello della vita. (Stato e BR in perfetta sintonia). La struttura conoscitiva di questo principio è fenomenologica: essa insegue il rapporto bisogni, desideri, realtà. Sono i mille aspetti della vita che vengono positivamente proposti al desiderio collettivo. Ragione e paura non si pongono in nessun senso sullo stesso terreno. Divengono del tutto asimmetriche. Hobbes è un lurido reazionario. Spinoza è il piacere della vita, la sua materialità creativa sono il fondamento. E’ la paura, in quanto collegata alla ragione che pone il formalismo della ragione. La vita, il desiderio, in quanto incarnano la ragione, pongono il materialismo della conoscenza.

Il metodo e quello della molteplicità. Non v’è << norma >>, nella conoscenza della comunità proletaria, ma solo << patto >>, solo accordo e convenienza pratica. Non c’è obbligatorietà ma solo conversione collettiva sugli obiettivi della ragione. Tutta la scienza del capitale, tutta la scienza del tempio e della reggia, hanno sempre puntato sul concetto di potere e di norma, di potere come esercizio della normativa, come autoselezione di ceto dirigente. Tutto questo è finito.

La norma è solo spettro di un comando che vuol farsi reale incutendo paura. Se la logica capitalistica è sempre un tentativo di dominare la << cosa in sé >>, unificandola nel sistema, la cosa è ora fuori dalla sua possibilità logica. Il metodo proletario è invece consustanziale [consostanziale?] il progetto di costituzione pattizia per la felicità. Non c’è dittatura se non in questo senso: nel senso di impedire ogni sopraffazione dell’unità sulla molteplicità, di affermare la continua catastrofe della norma a fronte delle procedure pattizie, di distruggere ogni sovradeterminazione fosse pure quella semplicemente formale

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del richiamo all’unità o addirittura il formale della crisi.Infine lo sviluppo dell’istituzionalità proletaria. Essa si dà sull’intero arco

della vita. Non esistono pubblico e privato, sociale e politico, - esiste solamente, come oggetto, l’estensione della giornata lavorativa sociale che va interamente liberata. La conoscenza qui diventa prefigurazione. La critica del progetto, di cui il riformismo oggi si nutre, è solo funzione interna al potere ed alla sua riproduzione, - analisi dei modi in cui si possono perfezionare le pratiche di delega e di rappresentanza, dunque nuovamente presunzione della volontà generale. Ma perciò stesso anche riconoscimento della sua ineffettualità. Il progetto del potere ha fallito. Proprio qui la prefigurazione proletaria incastra la sua libertà.

La vita e la felicità costituiscono fondamento, il materialismo della gestione dualistica del molteplice costituisce il metodo: bene, qui la struttura del sapere proletario si fa immediatamente pratica.

* * *Possiamo rovesciare lo schema kantiano del conoscere. Il rovesciamento

consiste in ciò: che il nuovo illuminismo proletario è istituzionale, non considera la realtà come oggetto di dominio, bensì come terreno di liberazione. Di kantiano resta l’istituzionalità indipendente dell’approccio conoscitivo della realtà. Ma il suo senso è appunto completamente rovesciato. Il proletario, la << cosa in sé >> sviluppata, dislocata, è il soggetto del conoscere. All’inverso il capitale è ora << cosa in sé >> irraggiungibile e lontana. Ah, ah, se lo tengano il loro bel capitale postmoderno! Tempo e spazio costituiscono per il proletariato, per il soggetto rivoluzionario forme a priori che nulla hanno più a che fare con la istituzionalità capitalistica. Certo, la << cosa in sé >> capitalistica permane: permarrà per chissà quanto tempo ancora. Ma il limite non toglie l’egemonia del punto di vista proletario. In ogni caso, oggi non il dominio del capitale ma il lavoro negativo della liberazione costituisce l’ideale della ragione.

La mancanza di memoria è costitutiva di un nuovo orizzonte del sapere.* * *Vi è chi insiste sul fatto che bisognerebbe produrre una memoria interna al

movimento, una memoria di questi ultimi anni. E’ ridicolo. Certo, potremmo ricorrere alle malizie rinascimentali dell’arte della memoria: con un po’ di kabbala questa storia può ben essere ricostruita. Ma perché togliere questi piaceri ai giudici della Repubblica che di kabbala se ne intendono? Una coscienza che, come quella proletaria, si vuole istituzionale non ha bisogno di una memoria che è solo memoria della propria estraneità, della propria passata estraneazione. Quello che l’istituzionalità proletaria deve ricordare lo trattiene

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come base della propria esistenza, lo ha come sostanza della sua pratica materiale. E’ iscritto nella sua esistenza. Non hanno bisogno di memoria i giovani di Zurigo, i proletari napoletani e gli operai di Danzica: hanno solo bisogno di quella speranza che costruiscono. Giustamente in Kant, su quello snodo di transizione della filosofia della rivoluzione borghese, non c’è una compiuta teoria della memoria. In Lenin e in tutta la fase socialista della rivoluzione proletaria la memoria è portata solo sulla sofferenza o sugli errori proletari, è arma - un po’ piagnona e sordida ma sempre un arma - e come tale la memoria è legittimata. Ma ora, nel mezzo della transizione comunista, a che diavolo serve la memoria? Non c’è spazio per essa. Come, e a rovescio che in Kant, la memoria è nella forma stessa a priori del conoscere proletario, nel meccanismo della sua espansione materiale. La memoria si legge solo nel futuro.

Di conseguenza: il processo 7 aprile non va impostato come rivendicazione di un passato, ma va concepito come presagio e dimostrazione di una nuova istituzionalità proletaria, nella sua realtà. Al processo 7 aprile si va a considerare la chiusura di un’epoca e il dislocamento in avanti della lotta di liberazione. La memoria sarà solo forma della nostra - indipendente separata creativa - esistenza di comunità comunista. Nelle grandi dimensioni sociali della sussunzione reale e dell’antagonismo nuovo che l’attualità della storia di classe mostra.

* * *E’ evidente che ci sono anche tanti altri orizzonti della memoria. E che alcuni

vanno percorsi proprio per costruire l’istituzionalità proletaria. Qui il mio problema (qui e nel processo 7 aprile) è; solo quello di rovesciare in positivo quella spaventosa violenza che la memoria del potere produce per quello che riguarda il decennio che comincia con il ‘68, ovvero il decennio più bello della nostra vita. Se memoria diviene memoria del potere, memoria del funzionamento della legge del valore, memoria della sussunzione reale, di per ciò stesso la violenza annulla la nostra memoria. Questa violenza va comunque presa in positivo: rovesciata, assunta sul terreno dell’antagonismo, scarnificata, - se la memoria è la violenza, la nostra vita è la negazione della memoria: ma non basta! Poi ricominceremo a ricostruire gli orizzonti alternativi del ricordo. Per noi non c’è la possibilità di accostare senza violenza il passato: il nemico ce lo ha reso tale. Ma esiste, probabilmente, una memoria dell’altro soggetto. Di noi come soggetto.

E c’è da dire che la coincidenza della distruzione capitalistica della memoria con il risoluto ingresso del capitale nella fase della sussunzione reale, mette in sintonia - dal punto di vista proletario - e senza alcuno scandalo, la riscoperta

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dell’essenza collettiva, della prefigurazione necessaria, della possibilità di ricostruzione del mondo e, d’altro canto, la caduta di ogni residua illusione di continuità.

2. Nota introduttiva alla ristampa di << Classe operaia >>. La potenza sociale del lavoro.

Perché ristampare << Classe operaia >>? La decisione non è stata mia: alcuni compagni ritengono utile intraprendere questa iniziativa e mi chiedono [chiudono?] di fare una introduzione. Debbo comunque rispondere alla proposta, in maniera affermativa o negativa. Tanto vale dunque fare l’introduzione. Ma solo per argomentare: che cosa?

Il mio consenso o il mio dissenso. Sfoglio le pagine della rivista: mi ci ritrovo, il mio ricordo ci si ritrova. Quante riunioni, quante amicizie fatte e disfatte, quante giornate di tipografia (sí, perché eravamo io e Manfredo Massironi a impaginarla e a farla in tipografia per un paio d’anni). Quante emozioni. Dunque << Classe operaia >> va ripubblicata; per quale ragione? Perché è la dimostrazione di una nobile ascendenza delle posizioni politiche che gran parte del movimento svilupperà negli anni successivi? Perché è, con i << Quaderni Rossi >>, la solida pietra sulla quale una nuova corrente del pensiero politico italiano, marxista e proletaria, è venuta costruendosi? E non solo in Italia? Perché dunque ha una particolare importanza scientifica e le persone che hanno collaborato alla sua fattura, fanno - in una maniera o nell’altra - parte della storia del movimento proletario chez nous?

Non mi soddisfano queste ragioni. Che << Classe operaia >> sia un pezzo di storia, va bene: ma allora ne va verificata politicamente la sua attualità, o meno, direttamente, senza soffermarsi sul feticcio << rivista >> degli << anni Sessanta >>: feticcio favoloso quanto per certi versi fuorviante. Quanto all’importanza scientifica di << Classe operaia >> va notato che coloro che vi hanno collaborato sono andati avanti, su da quella esperienza: e hanno fatto i loro libri nei quali con maggiore ampiezza e con maggior rigore hanno sviluppato il loro pensiero politico. Studiamo dunque i loro libri, direttamente. E allora perché, di nuovo, ristampare << Classe operaia >>?

Debbo sinceramente riconoscere di non saper dare una risposta, dal punto di vista di uno degli autori di quell’impresa. Rivediamo allora la questione dal punto di vista dell’utenza. << Classe operaia >> va ristampata perché i militanti politici di oggi possano avere a disposizione un testo al quale confrontarsi e sul quale misurarsi. Ma direi che questa ragione non giustifica affatto la ristampa. Infatti i militanti del proletariato, oggi, son persone fortemente diverse da quel ceto politico che allora esprimeva una rivista come << Classe operaia >>. Il

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discorso << operaista >>, in senso stretto, della rivista non corrisponde neppure lontanamente a quelle che oggi sono le concezioni della lotta di classe che il militante medio, autonomo, l’operaio sociale degli anni ‘70 e ‘80 posseggono: all’orizzonte che si sono costruiti con tante lotte e con una riflessione critica così profonda. Già negli anni scorsi, quando feci vedere a militanti tedeschi e americani, la mia collezione di << Classe operaia >> (oggi questa collezione, rubatami da qualche poliziotto, giace nella polvere di un archivio giudiziario), le reazioni erano già affascinate ma distaccate. Per i nuovi strati di militanti, << Classe operaia >> è in realtà una reliquia. Come tutte le reliquie può avere effetti di rassicurazione sulle anime belle, certo - e perché negare l’utilità della rassicurazione teorica, in tempi così atroci? Ma, dal punto di vista della lotta politica, questa rassicurazione rischia persino di essere mistificante. Dove sono più infatti le categoire stesse sulle quali il lavoro di << Classe operaia >> si fondava? Dove i rapporti, ambigui e sotterranei, con il movimento operaio ufficiale che << Classe operaia >> comunque supponeva? Qual’è più oggi il modo di leggere le ambiguità delle quali << Classe operaia >> ridondava? Quel bell’operaio massa, che a tutto tondo veniva fuori dalle pagine della rivista, era indubbiamente allora, nel panorama della pubblicistica della sinistra rivoluzionaria, una figura nuova: ma oggi dov’è più. Oggi l’attenzione critica e trasformatrice si basa su ben altri, corposi e nuovi soggetti: anche noi, uomini e proletari di oggi, abbiamo il nostro carico di ambiguità nei confronti del nuovo soggetto, ma sono ambiguità esse stesse non riferibili a quella realtà degli anni Sessanta. Non c’è omologia possibile fra << quella >> figura dell’operaio massa e l’attuale vivacità del soggetto sociale proletario.

A guardar bene, poi, quella figura a tutto tondo dell’operaio massa che emergeva dalle pagine di << Classe operaia >> era già una figura vecchia. Noi, di << Classe operaia >>, eravamo un po’ delle nottole di Minerva che apparivano all’imbrunire: scoprivamo la novità della figura dell’operaio massa quando questa figura si era già storicamente consolidata (da almeno trent’anni), era già del tutto matura, era - e questo è quello che più conta - già in corso di superamento. In realtà non scoprivamo una categoria della lotta di classe ma solo denunciavamo il ritardo storico del movimento operaio ufficiale nell’identificare una strategia fondata sulla centralità dell’operaio massa. Di qui una serie ulteriore di ambiguità: quest’operaio massa che venivamo tirando fuori dai dimenticatoi del movimento operaio ufficiale, quest’operaio massa che intagliavamo come figura distinta dall’operaio professionale, in realtà poi lo dipingevamo con vecchi colori. Il nostro operaio massa puzzava di officina Putilov in maniera indecente. Non che nel discorso di << Classe operaia >> non esistessero momenti di superamento di questa ambiguità, non sto dicendo questo.

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Risulterebbe comunque molto difficile oggi riconoscere se era più forte l’ambiguità o il suo superamento. Solo il dopo, solo la vicenda storica che comincia appunto quando l’esperienza di << Classe operaia >> termina, solo questo può dare una risposta.

Ma sicuramente in << Classe operaia >> manca un gusto per lo stato nascente della soggettività proletaria. C’è il gusto teorico della analisi soggettiva proletaria. C’è il gusto teorico della analisi oggettiva, della identificazione della crisi: l’operaio massa che forza, colto nella sua piena maturità, lo sviluppo capitalistico fino a rovinarne proporzioni e compatibilità. Ma quello che manca è il senso delle relazioni complesse che costruiscono, nella crisi, nuova energia soggettiva, nuovi bisogni, nuovi comportamenti. Certo, la form a della lotta a << gatto selvaggio >> è colta ed esaltata: ma riportata a che cosa? Era progettata sul vuoto, non innestata dentro un meccanismo costitutivo di soggettività nuova. I discorsi sull’organizzazione furono, in << Classe operaia >>, prima fumosi, poi unilateralmente rivolti a riscoprire una chiave dialettica nei confronti del movimento operaio ufficiale. Quando, fra il ‘66 e il ‘67, << Classe operaia >> chiude definitivamente i battenti, essa aveva sicuramente previsto l’addensarsi della crisi nell’immediata fase successiva. Ma la forma della soggettività della crisi, la rivolta degli studenti, l’impatto del terzomondismo, l’apparizione della povertà proletaria, l’emarginazione, insomma tutte le componenti dell’operaio sociale, tutto questo le sfuggiva, veniva meccanicamente ed immediatamente ricondotto alla guida dell’operaio massa. E ciò proprio nel momento in cui tutto si stava rovesciando: era infatti la soggettività sociale del proletariato che conquistava la centralità politica del processo, ed aggrediva la fabbrica stessa ed il lavoro produttivo, prima dall’esterno, poi dall’interno modificando la natura stessa del lavoro produttivo ed imponendo, nella fabbrica capitalistica, dentro di essa, l’egemonia dei comportamenti nuovi dell’operaio sociale. << Classe operaia >> aveva registrato la maturità della figura dell’operaio massa, non ne aveva inteso la vera natura però: l’operaio massa non era altro che un termine del passaggio all’operaio sociale, un primo prodotto della dissoluzione capitalistica del mercato del lavoro e un primo agente della trasformazione dell’interesse operaio e del suo trasferirsi dal terreno della produzione a quello della riproduzione. Molti di noi, d’istinto però e non tanto dal punto di vista di una riflessione matura, intendemmo questo: molti anni ancora erano tuttavia necessari perché l’intuizione raggiungesse un’adeguata figura teorica.

Proprio la forza dell’esperienza teorica di << Classe operaia >>, direi la consistenza soggettiva ed intellettuale dei collaboratori della rivista, costituì un freno, pesantissimo, allo sviluppo dei germi di analisi nuova che andavano al di

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là dell’esaltazione (storicamente postuma) dell’operaio massa. << Classe operaia >> è da questo punto di vista un’operazione coscientemente, consapevolmente incompiuta. Volutamente incompiuta, in se: assomiglia all’Ulisse.

Ma appunto come l’Ulisse rischia di castrare, per il paradosso della sua interna compiutezza, ogni ulteriore tentativo dell’avanguardia letteraria, così << Classe operaia >> blocca lo sviluppo dei temi nuovi che pure comprende. Quali sono questi nuovi temi? Sono essenzialmente quelli che vengono fuori dalla fenomenologia delle lotte, sono quelli che fissano i meccanismi del << superamento >> dell’operaio massa, che determinano l’oscillazione delle dinamiche di lotta fuori dal tessuto dello scontro sul salario e cominciano a considerare il rapporto fra produzione e riproduzione. Sono in secondo luogo quei motivi che vengono fuori dalla paradossale inversione della parola d’ordine operaista. << Operai senza alleati >>: vale a dire che se la fabbrica sociale esiste, in essa non si dà semplice estensione. Il comportamento dell’operaio della singola fabbrica bensì si dà una nuova figura sociale, un salto dalla quantità alla qualità. Nei comportamenti sovversivi che sono quelli che vengono fuori dall’approfondimento implacabile della critica del lavoro capitalistico, dall’enfasi sul tema del << rifiuto del lavoro >>: tema, questo, che non può essere limitato alla casistica sociologica della analisi dei comportamenti, di fabbrica e sociali, ma deve svolgersi in progettazione alternativa della produzione, deve incarnarsi nella tematica della transizione comunista, deve immediatamente trovare un rapporto con lo sviluppo di comportamenti di massa autovalorizzati. Certo, a volerle leggere oggi, queste cose sono tutte in << Classe operaia >>, in seme, con aurorale potenza: ma non è un caso che non emergano [emergono?], che non diventino [diventano?] da subito elementi fondamentali. E’ l’organizzazione complessiva del discorso del giornale che lo vieta, è il suo storico ritardo sulla complessità dei movimenti che registra e che << Classe operaia >> in effetti riconduce alla sola critica dell’operaio professionale, all’identificazione dell’inadeguatezza del sindacato professionale nei confronti dell’operaio massa. Qui il nuovo si autolimita. La ricerca si sbarazza solo a metà dell’ideologia. Di qui l’impotenza pratica. Perché l’intervento, che pure - come già nei << Quaderni Rossi >> - il corpo redazionale della rivista svolge, attorno alle fabbriche, non riesce a trovare una continuità organizzativa. Non riesce a trovare continuità organizzativa perché l’intervento è puramente definito su scadenze oggettive e non sulla continuità di processi soggettivi. Si stabiliscono scadenze di fabbrica, scadenze di settore, scadenze politiche generali: lo scheletro delle interdipendenze dell’economia dello sfruttamento è evidentemente chiarissimo a << Classe operaia >>, meno evidenti sono i passaggi soggettivi, di organizzazione, il peso dell’intervento

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come iniziativa continuata, come progetto sul quale non si scarica solo l’intelligenza strategica ma soprattutto la tattica, la partecipazione, la microiniziativa quotidiana. Come le pagine di << Classe operaia >> documentano (cfr. in particolare le pagine di documentazione del n.3 del 1965) l’intervento è molto ampio: ma non residua un solo livello organizzativo (salvo alcune eccezioni). L’operaismo si collega ad un atteggiamento illuministico che non ha in realtà alcuna speranza di mordere il reale. Dentro queste difficoltà la polemica della rivista, e quella condotta nel corso dell’intervento, si limitano sempre di più alle sole tematiche sindacali. Con comportamento classico della vecchia sinistra terzinternazionalista, l’attacco al sindacato è accompagnato dalla mano tesa nei confronti del partito. E questo proprio quando il fondamentale punto di partenza, sia nei << Quaderni Rossi >> che nella nuova rivista, era stato il riconoscimento dell’identità del contenuto dell’azione sindacale e dell’azione politica nella società fabbrica della pianificazione capitalistica. Le contraddizioni presto si ritrovano tra i compagni stessi promotori dell’iniziativa non era infatti possibile diluire la radicalità del progetto senza determinare delle conseguenze pratiche che sarebbero immediatamente ricomparse sul livello teorico. L’impotenza pratica diviene ragione sufficiente di scissioni teoriche.

Alla fine del ‘64, un anno appena dal suo inizio, la rivista è in crisi. Le ambiguità si accumulano soprattutto sul passaggio << intervento - sviluppo generale del discorso politico - sue varianti tattiche >> per la mancanza di una teoria dell’organizzazione qualsiasi. Nel 1965, anno secondo della rivista, la polemica si apre ferocemente nel la redazione. Non sono tanto gli insuccessi pratici dell’intervento a determinarla quanto la riflessione sempre più pesante, che solo una teoria dell’organizzazione poteva permettere di andare avanti. Ma non solo una teoria dell’organizzazione non c’è: non la si vuole. Una parte consistente della redazione comincia infatti a considerare l’intervento operaio e politico come un puro e semplice strumento di pressione sui livello politico: sul PCI.

Si teorizza l’ << entrismo di tipo nuovo >>. Non più quell’entrismo miserabile che è tradizione dei gruppi minoritari della III Internazionale, non più la critica e la pressione politica che si sviluppano sugli snodi dell’organizzazione formale del partito: una pressione ed una critica che si vogliono di massa, invece, nella convinzione che il partito, il partito comunista italiano nella fattispecie, sarà costretto a recepire questa critica e a modificare la sua politica di conseguenza. Il giudizio portato sul sindacato è drastico: nulla può venire dal sindacato, esso è, rimane, ed è bene che rimanga, una pura cinghia di trasmissione del partito. L’intero sforzo del nuovo entrismo va

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dunque rovesciato sulla lotta politica di partito. Questo è dunque quello che sostiene una parte della redazione della rivista. Sulla base di questo progetto essa si espone sempre più coerentemente in un lavoro di trattativa e di infiltrazione nel sindacato e soprattutto nel partito. Un giudizio molto ottimistico sulla base operaia del PCI tende ad elidere ogni considerazione circa il funzionamento del centralismo democratico rozzamente si considera il rapporto di forza all’interno del partito come omologabile al rapporto di lotta di classe! Lo spessore dell’ideologia di partito, la forza materiale della centralizzazione burocratica, la violenza distruttiva dell’ideologia del lavoro vengono permanentemente sottovalutate. L’entrismo di massa, dentro questo gioco che tende a divenire sempre più e solamente intellettuale, si trasforma presto in entrismo individuale di vecchio tipo. Alla fine del 1965, dopo che la crisi interna alla rivista aveva già durante l’anno bloccato il suo lavoro, la scissione della redazione è praticamente data. I numeri del ‘66 sono già interni all’operazione entrista ed impegnano solo una parte di compagni.

Di contro all’entrismo ed alla sua storia, dentro al gruppo redazionale di << Classe operaia >> se ne apre tuttavia un’altra. E’ la storia dell’operaismo militante, della lotta contro il revisionismo della lunga marcia per l’organizzazione dell’autonomia operaia e proletaria. Questa storia è ormai molto nota e non val forse la pena di sottolinearla, di tornarci ancora sopra, qui. Chi sostiene questo indirizzo sono i compagni direttamente impegnati nel lavoro politico e di agitazione attorno alle grandi fabbriche del Nord. La geografia operaia degli anni ‘68/69 si stabilisce a questo punto. Fiat, Pirelli, Alfa, Porto Marghera: questo adagio di milioni di volantini comincia a costituire l’ipostruttura della coscienza del militante. Ora, già durante l’ultimo anno di redazione di << Classe operaia >>, la vicenda di questi compagni si autonomizza. Formidabili quadri operai prendono la direzione del movimento di contestazione già a partire dal ‘6 5/66.

Ogni compromesso diviene quindi impossibile. Ma non è appunto questa storia che va qui rinarrata. Si deve piuttosto insistere su un fatto, negativo e residuo, che anche l’esperienza ed il discorso di questi compagni contengono. Ed è l’incapacità di proporre, per un lungo tempo, di nuovo trovandosi prigionieri delle ambiguità essenziali del discorso teorico di << Classe operaia >>, una tematica dell’organizzazione. Le caratteristiche del gruppo di compagni redattori di << Classe operaia >> che rifiutarono l’opzione entrista (entrismo di vecchio e di nuovo tipo), sono tali che, mentre da un lato l’enfasi sulla forza teorica della prassi è massima, dall’altro la riflessione specifica in proposito è minima. Certo, si punta tutto sull’organizzazione di base ma senza intendere la complessità dei rapporti dialettici che a questa si presentavano.

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L’organizzazione di base poteva costituire la rifondazione del movimento comunista solo nella misura in cui fosse in grado di dominare la complessità dei rapporti che si stendevano dinanzi. Dentro la lotta continua, dentro la mancanza o la carenza di un’iniziativa adeguata di ristrutturazione del dominio da parte dell’avversario di classe, era possibile immaginare un meccanismo organizzativo che sviluppasse potenzialità complessive, nel senso appunto della continuità.

Ma la lotta di classe non è un continuo. La sua discontinuità poneva inevitabilmente il problema della centralizzazione, della direzione. Questi problemi vengono posti, ma con estrema prudenza solo con il ‘68 entreranno al centro della tematica di massa Ma troppo tardi. E d’altra parte, nel ‘68, paradossalmente (anche) troppo presto: perché infatti, con la ristrutturazione, con la formidabile lotta di resistenza che si apre nei primi anni ‘70, con il trasformarsi della figura operaia egemone, lo stesso problema dell’organizzazione comincia a porsi in maniera diversa, - comincia cioè a porsi come problema di una massiccia e compatta forza operaia che sviluppa la sua autonomia mediando al suo interno azione di avanguardia e azione di massa in termini del tutto nuovi ed originali, in termini di autovalorizzazione. Torniamo a noi, torniamo a quegli anni ‘65/67, anni immediatamente precedenti il più grande sommovimento di classe che mai le nostre generazioni abbiano conosciuto Bene, eravamo allora completamente coinvolti in una problematica insolubile: da un lato ci indicavano come via d’uscita realistica quella dell’opportunismo, dell’entrismo, della ripresa di contatto con il movimento operaio ufficiale; ci chiedevano insomma la dichiarazione dell’impossibilità di ogni alternativa organizzativa per la classe operaia e proletaria. D’altro lato c’era il rifiuto di tutto questo ma anche l’impossibilità di dare una risposta che coprisse i problemi reali che avevamo davanti. Si scelse l’attesa attiva ed operante, si scelse il contatto di classe, la vita interna del movimento, - nel ‘65/66/67 nulla sembrava mutato rispetto alla grande crisi del movimento operaio che ci perseguitava dal 1956/58, nulla << sembrava >> essersi modificato. E invece, l’attesa, quali che fossero i suoi limiti attuali, quali (e certamente ingiustificabili) che fossero i limiti di discorso e di approfondimento che comportava, pure si rivelò non utile ma eccezionalmente feconda.

D’altra parte, perché farsi prendere dall’impazienza proprio allora, attorno alla fine del 1965? Un decennio era appena trascorso da quando la << grande crisi >> s’era aperta nel movimento comunista. 1956/1958: attorno alla crisi ungherese, attorno alla prima rivolta operaia contro il regime del socialismo realizzato. Nel 1953 erano stati gli edili di Berlino a muoversi ma l’odio antitedesco non aveva permesso di cogliere la pesantezza della cosa. Nel ‘56

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non c’erano invece possibilità di confondersi.In Ungheria la classe operaia in armi non contestava altro che il tradimento e

la propria miseria. In Italia siamo al centro della crisi del movimento nella sua forma postresistenziale. Dalla sconfitta del 1953 (alla Fiat) al ‘56 il movimento aveva faticosamente tentato di riprendere una figura politica: la lotta operaia ungherese ci ridà fiato e speranza. Esiste ancora un comunismo per il quale lottare. La formazione dei << Quaderni Rossi >>, alla fine degli anni ‘50, è il primo coagulo di una speranza comunista che comincia a rivivere, articolandosi con nuove tecniche di ricerca e nuove prospettive di critica radicale. Tutto doveva muoversi: tutto si muove. Genova: 1960. Piazza Statuto: 1962. Il movimento operaio ufficiale e il ceto capitalistico stesso corrono ai ripari: ormai il movimento si è dato gambe per muoversi, occorre quindi stabilire nuovi schemi, nuove linee dentro le quali inglobarlo.

I primi tentativi di riammodernamento capitalistico e riformistico sono però fin dall’inizio inseguiti da una coscienza critica, articolata alle lotte, che costituirà nei successivi decenni la grande dignità del movimento operaio rivoluzionario in Italia.

Gli anni ‘60 sono un grande laboratorio nel quale la sintesi di un nuovo ceto politico rivoluzionario e del movimento reale della lotta operaia cominciano a funzionare assieme. La << grande crisi >> comincia a dare i suoi frutti. Certo, malgrado molte faticose iniziative, malgrado l’altissimo livello del dibattito, il movimento operaio tradizionale resta impermeabile. Vi sono piccoli momenti di crisi, deviazioni, ma la centralità burocratica resiste impavida. Eppure lo sconvolgimento è fondamentale e marcia anche quando non lo si vuol vedere. Personalmente odio tutte le concezioni teoriche che vedono la rivoluzione uscire matura dal cervello di Giove, e cioè dalla casalità [causalità?]. Che la rivoluzione sia un’arte non significa che sia irrazionale, che il suo ritmo sia discontinuo non significa che la sua formazione non abbia le caratteristiche di continuità di tutti i processi materiali. La crisi della fine degli anni ‘60 risponde alla crisi politica del ‘56/58: chi l’aveva subita, i vecchi militanti comunisti, gli intellettuali del dissenso ungherese ne sono probabilmente fuori, spiazzati; la dirigenza del movimento operaio tradizionale sembra presentarsi compatta. Ma che cosa è avvenuto di nuovo?

E’ avvenuto che è stato distrutto il patrimonio ideologico del movimento operaio tradizionale, che il rapporto con la lotta è inventato daccapo, che nuove generazioni si presentano alla lotta non preventivamente mistificate da un’educazione politica arcaica. I << Quaderni Rossi >> sono il frutto rivoluzionario della crisi politica del ‘56/58. Inventano un nuovo metodo di approccio alla realtà delle lotte. Un metodo insufficiente? Certo. Ma è un

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terreno sul quale la pratica rivoluzionaria diventa possibile, sul quale l’invenzione politica, la fantasia divengono obbligatori. I limiti di quest’approccio sono immediatamente visibili. Opportunismo nei confronti dell’azione sindacale, oggettivismo ed economicismo estremi, confusione sui fini della lotta rivoluzionaria, socialismo latente. Ma la modificazione avviene nella pratica: << Quaderni Rossi >> portano la rottura - effettuata, stabilizzata - con la linea del movimento operaio ufficiale nell’educazione politica delle nuove generazioni. Le << magliette a striscie >> del ‘60, i nuovi emigrati cominciano ad avere un cervello.

I limiti di quel movimento non erano superabili all’interno del discorso di << Classe operaia >>. Si sono fatte infinite esercitazioni letterarie per andare ad identificare le distinzioni, le differenze, le contraddizioni fra il movimento dei << Quaderni Rossi >> e quello di << Classe operaia >>: esercitazioni letterarie, appunto! Tutto si riduce ad alcune incompatibilità e, soprattutto, ad un meccanismo di selezione di gruppo dirigente. Con << Classe operaia >> i << Quaderni Rossi >> continuano: continuano sulla strada della radicalità, ma continuano anche sulla via del limiti e delle passività che a qualsiasi attività minoritaria non potevano che derivare dal movimento reale. Continuano girando attorno al problema che era stato, per così dire, solamente annusato: quello dell’impatto sociale dell’operaio massa, quello della socializzazione della sua figura e della sua lotta. Il paradosso ed il blocco del discorso sono lì , tutti lì: ed oggi, guardandoli a distanza, sembra quasi impossibile che si siano dati in quella forma. Ora, da un lato la critica dell’economia politica conduceva alla definizione della società fabbrica; dall’altro l’attenzione politica si confinava su una retorica dell’operaio di fabbrica che, prima di tutto, a questo faceva torto. Da un lato la potenza dello sviluppo capitalistico mostrava la sua forza di espansione mondiale; dall’altro la fantasia politica non sapeva vedere il cumularsi delle lotte dell’operaio metropolitano e del proletariato del << terzo mondo >>. L’identificazione teorica della centralità della fabbrica si rovesciava in una concezione del lavoro produttivo (del lavoro sfruttato per il plusvalore) che quasi riconquistava toni populistici di esaltazione del lavoro manuale. In << Classe operaia >> la retorica operaista diviene sempre più forte quanto più diminuisce la capacità di progettazione del gruppo. Su queste incredibili contraddizioni il dibattito ristagna. Eppure bastava andare avanti insistendo sulle premesse, scavandone il presupposto. << Classe operaia >> non ci riesce. Ci riescono tuttavia i compagni del movimento. Il << buon senso >> proletario non s’arresta ai sofismi della teoria. Quando il movimento scoppia e si diffonde in forma massificata tutti questi problemi vengono fusi nell’iniziativa unitaria. La verginità del credo operaista è subito fottuta. << Classe operaia >> giustamente archiviata. I suoi incredibili limiti non potevano essere superati che

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da un movimento di massa che dislocasse praticamente il quadro del discorso cui eravamo stati condannati dalle caratteristiche della crisi degli anni ‘50: di quella crisi di cui eravamo figli. Ma ora il quadro muta. Ora, con il ‘68, una formidabile possibilità di espansione teorica e pratica si dà: prima pratica, poi teorica. Ma dalla pratica è necessario ricavare il massimo: malgrado gli errori precedenti, malgrado tutti i limiti, la maggior parte di noi riesce a ricollegarsi a questa realtà.

Ricollegarsi alla realtà attraverso la pratica significa essere presto in grado di rinnovare anche il livello della teoria. Abbiamo già segnalato alcuni paradossi di cui il discorso di << Classe operaia >> era ricco. Fondamentale è ovviamente quello che si distente fra concezione della società-fabbrica, dell’espansione ristrutturante dell’iniziativa capitalistica (da un lato) e (dall’altro) la definizione della composizione di classe. Abbiamo già sottolineato come la seconda fosse, inspiegabilmente, arretrata rispetto alla prima: l’unica giustificazione c’è sembrato poterla ritrovare nel fatto che i problemi di << Classe operaia >> non era no in realtà ancora stati dislocati rispetto alla tematica della crisi del movimento degli anni ‘50. Vi sono però degli elementi nel discorso della rivista che possono, più di altri, sostenere il passaggio al superamento delle contraddizioni. Quando il ricollegamento alla pratica, quando il salto che la lotta impone, sono dati, allora questi elementi più di altri contribuiscono allo sviluppo della teoria, - e nella fattispecie allo sviluppo della teoria della composizione di classe. Ora, tutti questi elementi progressivi ed espansivi si collegano proprio al concetto della << centralità operaia >>. Perché questo concetto non è inteso in maniera empirica e burocratica (così come ricorre spesso, a tutt’oggi, nel dibattito) ma in maniera scientifica: vale a dire che la concezione del lavoro produttivo operaio era data, in << Classe operaia >>, come idea di un’attività soggettiva, come una realtà insieme intensiva ed espansiva. Intensiva perché appunto il lavoro è la base di tutto il valore possibile ed immaginabile, estensiva perché questa concezione del lavoro riconquistava la continuità del ciclo espansivo sociale della riproduzione operaia e proletaria. La pregnanza del concetto di salario nella tematica di << Classe operaia >> non consiste solamente nell’insistenza della sua variabilità indipendente a fronte della rigidità del comando pianificato, ma anche nella sua potenza collettiva su tutte le articolazioni dell’organizzazione pianificata della società. << Centralità operaia >> eguale << potenza sociale del lavoro produttivo >>, eguale << espansività della soggettività operaia >>. E’ ben vero, dunque, che questi elementi restano a lungo nascosti, nella loro potenza, all’interno di un décalage storico e teorico: ma non appena i comportamenti operai riprendono il luogo che debbono avere nella teoria, non appena la lotta operaia riprende per mano e guida il pensiero rivoluzionario, di nuovo,

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direttamente, questi elementi subito trovano modo di rappresentarsi teoricamente in tutta chiarezza. La forbice che, in << Classe operaia >>, si dava fra concezione oggettivistica della società-fabbrica e soggettività mal sviluppata della composizione si chiude: la soggettività operaia si eleva al livello, e ben oltre, la capacità capitalistica di controllo sociale. Di conseguenza un altro elemento confuso ma fecondo della problematica di << Classe operaia >> viene, per così dire, alla luce: si libera cioè delle ambiguità che lo contraddistinguono.

Ed è la concezione dinamica del rapporto di capitale. Si era detto che lo sviluppo capitalistico era frutto delle lotte operaie: questa affermazione era rimasta a lungo incapace di produrre teoria, poteva di contro indurre effetti estatici o addirittura mitologie tecnocratiche. Bene, dentro la pratica delle lotte e non appena la pratica rivela la soggettività di classe operaia ed il suo grado di espansione sociale, allora si intende che non solo lo sviluppo ma soprattutto la crisi dello sviluppo, e a pari titolo, è frutto della lotta operaia. Di fatto il rapporto di capitale doveva man mano dimettere la sua forma dialettica, per assumere figura antagonistica, solo ed interamente antagonistica, fra due opposte polarità soggettive: classe e capitale. E qui s’intende infine che solo uno sviluppo tematico di questo genere, così imposto dalle lotte, poteva spazzar via l’illusione di riproporre il problema dell’organizzazione operaia nei termini nei quali l’avevamo ereditato dalla tradizione terzinternazionalista e dalla crisi stessa degli anni ‘50. Ma con questi problemi siamo ormai ai nostri giorni, al tessuto della riflessione quotidiana del movimento: le contraddizioni di un vecchio dibattito non risuonano più con intensità.

Vale allora la pena di ristampare << Classe operaia >>? Chiediamocelo infine di nuovo. Mi sono riletto quanto ho scritto fin qui e, forse con contraddizione (ma certo perdonabile), mi sembra di poter dire: sí pubblichiamola. Ma se lo facciamo, avvertiamo tutti di leggere quell’antica rivista dall’altezza dell’esperienza fin qui fatta, a partire dagli anni `68-`69 fino a tutte le lotte degli anni `70. Avvertiamo i compagni che solo in questa prospettiva << Classe operaia >> ridiventa un testo importante da leggere: poiché costituisce una pietra di quell’edificio dell’organizzazione autonoma del proletariato che stiamo costruendo. Ma una pietra sola, ed essa stessa, per essere utilizzata nella continuità della nostra esperienza di lotta, ha dovuto essere tolta dalla vecchia calce che l’imbrattava, ripulita, scalpellata, ed infine ricollocata nelle fondamenta dell’edificio, con un nuovo cemento.

3. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Petitot.Per chi abbia subito il dibattito sul pensiero di Thom da una situazione

marginale come è stata, a questo proposito e in questi anni, quella italiana, la

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lettera del saggio di Jean Petitot << à propos de Logos et théorie des catastrophes >> (apparso nel numero 2/3 di Babylone) è tonificante. E lo è soprattutto nella sua impostazione, laddove, a fronte del senso della Krisis che percorre la filosofia contemporanea (ed istericamente totalizza quella italiana), viene immediatamente rivendicata la funzione costitutiva del nesso epistemologia-ontologia. Il senso forte del paradigma teorico innovativo << alla Kuhn >> è qui richiamato: la riflessione sul pensiero di Thom, infatti, lungi dall’esaltare funzioni unilaterali e tecniche di un’epistemologia strumentale, apre spazi e può permettere di muoversi sul terreno della costituzione, ontologicamente determinante, di << regioni del senso >> - obiettivi, semiotiche, comunicative. Questo è quello che inizialmente ci dice Petitot. E’ il processo razionale dell’obiettivazione che è qui possibile riconquistare alla filosofia, dopo la lunga fase di predominio del pensiero della Krisis ed è di là dell’angosciosa fatica della sua verificazione. E’ una nuova << estetica trascendentale della ragione >> ad essere qui possibile, - sostiene Petitot, - una estetica trascendentale modificata e completata, sulla quale direttamente si fondino le determinazioni oggettive e costitutive dello schematismo, giovandosi dello sviluppo delle matematiche e dell’epistemologia, ben oltre il livello della loro elaborazione in periodo kantiano. Il razionalismo classico, di cui Kant è l’ultima espressione e del quale le filosofie della Krisis sperimentano l’estinzione, basato com’era sulla disgiunzione fra l’essere fisico e razionale e, d’altro canto e di contro, l’apparire fenomenico, - viene dunque superato dall’impostazione di Thom, il cui fondamentale merito consiste nell’integrazione del fenomeni critici nella descrizione razionale, nella riconciliazione dell’essere fisico e dell’apparire morfologico.

Petitot cerca di dimostrare il suo assunto attraverso un discorso che con molta efficacia intercala considerazioni di metodologia scientifica e suggestioni storico-filosofiche.

Per quanto riguarda le seconde, egli traccia un cammino denso di referenze. Rivedendo inizialmente la problematica kantiana dello schematismo trascendentale della ragione, così come essa è stata sviluppata e condotta a crisi nell’elaborazione husserliana, egli nota come Husserl abbia correttamente inteso l’irresolubilità del problema posto in quelle forme da Kant. Il passaggio kantiano dall’estetica all’analitica allo schematismo disgiunge in maniera definitiva i giudizi determinanti (a portata ontologica) da quelli riflettenti (a portata ipotetico-metafisica). Su questo passaggio il criticismo non riesce a concludere il suo progetto, anzi esso ci lascia un mondo scisso, ontologicamente irraggiungibile Ma la correttezza della comprensione del fallimento kantiano nella soluzione del problema della conoscenza, non porta

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Husserl ad una corretta soluzione del medesimo problema, aggiunge Petitot. Anzi, la ricerca dell’obiettività viene a questo punto, in Husserl, affidata non più all’intuizione pura bensì all’intenzionalità, non all’approfondimento dell’estetica bensì allo sviluppo dell’analitica. L’assiomatica intuitiva della scienza è dispersa nel formalismo fenomenologico della coscienza e mistificata nella trascendenza dell’intenzionalità. Su questo terreno, quando la temporalità originaria della coscienza si oppone alla teoria nazionale dell’obiettività, Heidegger potrà trarre da Husserl conseguenze estreme e legittimare la condizione di Krisis del pensiero europeo. Certo, Kant ha reso possibile questa conseguenza del suo pensiero: ma anche altre, sostiene Petitot. Ora, ci si deve chiedere: contro Husserl e Heidegger, non è possibile identificare, fra le possibilità della ragion pura, una diversa via di sviluppo della teoria della conoscenza, fra estetica e schematismo trascendentale?

Le matematiche moderne, incalza Petitot, possono offrirsi [offrirci ?] questa nuova via di soluzione per il problema lasciato irrisolto fra Kant e Husserl. Secondo Petitot, sulla base dell’insegnamento di Thom, la scissione insuperabile fra schematismo e costruzione, fra categorie ed intuizioni pure, fra esposizione metafisica ed esposizione trascendentale dell’estetica, può essere sciolta. Caratteristica fondamentale delle matematiche moderne è infatti quella di elaborare concetti matematici strutturali a contenuto categoriale, - certo, non << immediatamente >> ritrovati nell’intuizione pura ma << mediatamente >> costruiti nella geometria della spazio-tempo. Nello sviluppo delle matematiche, nella loro storia concreta, i concetti e i giudizi riflettenti possono man mano divenire concetti e giudizi determinanti, essere cioè portati ad intensità ontologica. Riferendosi al lavoro di Lautman, Petitot giunge a questa formulazione: << la dialectique du concept immanente à l’histoire des théories mathématiques et à leur mouvement vers l’unité doit être conçue, en rapport avec l’éxpérience possible. Comme le principe d’un schématisme généralisé susceptible de constituer les ontologies régionales d’objectivités alternatives >>.

Dire questo è come dire che finalmente la scienza matematica ci permette di cogliere gli << stati reali delle cose >>, di penetrare ed affermare la loro oggettività razionale; è come dire che sulla base della scienza contemporanea << giudizi analitici a posteriori >> sono formulabili. Si compie in questo modo la vendetta dell’estetica sull’analitica - quando cioè lo schematismo trascendentale della ragione risulta essere prolungamento e verificazione della prima e non - come in tutto il neokantismo - fondamento del formalismo delle ipotesi analitiche. Un anti-neokantismo radicale vorrebbe dunque essere qui fondato attraverso il combinato disposto dell’analisi della Krisis del pensiero

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filosofico (bloccato sulla denuncia e sull’impossibilità di superare le perduranze del razionalismo classico) e della nuova costruttività del pensiero matematico contemporaneo.

* * *Non posso non essere d’accordo con questo sviluppo e con questo progetto

contenuti nel saggio di Petitot. Con due riserve, su motivi espressi dall’autore, che mi sembrano minare l’efficacia della sua proposta e rappresentare degli ostacoli che vanno in ogni modo evitati, affinché la proposta non rovini su se stessa. Il primo di questi ostacoli mi sembra consistere nella ripetuta dichiarazione di fedeltà all’impostazione strutturalista, il secondo ostacolo mi sembra consistere nella troppo riduzionistica concezione della Umwelt fenomenologica - e quindi nella sottovalutazione dell’intensità ontologico-regionale del << problema del senso >>. A proposito del primo ostacolo, vorrei solamente notare che il richiamo allo strutturalismo come alla prospettiva che prevede l’unità razionale del senso e della forma e sotto la quale la nuova formulazione epistemologica può essere restaurata, risulta contraddittorio con l’elemento più innovativo dell’opera di Thom e dell’apprezzamento che Petitot ne fa. Voglio dire che lo strutturalismo, comunque inteso, è contraddittorio con lo schematismo; che lo strutturalismo, rigorosamente inteso, non permette quel positivo squilibrio fra << Sachverhalten >> e costruttività razionale entro il quale la scienza considera i fenomeni critici del reale e si adegua alla loro autonomia. Non a caso Petitot è costretto, per risolvere questo problema, ad assumere nella lettura della metodologia di Thom la centralità di un << tiers terme >> fra oggetto e soggettività empirica: terzo termine che non è semplicemente un elemento costruttivo della prospettiva scientifica (e dunque, come tale, indefinitivamente ed operativamente plasmabile) - è bensì una legge d’essenza regionale, un elemento eidetico costitutivo, una modellizzazione matematica a priori. Ora, questa assunzione, se è indubbiamente coerente con una lettura strutturalistica del mondo, è profondamente contraddittoria con lo spirito dello schematismo. Essa mi sembra ripetere elementi non irrilevanti del formalismo husserliano.

E’ noto come venga formandosi, storicamente e problematicamente, il formalismo husserliano. Esso si pone alla confluenza di due fondamentali sviluppi della filosofia posthegeliana e della critica delle concezioni dialettiche nel tardo ottocento tedesco. Da un lato esso riprende l’esigenza della scuola di Martburg di sviluppare il kantismo come eidetica e simbolismo della ragione; dall’altro esso riprende la tendenza, viva in Dilthey e nella sua scuola, come nelle prime impostazioni gestaltistiche, di fissare i criteri strutturali (regionali) di una metodologia genetica e descrittiva. In entrambi questi filoni, e a partire

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dalla sintesi pur innovativa che Husserl opera nelle Logische Untersuchungen, si formano indirizzi di pensiero tipologici, gestaltistici, simbolici e formalisti. Ora, che cosa ha a che fare questo comportamento di descrizione eidetica con lo schematismo costitutivo precedentemente descritto? In tal modo non si ritorna piuttosto a santificare il formalismo, scarnificato quanto si vuole, eppure presente, in qualcuna delle sue molteplici figure? Non ritorna l’analitica trascendentale a schiacciare la capacità dell’estetica del senso di esprimere autonomamente la propria tensione schematica? Sorge qui il dubbio che la stessa prescrizione, precedentemente offerta allo sviluppo della metodologia della ricerca, di identificare concetti strutturali a contenuto categoriale, costruendoli attraverso un << processo di mediazione >> fra i dati dell’esperienza, possa risultare ambigua. Che cosa infatti significa più << mediazione >> a questo punto? E’ di nuovo forse << mediazione >> di essenze analitiche e contenuti concreti? E’ addirittura ripetizione di un processo di << deduzione >> trascendentale? Non sembrava, inizialmente, che le cose stessero in questi termini; sembrava invece che << mediazione >> fosse sinonimo di << costruzione >> - e che l’estetica della sensibilità producesse essa stessa il proprio schema di sviluppo. In questo caso l’analisi si sviluppa (e l’analitico si forma) non deduttivamente, bensì dentro l’aposteriori stesso.

A proposito di questo primo ostacolo che sorge sulla via che Petitot percorre, mi sembra dunque che si debba scrupolosamente tener distinta la nuova lettura dello schematismo costruttivo che dobbiamo a Thom (e la sua rielaborazione nello stesso Petitot) dalla tentazione di ricondurla dentro la tradizione dello strutturalismo. Il ritorno allo strutturalismo rappresenterebbe infatti non la riscoperta della funzione costitutiva del nesso epistemologia-ontologia, bensì una riconferma del formalismo e dei trucchi deduttivistici di un’analitica disincarnata.

Ma v’è anche un secondo ostacolo che si presenta nel corso della lettura che Petitot fa del pensiero di Thom. Intendo parlare di un certo << riduzionismo >> nella definizione del << problema del senso >>. Ora, in questo saggio di Petitot, siamo dinanzi alla compresenza di un’impostazione di carattere generale (che ha come compito la rilettura dello schematismo trascendentale della ragione) e di un’applicazione di carattere particolare (la rilettura della teoria delle catastrofi in Thom e l’impatto dell’impostazione geometrico-matematica sull’insieme teorico dell’epistemologia). Si tratta ora di chiedersi Se, non episodicamente né casualmente, il senso generale dell’impostazione non sia tradito dall’esemplificazione, dalla dimostrazione particolare. Meglio, se nel corso dell’applicazione, Petitot non sia indotto a ridurre in maniera sostanziale il campo di intervento, piegando e stringendo il discorso sullo schematismo

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dentro quello sulla modellizzazione matematica. Io non penso che le cose vadano in questo senso, penso invece che il discorso di Petitot sia sostanzialmente lineare nella direzione di un ritrovamento degli elementi dello schematismo della ragione - a valenza universale. Ho tuttavia l’impressione che, ciò malgrado, sia in lui prevalente la tendenza modellistica sopra e contro il progetto ontologico dello schematismo, e che in generale questo prevalere di tendenze modellistiche possa rappresentare un potenziale ostacolo ad un nuovo progetto di schematismo della ragione. Vale dunque esplorare la possibilità di questo errore.

Ora, Krisis è crisi del razionalismo classico. Il razionalismo classico, nella sua conclusione, relega l’ontologia al di fuori della logica e fa di quest’ultima la sola scienza costitutiva, analitica in senso proprio. Ma Krisis è anche crisi del razionalismo dialettico. La dialettica impone le leggi di una logica (rinnovata) all’ontologia. In primo luogo si tratta dunque di chiedersi: quando la modellizzazione matematica viene assunta come traccia dello schematismo della ragione nella sua funzione costitutiva del mondo, non si rischia una << riduzione >> del campo ontologico che inevitabilmente << lascia spazio >> almeno a feticci dialettici - se non al razionalismo classico? Ma il problema è più generale e supera di gran lunga il pericolo di veder rivivere una discreditata dialettica. Il problema consiste piuttosto nel chiedersi quale sia il nuovo globale significato, e le forme e le dimensioni, dello schematismo trascendentale rispetto all’età kantiana ed allo svilppo [sic] del razionalismo classico, dialettico o critico. Il problema non è da poco. Nell’ultima parte del suo saggio, riprendendo alcune fondamentali intuizioni di Habermas, Petitot riconosce che lo sviluppo contemporaneo delle scienze e delle tecnologie si costituisce in un’opacità storica che somiglia all’opacità dell’evoluzione naturale. Una << seconda natura >>, la cui inerzia ed insensatezza ripetono la dialettica oscura della << prima natura >>. Che cosa dunque significa << senso >> in questo quadro? E’ davvero possibile afferrare la pregnanza e l’estensione di questa realtà a partire dalla modellistica matematica? Quale può essere la << presa >> di modelli matematici, anche rinnovati, a questo livello di sussunzione, e di indifferenza, del mondo nell’orizzonte della scienza e delle tecnologie? Di contro: qual’è la << differenza >> che lo sviluppo dello schematismo deve imporre in questa nuova Umwelt naturalistica? Noi conosciamo l’analitica trascendentale di quest’universo e l’enorme prigione di insensatezza che essa produce: ma non sappiamo che cosa significa oggi, nella totalità del suo senso, un’estetica trascendentale. Come risolvere questo problema? La sociologia è chiaro, si presenta come regione naturalistica essa stessa: il senso di un’ontologia non è dunque in nessun caso riducibile a quello di una regione sociologica - ed ha ragione Petitot a criticare quest’illusione in Habermas. Ma

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se questa << via brevis >> non è data, resta comunque il problema di chiarire che cosa possa essere un ontologia che si ponga a livello della grande trasformazione del senso dell’esperienza - quale è quella che stiamo vivendo. Che interpreti, ad esempio, la pregnanza dell’indistinzione del Sachverhalten (quali il descriveva l’ultimo Wittgenstein); che rompa la circolarità delle fenomenologie funzionalistiche, ecc. ecc..

La risposta a questi interrogativi, credo debba costituire il compito del lavoro filosofico nei prossimi anni. Per ora l’unica preoccupazione dovrebbe essere quella di non racchiudere nuovi modelli di costituzione critica del reale sotto vecchi paradigmi di razionalità. Da questo punto di vista il richiamo di Petitot (richiamo fuggevole) alla rilettura che Deleuze ha fatto dell’estetica trascendentale, sembra particolarmente opportuno.

4. Sull’orlo dell’essere.A proposito di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul

luogo del negativo, Torino, Einaudi, 1982; di << Vingt ans de pensée allemande >>, numero speciale di Critique 413, ottobre 1981, Paris, t. XXXVII, con articoli di H. Gadamer, K.O. Apel, R. Bubner, J. Habermas, D. Henrich, N. Luhmann, O. Marquard, E. Tugendhat, R. Wiehl, W. Iser, H.R. Jauss, G. Kortian; di Vincent Descombes La même et l’autre, Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Paris, Les éd. de Minuit, 1979.

Il pensiero della Krisis ha rappresentato, per una non più breve stagione, il punto di riferimento della crisi del marxismo in Italia. Lo sfaldamento della teoria marxiana del valore e l’impossibilità di riportarla ad uno schema razionale di pianificazione e delle formule politiche che ad essa si erano richiamate - determinano la necessità, tipicamente italiana (e cioè imposta dall’alto livello di lotte e di politicizzazione comunque esistente lungo gli anni settanta), di salvare la politica comunista oltre la crisi della teoria comunista. Il pensiero della Krisis sembra svolgersi in questo quadro.

Sulla crisi della teoria del valore, e cioè del fondamento della razionalità complessiva del sapere rivoluzionario, si pone lo sforzo di rifondazione del progetto. Un prometeismo della politica in assenza di una scienza, anzi, in presenza della crisi radicale del suo fondamento. La scienza è perciò del progetto, nella misura stessa nella quale non può più essere scienza del fondamento. Una sorta di acuta schizofrenia coglie così la teoria di una parte consistente del comunismo italiano: quanto più la scepsi si approfondisce e va indietro alle origini stesse del pensiero filosofico e politico dell’occidente moderno, tanto più viene svolgendosi una specie di scienza pura della politica.

Il fondamento sprofonda nella mistica ad indicare l’assenza di ogni

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validazione per quella razionalità tecnica cui si accede tuttavia nel disincantato della politica - nel cinismo si rappresenta il fantasma della weberiana Beruf politica (talora non si evitano moralistiche inflessioni tratte da quell’antica socratica scuola - come quelle, absit iniuria, rilevabili nel famoso discorso dell’Eliseo). Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà raggiungevano un paradossale apogeo. C’è da aggiungere che queste traiettorie filosofiche-politiche negarono con insistenza, o riconobbero con estrema difficoltà, la matrice tecnica che autenticamente le sosteneva. Non se ne intende la ragione: non per la prima volta infatti la teoria socialista dell’autonomia relativa del politico, dello Stato e del diritto avrebbe esplicitamente assunto una dimensione tecnicistica -come ad esempio avvenne a pensatori della statura di Lundstedt, in fecondo contatto con l’irrazionalismo etico della scuola di Uppsala negli anni trenta. In mancanza di questo riconoscimento a funzione del << pensiero negativo >> rischia chez nous di risultare mistificatoria - e la mistificazione può godere di disprezzo e oblio.

Il libro di Agamben ha un primo merito storico-critico: ed è quello di afferrare il pensiero della Krisis per i capelli e di sganciarlo dalla mistificazione politica che lo animava. Da questo punto di vista reintroduce il pensiero negativo nella discussione filosofica del nostro tempo, riconsegnandogli la dignità di passaggio critico.

Rispetto a che cosa? Rispetto appunto al problema della definizione del fondamento. Ed è qui anche il secondo merito del libro di Agamben: il fatto di attaccare con grande determinazione a posizione stessa del problema del fondamento, e di consegnare la soluzione non all’ipostasi della Krisis ma alla riscoperta di un nesso dell’essere e della pratica.

Agamben muove dalla convinzione che il luogo di nascita della filosofia occidentale, la sua ricerca del fondamento ontologico, articolandosi necessariamente alla definizione del linguaggio che lo esprime, sia luogo essenzialmente mistico - la ricerca del fondamento ontologico si aggira infatti fatalmente attorno alla definizione di un dicibile che null’altro può essere se non la ripetizione dell’essere detto.

La fondazione si riduce al mezzo di espressione: la fondazione può esserci solo in quanto è detta, ma l’esser [l’essere ?] detto non ha così fondazione, è pura voce. L’escamotage del pensiero della Krisis e quello di ammettere la crisi del fondamento e di accertare il suo affondare nel pensiero mistico, ma di assumere nel contempo, simultaneamente, la voce e la logica di espressione come intenzioni autonome ed indipendenti dal misticismo del fondamento: sicché la logica del progetto non solo si vuole senza un fondamento ma - astuzia degli dei - lo è davvero. Il pensiero del progetto risulta, su queste basi,

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ineffettuale - esso vive dell’illusione di riprendere la potenza logica di un problema insoluto. Potenza logica, quindi, insussistente.

Ricostruendo storicamente lo sviluppo del problema del fondamento, ovvero del rapporto fra fondamento ontologico e voce che lo esprime, Agamben taglia due nodi principali: Hegel e Heidegger. In Hegel l’identificazione del problema del fondamento e della dimensione logica della sua espressione è totale.

Ma è proprio questa assunzione radicale del problema del fondamento nella dimensione della logica a far esplodere il problema. La circolarità indefinita della soluzione è da Hegel assunta a fondamento. Il cattivo infinito che si vorrebbe evitare diviene il principio. Il fondamento diviene, e non può che essere nella logica, l’infondato. L’insignificanza della voce pretende a fondamento dell’essere - ma la voce è solo una modalità dell’essere e non lo fonda. Il circolo ontologico-linguistico non si chiude.

Heidegger mostra come questo circolo non si chiude in nessun caso. E a ragione: egli spinge l’intenzionalità husserliana fino all’identificazione nel tempo dell’essere, e qui il senso (significato) dell’essere può concludere solo alla vanificazione [verificazione ?] di ogni senso (direzione) dell’essere, alla dichiarazione della completa inessenzialità dell’esistente. Quindi, ad uno statuto ontologico completamente negativo anche per la voce che esprime l’essere.

Il tentativo di considerare l’essere, in Hegel, come relazione di tutte le relazioni è vanificato [venificato ?] nel riconoscimento che ogni relazione è infondata - il senso della metafisica è dunque il cogliere questa nullità delle relazioni.

Heidegger porta paradossalmente a termine, nel nihilismo, il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, che era consistito nel disegno di riportare il negativo, attraverso a dialettica, nel processo della totalità - come dichiarazione dell’essere e probabilmente, data la connessione fra senso della totalità e senso etico della vita, come idea di autocostituzione etica del mondo. La rete logica che stringe questo progetto è per Heidegger dissolta - e l’eticità ridotta a logica è essa stessa tratta dentro questo processo non di autofondazione ma di autodissoluzione. Invero, sottolinea Agamben, quest’autodissoluzione nihilista dell’essere lascia libera la voce - ma un’altra voce, una voce assoluta, assolta dalla negatività di cui si è fatta portatrice, effettivamente piesis ora, in quanto essa permane come unica potenza di quest’universo dissolto. La voce si libera dalla genealogia della negatività - prima di una disperata solitudine, poi tentando di riorganizzarsi nel rapporto linguistico, e quindi di riassumere l’esistente nel rapporto etico. E’ possibile dunque un’assoluzione della voce che la proponga come base di una umana metafisica? E’ possibile nella misura nella

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quale la voce non si presenti come logica, a riassumere in sé la metafisica, bensì si presenti come etica e da questa dipani le ragioni dell’essere: solo in questo modo il valore del nihilismo può essere colto.

E rovesciato? La voce, dopo essere stata la chiave della logicizzazione dell’essere ed aver quindi costituito il terreno della dissoluzione del suo stesso senso, nella costituzione dell’infondatezza del dire il fondamento, - può dunque ora costituirsi in orizzonte di senso? E verso dove?

La voce pone comunque il problema dell’etica. Non sono certo di interpretare correttamente Agamben, a questo punto. A me sembra che qui intervenga un terzo autore, mai citato ma presente. Si tratta di Marx. Di un Marx strappato su, fino al livello della sussunzione reale e cioè all’orizzonte di una completa riduzione dell’essere alla voce, della catena dei rapporti produttivi alla comunità delle relazioni linguistiche.

Qui si potrebbe presentare una teoria della voce come voce della coniazione dell’essere. Ma coniare l’essere ha senso solo se a voce è assunta in termini etici: una coniazione logica dell’essere sarebbe semplicemente riproposizione del problema del fondamento e quindi riproposizione della Krisis, della circolarità insensata del fondamento logico dell’essere. Ne risulta che la voce, in quanto voce collettiva, eticamente sensata, produttiva e costitutiva, rappresenta la sola base di una filosofia che possa riconquistare l’essere.

Da Hegel a Heidegger si scioglie la tradizione della metafisica occidentale. Il suo compimento e la sua fine. Fine dei tempi, come Kojève ha visto in Hegel - ma fine dei tempi è apertura di un nuovo tempo, dominato dalla voce etica. Marx ne ha intuito il significato, e il pensiero negativo non sostituisce Marx, non mette la politica al posto della teoria, ma è semplicemente l’introduzione ad una rilettura di Marx nella sussunzione reale. Quindi ad una rifondazione della teoria.

Ma rivediamo questo passaggio. E’ su di esso infatti che, nella filosofia italiana, si compiono operazioni analogamente tentate, in questi anni, dal pensiero francese e da quello tedesco. Un primo episodio va identificato nella filosofia tedesca (Habermas, Apel, Tugendhat, ecc.). Qui il riconoscimento della Krisis è avvenuto nel comune esaurirsi delle prospettive realistiche e delle ultime espressioni della tradizione del criticismo. Mentre le prime concezioni continuamente si scontrano con l’impossibile soluzione del problema del fondamento - << ma i Topici non concludono >> -, la seconda impostazione crolla nell’inconclusività della trafila << avalutatività-decisionismo-razionalismo critico >>. L’unica via d’uscita è il trascendentalismo. Donde un singolare ritorno a Kant - non tanto allo scopo di riaffermare l’orizzonte critico

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come tale, quanto nel tentativo di dare sostrato ontologico al trascendentalismo. Ma quale può essere questo sostrato? Può solo essere un terreno di interazione comunicativa. Si badi bene: non è la critica sociologica ma soprattutto la scuola ermeneutica a spingere in questo senso, e non la densità dei suoi strumenti. L’estetica trascendentale, attraversando il terreno della voce, della comunicazione collettiva, tende alla rifondazione di un progetto etico. Il tema etico è tema di strategie comunicative.

La critica della ragione strumentale, sottolinea Habermas, non è riuscita ad avere sostanza comunicativa, deve quindi nuovamente svilupparsi in teoria dell’agire comunicativo. Ed Apel insiste sulla necessaria coniugazione di coscienza ed intersoggettività, sulla necessaria implicazione istituzionale di evidenza e di validità; e Tugendhat dipana l’unità trascendentale del soggetto in una serie di contigue e/o alternative decisioni consensuali.

Che tutto questo possa non rappresentare altro’ che una nuova defatigante e moderata filosofia della mediazione, è vero; che l’illuminismo di questi autori sia eclettico e fastidioso - Garve e non Kant - è pur evidente. Eppure non va sottovalutato il terreno sul quale il discorso filosofico è costretto: il mondo è la voce, l’interazione linguistica, l’essere del pratico. La recezione del mondo in termini di linguaggio (o di interazione comunicativa) resta tuttavia in modo indifferenziata. L’estetica trascendentale, pur caratterizzata da un soggetto qual’è quello dell’etica (ermeneutica del soggetto) e della politica (ermeneutica della comunicazione), non riesce a descriversi altrimenti che come promozione di un qualche eventuate schematismo della ragione. E il riconoscimento di sé come essenza etica si svolge di nuovo nella dialettica che va dalla solitudine al terrore o in quella senza fine del riformismo. La primarietà della sfera comunicativa è comunque l’irreversibile risultato fissato dalla filosofia tedesca contemporanea. La violenza dell’immediata appercezione etica del mondo sta invece alla base della filosofia francese contemporanea. Qui la fine dei tempi, il senso della produzione dell’essere, l’apprensione della categoria etica, assumono in primo luogo l’immediatezza di questo passaggio costitutivo, lo danno come assoluta datità. In ciò consiste indubbiamente la superiorità della filosofia francese su quella tedesca.

Attraverso il bagno purificatore dello strutturalismo, nelle sue varie tendenze epistemologiche, nihiliste, empiristiche, surrealistiche, alla Bataille, alla Derrida, alla Deleuze, il problema della produzione si situa sull’orizzonte dell’essere equivoco, dato, irresolubile. La distruzione della metafisica avviene sulla dimensione della metafisica. L’essere è percepito senza negatività e trascendenza, perché negatività e trascendenza sono insignificanti, irriducibili alla datità.

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Ma, in secondo luogo, la distruzione della metafisica diviene un’operazione. Il soggetto si sa soggetto etico in quanto operatore della distruzione della metafisica, il soggetto e immediatamente positivo in quanto - pur schiacciato sulla dimensione della distruzione della metafisica - coglie l’essere come orizzonte da percorrere, assolutamente aperto.

Nel primo programma sistematico dell’idealismo tedesco, per stare ad una continua sollecitazione di Agamben, la totalità dell’etico è un risultato, è la polis da ricostruire. Nella filosofia francese la totalità dell’etico è il presupposto, l’unico presupposto, formato dal linguaggio, dalla produzione, dalle differenze. Se l’essere appare nelle dimensioni heideggeriane, su queste dimensioni esso va ripercorso - sapendo tuttavia che l’univocità dell’essere heideggeriano si è dissoluta in equivocità. Perciò ripercorrere l’essere non significa dominarlo: significa assumerlo per quel che è, destrutturarlo, e mostrarlo come figura della voce collettiva e sua continua dislocazione sul ritmo delle voci.

Io non so bene se Agamben possa accettare questo terreno del filosofare, e questa definizione della metafisica. La cosa certa è che egli giunge su quest’orlo - con un lavoro che innova e riassume tendenze della critica francese e della costruzione postfrancofortese dei teorici tedeschi. Io sento che ora siamo obbligati ad accettare questo comune terreno di proposta filosofica. Il discorso di Agamben ha per certi versi un andamento humeano: disarticola la complessità della tradizione, forse solo per distruggerne i presupposti, - ma con ciò afferma una rinnovata prospettiva di lavoro, come presupposto problematico. Questo morto materiale può dunque essere usato come fertilizzante di nuova vita. Non occorre sapere che cosa sia il mondo perché l’esser - ci produca - se solo amiamo questa frontiera dell’essere come disutopia totale e sola nostra speranza possibile. La filosofia non anticipa il reale, può solo accettarlo e procedere sincronicamente con esso. Una metafisica dell’assolutamente positivo è rappresentata dalla possibilità di propor - si su quest’orlo dell’essere - armati di un’intera disillusione del reale. Il massimo di ottimismo della ragione, unito al massimo di pessimismo della volontà, - rovesciando in tal modo lo stolto stereotipo paleocomunista che ci voleva incapaci di speranza (pessimismo della ragione) e fanatici nell’azione (ottimismo della volontà), perciò preda del terrorismo della filosofia del fondamento.

Noi invece il fondamento lo poniamo nel futuro, nel razionalismo assoluto di un’etica positiva. Il passaggio che ora si deve compiere è compreso nell’arco dei problemi che la critica ha proposto: esso consiste cioè nell’articolazione della voce. La determinazione collettiva, produttiva, ontologicamente

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costitutiva della voce umana va posta a soluzione del contesto etico. Etica significa comunicazione e l’essere della comunicazione è sensato.

In realtà, alle origini dell’idealismo trascendentale, il Sistema dell’eticità di Hegel aveva sviluppato questa consapevolezza in un quadro avvertito della complessità etica - ma questa complessità lo spinge verso la rassicurazione, e il mondo etico va quindi risotto nella forza della mediazione e della logica. Di contro, la filosofia contemporanea moltiplica il terrore trascendentale della complessità etica ma nel contempo pone l’impossibilità che la logica rappresenti la chiusura del reale. Heidegger svolge il problema fino a ridurre all’insignificanza il compito eroico che l’ascetismo logico di Husserl gli aveva affidato. Wittgenstein vanifica ed esalta in godimento mistico la completa circolarità di questo compito metafisico: la disillusione si fa gioco, il décir è liberty. Oltre ascetica e mistica, oltre la tragedia di due guerre e la crisi del socialismo reale, la filosofia deve ritrovare un terreno di fondazione: ed è quello sul quale ristà la vita dell’uomo, un orlo di un essere che non è ancora. Un’etica assoluta senza valore e senza futuro. Eppure il fondamento è nel futuro. Ma fondamento e parola vana.

Riusciamo dunque a sbrogliare la matassa delle speranze, razionalmente, senza affidarci [affidarsi?] ad alcun ottimismo della volontà? Riusciamo a cogliere la voce che rappresenta la nostra umana essenza non come sostitutivo dell’essere ma come costituente il essere? Ho l’impressione che la filosofia contemporanea ci abbia portato su questo limite. Ho l’impressione che la disperazione dell’esistente ci spinga oltre.

Staccata dalle funzioni politiche che le sono state impropriamente affidate e dalla mistificazione che con ciò le giungeva ad esprimere, la filosofia della Krisis può così rappresentare una possibile introduzione al pensiero positivo, alla filosofia del futuro. Un terreno etico è costituito. Il problema ora è di scavarlo e di coltivarlo, questo terreno. Senza farsi cogliere da ulteriori moti di resipiscenza e tentare nuovi e surrettizi recuperi del negativo. Il concetto di possibilità non introduce il negativo, la speranza razionale non implica il negativo - il fisico non chiama negativo il fatto che la natura conosca dei limiti, che la vita conosca la morte. E’ così - il non essere non è. Questo vuoto può solo essere riempito di umana operosità.

5. L’istituzione logica del collettivo e le fatiche dell’estetica.(A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli).

E’ noto come il linguaggio - in quanto insieme di proposizioni ma anche, semplicemente, insieme sensato di proposizioni - possa essere considerato un orizzonte intrascendibile. Quando l’orizzonte linguistico venga presentato

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secondo queste determinazioni, diciamo che il linguaggio costituisce un orizzonte ontologico - è il mondo e non ce n’è altri. Oppure ce ne possono essere altri, ma altrettanto esclusivi: se vi siano chiavi per trascorrere dall’uno all’altro è problema che inizialmente non ci tocca. Se l’orizzonte linguistico è ontologia, è mondo, allora il problema della verità può essere posto solo al suo interno: la corrispondenza al reale della proposizione andrà epistemologicamente verificata nel suo valore logico in quanto questo sia ritrovato nella circolarità dell’orizzonte medesimo. L’epistemologia in senso proprio (come teoria della verificabilità della popolazione nella sua corrispondenza con il reale) è finita. Meglio: è riassunta nell’ontologia. Un’ontologia che, nel mondo linguistico, può solo essere formale, non può cioè promuovere la sua forza di verifica che dall’interno di una correlazione indipendente. Intrascendibile, appunto. Se ci chiediamo quale sia il significato di una proposizione, entro quest’intrascendibile universo linguistico, non potremo far altro che ricercarlo seguendo i tratti formali del senso della proposizione - non certo ricorrendo a funzioni semantiche di interpretazione che presupporrebbero il linguaggio e il mondo come indipendentemente caratterizzabili. La verità si mostra al pensiero, dentro al pensiero - essa non è l’obiettivo della logica ma l’oggetto e la sostanza del pensiero. Nelle scienze naturali si cerca la verità, nella logica la si mostra. L’interferenza logica è solo un movimento - non una produzione - di verità. Secondo Frege, nella lettura dei suoi maggiori interpreti ed ora di Roberta De Monticelli (Dottrine dell’intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, De Donato, Bari 1982), << il Sinn di un’espressione è il modo di determinazione, o anche il modo di datità o di presentazione della Bedeutung di quell’espressione >>. Il senso è dunque l’istituzione di uno spazio logico - istituzione dell’ordine esclusivo delle possibilità logiche che l’espressione presenta.

Inoltre, Frege aggiunge: << lo sostengo che il concetto precede logicamente la propria estensione e considero erroneo il tentativo di far dipendere l’estensione del concetto come classe non dal concetto ma dagli individui >>. Il valore semantico dei segni linguistici è dunque il loro potenziale di discriminazione ontologica: il Sinn crea la Bedeutung, l’insieme delle proposizioni è il mondo. Michael Dummett (nel suo Frege del 1973) non ha esitato a considerare di importanza Cartesian la svolta linguistica della filosofia imposta appunto da Frege.

Roberta De Monticelli, il cui volume merita un’approfondita discussione, non ha dubbi nel trarre decisamente verso un orizzonte linguistico, qualificato in termini di intrascendibilità, anzi senz’altro Wittgenstein, la teoria del pensiero - ed in genere la logica di Frege. Quest’operazione viene condotta nei primi otto

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capitoli che costituiscono la prima parte del suo volume. Le critiche che si possono opporre a questa prima operazione di geometrica proiezione di Frege su Wittgenstein (operazione che potrebbe essere ritenuta di appiattimento) sono parecchie. Meglio di tutti, e con molta attenzione filologica, le eleva Michael Dummet [sic one or two t’s? ] nella sua prefazione al volume. Il peso indubbio di queste critiche non toglie il fatto che l’operazione della De Monticelli, nel suo libro, sia molto robusta e stimolante.

Ma vediamo lo obiezioni di Dummet. a) L’autrice esagera il carattere aprioristico del pensiero di Frege - il resoconto a priori del linguaggio che Wittgenstein elabora nel Tractatus, non è invece nel programma di Frege. b) La negazione dell’epistemologia non è in Frege presupposizione di una metafisica realistica - come invece avviene in Wittgenstein. In Frege v’è al massimo un orientamento in tal senso. c) Il rapporto fra realismo ed oggettività dei pensieri e del loro valori di verità non esclude, come invece avviene nel Tractatus, i problemi dell’apprensione, della nostra capacità di riconoscere le condizioni di vera. d) Troppo facile è la riduzione della Bedeutung al Sinn - in realtà, in questi termini, il linguaggio viene ridotto a concetto astratto. Ma storicamente non è avvenuto così. La svolta linguistica della filosofia non ha tralasciato la considerazione del rapporto reale e il Sinn, come in genere il rapporto logico, è stato inizialmente interpretato come veicolo del reale. e) E’ davvero il pensiero di Frege tanto coerente quanto la De Monticelli (poggiando sul tardo scritto Der Gedanke - 1918) ritiene? Come distinguere e come ridurre ad unità e continuità tesi diverse, se non contraddittorie [contradditorie ?], sostenute in opere diverse? f) E infine: l’autrice non tiene presente altri elementi che caratterizzano - fuori ed indipendentemente dal Sinn - gli enunciati: in particolare la << forza >> della Bedeutung, ovvero una relazione di verità immediatamente evidente, in funzione comunicativa. La comunicazione è dunque, nello stesso Frege, elemento dell’intelligenza.

Come ho già detto, credo che queste obiezioni, più che inficiare lo schema della ricerca della De Monticelli, ne mostrino a robustezza dell’impianto. Poiché, a mio avviso, quanto è filologicamente avventuroso - il sospetto appiattimento di Frege su Wittgenstein - è filosoficamente legittimo e vale a porre un problema per noi fondamentale. Poco importa se sia un problema nuovo. A me sembra infatti che, attraverso la sua interpretazione nella svolta linguistica della filosofia, la De Monticelli esplichi un paradosso teorico - che può essere così formulato: l’ontologia formale dell’orizzonte linguistico del Tractatus interpreta correttamente le istanze realistiche e l’apertura alle esigenze della comunicazione che sono proprie della filosofia fregeana. Fra Frege e Wittgenstein non cambia il desiderio di realtà - è cambiata, effettualmente, la

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realtà. Il mondo ci è dato nella forma dell’ontologia linguistica - la genesi fregeana di quest’ontologia non è contraddittoria con il risultato - malgrado il carattere paradossale del processo. Il mondo linguistico sussume i problemi del realismo. (E’ chiaro allora che a M. Dummet, che dagli anni ‘50 va sviluppando una concezione antirealistica ed intuizionistica del linguaggio, queste premesse della De Monticelli sembrino fortemente criticabili. Diverso sarà l’atteggiamento di M. Dummett a fronte delle conclusioni dell’autrice - ma di questo più tardi).

<< Nella seconda parte del suo libro, la De Monticelli fa un audace tentativo di costruire un’epistemologia sul fondamento della filosofia del pensiero esposta nella parte prima >> (M. Dummett). Vale a dire che la De Monticelli, memore del debito con il realismo fregeano, dopo aver descritto la sussunzione del mondo nel linguaggio, cerca di dare caratteristiche materiali all’ontologia costituita, di riarticolare l’universo - fin qui solo formalmente descritto. Deve appunto mostrare la genesi del risultato. Deve riaprire la dialettica dell’epistemologia a livello di una metafisica realistica. Che questo - della riarticolazione realistica dell’orizzonte formale della comunicazione - sia un problema attuale, che la riproposizione di un compito epistemologico (in senso proprio) costituisca un passaggio centrale, nessuno, credo, potrà negarlo. E che questo cammino debba svilupparsi secondo figura capaci di esprimere, a livello di questo mondo sussunto, la materialità della vita, sembra addirittura ovvio.

La De Monticelli risponde solo parzialmente alla questione che si è proposta. Definito correttamente il terreno della ricerca, se ne ritrae infatti precipitosamente, scegliendo una consueta quanto perniciosa scorciatoia nello svolgimento del compito: una via kantiana. Nei capitoli IX (<< La ‘vita’ e il ‘mondo’ >>), X (<< Frege e la teoria kantiana dell’intelligenza >>), XI (<< Esperienza e giudizio >>), che aprono la seconda parte del suo volume, la De Monticelli tenta dunque di sviluppare, su base fregeana, una dottrina complessiva dell’intelligenza. I tre capitoli costituiscono, nell’allargamento tematico che presentano, un’analisi degli elementi di avvicinamento di Frege a Kant, nella teoria della percezione, nella teoria dell’lo e dell’autocoscienza, nella teoria del concetto. E’ chiaro che, in questo campo, ogni passo verso Kant è un passo di allontanamento da Wittgenstein. Ma l’argomentazione si fa appunto teoretica. E si svolge: a) attraverso la ridefinizione di una teoria della percezione cognitiva, in senso kantiano, e cioè di una teoria che prevede la coincidenza di elementi percettivi e di elementi intelligenti come condizione dei primi. Il segno kantiano è allegato alla teoria delle condizioni dell’essere conoscitivo; b) la ridefinizione di una teoria trascendentale dell’orizzonte linguistico, ovvero del passaggio - mediato dall’io cosciente - dalla percezione

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degli oggetti alla definizione dei concetti. Questo kantiano passaggio contiene la refutazione dell’idealismo soggettivo; c) terzo punto è l’elaborazione della teoria del concetto come sintesi di esperienza ed intelligenza nel linguaggio. Su questo terreno la De Monticelli sviluppa con coerenza la teoria del concetto verso l’articolazione di funzioni logiche (ad esempio, con riferimento al problema dell’individuazione) e la rifonda nella prospettiva costitutiva dello schematismo trascendentale. La relazione Sinn Bedeutung è oggi completamente risolta dentro questo rapporto. Ci ritroviamo qui su uno snodo fondamentale. A me sembra che questo uso del kantismo rappresenti un’éscamotage che annulla la determinazione globale dell’orizzonte linguistico. Il problema dell’articolazione raggiunta, viene disarticolato nel linguaggio kantiano. Lo schematismo è chiave della teoria del giudizio e dell’estetica. Evita la produzione. Insomma, è una recessione nella questa che la De Monticelli propone.

Nei capitoli successivi XII-XV, l’avvicinamento a Kant viene ulteriormente spinto e specificato - nel senso che, sulla base della dottrina fregeana dell’<< afferrare >> (posta a contrasto, a differenza del << giudicare >> kantiano), tutto il processo viene per così dire centralizzato, appesantito, << empiriocriticizzato >>. Si badi bene: non è che l’orizzonte kantiano sia superato, la verità non viene tolta alla sua realtà trascendentale-critica (e si rifiuta radicalmente la teoria della verità-verificabilità) - l’orizzonte kantiano viene << più >> empiricamente connotato. Così ad esempio, si insiste sul ruolo delle << espressioni indicali >>, degli << stati modali >>, sul << colore >> delle proposizioni. Per concludere: << la valenza epistemologica del concetto di senso (ritenuto il vecchio concetto di epistemologia come rapporto fra verità e verificabilità) fa della posizione di Frege un realismo forte, ma non un realismo puro >>. Un realismo << poetico >>, soggiunge la De Monticelli. Annotazioni analoghe si possono fare quando l’autrice passa, dalla dottrina del Sinn, alla considerazione della teoria della Bedeutung. La funzione riferimento, con le sue due caratteristiche di immediatezza percettiva e persistenza concettuale, viene riportata all’orizzonte del realismo << impuro >> dell’intenzionalità, à la Brentano. Il processo dell’individuazione ha solo degli aspetti delle componenti epistemologiche - di verificabilità. << Vie d’accesso alle cose >> - che non si concludono, sentieri interrotti. I processi d’individuazione hanno componenti epistemologiche ma solo la teoria del Sinn determina la completezza del progetto. La sensibilità è infatti coinvolta nelle procedure di individuazione ma non nella procedura di giustificazione dell’oggetto. La comunicazione, le funzioni-riferimento sono intenzionali. Il processo di verifica non è altro che un processo, un ondeggiare fra apparenza e realtà, fra soggettivo ed oggettivo, una descrizione fenomenologica del processo stesso. L’idea di distinguibilità fra essere ed

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apparenza è costitutiva della percezione - ma solo, appunto, come idea e dinamica. Nel cap. XV la tesi viene ulteriormente ribadita e sviluppata, sulla base dello schematismo kantiano della percezione e del concetto - con una nuova forzatura in termini estetici [estatici?] e poetici della tematica.

Quest’innesto, sull’albero della filosofia linguistica, di apporti kantiani e fenomenologici, pur essendo tipicamente scolastico (nell’accademia Italiana), coglie tuttavia la polarità fondamentale del pensiero filosofico contemporaneo che si confronta con la sovradeterminazione ontologica del mondo linguistico - fra Husserl e Wittgenstein. Originale è nella De Monticelli il sentimento della necessità della disarticolazione interna dell’ascettivismo husserliano e del misticismo wittgenstiano - e la sua tendenza a riconquistare il senso della realtà della totalità linguistica, inverandone la genesi, ad esperire con coraggio l’istituzionalità complessiva dello spazio logico e la sua potenziale elasticità. All’originalità della strategia si contrappone [sic] l’infelicità della mossa kantiana.

Commentando la seconda parte del volume della De Monticelli, M. Dummet - come aveva criticato la trazione di Frege verso Wittgenstein operata nella prima parte - critica ora la torsione kantiana qui operata. In sostanza Dummett nega la possibilità filologica di questa torsione - sia a proposito della teoria dell’lo, sia della teoria del senso e dell’intenzionalità, sia in genere su tutti quei punti di vista nei quali si valuta [voluta?] e si ristabilisce il rapporto fra teoria del pensiero e teoria della conoscenza. Di nuovo queste annotazioni filologiche di Dummett vanno accettate. Senonché esse sfiorano solamente la critica - ed il problema della De Monticelli. se infatti come il problema teorico fondamentale,. qui proposto, dovremo - piuttosto che ribattere filologicamente alle conclusioni della ricerca - riprendere il suo filo. E rifiutare dunque non tanto la trazione verso Wittgenstein del realismo fregeano quanto la specifica torsione kantiana nell’interpretazione della sovradeterminazione ontologico-linguistica. La De Monticelli è convinta che il mondo conquistato rappresenti la fine dell’universo del Logos. Difficile sarebbe sollevare in proposito obiezioni. Quanto all’uso di Kant, su questo tornante ed alto scopo di sottolineare la possibilità che la Krisis offre - esso è, almeno a partire da Schopenhauer, consueto. Ma d’altro canto, non ci sembra che la De Monticelli sia disponibile a trarre dalla crisi del Logos conclusioni irrazionalistiche. Sicché, tra i divergenti rifiuti, essa sceglie una via intermedia, tentando la riarticolazione del mondo della Krisis attraverso un’ambigua sfera della percezione: fantasmi che schematicamente adempiono a funzioni trascendentali. Un realismo impuro? (oppure, nella qualificazione leniniana dell’empiriocriticismo, un idealismo impuro?). Una teoria dell’immaginazione? Di fatto, come s’è già visto, negli

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ultimi capitoli del suo appassionato libro, la De Monticelli spiega la ricostruzione di una prospettiva kantiana nel senso di una sorta di realismo poetico - impuro. Realismo - perché l’immersione nel mondo è senz’altro fondante e le qualificazioni di verità e falsità costituiscono le condizioni stesse del linguaggio (<< Nella sostantivazione del predicato ‘vero’ si cela (si mostra) l’essenziale identità di categorie ontologiche (stati di cose, fatto e dunque classe e cosa) e categoria logica delle sue espressioni >>). Ma realismo impuro: poiché la possibilità di discorrere dell’essere è fondata sullo scarto - e soggettivamente sullo scontro - fra ciò che logicamente comprendiamo e ciò che la logica mostra. Il pensiero dell’essere, il realismo diventano misura dell’imperfezione logica - ed i filosofi, nel momento stesso nel quale si riconoscono nell’universo linguistico, debbono provarsi nella trasformazione del << rumore >> in significato e nell’adeguare le forme linguistiche alle funzioni. Qui, su questo passaggio, la questione del linguaggio non verbale diviene centrale. L’impurita del realismo logico non è solo un limite - è anche una produzione di sensi diversi. La Krisis del Logos è la possibilità di nuovi significati reali e di nuovi sensi linguistici. Il realismo impuro è realismo poetico.

Ma ricostruire un orizzonte articolato e realistico, nella crisi del logos, dentro la svolta linguistica, è forse compito che possa essere affidato alla poetica? E’ con estremo disagio che mi propongo questo interrogativo perché, se da un lato sento la suggestione della proposta e la forza e il colore e la costruttività del progetto (non nuovo tuttavia, è già nello Steinhof, attorno ai medesimi problemi, prospettato), pure non riesco a considerare la poesia come alternativa alla crisi del logos. Certo, è il pregiudizio di una millenaria cultura che in ciò mi blocca: ma, en philosophie, è anche la convinzione che la conoscenza estetica non innovi rispetto alla logica, che sia rinchiusa nello stesso orizzonte. Che, confusamente, essa aspiri alla potenza della tautologia. Per la filosofia del linguaggio come per l’estetica, all’interno della sovradeterminazione linguistica, la verificabilità è tolta. La crisi del Logos consiste nel suo deficit realistico. L’ontologia dell’universo linguistico è raggomitolata nella formalità. L’intrascendibilità è mistica. Il problema è dunque quello di ridare spessore realistico a questo mondo del linguaggio e della comunicazione. Perché mai l’estetica dovrebbe avere la capacità di compensare a crisi del Logos? Non ne è invece la semplice trascrizione? O, semmai, addirittura lo sviluppo in termini fantastici, idealistici? La funzione dello schematismo trascendentale si stempera man mano in funzione riflettente, nel giudizio estetico e l’lo trascendentale, nell’idealismo classico, stravolge a questa stregua la stessa confutazione kantiana dell’idealismo soggettivo. Perché dunque vestire il pensiero nudo, così faticosamente riconquistato, come rappresentante di una nuda vita - perché

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fargli indossare le vesti di Arlecchino - poetiche ma pagliaccesche?Se ci fermassimo a questo punto non intenderemmo tuttavia appieno

l’importanza del libro della De Monticelli. Vale invece ricordare, proprio quando essa arriva a queste conclusioni, che da ben altro si era mossa e ricostringerla a Frege e a Wittgenstein. Chiediamoci dunque di nuovo: perché Frege? Perché Wittgenstein? Perché è tanto importante riprendere l’analisi a partire da questi autori?

Ora, il problema è la Krisis del Logos. Crisi esasperata dalla conclusione wittgensteiniana della logica nel Tractatus, dalla sovradeterminazione mistica che la sussunzione logico-linguistica del mondo riceve. La De Monticelli attacca la sussunzione ripercorrendone la genesi: Frege. La domanda è quindi: evitando ogni éscamotage kantiano, può Frege indicarci, assieme alla via verso la sussunzione logica, una chiave di articolazione - che è come dire, di riappropriazione logica del mondo? Secondo me è possibile rispondere affermativamente alla questione - pur trattenendo il gioco filosofico fra questi due autori. Purché la potenza del pensiero logico di Frege sia assunta fino in fondo e la dialettica fra la genesi fregeana della sussunzione logistica del mondo e la sovradeterminazione mistica che ne fa Wittgenstein siano considerate in tutte le loro articolazioni. Ora, Wittgenstein raccoglie e mistifica il procedimento fregeano. Poiché Frege costruisce un mondo di oggetti in cui la tensione al passaggio, al dislocamento verso l’orizzonte della generalità non toglie in nessun caso la referenza ontologica. La generalità astratta è reale Frege scopre lo scheletro del mondo come comunicazione, come informazione. Se in Kant la contaminazione dell’orizzonte analitico e di quello empirico spinge su verso l’io trascendentale e il giudizio sintetico a priori, in Frege e nella logica rivoluzionaria la tensione dell’analisi è inversa, rivolta verso la produttività dell’essere, è costitutiva di oggetti sul terreno delle astrazioni reali che li compongono. Il giudizio vuole essere analitico a posteriori. In Frege l’autonomia relativa dell’orizzonte del Sinn è sempre piegato alla referenza ontologica della Bedeutung. Di contro, Wittgenstein, assumendo la tensione fregeana alla sussunzione logistica del mondo, la fonda come logicismo, come regno della tautologia. La tensione ontologica della logica cade - il reale è sospeso. Di conseguenza interviene il misticismo come conclusione adeguata all’impossibilità di risolvere la differenza del Sinn e della Bedeutung - il sentimento dei limiti del dicibile e del pensabile prende il luogo del processo di produzione della logica del mondo. In Wittgenstein la composizione conclusiva del Logos è perciò la sua crisi. Ma non è possibile riproporre la produttività della logica a livello di dislocamento? Leggere Wittgestein [sic] attraverso la genesi del logicismo, piegandone le conclusioni alla dinamica materiale

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attraverso la quale si produce questo stesso suo mondo? Se il problema della De Monticelli è questo, come crediamo, è altresì vero che nella sua soluzione essa non ne ha rispettato le condizioni. Che sono invece ciò che a noi più interessa. Le condizioni fregeane del dislocamento verso la sussunzione logica sono infatti tali da introdurre - contemporaneamente - l’unità e la molteplicità, l’intensità e l’estensione, e soprattutto da porre le regole del dinamismo di questo mondo astratto - delle sue relazioni e della sua dualistica asimmetricità. L’istituzione dello spazio logico in Frege è la definizione della possibilità del suo movimento. Wittgenstein è invero il Berkeley, il mistico vescovo dello sviluppo del realismo logico contemporaneo lo scopritore di una paradossale e paralizzante riduzione del mondo reale nell’identità tautologica. Frege è lo Hume del realismo logico, colui che ci dà le chiavi attraverso cui entriamo in quel mondo dell’astrazione reale che è nostro, ed ivi identifichiamo gli oggetti nuovi e propri, classi ed insiemi, individui di nuova specie. Dualismi, equinumericità, asimmetrie. Certo, stando a Frege, lo scontro fra logica ed ontologia non si chiude mai: ma a che formidabile livello è stata traslocata la figura di questo scontro! L’astrazione del mondo, l’intelletto generale è l’ambito dello scontro - la comunicazione non assume ipotetici fondamenti alla sua origine, svolge piuttosto insieme identificazione e scontro dei soggetti come vicenda di elementi continuamente emergenti sull’orizzonte dell’informazione. Frege non raggiunge l’astrazione reale, l’assoluta intrascendibilità del mondo di Wittgenstein - ma quest’ultima è un immobile paradosso. Frege pone il problema di rompere il paradosso produttivamente, definendo il nuovo quadro di articolazioni nel mentre cerca di mostrarne la tendenza di sviluppo. Tendenza che non si concluderà mai perché lo scontro è la sua chiave dinamica. In Wittgenstein la logica intensionale del Sinn conduce ad un’ontologia a valore zero e, conseguentemente, la logica estensionale della Bedeutung riconosce l’annullamento della sua stessa possibilità. In Frege la logica intensionale ha un contenuto relazionale e quindi esalta la logica estensionale in un orizzonte plurimo, in un’ontologia aperta.

A me non importa molto che la De Monticelli non abbia sviluppato il suo discorso in questo senso. Ritengo particolarmente infelice il tentato éscamotage kantiano (che, oltre tutto, come riconosce lo stesso Dummett ha ben poche ragioni sul piano filologico). Ma ritengo che i problemi posti dalla De Monticelli siano fondamentali. Andiamo oltre la Krisis del Logos cercando di attraversarne l’intera intensità: questo ci sembra dire, in maniera irrefutabile, la De Monticelli. Ed è questo orizzonte della sussunzione, dell’astratto generale, questa Krisis che riformulano gli oggetti e riqualificano le dinamiche e gli ambiti. E’ qui dentro che il mondo - questo incredibile ma vero astratto mondo - si fa ora vita e produzione.

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Di qui in avanti la De Monticelli non ci aiuta più. Crede infatti di poter scegliere una via estetica per la soluzione di quello che chiamiamo il << problema Frege (Hume) >>. Già Hamann e i primiromantici lo pensarono: il Belief diveniva alternativamente Gnade oppure costruzione estetica. Ma l’estetico non è che la proiezione depotenziata del logico mondo dell’individualismo. Né Kant può aiutarci ad uscire da queste nebbie. Mentre l’altro presupposto fregeano, che è in questo caso completamente dimenticato, deve essere soprattutto ripreso: ed è il postulato (adeguato alla sussunzione logica del mondo) dell’annullamento dell’individuo. L’istituzione dello spazio logico è istituzione del collettivo. Nella logica contemporanea il problema humeano del Belief si presenta come problema degli aggregati di classe: da Russell a Moore fino alla logica rabbinica di Kripke, tutti debbono ripetere l’adagio fregeano: la classe è prima degli individui. Si potrebbe definire la stessa Krisis nel Tractatus come paralisi indotta dalla meraviglia di questa scoperta. Ed è questa la vera svolta impressa dalla filosofia linguistica: la definizione dell’orizzonte mondano come comunicazione collettiva. Questa scoperta non è poi così strana se si pensa che essa avviene all’interno dello sviluppo capitalistico, e nella maturità di questo. Se il Belief humeano gioca un ruolo fondamentale nella fondazione della market-society dell’individualismo, nella smithiana paternità del capitalismo - come agisce il Belief della comunicazione collettiva? Nell’ulteriore vicenda della logica contemporanea, dopo Wittgenstein, il problema della comunicazione diviene fondamentale. Il realismo ritorna ad opporsi con forza a quell’empirismo mistico che il Tractatus aveva generato, a quell’empirismo alla Carnap di cui sono state giustamente criticate la prodigalità nel dispendio del patrimonio logico e l’estrema avarizia nella produzione di espressioni descrittive. Scetticismo nei confronti delle tautologie, giusta impazienza dinnanzi all’incontinenza logicista, si riaprono così ai problemi del rapporto fra senso e significato, alle ricerche strutturali sulla forma (comunità e/o discontinuità, varianza e/o invarianza) del rapporto fra logica ed ontologia. Quali siano le molte figure di queste problematiche, fra Quine e Kuhn, fra Putnam e Kripke, quel che è certo è che la tensione realistica di Frege ha trionfato contro la rigidità cadaverica cui conclude la wittgenstiana descrizione del mondo. La nuova logica è oggi problema della comunicazione. Come dunque agisce il Belief della comunicazione collettiva? Sono personalmente convinto che su questo snodo i giochi siano tutti da farsi. Ma contemporaneamente sono certo che la filosofia del Logos, in quanto filosofia profondamente determinata da una concezione della razionalità individuale, non ha su questo terreno la minima possibilità di sviluppo, neppure nella sua estrema sofisticazione estetica - Andy Warhol come interprete di Wittgenstein - e che conseguentemente la teoria logica va riproposta sulla base

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dell’ermeneutica della comunicazione collettiva.E’ interessante notare, a questo punto, come i concetti base di certa tradizione

della logica, di cui sembra non si riesca a liberarsi, siano invece non solo in crisi ma, per così dire, cancellati dalle acquisizioni rivoluzionarie della logica postfregeana - ed in particolare dinanzi alle determinazioni produttive del giudizio analitico a posteriori (dove la presupposizione della classe dell’individuo non è semplicemente descrittiva) ed alla conseguente dissoluzione della tradizionale divisione fra enunciati descrittivi ed enunciati valutativi. Qui la logica postfregeana si coniuga con l’epistemologia postbachelardiana.

Poiché la comunicazione è un fenomeno etico-politico e presenta l’essere come un orizzonte di praticabilità, come un cantiere di formazioni linguistiche, solo un’antropologia del movimento collettivo può allora chiarirla. La scienza della produzione - o della distruzione - la potenza ed il potere si presentano su quest’orlo dell’essere, dentro la totalità dell’intelletto generale e le dimensioni della sussunzione, come esclusivi elementi critici. E’ ben vero che l’immagine - come vuole la De Monticelli - veste ora il cosiddetto pensiero nudo, ma lo riveste dentro quelle dimensioni pubbliche, collettive, produttive che il pensiero, fuori da qualsiasi robinsoniana nudità, ha assunto. E noi abbiamo bisogno di una logica a questo livello, che abbandoni ogni nostalgia del fondamento, che assuma interamente il commercio umano e la multitudo come dimensione propria. Probabilmente la determinazione etica del mondo è il solo orizzonte che la rivoluzione logica ci consegna come possibilità di scienza. Il problema del mondo e quello della vita ritornano ad essere uno solo.

6. A proposito dell’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >> e della ragionevole opportunità di rovesciarlo.

Note di lettura su testi di Luhmann, Baudrillard, Lyotard, Habermas ecc.1. Aforisma e cinismo.L’aforisma rappresenta una delle forme nelle quali la << ragion cinica >> si

organizza nella società nella quale viviamo. Sorge il problema di comprendere se quest’antinomia, in questa formulazione, non sia apparente e nasconda invece una più profonda scissione: fra soggettività etiche diversamente orientate.

Sono sempre stato stupito dalla frequenza con la quale negli ambienti politici ho sentito e sento ripetere l’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>. Dopo Gramsci (1). La ripetizione è di gramsciani e non, di progressisti e reazionari, di carcerati e carcerieri, di amici e nemici, di comunisti e liberali, di giovani e vecchi. Il tono argomentativo che accompagna

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l’esclamazione è più o meno questo: razionalmente non c’è nulla, o c’è poco, da fare - proviamo comunque. Se la ragione attesta un blocco, un limite - solo una sobria resistenza, una convinta insistenza potranno permetterci un orientamento positivo. Poco m’interessa l’ipocrisia spesso celata dall’aforisma: qui non dobbiamo fare né satira né moralismo. Assumo piuttosto l’aforisma come segno di una contraddizione, immediatamente rivelata, nell’etico e nel politico. E poiché il politico è, o dovrebbe essere, la scienza del possibile e quindi della volontà (ed è comunque interpretato in questo senso dai ripetitori dell’aforisma) - mentre l’etica è scienza del desiderabile e quindi della ragione, assumo l’aforisma come indicazione di un’eventuale contraddizione fra l’etico e il politico, fra la ragione e la volontà. Per cominciare.

Sembra accertato che, all’inizio dell’età moderna, nella rinascenza, la contraddizione fra l’etico e il politico sia storicamente generata dalla necessità di rendere autonomo il politico dalla morale. In effetti, l’assorbimento della morale nella teologia non lasciava altra via d’uscita a chi volesse emanciparsi [emanciparci?] da forme tradizionali di dominio. Il cosiddetto conflitto di morale e di politica è quindi, originariamente, rappresentazione di un atto di libertà. Esso perciò non riproduce un << eterno >> conflitto fra diverse categorie metafisiche (come il pensiero reazionario ha sempre ripetuto) quanto invece propone la fondazione di un nuovo orizzonte etico, meglio, di un nuovo orizzonte metafisico, - nel quale morale e politica potessero collocarsi in una diversa figura e la politica conquistare l’egemonia del rapporto. Su questo snodo la politica borghese, il << buon governo >>, l’amministrazione legittima, sembrano a lungo impersonare anche l’istanza morale. La scienza della politica, si presenti essa come esecuzione del governo giuridico o come pratica del governo economico, tende - in questa prospettiva - ad elidere ogni conflitto. Nel diritto, e soprattutto nel formalismo giuridico, sostanzializzato dalla gestione inflessibile dello Stato di diritto, si ricostruiva così un ambito unificato di morale e di politica, sulla base di nuovi valori (2).

Senonché un ostacolo, per così dire, ontologico presto si rivela. Ed è che, comunque motivata, la politica come scienza del possibile, rivela l’impossibile e la pratica del governo scontra nuovi limiti strutturali. E’ attorno alla consapevolezza del limite che l’ipotesi del conflitto fra morale e politica si ripropone. Nella vicenda dello Stato moderno, la concezione gerarchica del rapporto di morale e politica (o di politica e di morale) fa così luogo ad una concezione orizzontale, di reciproca autonomia ed esclusione, fra morale e politica. L’autonomia del politico, come pratica e come scienza, si distingue dall’autonomia della morale. Morale e politica istituiscono spazi separati. Il volto demoniaco del potere diviene consueto, quanto quello angelico della

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morale. Se la prima separazione (umanistica) del politico dalla morale è un atto di libertà e un momento di costituzione egemonica del politico (soprattutto nella sofisticata immagine dello Stato di diritto), - la seconda separazione, tipica della nostra epoca, è un atto di riflessione critica, di limitazione dell’energia costitutiva. Ed è qui che si riafferma l’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>: come registrazione dell’impossibilità di costruire la totalità e come esplicazione dell’urgenza di afferrarla comunque (3).

Su questa congiuntura precipitano motivazioni quanto mai diverse. Così, in primo luogo, qui convergono le concezioni del << determinismo scientifico >>. Quando la saldezza dell’orizzonte scientifico non riesce ad adeguarsi alla temporalità determinata dell’agire, allora lo jato che si apre è solo controllabile attraverso l’appello alla più alla moralità. << Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me >>. Il determinismo si accompagna al volontarismo etico, la certezza conoscitiva è (per contrasto) santificata dal libero << Sollen >> della volontà. La storia del dualismo kantiano, ma soprattutto quella del neokantismo ottocentesco, in tutte le sue versioni, è dimostrazione di questo sviluppo (4).

In secondo luogo, e rafforzandola, la concezione del limite razionale della politica è affermata da quel corpo di dottrine che chiamiamo del << relativismo etico >>. Avalutatività (razionale) e decisionismo (pratico) sono le forme nelle quali si presentano qui i concetti di validità e di valore, le figure centrali di scienza politica e di etica - e quindi di una dialettica di autolimitazione che, riconoscendosi come tale, esige comunque di essere efficace, di fondarsi quindi sulla necessità razionale di un << salto mortale >>. Tanto più avalutativo è il giudizio, tanto più decisionistica è la proposta (5).

In terzo luogo conduce ad una similare concezione del limite razionale della politica il << realismo sociologico >> - quando, agitandosi fra omogenee contingenze, fra equipollenti potenze, è indotto ad una serie di dilemmi che solo un certo ottimismo della volontà, una certa sovradeterminazione pratica possono risolvere. Il realismo sociologico non sa distinguere né cogliere le singolarità, - se non attraverso riferimenti esterni, trascendenti il suo orizzonte linguistico. La sovradeterminazione della volontà a fronte della relativa impotenza della ragione è, in ciascuno di questi casi, l’unica soluzione.

Si potrebbe continuare nella casistica. L’antinomia fra ragionevole e limitata scienza della politica e decisione etica è segno caratteristico del nostro tempo. Questa situazione critica si è, per così dire, normalizzata, fino a manifestarsi regolarmente nel linguaggio comune - talora in termini caricaturali. Che solo gli enunciati descrittivi creino certezza mentre gli enunciati valutativi sono fortuiti, che i giudizi etici sono quindi azzardati, ecc. - bene, questi sono ormai ritornelli

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di un sapere comune che mostra le difficoltà dell’agire come momenti antinomici, razionalmente insolubili. Su questa base, le stesse forme della politica, le più gelosamente custodite quali indici di valore comunque legittimanti (e nella democrazia questo è necessario), rivelano dimensioni antinomiche e sviluppano matrici non risolubili. si consideri ad esempio il meccanismo della rappresentanza democratica o gli scenari dell’amministrazione. Essi dovrebbero consistere in strutture descrittive, regni della trasparenza, - divengono invece, sulla base dell’antinomia assunta, matrici di valutazione fortuita, luoghi di mediazione azzardata, semplice decisione. Un elemento di innovazione inserisce alla struttura del politico - ma è elemento irrazionale (6). Ottimismo della volontà, appunto, sopra il pessimismo della ragione - di questa ragione che non potrà mai comprendere il reale.

Cinismo, allora? Valutazione solo irrazionale, violenta, immediata della realtà? Com’è altrimenti possibile rispondere alle esigenze della pratica? Il politico è un mondo limitato, non riesce a comprendere il resto, il differente - ma il resto, il differente debbono essere condotti al limite, essere compresi nel limite. Cinismo è questa riduzione della totalità al limitato, - è la frustrazione dell’etico assunta a fondamento del politico. Il conflitto fra il politico e l’etico non è considerato come un terreno sul quale si svolga una lotta di valori - bensì come scenario di soluzioni obbligate secondo le norme di un potere che, sentendosi parziale e limitato, pure deve raggiungere un risultato. La razionalità è regola di emergenza, di eccezionalità. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà, di una ragione impotente e limitata e di una volontà potente e cinica (7).

Con ciò la confusione è completa. E’ indubbio infatti che questa concezione del politico è essa stessa un’etica, depotenziata ma non perciò meno efficace. Una sorta di divinità terrestre, rovesciata e maligna. Ma, se è così, il conflitto cui assistiamo non è fra etica e politica, bensì è antagonismo fra corpi diversi - un corpo etico-politico e, di contro, un altro corpo etico-politico, e così di seguito. Il conflitto è fra diverse divinità. Chi riordinerà queste potenti contingenze? Max Weber, uno dei più lucidi studiosi della politica del secolo XX, ha appunto chiarito come dal monoteismo si dovesse trascorrere al politeismo nella definizione dell’orizzonte di valore che costituisce la politica. Egli chiede a ciascuno di prendere posizione, di radicare eticamente la sua << Beruf >> politica, di entrare nella mischia. Sapere la relatività, egli sostiene, fosse pure l’unicità del punto di vista, non toglie la radicalità dell’approccio. Toglie solo la possibilità di un confronto razionalmente irresolubile. L’aforisma da noi considerato sembra allora ben registrare questa situazione - e non dunque attenere al generico conflitto fra etica e politica ma piuttosto all’antagonismo

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fra diverse etiche e politiche, fra differenti orizzonti valutativi, fra parti separate e soggetti diversi.

2. La riforma del modello.Nel sistemismo tedesco (Luhmann) l‘ottimismo della volontà si fa tecnica di

riduzione della complessità sociale. Quest’operazione consiste nell’astrarre le antinomie a base ontologica, nel collocarle in un progetto di simulazione, insomma, nel riqualificarle in uno scenario sostitutivo della realtà. Il processo di simulazione (nel postmoderno) come processo di sostituzione del reale.

Nella crisi del pensiero etico, giuridico e politico del nostro tempo si introduce dunque, in primo luogo e prepotentemente, la necessità, se non di risolvere questi problemi, almeno di dar conto di questi fenomeni. E’ stato notato che l’esistenza dell’ordine sociale è ormai inverosimile, - vale a dire che non è spiegabile la sua normalità. Man mano che la complessità sociale aumenta, la contingenza di tutti gli eventi tende a divenire assoluta. Il pessimismo della ragione aumenta così a dismisura, fino a produrre risultanze scettiche. Occorre però salvarsi dall’invadenza distruttiva della contingenza, dalla sua onnilaterale possibilità mai riducibile alla necessità razionale. Se, per dirlo nei termini della filosofia classica, l’essere è equivoco, dentro quest’equivocità occorre comunque orientarsi [orientarci ?] - tanto più poiché l’essere sociale è condizione di esistenza. Se queste contingenze, ad esempio, fossero armate - ed il raffinamento degli arsenali è continuo - chi si salverà? Qual’è il limite nella relazione fra contingenza e ragione di sopravvivenza? Qui, l’ottimismo della volontà assume allora una veste finalistica, strumentale e tecnica. Ci si chiede di accettare soluzioni tecniche che sono anche risposte alle questioni di una sorta di morale provvisoria, - un sistema di convenzioni atte a ridurre la complessità delle contingenze, a permetterne la selezione, l’ordinamento, in vista della sopravvivenza.

Quella cui qui voglio riferirmi con qualche accenno è la costruzione dell’immagine del mondo sociale propostaci dal sistemismo tedesco, ed in particolare da Niklas Luhmann. Quest’autore è probabilmente il miglior riformulatore di un’ipotesi di ottimismo della volontà nel nostro mondo (8).

Ora, l’immagine del mondo sociale qui presentata è, a prima vista, del tutto paradossale. Essa si vuole infatti completamente oggettiva - ed infatti lo è, in quanto la comprensione dell’essere sociale è affatto strumentale, tecnica - ma nel contempo è un immagine pan-etica. Il sistema è infatti autoreferenziale: quindi la sua oggettività implica la soggettività dell’autoreferenza. Ogni segno dell’esistenza viene compreso e ridotto dentro la complessità sociale e l’operazione di riduzione proposta è interna ai segni dell’esperienza, e della

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totalità dell’orizzonte sociale interpretato dal soggetto. Di conseguenza, la questione che si pone e che va risolta, è la seguente: quali sono i parametri che rendono verosimile la selezione della complessità? Che cosa può rendere meno equivoco - se non univoco - l’essere sociale? E come può la volontà dibattersi nel caos delle contingenze e dare qualche verisimiglianza alla generosità della sua pretesa, all’esigenza di efficacia della ragione strumentale? Il problema è decisivo perché, essendo il referente sociale considerato in termini omogenei, esclusivi, il fine perseguito non è semplicemente tecnico. Ma che cos’è una tecnica della morale, una tecnica costretta ad investire l’intero mondo etico, - una tecnica quindi, non solo del comando bensì del consenso, una morale, dunque, si provvisoria, ma coestensiva all’intera politicità?

L’ottimismo della volontà dà a questa serie di problemi una risposta quanto mai ingegnosa - l’operazione di riduzione della complessità sociale è tradotta in operazione di sostituzione della realtà. Ma, oltre ad essere ingegnosa, questa risposta è coerente - non potrebbe essere diversa. La morale provvisoria si presenta infatti nella forma del sistema. Il sistema viene costituendosi attraverso un processo di riduzione della complessità. Questo processo di riduzione e produzione di un’immagine oggettiva, dotata di sistematicità interna, autoreferenziale, che seleziona continuamente gli elementi che sono coerenti – l’ambiente e la storia possono solo essere recuperati dentro un meccanismo di riduzione-selezione che l’ottimismo della volontà guida a sostituire la realtà.

L’inversione del rapporto fra ontologia e logica, e la primalità di quest’ultima - sicché è il senso degli enunciati e delle funzioni a produrre il significato - è cosa consueta nella filosofia contemporanea, a partire da quella che è stata chiamata la svolta linguistica (9). Ma non è pacifica - tanto più quando quest’inversione avviene nel campo dell’etica e investe le burrascose condizioni di esistenza del sociale. Ma di ciò più avanti. Qui interessa ancora scrivere come l’ottimismo della volontà possa presumere di organizzarsi in logica costitutiva del sociale. Questo può avvenire ad alcune condizioni, tutte proposte da un processo teorico di depotenziamento del reale, di svuotamento ontologico del mondo. Mentre nelle forme più ingenue dell’ottimismo della volontà il mondo non è negato ma semplicemente assunto come condizione tragica ed irresolubile, in queste più sofisticate versioni la volontà si fa rappresentazione. Il mondo è orizzonte di comunicazione, come tale si organizza in sistema autoreferenziale - ma questa produzione di significati è inevitabilmente tautologica - e solo la creatio continua, la continua parousia della volontà permette la determinazione di elementi selettivi, la riduzione della sfera del caso, la posizione di proposte innovative. Datosi come sostituzione del reale, il sistema del mondo trova solo l’ottimismo della volontà come attività che ne

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allarga la presa nell’orizzonte della vita. E quest’ottimismo della volontà è, per così dire, reso metafisico - perché è metafisica la progressione del reale come autoastrazione, come dinamica di strutture e di sistemi dentro i quali ogni attività soggettiva si oggettivizza e appunto con ciò definisce nuove possibilità di riduzione-produzione (10).

Che Schopenhauer sia fra le letture di Wittgenstein, è noto -che ne sia anche il prodotto, quando la filosofia ritorna sul sociale, è interessante. Se in Wittgenstein il rapporto verisimiglianza-normalità, per quanto pittoricamente depotenziato, è comunque dato, - nello schopenhauerismo degli epigoni tale rapporto è radicalizzato: la normalità è e resta inverosimile. La volontà interviene a far si che il contenuto della comunicazione intersistemica sia eguale a zero. Ché infatti solo in tal modo le condizioni di tenuta del sistema - è del suo equilibrio - sono soddisfatte. Non quelle della verisimiglianza ma la riproduzione della normalità inverosimile. A tal fine e in tale quadro, la dinamica del sistema non può essere letta che come creazione continua di emergenze determinate, compensative degli squilibri, - atto di volontà. L’ottimismo della volontà è eroicamente irrazionale. Il sociale è astratto sul ritmo creazionistico della volontà: produce sostituzione astratta di/per una realtà ridotta. Un romanticismo forte costituisce pallide formazioni logistiche. Il misticismo è totale. Mentre il pessimistico realismo dei primi ripetitori dell’aforisma considerato poteva dirsi cinico - ed il cinismo può anche essere forte nel comportamento beffardo e sprezzante della realtà che talora mostra - qui il sistema è illusionistico, eine Schwärmerei.

(E se invece, di contro, il processo di astrazione della realtà fosse un processo reale e razionale? Ma di questo più tardi).

Qui affermare è togliere. L’ottimismo della volontà diviene qui una formalistica autoproduzione, un’equivoca hegeliana Aufhebung - esasperazione irrazionalistica e volgare del salto in avanti come salto mortale. La diafana figura del sistemismo non ha più neppure la curiosa concretezza del gioco e del divertimento, dell’astuzia e del compiacimento estetico. L’astrazione è simulazione, è sostituzione della realtà. L’autoastrazione è autocostituzione, ma illogica, vuota. Asylum ignorantiae. Mai la volontà ha tanto disperatamente opposto la propria pretesa di rappresentazione, il proprio frenetico bisogno di spostamento, di annullamento e/o di sostituzione del reale - alla prassi concreta, collettiva e costitutiva, razionale. In questa riforma del modello aforistico del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà precipitano tutti i motivi irrazionalistici della crisi contemporanea. La linea Schopenhauer-Wittgenstein si conclude nel sistemismo. E questo precipitato raccoglie tutte le espressioni teoriche dell’ottimismo della volontà cieca (11). Come un impluvio

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dai mille canali. Si sa tuttavia quanto gli equilibri ecologici siano corrotti. Vuol forse dire questo che nell’impluvio sistemico, talora divenuto latrina di periferia, specchi il suo faccione anche la continua tentazione fascista e autoritaria? E’ comunque certo che nell’attuale crisi della democrazia l’ottimismo della volontà nutre un’autonomia del politico che è tensione di progetto totalitario. Il Politico ha come obiettivo la riproduzione di se stesso in fondo completamente indipendente - esso assorbe tutta la realtà, per sostituirla a sua immagine e somiglianza. Per tenerla nell’inverosimiglianza e nell’assurdità della sua normalità.

3. Astrazione, tautologia, costituzione.La realtà esiste. E’ anzi possibile considerare il processo di astrazione del

reale come un processo (reale) di nuova costituzione del mondo. Contro le teorie sistemiche, le teorie linguistiche rappresentano un tramite per afferrare la sostanza ontologica del mondo astratto nel quale siamo costituiti.

L’autoastrazione del reale è un processo reale. Proprio perché esso è reale non conclude alla tautologia - in nessun caso. Noi possiamo trasformare in tensione reale la tensione teorica propria dell’analisi sistemica a confronto con l’ambiente e con la storia. Quella tensione che nel sistemismo è continuamente frustrata nel fittizio dualismo di teoria e realtà, di sistema autoreferenziale e pratica di sostituzione - noi possiamo coglierla in termini reali. Di qui l’effettivo progresso conoscitivo che una mistificazione epistemologica (quale la sistemica) può comportare. Ora, possiamo dunque registrare alcune novità conoscitive che non l’ottimismo della volontà ma la forza della ragione dovranno verificare.

Il primo punto consiste nella definizione dello stesso processo di autoastrazione del reale, e cioè della realtà sociale. Poco ci interessa qui strappare la maschera idealistica imposta al processo: è utile e sufficiente sottolineare alcuni caratteri formali del processo stesso (per intenderci che ritroviamo fondati nell’analisi del processo di sussunzione capitalistica della società produttiva e nella trasformazione della qualità del lavoro produttivo) (12). Ora, nel processo di autoastrazione del reale la distinzione fra soggetto ed oggetto viene meno. Conseguentemente, il rapporto fra logica ed ontologia si appiattisce, si ristruttura su un orizzonte di reciproche funzioni. L’articolazione interna della realtà astratta è posta nella circolazione di ipotesi logiche e di costituzioni ontologiche - formalmente funzionali. In secondo luogo, date queste fondamentali qualificazioni dell’astrazione sociale, ne viene che ogni problema epistemologico riguardante lo statuto di corrispondenza fra il pensiero ed il reale, fra il dover essere e l’essere, è tolto. La distinzione fra giudizi descrittivi e giudizi valutativi, capo delle tempeste di ogni epistemologia etica e

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di ogni deontologia politica, è anch’essa tolta. Il problema epistemologico è sostituito dall’analisi formale della circolazione sistemica. I soggetti si presentano fuori da ogni possibilità di collocazione sistemica che non sia puramente connotativa - onde, per esemplificare, l’approccio sistemico non si ritiene contraddittorio con quello dialogico-mutualistico. In terzo luogo, quindi, le esigenze delle teorie della comunicazione e delle teorie dell’interazione comunicativa sono accolte e rese rigorose dall’appiattimento ontologico di ogni pretesa trascendentale sul terreno logico e funzionale (13).

Ora, se nel paragrafo precedente ho sottolineato come l’orizzontalità e l’equipollenza di ogni dimensione del quadro sistematico non possano essere vivificate se non da un rozzo procedimento volontaristico, da un decisionismo solo sofisticato da una lettura creazionista, continuata, - e quindi come la mistificazione consista nella volontà di nascondere le contraddizioni reali, gli antagonismi della prassi, addirittura nella volontà di distruggere la prassi per esaltare la pura determinazione irrazionale del dominio - qui va detta la ragione per la quale questa sortita reazionaria nella teoria politica è comunque interessante e portatrice di novità conoscitive. Va detto perché essa ponga un problema del tutto reale.

Il fatto innovativo, e problematico, consiste in ciò che l’autoastrazione della realtà sociale non è una tendenza ideale ma un processo reale - un atto costitutivo dell’ontologia sociale. Da questo punto di vista è forse interessante notare che alcune conquiste fatte, in forma estremamente più matura, estremamente più forte, dalla logica contemporanea nel suo sviluppo, possono valere come referente analogico nel chiarimento del problema registrato dal sistemismo. Alludo al fatto che, nella vicenda della logica contemporanea ed all’interno della sua svolta linguistica, abbiamo sia l’integrale riduzione del mondo ad un orizzonte comunicativo, sia la perfetta identificazione dell’ordine delle relazioni semantiche (indicatrici di realtà) e dell’ordine delle relazioni costitutive (costruttive di senso). Questa è una trascrizione ottimale del processo di autoastrazione della realtà sociale - nella misura stessa in cui questo processo si offre all’intera estensività e all’interna elasticità del rapporto fra senso e significato, trasferendolo sull’orizzonte della comunicazione collettiva, di soggetti collettivi, di classi d’individui. E quella linguistica è anche un’ottimale definizione dei nuovi orizzonti della pratica, dove non gerarchie ma solo antagonismi lineari possono presentarsi. Sicché l’autoastrazione del reale non eguaglia il mondo se non come orizzonte, nel mentre, su questo stesso orizzonte, apre la possibilità della paritaria espressione delle potenze reali. Gli universali si presentano fra 1 mondo e la vita a dimostrare la possibilità di una loro realizzazione.

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Ma perché questo avvenga è necessario che il rapporto fra astrazione e tautologia sia sciolto. E lo è soltanto nella misura nella quale l’astrazione della realtà sociale non subisce la violenza di una formalizzazione depotenziata e depotenziante, del misticismo della forma - prodromo del volontarismo, dell’ottimismo della volontà, della stoltezza del decisionismo. La logica linguistica prefigura le avventure del formalismo e del funzionalismo sistemici - mostrando essa stessa, come quest’ultimo fa, la potenza dell’astrazione sociale - ma nello stesso tempo indica la diversione pratico-ideologica e la distorsione dell’astrazione quand’essa acceda alla prospettiva formalistica. La logica linguistica riesce a dimostrare queste distorsioni non certo perché sia immune alle urgenze della pratica, quanto perché essa, nella sua storia, ha subito le tentazioni del misticismo della forma, e se ne è liberata, sentendone l’intera impotenza - ed avvertendo che l’ottimismo della volontà sta alla radice di quest’impotenza ed è estraneo e nemico al pensiero. Negli sviluppi postwittgensteiani della filosofia linguistica non assistiamo dunque ad una rifondazione del Logos, sulla cui crisi si instaurano egualmente il misticismo teoretico (pessimismo della ragione) e il volontarismo ascetico (ottimismo della volontà) - assistiamo bensì ad una dislocazione universale del pensiero e del sapere, del soggetto e della comunicazione, della ragione e della volontà. Nell’intrecciarsi con il significato il senso si fa potenza - e il mondo si avvia a riconquistare la vita (14).

Nella sistemica etico-politica l’astrazione del mondo si fa invece tautologia della vita - scienza del potere e negazione pratica della vita. Che, astraendosi, la vita divenga più potente del mondo, l’ottimismo della volontà non lo vuole. Che il sapere sia costitutivo, che la sua potenza sia autodeterminazione esclusiva del potere, l’ottimismo della volontà non può accettare - sarebbe una contradictio in adjecto poiché l’ottimismo della volontà è in sé sovradeterminazione. Che il concetto di volontà debba essere inteso come variante della ragione collettiva, produttiva, costitutiva - l’ottimismo della volontà non può soffrirne perché le dimensioni scettiche della sua fondazione si son fatte pratica di cinismo, lotta contro la vita, condizione di separazione.

Nel processo di autoastrazione della società il mondo si è fatto invece mondo etico, l’essere si è rivelato come essere etico - e comunicazione ed antagonismo si rivelano a loro volta come potenze orientate al fine di identificare, qualificare, svolgere le dimensioni collettive della riproduzione dell’essere. La logica contemporanea ci ha condotto su quello stesso bordo della determinazione etica che l’autoastrazione del sociale ha costituito. L’ottimismo della volontà tenta di combattere questo salto dell’essere, di negarlo non nella sua effettualità ma nel suo significato - di imbalsamarlo come tautologia,

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astrazione vuota, impotenza (15).4. Sul bordo trascendentale delle strategie etiche.La teoria critica, che rinasce a fronte della crisi delle teorie sistemiche, cerca

di costituirsi in orizzonte trascendentale. Ma l’orizzonte trascendentale, così come ogni altro orizzonte di mediazione, rivela un deficit critico: esso non riesce a cogliere quel reale che si è costituito in potenza etica, poiché alla potenza oppone la mediazione e all’etica il formalismo. Il criticismo non va al di là del postmoderno.

Tutte le condizioni a che l’orizzonte << avalutatività-decisionismo >>, << pessimismo della ragione-ottimismo della volontà >> sia distrutto e rovesciato, sembrano a questo punto date. Ma distruzione e rovesciamento non si danno. La filosofia contemporanea è come ipnotizzata dal vuoto della << sussunzione reale >>. Sia sufficiente, in proposito, guardare ad uno dei tentativi più interessanti che - presupponendo l’eclissi della ragione su questo livello di astrazione del reale - è stato proposto: il tentativo neocritico di Habermas (16). Ora, la ricostruzione di un orizzonte unitario, qualificato in termini linguistici e comunicativi, non va oltre (nella maggioranza dei casi) la proposta di una dinamica trascendentale che si ponga fra referenza, universale ma vuota, del quadro globale ed iniziativa, razionale ed etica, dei soggetti. Questa dinamica è centrale nelle configurazioni teoriche à la Habermas (17): è un intreccio di strategie soggettive che, nella loro complessità intercomunicativa ed istituzionale, insieme alludono e formano un quadro trascendentale. Il trascendentalismo è qui connotazione delle condizioni attraverso le quali le strategie comunicano, formano cioè quel tessuto di consenso, di universalità che è - appunto - lo sfondo necessario della comprensione interumana ed intrasistematica. V’è di più: il trascendentalismo cerca fondamento ontologico, o almeno uno spessore ontologico. E’ dentro questa tensione verso i livelli ontologici, verso i soggetti agenti, che le condizioni trascendentali del sapere e della volontà si attualizzano e che i valori si pongono - come sintesi di comunicazione e come prammatica funzionale. Al funzionalismo obiettivo delle teorie sistemiche viene così opposta la forzatura critica di un funzionalismo soggettivo che intende dare all’orizzonte sistemico consistenza trascendentale e ricondurre la validità al valore. Il bordo trascendentale del sistemismo è portato su un limite cui tende la molteplicità delle azioni individuali, su un centro cui si imputa il significato delle azioni dei soggetti. L’ottimismo della volontà sembra quindi voler uscire dalla frustrazione di una mancanza di referente trascendentale e liberarsi dal cinismo cui tale mancanza lo condanna.

Ma questo volere è ontologicamente debole e in definitiva impotente. Può il criticismo rappresentare i processi di autoastrazione della realtà sociale? Se la

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variante sistemica del formalismo si chiude in una dichiarazione di impotenza e nell’incapacità di produrre innovazione, la variante criticistica è non meno bloccata: il limite fra prammatica soggettiva e orizzonte trascendentale ha le stimmate di tutti i cattivi infiniti del pensiero filosofico. Sicché il criticismo del nostro tempo vaga continuamente fra la presupposizione fenomenologica e preriflessiva della legittimazione del valore (e solo in tal modo la comunicazione diviene possibile) e la determinazione quasi dialettica dell’implicazione istituzionale di evidenza e di validità, di coscienza e di intersoggettività (e solo in tal modo senso e consenso si presentano come verità). Ma queste relazioni non sono mai chiuse. La << cosa in sé >>, oggi presentata come << altro >> mondo << in sé >>, resta irraggiungibile. Ogni tensione verso il livello ontologico resta << tensione >>, << intenzione >>, << tendenza >>. Il criticismo non può cogliere il reale - dal reale astratto che è venuto costituendosi davanti a noi esso resta solo confuso.

Quando si trascorre dal terreno della riflessione epistemologica a quello della riflessione etico-politica, il dilemma è altrettanto insolubile, ed il pensiero risulta inabile a districarsi dal cattivo infinito, e lo spazio fra potere e comunità, fra legittimità e legittimazione è tanto confuso quanto indistinto. Il deficit del criticismo consiste nella fatica di fissare un rapporto sempre aperto alla ridefinizione dei referenti, delle polarità: un orizzonte trascendentale che tuttavia, quando assume consistenza, riduce i soggetti a pure utenze, - un orizzonte dei soggetti che quando si sostanzia in strategie adeguate, perde ogni punto di orientamento. Qui, allora, l’ottimismo della volontà (che non è voluto) è subito, è una costrizione cui il fallimento della mediazione induce.

Ma non è questo il destino di ogni filosofia della mediazione? E che senso ha più porre il problema della mediazione a fronte dei dislocamenti che la realtà sociale ha determinato nel suo processo di autoastrazione? L’autoastrazione sociale comprende la mediazione, la subordina, la sostanzializza come caratteristica della crisi del valore umano di ogni sintesi sociale, come risultato dello sviluppo della ragione strumentale (18). A che pro reintrodurre la mediazione quando è dalla conclusione tragica dei suoi processi che l’ottimismo della volontà è stato costretto a dare irragionevole prova di sé? A che scopo accedere a questo depotenziamento ontologico, che il criticismo e il trascendentalismo dimostrano, quando la mediazione (nella finezza kantiana, nella forzatura hegeliana) ha mostrato l’incapacità di afferrare l’essere - e con ciò ha indotto irrazionalismo e crisi? (19).

Il criticismo contemporaneo, ridotto sul limite del significato umano dell’agire, sul fronte del quale la legittimazione non può più essere data attraverso la tecnica, tenta di riconquistare un orizzonte di mediazione

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trascendentale attraverso la comunicazione. Ma la comunicazione non può essere metacritica, non può essere fondativa. Essa è il terreno su cui esercitare la critica. E’ il risultato dell’autoastrazione del reale, è tessuto ontologico. Le parole sono enti. Il mondo è l’essere parlato e riprodotto nella comunicazione. La vita è la lotta che si sviluppa in questo ambito, ed è crisi e trasformazione. Sul terreno della comunicazione si mostrano le potenze dell’essere, in tutta la freschezza e la violenza che le caratterizza - strategie, traiettorie, direzioni. Il rapporto critico << avalutatività-decisionismo >> non può perciò essere aggredito sul piano di una nuova teoria della mediazione, che inevitabilmente introduce una metacritica. Una teoria del fondamento - sotto il profilo della volontà e del suo ottimismo, della sostituzione della ragione con qualche depotenziato simulacro. Simulazione di fondamento. Ma a che scopo cercare fondamento? Fondamento di che cosa? Il << trilemma di Münchausen >> è effettivamente insoubile: ogni filosofia della fondazione ultima cade o nella regressione infinita o nel circolo logico o nell’arresto del processo di fondazione (20). Ma se il dilemma altro non fosse che la descrizione della nostra realtà? Perché è scetticismo accettare che questa realtà linguistica e comunicativa fissi la sua verità non nel fondamento ma nella sua mancanza? Sulla apertura delle infinite strategie che sul bordo dell’essere s’affacciano nel tentativo di costruire la vita? Lo scetticismo è un dato certo - è l’universo mondano che viviamo. Di qui comincia la filosofia - il pensiero comprende le proprie condizioni come struttura dalle infinite aperture e queste condizioni sono ontologicamente varie ed instabili - descrivibili in termini tradizionali riferibili allo scetticismo. Ma perché mai questa condizione dovrebbe fissare il pensiero dell’impotenza? Perché mai contingenza dovrebbe essere negazione della ragione? (21) Di contro, sul suo bordo trascendentale, la strategia etica, come interazione comunicativa, trova ed accetta e lavora sulla crisi di ogni orizzonte trascendentale. La trascendentalità, l’universalità è compresa in una istituzionalità che è precostituita - condizione pregressa di costituzione. In un’istituzionalità che non è altro che immersione nel mondo della vita da parte dei soggetti, corrispondenza del mondo del pensiero con il mondo della vita e tensione verso la costituzione di altri spazi di vita e di pensiero (22).

Il funzionalismo soggettivo, le filosofie dell’interazione comunicativa non sono dunque altro che soluzioni oblique e contraddittorie rispetto ai problemi ed alla descrizione del mondo che il funzionalismo oggettivo, il sistemismo (nella grande svolta linguistica della filosofia contemporanea) ci consegnano, mistificandoli. Anche le filosofie dell’interazione comunicativa colgono brani di questa problematica - rivendicando il ruolo della soggettività. Ma che soggetto è questo che ci consegnano? Un soggetto che va ancora a cercare mediazioni critiche, trascendentali, indeterminate, indefinite... No! Di contro, il

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soggetto nasce già dentro un nuovo assoluto livello di autoastrazione della realtà. Non abbiamo bisogno dell’ottimismo della volontà - perché siamo finalmente a contatto di un nuovo orizzonte ontologico.

5. Comunicazione, antagonismo, soggetto.L’equivalenza del termini dell’universo della comunicazione è indifferenza.

L’indifferenza può essere rotta solo dall’antagonismo soggettivo che attraversa quest’universo. La stessa definizione del soggetti è derivata dall’antagonismo. L’antagonismo è creativo della soggettività ma, contemporaneamente, è costituzione dell’etico. Ottimismo della ragione e, forse, pessimismo della volontà.

Se tuttavia pensiamo in termini di autoastrazione e consideriamo il soggetto come iscritto nel solito mondo della comunicazione linguistica, di nuovo paradossalmente possiamo trovarci dinanzi all’opportunità di utilizzare come strumento di orientamento etico i comportamenti prescritti dall’aforisma sul pessimismo della ragione e sull’ottimismo della volontà. Essere investiti dalla totalità dell’autoastrazione significa infatti sentirsi parte della totalità del mondo della comunicazione, articolazione della mano immateriale che lo regge, organismo di questo mare profondo. Dentro la serie infinita delle relazioni che si stendono attorno a qualsiasi punto di questo universo, dentro i rapporti che costituiscono i poteri, solo una limitazione - si argomenta -della pretesa razionale può permettere al soggetto di orientarsi. La pretesa alla percezione della totalità dei nessi sarebbe impensabile, comunque impraticabile. L’orientamento è possibile a partire dalla razionalità limitata, dalla attenta discriminazione di ogni effetto perverso che si può comunque produrre, dall’investimento strategico delle contingenze. Occorre epistemologicamente arrangiarsi: pessimismo della ragione (23). Ma su questo orizzonte contingente la volontà può muoversi con moderato coraggio e prudente consapevolezza. Non si dà morale - non c’è una morale di principi - c’è però una morale casistica, non teleologica, interamente riassorbita nell’orizzonte della probabilità. La totalità del quadro relativistico non si presenta qui come chiave di sovradeterminazione, non produce la sensazione che la totalità possa inquinare e contaminare il mondo, - che quindi si tratti di sottile ma efficace mistificazione e della dimostrazione di un’interiorizzazione inerte del totalitarismo nei soggetti. Quel che è proposto è un attivo senso morale, scettico e insieme fiducioso. Alla Montaigne (24).

Questa conclusione non sembra tuttavia sufficiente ad escludere qualche surrettizia forma di ottimismo della volontà né a garantire che nuovamente non si imponga il coestensivo sofisma del relativismo e del totalitarismo. E’ una metodologia di prudenza ontologica quella che qui è proposta - piuttosto che

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una esatta percezione dell’impatto dell’essere astratto.D’altra parte - lo ripetiamo - rifiutare l’impatto dell’autoastrazione della

realtà sociale è impossibile. Non è possibile dimenticarne o trascurarne le dimensioni oggettive, presenti. E allora tanto vale affrontare di petto, direttamente, con forza, questo mondo. Ed accettare di muoversi su questa superficie della totalità. Accettare la sfida ontologica. Percorrere questi spazi in termini non formati significherà allora accedere ad una serie di atti di discriminazione, di rottura, di separazione. Di antagonismo - quindi di individuazione, dal di dentro, di quel tessuto astratto nel quale solo esistiamo. Intendo dire che il processo di individuazione, di autoidentificazione dei soggetti collettivi si offre solo attraverso una riflessione di separazione, di autodefinizione corporale, di autodeterminazione materiale (25). L’atto di autoriconoscimento non è quindi rivolto alla totalità dell’autoastrazione - certo, si scontra con la mistificazione ideologica di questa e mostra a totalità come tessuto nel quale siamo e nel quale dobbiamo separarci [separarsi ?] per esistere - ma è l’intensità della separazione, la forza di riconoscimento dell’antagonismo che ci costruiscono come singolarità - come soggetti.

Ora, se operiamo una sezione sincronica del tessuto dell’autoastrazione reale, o di un suo tratto (per essere più realisti), noi scorgiamo punti di autoimputazione, potenze di autovalorizzazione, dimensioni di libertà. Se operiamo la sezione su un tratto diacronico noi scorgiamo percorsi di conflitto da parte dei soggetti che si sono liberati da ogni relazione dialettica con la totalità - che della totalità esigono tuttavia di essere coestensivi perché il loro sviluppo è etico e politico assieme. Queste strategie ontologiche soggettive sono collettive - presuppongono l’autoastrazione come ambito di produzione, riproduzione, circolazione e in essa fondano eticamente il loro riconoscimento politico e il loro costituire nuovi margini, nuovi spazi dell’essere. Su quella superficie dell’essere che l’autoastrazione ha determinato - ivi si scontrano soggetti che hanno una corporeità determinata. Il conflitto non è di valori - il conflitto è di soggetti. Solo l’ideologia e la mistificazione continuano (e, se lo possono, forzosamente) a imporre conflitti di valori, - l’etico e il morale, il morale e il politico, scene di fantasmi - e, a fronte del continuo riemergere di corposi soggetti e di forze collettive, a rotolarsi nel sudiciume della privatezza e nei residui del foro interno, - nei patemi del privato e dell’individualistico.

Una sola osservazione, in aggiunta a quanto fin qui detto. Noi siamo abituati ad una serie di contraddizioni che qualificano la nostra esistenza nell’immediato: coercizione e libertà, comando e obbligazione, capitale e lavoro, ecc. Ora ci troviamo nuovamente davanti a queste contraddizioni (che nessuna rivoluzione è riuscita a strappare alla realtà) - ma esse sono

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profondamente mutate - perché sono state dislocate sul terreno astratto dell’essere sociale. Come appaiono dunque? Esse appaiono solo quando la soggettività le ha riqualificate a questo livello. Queste contraddizioni non sono superate ma solo dislocate. Trasformate, - in una dislocazione che rischia di farle divenire ambigue ed insensate - postmoderne? No, qui la soggettività (essa stessa dislocata) le recupera al significato dell’esistenza, al senso dell’essere, all’etico (26). L’etico - hegelianamente il morale e insieme il politico - è vivere nella totalità del mondo e conoscerlo, è vivere conoscitivamente gli antagonismi fra soggetti che qui si pongono. Vi sono tante etiche e tante politiche quante sono le emergenze soggettive - attraverso l’esperienza del quotidiano scontro fra questi soggetti la realtà si costituisce e nuova realtà viene creata. Il pessimismo della ragione non ha più senso - a questo punto - poiché questo emergere di realtà soggettive è costituito di essere - un essere che cresce. L’ottimismo della volontà è altrettanto insensato perché la volontà non può costituire essere, cogliendo se stessa come elemento di compensazione della mancanza di razionalità. Al contrario, la ragione piantata nell’essere dei soggetti collettivi è chiamata ad esprimere valori assoluti nel conflitto. Il conflitto è fra valori assoluti, collettivi, produttivi, e che pretendono di essere forze costitutive - (se ci è qualche pessimismo possibile, questo può essere attribuito solo alla volontà, poiché essa scontra l’assolutezza del conflitto e conosce l’ampiezza, la trasversalità e l’asprezza del conflitto e dei percorsi del conflitto). Vince chi ha più contenuti di razionalità sui quali formare la comunicazione, - l’antagonismo si prova su assi che mostrano (poiché l’autoastrazione è determinata) la più alla concretezza corporea. Il rifiuto della totalità ideologica, della fluidità delle posizioni, delle mediazioni, giunge così a rappresentarsi l’assunzione della comunicazione come unico orizzonte reale. E solo la verità può dominare, sovradeterminare la comunicazione.

Ma ogni affermazione di verità è un conflitto ed ogni conflitto è un crescere dell’essere, un suo nuovo, ulteriore costituirsi. Sapere aude! Ottimismo della ragione quindi in quanto costruzione continua dell’essere; pessimismo della volontà, perché questo costituirsi - attraverso la molteplicità etica - filtra antagonismo e deve sempre riplasmarsi sulla continua e diversa multiforme emergenza del mondo e del soggetti. Prodotto e produzione, produzione e riproduzione e circolazione. Ogni cinismo è tolto. La forza della ragione è tanto più luminosa quanto più si dà altezza nel conflitto. La ragione è reale perché attraverso. Il conflitto dei soggetti costruisce realtà. L’errore, la falsità sono elementi della volontà, debolezza e falsi percorsi. Il realismo della ragione attraversa discontinuità e dialogo: nessuno potrà mai subordinare la qualità della verità alle modalità delle sue espressioni. Realistica è la ragione quando costituisce essere - in quanto attraversa la posizione di nuova vera, allarga la

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dimensione della comunicazione e del conflitto. E disloca continuamente in avanti l’intelletto collettivo. Non semplicemente a scoprire l’esistente ma a creare nuovi spazi di esistenza. Nuova materia, nuova realtà comunicativa, comunità razionale. Così la ragione procede.

Non vale certo la pena di parlare di illuminismo o di neoilluminismo - poiché la forza che si muove non trascende il mondo come illuminazione - il mondo non è trascendibile - il mondo è creazione continua dell’intelligenza collettiva, attraverso gli antagonismi dei soggetti che dell’intelligenza collettiva sono i portatori. Né questo processo ha caratteristiche teleologiche - solo casualità materiali, produttive - e l’assolutezza della ragione non viene meno né muta nello scambiare l’obiettivo o finalità. Perché la ragione e l’essere sono lì - e l’essere è razionale solo nella misura nella quale la ragione lo costituisce - i soggetti, l’antagonismo, la comunicazione: questo mondo è quello che possediamo e con infinita pazienza e con infinito realismo continuiamo nazionalmente ottimisti a trasformarlo, a costruirlo (27).

6. Ottimismo della potenza.Il rovesciamento del paradigma aforistico fin qui considerato non ci introduce

in un mondo ideale né sfiora l’utopia. Al contrario, ci inserisce realisticamente nel territorio etico dell’assoluta contingenza. L’uomo ha costruito la possibilità della distruzione dell’essere, la potenza umana si è ingigantita fino a confrontarsi assolutamente con il non essere: come porre il problema etico, quello politico e quello della produzione su questo orizzonte?

Il conflitto si presenta dunque, nel mondo della comunicazione, come conflitto fra diversi soggetti etico politici. E si presenta laddove, nel ricostruire in ogni momento il mondo, pratiche determinate oppongono l’un l’altra scenari di valore - le pratiche oppongono assolutezza e richiedono essere. Verità, valorizzazione, legittimazione si danno nell’esperienza che è prodotta dai soggetti collettivi. Se il passato ha il segno della necessità perché l’azione dei soggetti si è compiuta, l’avvenire ha il segno della potenza. Diverse dimensioni, paradigmi globali del sapere e della vita si oppongono su questa scena - e si dislocano e continuamente ridefiniscono orizzonti di totalità. Ma questa totalità null’altro è che l’universale della comunicazione, la sua possibilità in atto (28).

Cerchiamo di vedere qua li siano i punti attorno ai quali i soggetti collettivi, in questa fase dell’astrazione dell’essere sociale, su questo bordo dell’essere determinato, soprattutto si scontrano. Punti fondamentali, cifre, scadenze dell’essere. Ora, a me sembra che - nella compatta sfera della comunicazione, laddove il mondo per acquistare senso si svolge nella vita - si presenti un enorme contesto di tendenze e di antagonismi, un tempestoso orizzonte di forze

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costitutive. Noi possiamo solo indicare, come se si trattasse di descrivere uno spettro ottico, le fasce fondamentali di opposizione - quando le fonti luminose che dai molti soggetti collettivi promanano, si incrociano nella sfera della comunicazione. Nell’ordine logico, che dalla parzialità del mio punto di vista riesco a determinare, mi sembra che attorno a tre punti, fondamentalmente, valga la pena di soffermarsi - il conflitto sul terreno della sopravvivenza del genere umano, il conflitto sul terreno della convivenza dei soggetti, e infine il conflitto che investe le forme della produzione e della riproduzione del mondo.

Ognuno di questi conflitti è determinato dalle potenze dell’essere esistente, su un piano di radicale innovazione della problematica filosofica. Il dislocamento, l’autoastrazione del mondo non è un processo di essenze ideali ma una determinazione di potenze materiali. La distruzione del mondo è solo oggi divenuta possibile: è fuori di dubbio quindi che la soppressione del mondo e della vita, l’attualità dell’essere stesso, rappresentano un problema qualificato in termini specifici da quella possibilità. Il problema della convivenza dei soggetti e delle norme costituzionali del loro rapporto è - in secondo luogo - completamente innovato dalle condizioni astratte nelle quali il rapporto formalmente si costituisce e dalla caduta di ogni possibilità di gerarchia e subordinazione che ripeta la tradizione del dominio.

E’ necessario allora identificare una nuova sovradeterminazione globale? E’ cosa possibile? E, se no, come tutto induce a ritenere, qual’è la forma della libertà e della comunità fuori da ogni orizzonte e determinazione dell’obbligazione? << Legitimation durch Verfahren >> - in queste condizioni irreversibili di eguaglianza, o di equipollenza, di trasversalità, di potenza dei soggetti collettivi che cos’è? (29) E infine in terzo luogo, il terreno della produzione e della riproduzione materiali - delle libertà soggettive e dei nuovi diritti soggettivi che competono ai soggetti a questo livello di astrazione produttiva e di composizione materiale (30). Questo ordine di problemi è proprio della ragione: in essa le alternative si presentano nettamente e i diversi sensi delle opzioni, fra distruzione e desiderio di sopravvivenza, fra desiderio di sopravvivenza e creatività sociale e collettiva, fra creatività collettiva e norme di comunità - e fra quest’ultime e la formazione e la riproduzione dei soggetti - trovano chiarezza e le trafile delle opzioni coerenza. Qui il soggetto collettivo assume l’assoluto come presupposto - in ciò consiste l’ottimismo della ragione. Il mondo è attraversato da molte di queste potenze ed il problema della ragione è quello di investirle e di misurare la propria potenza e quella altrui. Di avvicinare il proprio corpo all’altrui.

Di contro, qui la volontà riconquistata, in questo ruolo di servizio alla ragione ed alla sua universalità, un luogo specifico. Che è quello di esprimere la

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moderata violenza dell’assoluto nella costituzione dell’universo umano. Cupiditas, dolcezza della trasformazione è quindi pessimismo della volontà. Ovvero l’assoluto va controllato sull’arco dei desisderi che si stendono fra assolutezze. Questo controllo la volontà lo esercita dal di dentro dei soggetti collettivi, - finalmente l’autoastrazione del reale ha appiattito l’orizzonte della società, rendendolo disponibile solo a matrici di comunicazione lineare. L’astrazione reale toglie la possibilità di astrazioni funzionali, simboliche, rappresentative, amministrative. Il terribile imbroglio della volontà generale è demistificato. L’astrazione reale toglie la possibilità della mediazione. E, assieme alla mediazione, toglie la possibilità del comando, che solo la mediazione può costruire. Se si dà comando, esso è solo usurpazione - non alienazione, in senso tradizionale (poiché alienazione è comunque rapporto dialettico), bensì violenza e ferocia, perché l’alienazione non è più possibile a fronte di questi soggetti collettivi e l’ultima possibilità della mediazione è con ciò caduta. Il pessimismo della volontà è prudenza e realismo - ma non come ultima variante dell’arte del comando (sicché alla scienza segue il maquillage estetico della << volontà astuta >>) - bensì lettura scientifica delle potenze dei soggetti e ricerca continua delle compatibilità delle assolutezze. Il pessimismo della volontà è distruzione di ogni robinsonata neocontrattualista. Esso dice: not contract but compact - non affidamento o trasferimento di sovranità, bensì insistenza istituzionale su corpi collettivi e accordo solo a partire dall’irriducibilità strutturale dei soggetti (31).

La scienza politica si svolge così fra un polo ontologico ed un polo cognitivo - e dunque come semiotica del sociale e identificazione ontologica dei soggetti politici, da un lato, nella dimensione globale del mondo della comunicazione, dentro l’astratta materialità di cui è composto ciascun soggetto e la concreta dinamica della sua autovalorizzazione - e questo è il polo ontologico. D’altro lato la scienza politica è una pratica della volontà, una conoscenza che, a tastoni, cammina sul tessuto delle interferenze, delle interdipendenze, delle interruzioni, delle asimmetrie aperte fra i soggetti. La razionalità è dei soggetti. Alla scienza politica sfugge, quando voglia porsi fra i soggetti, ogni possibilità di fondazione - e con tanta maggior ragione ad essa sfugge anche ogni capacità di comprensione, perché la scienza non si dà, essa stessa, come punto di vista che non sia soggettivo. Solo i soggetti producono attività ed essere. La crisi delle scienze umane - dalla scienza dello Stato alla scienza economica - nel nostro tempo è rappresentativa della assoluta estraneità, della vanità della posizione nella quale esse si collocano nei confronti dei soggetti. Solo la teologia, in gloriosi periodi di innovazione scientifica, conobbe altrettanti momenti di sterilità (e di conseguente ferocia). Le scienze umane sono a questo punto pure e semplici ideologie - ideologie tratte a piena insignificanza dal fatto

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di instaurarsi come mediazione folle, non radicata e non radicabile, come tradizione particolare, in un ambito di generale astrazione nel quale la consistenza e la forza dell’astrazione dei soggetti (e l’impermeabilità del rapporto fra soggetti) è totale. Solo la ragione, questa corporea potenza di ciascun soggetto che trasforma l’interesse in identificazione, l’identità in produzione, la produzione in autovalorizzazione e in autodeterminazione - solo la ragione, dunque, si presenta al mondo come potenza scientifico-pratica. Il campo di influenza e l’interferenza che si stende fra vari soggetti è solo un terreno lasciato all’opportunità ed alla moderazione dell’intervento trasformativo - conoscitivamente solo l’inchiesta vi si pone come registrazione del reale (32).

Ecco dunque perché a me sembra che l’aforisma tradizionale << pessimismo della ragione-ottimismo della volontà >> vada semplicemente rovesciato (33).

NOTE

1) Cfr. Paolo Spriano, Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. Come quella << massima >> arrivò fino a Gramsci, in: << Il Corriere della Sera >>. lu nedì 29 ottobre 1984, p.3.

2) Cfr. Antonio Negri, Alle origini del formalismo giuridico, Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962.

3) cfr. Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano, 1959.

4) Se la relazione fra determinismo e volontarismo etico si sia mostrata sotto il segno della generosità o sotto quello del cinismo, solo il giudizio dei posteri potrà dirci: certamente, tuttavia, la sofferenza degli uomini non è riuscita a distinguere fra utopia e fanatismo! E se nessuno potrà mai filologicamente indurre ascendenze kantiane dello stalinismo o di altre pratiche liberticide, troppo hanno vissuto la tragedia dell’ambiguo rapporto determinismo-volontarismo Di nuovo, sugli effetti teorici del dualismo kantiano e della tradizione neo-kantiana. cfr Antonio Negri La filosofia tedesca del Novecento, in: << Storia della filosofia >>, diretta da Mario Dal Prà, vol. << La filosofia contemporanea: II Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978.

5) Per quanto riguarda la scuola weberiana, e la sua decisiva importanza nel definire questi parametri del giudizio filosofico-politico, cfr Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1966), in: << Annuario bibliografico della filosofia del diritto >>, Giuffrè, Milano, 1967, - ma, soprattutto, Antonio Negri. La forma Stato. Per una critica dell’economia politica della costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977.

6) Nella discussione sviluppatasi nell’ambito delle correnti neo-marxiste italiane soprattutto negli anni `70, l’insistenza sull’irriducibilità del politico all’analisi delle lotte sociali è stata spesso così importante da trasformare quest’insistenza in apologia dell’irrazionalittà e dell’autonomia del politico. Contro la conclusione irrazionalista si veda, oltre al mio La forma Stato, gli scritti contenuti in Operai e Stato, Feltrinelli, Milano, 1972; Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano, 1974; dove si sono raggruppati. con l’autore di questo scritto. tutti coloro che hanno rifiutato la tesi dell’autonomia e dell’irrazionalittà del politico. Vede inoltre gli articoli raccolti in Scienze politiche 1 (Stato e politica), << Enciclopedia Feltrinelli Fischer >>, n. 27, a cura di Antonio Negri. Feltrinelli, Milano 1970, e Dizionario critico del diritto, a cura di Cesare Donati, Savelli ed., Roma 1980.

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7) Cfr. Peter Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt am Mein, 1983.

8) N. Luhmann, Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissensoziologie der moderner Gesellschaft, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt 1980-1981: cito questo volume come punto di riferimento della critica. Per quanto riguarda la bibliografia di Luhmann, basti ricordare che in Italia tredici suo volumi (o raccolte di articoli) sono stati editi.

9) Con ovvio riferimento allo sviluppo della filosofia linguistica fra Frege e Wittgenstein. Su questo sviluppo confronta Michael Dummett, Frege, Oxford, 1973 e Roberta De Monticelli. Dottrine dell’intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, Bari, De Donato, 1981.

10) Mi riferisco qui essenzialmente alla critica sviluppata dal prof. Gustavo Gozzi, che ha seguito lungamente ed attentamente lo sviluppo del pensiero di Luhmann nella rivista italiana Aut aut. Ma si veda ancora: R. De Giorgi, Scienza del diritto e legittimazione, De Donato, Bari, 1979 e soprattutto Jürgen Habermas, Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp. Frankfurt, 1973.

11) Paradossale è, ad esempio, l’utilizzo che del pensiero di Luhmann si è fatto e si fà nell’ambito del dibattito interno al Partito comunista italiano. Cfr. in particolare gli scritti di Massimo Cacciari, e fra questi soprattutto Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo, Feltrinelli, Milano, 1975. In proposito cfr. comunque il mio Macchina tempo, Rompicapi costituzione liberazione, Milano, Feltrinelli, 1982.

12) Per lo sviluppo del concetto di << sussunzione capitalistica della società >> cfr, Antonio Negri, Marx oltre Marx, Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, 1980.

13) Tutto ciò è completamente sviluppato ne La condition postmoderne di Lyotard.

14) Cfr, Antonio Negri. L’istituzione logica del collettivo e le fatiche dell’estetica, in Aut aut, 197-198, settembre dicembre 1983. Firenze. la Nuova Italia ed., pp. 133-142.

15) Tale è il senso dell’apologia del postmoderno, dello scambio simbolico e dell’indifferenza in Baudrillard.

16) Di Jürgen Habermas, oltre al già citato Legitimationsprobleme, cfr, il recente Theorie des kommunikativen Handelns.

17) Vedi in proposito i contributi della scuola habermassiana che sono stati pubblicati nel numero speciale di Critique, << Vingt ans de pensée allemande >>, 413, octobre 1981, Paris. In particolare sono interessantissimi gli interventi di K.O. Apel (di cui vanno inoltre visti i due volumi Transformation der Philosophie) e di E. Tugendhat (di cui è da vedere anche Selbstbewusstsein und Selbstbestimmung).

18) Da questo punto di vista l’insegnamento di Theodor Wiesegrund Adorno e di Max Horkheimer resta fondamentale, soprattutto nell’opera comune Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente.

19) George Lukacs, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag, Berlin, 1953.

20) Il cosiddetto << trilemma di Münchausen >> è stato formulato da K. O. Apel.

21) Com’è noto, al rovesciamento di quest’affermazione è completamente dedicato lo sviluppo del pensiero di Gilles Deleuze.

22) I Mille Plateaux di Deleuze-Guattari vanno a questo proposito tenuti n massima considerazione. Il processo di pensiero che nell’opera citata è sviluppato va nel senso della mia considerazione della crisis e del suo possibile superamento.

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23) Un simile atteggiamento è soprattutto presente in quello che si chiama << contrattualismo >> o << neo-contrattualismo >> nelle teorie etiche e del diritto. Il testo fondamentale è naturalmente John Rawls, A Theory of Justice, Oxford, 1972. Ma sulle recenti fortune di questo rinnovo tematico cfr, Philip Pettit, Judging Justice. An Introduction to Contemporary Political Philosophy, Routledge & Kegan. London, 1980. In Italia questa linea ha avuto particolare fortuna nel lavoro di alcuni filosofi legati al PCI, come Veca, ecc. In generale si tratta, nel dibattito Italiano, di definire una prospettiva di risposta liberate all’impatto del sistemismo tedesco.

24) In parallelo alle teorie neocontrattualistiche si sviluppa in Italia quella che dal titolo della recente fortunata collezione di saggi a cura di Rovatti e Vattimo si chiama corrente del Pensiero debole (Feltrinelli, Milano, 1984).

25) Ho sostenuto questa definizione della soggettività nei saggi politici degli anni ‘70: cfr, in particolare Crisi dello Stato-piano (1974), Proletari e Stato (1976), Il dominio e il sabotaggio (1978), tutti pubblicati nella collezione << Opuscoli marxisti >> dell’ed Feltrinelli, Milano.

26) Ho sviluppato questa posizione nel saggio Il comunismo e la guerra, Milano, Feltrinelli, 1980, oltre che nel già citato La macchina tempo.

27) E’ evidente che su questo snodo il mio lavoro teorico si incrocia con quello di storico della filosofia: cfr Antonio Negri. L’anomalia selvaggia. Potenza e potere nella filosofia politica di Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981.

28) In questo capitolo seguo l’ordine del ragionamenti e dei problemi sviluppati ne La Macchina tempo, cit., e soprattutto nel saggio di apertura di questo volume (<< Prassi e paradigma >>) e in quello di chiusura (<< La costituzione del tempo Prolegomeni >>).

29) La questione è posta essenzialmente da Luhmann. Ma il problema di una teoria della legittimazione che attraversi e si provi nell’esperienza è ormai assolutamente generale: si potrebbe dire che nel conflitto tradizionale fra teorie normative e teorie processuali del diritto, solo queste ultime hanno ormai diritto di cittadinanza. D’altro lato è proprio a questa paradossale conclusione che giunge il più coerente del normativisti, Hans Kelsen, nel suo ultimo, postumo, formidabile lavoro Allgemeine Theorie der Normen, Wien, 1979.

30) Che la libertà mantenga un riferimento materiale, che sia impossibile definirla sul terreno dello stretto diritto, che essa competa alla vita intera dell’uomo, ed alla sua fisicità, - bon, questo mi sembra il presupposto di quest’approccio e quindi di una polemica continua ed irriducibile contro qualsiasi filosofia idealistica.

31) Altrove ho cercato di sviluppare una concezione del diritto anticontrattuale ed istituzionale. In ciò sono stato molto influenzato dalle teorie del federalismo, ed in particolare dal pensiero di Calhoun. Con quanta antipatia io concepisca la tradizione rousseauiana (con il suo antecedente hobbesiano e il suo conseguente hegeliano) non starò qui a ripeterlo. Di molto mi ero comunque avvicinato ad una concezione antagonista del processo costituzionale, oltre che nel mio la Forma stato, che in parte raccoglie saggi degli anni ‘60, - in La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, Area, Milano, 1976 (ma si tratta di scritti degli anni `60).

32) In Habermas tutto ciò è chiarissimo. Spesso in lui il trascendentale si diluisce in questa forza de << fare inchiesta >>, del fare << scoperta di verità >>: la << scuola critica >> in proposito è fondamentale. Il mio riferimento ad essa, ad Adorno, ad Horkheimer, e soprattutto ai più giovani autori, da Hans Jürgen Krahl, a Offe, è stato continuo.

33) Intendo dire che il cogito Cartesian deve accompagnarsi alla pietas spinoziana. Cfr. In proposito A. Negri, Descartes politico, o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970; e << Reliqua desiderantur >> Congettura per la definizione del concetto di democrazia nell’ultimo Spinoza, in: << Studia spinozana >>, à paraitre.

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7. Lenin a New York. Progetto di lavoro.La lettera zero da Montreal contiene due indiscutibili affermazioni: il vecchio

operaismo era completamente inadatto a cogliere i meccanismi dello sfruttamento capitalistico del Terzo Mondo; in secondo luogo, esso era incapace di dare ragione del lo sfruttamento familiare - di quello della donna in particolare. Si potrebbe forse attenuare il tono della polemica, ricordando che talora si ebbero momenti di più acuta riflessione sulla vicenda del Terzo Mondo, soprattutto fra il 1971 e il 1974 in riferimento alla prima crisi del dollaro e del petrolio: in quel caso la funzione non solo destabilizzatrice bensì destrutturante del movimenti di liberazione del Terzo Mondo fu adeguatamente descritta sul livello teorico. Parimenti, si potrebbe ricordare che, oltre la contribuzione teorica del << movimento per il salario al lavoro domestico >>, si ebbero (nell’ambito dell’operaismo autonomo negli ultimi anni `70) importanti analisi sulla funzione del lavoro femminile di riproduzione nell’accumulazione capitalistica e nella costruzione del valore sociale medio. Ma attenuare il tono della polemica non significa mettere in dubbio la sua sostanziale correttezza per quanto riguarda questi argomenti.

Diversa mi sembra la situazione quando la lettera zero affronta, per liquidarlo definitivamente sia pure ambiguamente, il discorso sul rapporto fra lavoro e comando. A me sembra che l’analisi della crisi della legge del valore (e di quella della relazione fra valore e comando) debba condurre non ad un’eliminazione bensì ad una riqualificazione del rapporto di valore fra lavoro e comando. Le ragioni per cui non accetto l’eliminazione pura e semplice della problematica allusa dalla legge del valore sono molteplici. Per dire subito quelle di carattere politico, eccole. In primo luogo mi sembra che, dal punto di vista capitalistico, la scienza economica (e quella della gestione) siano attentissime al pieno utilizzo della legge del valore nelle sue più tradizionali funzioni. Questo significa che il vecchio materialismo economico continua a funzionare come scienza settoriale dello sfruttamento. E’ quindi altamente probabile che la critica di questo comportamento capitalistico continui ad essere politicamente rilevante. In secondo luogo, quando, dal punto di vista operaio, si scarta la presunzione classica di conoscenza del mondo di lavoro e, con l’acqua sporca (legge del valore), si getta anche il bambino (e cioè il tessuto problematico del rapporto fra lavoro e comando), si conclude normalmente a posizioni politicamente inaccettabili: di << autonomia del politico >>, e ciò significa di tradimento socialdemocratico sul lato destro oppure di estremismo terroristico sul lato sinistro dello schieramento di classe.

Bisogna, di contro, mantenere la centralità dell’analisi del rapporto fra lavoro e comando. E’ certo che la legge del valore è limitata: essa definisce e fissa la

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forma del rapporto fra lavoro e comando unicamente per il periodo di egemonia del lavoro industriale di fabbrica. Storicamente, la validità della legge del valore si afferma, con difficoltà crescente, nella serie dei cicli dello sfruttamento che conduce dai primordi della produzione capitalistica al modo di produzione << grande industria >>. I meccanismi della << sussunzione formale >> della società nel capitale permettono, nel medesimo periodo, il funzionamento della legge per l’intera società. Oggi, invece, come già - nota bene - nel periodo dell’accumulazione primitiva, la legge del valore non funziona come legge generale. Può, come abbiamo accennato, costituire una scienza settoriale dello sfruttamento ma, come già nel periodo dell’accumulazione primitiva, essa non spiega il modo di produzione né la forma egemonica dello sfruttamento. La dimensione sociale dello sfruttamento nell’epoca della << sussunzione reale >> della società al capitale (così come la qualificazione sociale delle condizioni della accumulazione primitiva) sfuggono infatti alla legge del valore. Ora, se il fatto che la legge del valore non funziona nel periodo dell’accumulazione primitiva non ci ha in alcun modo impedito di andare a vedere come e con quale quantità di terrore e di sangue, l’originario soggetto capitalistico abbia costruito un nuovo modo di produzione, abbia cioè stabilito un rapporto fra lavoro e comando che stravolgeva l’antico nesso, esaltando una straordinaria nuova capacità di estrarre valore, - così oggi, il fatto che la legge del valore non funzioni a fronte della << sussunzione reale >> non significa dimenticare che al centro dell’analisi deve restare il rapporto fra valore e comando, cioè il modo in cui, attraverso sfruttamento, si estrae valore, quail che siano le sue attuali dimensioni.

E’ chiaro che le questioni da porre sono oggi molto diverse da quelle di un tempo. Eccone alcune: qual’è la dimensione << americana > o << postmoderna >> dello sfruttamento? Qual’è la dimensione << americana >> o << antimperialista >> della liberazione? Che senso ha parlare di << rifiuto del lavoro >> nella << sussunzione reale >>? Ecc, ecc. Ma queste domande, pur spostando completamente l’analisi al di fuori dell’improduttivo formalismo del valore, implicano tuttavia che il rapporto fra lavoro e comando sia mantenuto come tema centrale. Siamo probabilmente maturi per sostituire al vecchio disegno di << Lenin in Inghilterra >> (disegno rivelatosi utile per seguire dall’interno l’epocale trasformazione che ci ha qui condotti) un nuovo progetto di ricerca e di pratica sociali << Lenin a New York >>.

Nell’affrontare queste tematiche noi partiamo dal possesso di un ricchissimo materiale grezzo che riguarda entrambi i poli del rapporto di sfruttamento, sia cioè il lavoro che il comando. Questi materiali sono grezzi, - ed è bene che restino grezzi, almeno fino a quando non avremo costruito un’idea direttiva

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forte per la loro ricomposizione. Ma il fatto che siano grezzi, non toglie la possibilità, meglio l’opportunità di un iniziale lavoro di riordino. Così, ad esempio, i temi (a) spaziali della mobilità della forza lavoro, (b) temporali della flessibilità della giornata lavorativa, (c) qualitativi, e cioè della natura del lavoro (per esempio, problemi, di definizione della forza invenzione, << general intellect >>, qualità dell’astrazione, del bisogno, del piacere, ecc.) - tutti questi temi possono divenire centrali nella definizione strutturale del << rifiuto del lavoro >> a livello di << sussunzione reale >>. Sia sul piano interno che sul piano internazionale, sia ad alto che a basso livello dello sviluppo capitalistico, e nell’integrazione e nella trasversalità di questi piani e livelli. Dicevamo: definizione << strutturale >> e non soluzione << soggettiva >>, perché non siamo in grado di proporre quest’ultima, - se fossimo capaci di questo, di riproporre cioè la tematica del soggetto sulle dimensioni oggi richieste dai processi di << sussunzione reale >>, significherebbe che il problema della rivoluzione è ridiventato attuale - il che non è vero. Eppure, il dirompersi spaziale e temporale del lavoro e del rifiuto del lavoro, l’esaltazione astratta della loro natura, aprono enormi possibilità e vie di improvvisa maturazione.

Seguiamole, queste possibilità. E nel seguirle, ad esempio, affrontiamo il problema anche da altri punti di vista. Nella fattispecie, cominciando a guardare con attenzione pienamente dispiegata, non più intimidita dal feticismo della fabbrica, la forma capitalistica della costituzione sociale della produzione, oggi. Temi come (d) la natura del capitale fisso sociale, oggi, ovvero la composizione organica sociale di capitale; come (e) il nuovo rapporto (e le sue nuove tecnologie) fra produzione, riproduzione, circolazione, ecc. ecc. - bene, temi del genere non sono per nulla scontati. Anzi: ed è con tutta probabilità proprio a partire dalle risposte a questi problemi che si tratta infine di percorrere (f) la fenomenologia di quel vuoto di conoscenza e di valore che, nel mondo produttivo, si accompagna oggi ad un pieno di controllo, di repressione e di minaccia di distruzione - sicché il cervello capitalistico rappresenta oggi emblematicamente (nel diritto, nella gestione dell’orizzonte monetario, nella continua riaffermazione dell’autonomia del comando, nel caos dei processi amministrativi, bancari, ecc.) la crisi di tutte le relazioni fra lavoro e comando, insomma, di nuovo la crisi della legge del valore, il realizzarsi critico della tendenza negativa della produzione capitalistica...

Con ciò torniamo alla premessa, e cioè a definire il rapporto fra capitale e lavoro, fra comando e forza lavoro, in quanto stabilito al di là di ogni relazione possibile. E si comprende ora perché abbiamo chiesto di non concedere nulla immediatamente alla teoria della crisi: non vogliamo infatti dimenticare la figura strutturale della crisi, le dimensioni materiali dei soggetti e delle funzioni

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che in essa si muovono, perché soltanto questa mediazione conoscitiva ci permette di assumere l’intera originalità della situazione. Questo è infatti momento di rivendicazione della logica - nel senso che la crisi non cancella la logica - cancella le vecchie relazioni che la logica recepiva e santificava. La crisi cancella quella legge del valore che conoscevamo, non cancella i termini materiali dello sfruttamento. C’è ancora chi comanda e chi è comandato, chi soffre il lavoro e chi di quel lavoro gode e si arricchisce. Dunque, fermi i termini logici del problema, l’originalità della crisi attuale consiste nel mostrare l’impossibilità di comprenderla comunque in termini dialettici. La dialettica implica una fenomenologia di rapporti strutturali e simmetrici, qui i rapporti sono in ogni caso asimmetrici, quando non siano catastrofici. Il sistema dei rapporti di produzione e quello dei rapporti di potere non si ricoprono positivamente - quanto a ricoprirsi in << ultima istanza >>, questo può darsi solo nella figura del ricalco negativo. La negazione dialettica implica un criterio di omogeneità nel costituire l’opposizione, qui l’opposizione è alternativa. Il processo dialettico è lineare, qui ogni processo è per definizione discontinuo. Ecc. ecc. Detto questo, avendo doe nuovamente insistito sulla qualità ontologica di ogni definizione, possiamo ora concludere che se la crisi appare come distruzione di ogni relazione, la teoria quindi si presenta come possibilità di andar oltre ogni dialettica e come necessità di distruggere anche gli ultimi residui di un linguaggio mistificato che s’insinuava nel nostro desiderio e nel nostro pensiero.

Nel vecchio operaismo c’era un’idea centrale: quella della composizione tecnica e politica della classe operaia - e in genere in tutte le classi. V’era poi un’idea forte, che coronava la funzione dell’idea centrale: ed era quella della << libertà >> di funzionamento della forza-lavoro globale, della classe, e della sua forza di anticipazione dello sviluppo capitalistico. Lo sviluppo capitalistico andava letto attraverso l’anticipazione operaia. << La macchina corre dove scoppia lo sciopero >>. Le lotte operaie erano il disegno dello sviluppo capitalistico e nello stesso tempo erano, di questo, il martello distruttivo. Ora, quest’idea di composizione e di anticipazione è, nella crisi, pretérita. La crisi rompe ogni relazione. L’idea di composizione e un’idea ancora dialettica. Bisogna quindi andar oltre l’idea di composizione. Bisogna rompere la cattiva dialettica dell’anticipazione (operaia) e dello sviluppo (capitalistico). Bisogna rompere questa cattiva dialettica stando dentro l’ontologia dello sviluppo. Quello che è venuto meno è il rapporto, meglio, un certo rapporto fra lavoro e comando - non i termini che costituiscono questo rapporto. I termini si ritrovano, reali, indipendenti da qualsiasi relazione dialettica. Contro ogni dialettica resiste il dolore dell’umanità. E’ su questi termini che si tratta quindi di lavorare, anzi, su uno solo di essi, sul termine lavoro, forza lavoro, rifiuto del

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lavoro, - perché questo è il solo che possa essere concepito razionalmente. La scienza capitalistica, infatti, non essendo per sé produttiva ma solo dialettica e sistematica, non può essere razionale. Come la crisi dimostra in figura eccezionale.

Andar oltre ogni dialettica e porre il concetto di costituzione. Vale a dire che se i concetti di composizione e di anticipazione erano ancora dialettici, quello di costituzione non lo è più: esso è posto contro la dialettica e la sua fondazione è alternativa. La costituzione è un processo di composizione e ricomposizione soggettiva, lotto ad ogni relazione dialettica con l’insieme delle condizioni oggettive della produzione. Questo non significa negare ogni relazione - ma è evidente che la separazione del concetto è radicale - e che la separazione è condizione di ogni costituzione. L’idea della costituzione è quindi l’idea di una pratica sociale alternativa che ricompone soggettivamente gli sfruttati. Non solo in quanto tali ma soprattutto in quanto ricostruiscono valori, vita, potere, - separatamente, indipendentemente, alternativamente.

Per cominciare a chiarire, diciamo subito che l’idea di costituzione non è idea etica né utopica. E’ invece idea scientifica. Lo è perché presuppone uno specifico meccanismo conoscitivo che possiamo così indicare: oggi è impossibile spiegare non solo lo sviluppo capitalistico (che spesso non c’è) ma nemmeno la semplice riproduzione della ricchezza sociale, senza ricorrere al concetto di pratica sociale. Vale a dire che, senza la pratica sociale, senza l’enorme quantità di lavoro gratuito, di lavoro libero che la società capitalistica raccoglie ed utilizza a glorificazione del suo proprio comando, la società capitalistica non esisterebbe. La società capitalistica, la società della << sussunzione reale >>, vive del dono gratuito di lavoro che i cittadini lavoratori le fanno. Che tutti i lavoratori, da tutti i settori, le fanno. L’enorme capitale fisso socialmente accumulato è da tutti curato, ma solo per pochi tutto ciò, quest’enorme quota di lavoro sociale, risulta fonte di profitto - e di comando. Se si assumono e si analizzano le quantità di lavoro estorto nel meccanismo << normale >> dello sfruttamento industriale e le quantità che invece sono regalate, dentro informali o semplicemente consuetudinarie regole di organizzazione, alla società capitalistica ed alla riproduzione del capitale fisso che l’organizza, - ben, si può vedere di quanto le seconde quantità siano maggiori delle prime. Per il capitale esse sono semplice << rendita sociale >>. Per tutti i cittadini sono un surplus di sfruttamento. Questo specifico processo di sfruttamento si allarga tanto più quanto più i meccanismi della produzione vengono informatizzati e la forza-invenzione intellettuale diviene << energia >> per lo sviluppo della produzione.

Da questo punto di vista, e tenendo conto delle quantità che sono in gioco, si

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può quindi concludere che oggi il lavoro sociale, le pratiche sociali costitutive, ed anche tutto il lavoro che non è immediatamente soggetto al comando, rappresentano una norma valorifica produttiva, una norma per la produzione di valore, che ha, nella società della << sussunzione reale >>, il significato di << legge di valore >>. Assistiamo quindi ad una non irrilevante trasfigurazione della legge, che comporta molte conseguenze. Ad esempio, si potrebbe parlare, sempre sul terreno generale, di << sussunzione formale >> sotto questa dimensione per le altre forme di valorizzazione, comunque persistenti nella nostra società. E’ chiaro, nella fattispecie, che il lavoro industriale è << formalmente >> sussunto nel lavoro sociale - esso mantiene infatti le sue caratteristiche ma non avrebbe valore se non fosse anticipatamente predeterminato entro condizioni sociali adeguate - e non pagate (grado di istruzione e di astrazione della forza lavoro, condizioni spazio-temporali della riproduzione, livello sociale di informatizzazione, ecc.), - quindi, è la pratica sociale costitutiva che oggi valorizza anche il lavoro della << grande industria >>.

Ma il concetto di costituzione non conclude la sua azione sul terreno conoscitivo, fissando cioè solamente la norma fondatrice di una nuova figura del valore (e della sua legge). Se così fosse ci troveremmo [troveremo ?] ancora dentro la confusione dialettica nell’epistemologia della liberazione. No, non è così: il concetto di costituzione è altro - vale a dire che esso è fondamentalmente pratico, insieme concetto di egemonia e di alternativa. Chiediamoci allora: quali sono le condizioni di una pratica alternativa sociale come forma rivoluzionaria nella quale la nuova legge del valore possa esprimersi nella fase della sussunzione reale della società sotto il capitale? Ovvero: se il concetto di costituzione è quello di una pratica sociale, ontologicamente fondata, che costituisce le condizioni di conoscenza dell’attuale meccanismo dello sfruttamento, - come può esso istituire la possibilità di una soggettività alternativa e rivoluzionaria?

Vi sono almeno tre linee di ricerca da seguire per dare risposta a questi interrogativi. Molte di queste ricerche, occorre ricordarlo, sono ad un grado avanzato di elaborazione - il periodo della repressione non ha impedito il lavoro di analisi di molti compagni - si tratta ora di raccogliere, centralizzare e comunicare i risultati.

Dunque: la prima linea di ricerca (A) riguarda i temi che sempre sono stati propri della lotta di classe: ossia i temi del salario, della divisione della ricchezza sociale, e soprattutto oggi dell’organizzazione temporale della giornata lavorativa - insomma, i temi dell’appropriazione. Quale sia, soprattutto nei periodi di crisi economica, di aumento del dispotismo, di mistificazione e di

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tradimento da parte delle organizzazioni ex-proletarie, la storia clandestina dell’appropriazione operaia e proletaria, - ecco, per esempio, un tema di enorme interesse. Esso apre alla seconda dimensione della ricerca (B): ricerca sull’alternativa organizzativa in senso proprio, sulla << pratica >> della pratica sociale, sulla << coscienza sociale >> dell’alternativa. Un più forte grado ontologico caratterizza questa dimensione di vita collettiva proletaria, che è forse decisiva per definire una pratica sociale completamente emancipata dalla dialettica capitalistica. La << pratica >> della pratica sociale prende in conto una diversa mobilità della forza lavoro, la flessibilità completa della giornata lavorativa, la modificazione della natura e della qualità del lavoro - le prende in conto come materiali di un progetto alternativo di costituzione sociale. Non so se il comunismo sia attuale - certo vive nella coscienza, nei desideri e nell’azione di tanta gente. Un soggetto rivoluzionario postmoderno non è poi così lontano da una soglia di definizione. Terza linea di ricerca (C): gli strumenti della rottura politica dell’irrazionale, dell’unità capitalistica del sociale, cioè della società capitalistica postmoderna. E’ chiaro che qualsiasi momento di rottura è, in questa linea, immaginabile solo come momento di destrutturazione profonda del potere del nemico, come riappropriazione continua di spazi propri, di ricchezza e di lotta, come approfondimento sistematico delle asimmetrie della produzione e del potere capitalistici - un uso cosciente e continuo della crisi. E’ evidente anche che della semplice destabilizzazione del nemico non occorre parlare - essa è nei fatti, ma proprio per questo essa è anche controllabile, riassumibile nelle tecniche di sistematizzazione che il nemico ha messo in atto per la riproduzione dell’irrazionalità del proprio dominio.

<< Lenin a New York >> non è l’attualità della rivoluzione. Paradossalmente si dovrebbe dire che la rivoluzione c’è già stata perché movimenti di lotta degli anni `60 e `70 hanno tolto al capitale ogni capacità innovativa, nel produrre la ricchezza sociale, e lo hanno condannato all’irrazionalità. La fine dell’Impero è cominciata. Al di là del paradosso diciamo che la rivoluzione oggi consiste nel radicare ontologicamente, a livello di massa, egemonicamente un contropotere che sia alternativa di vita. Non è vero che il possesso del potere sia indifferente rispetto a questo fine: ma non vi può essere presa del potere se non sulla base di una destrutturazione profondissima dell’organizzazione sociale del nemico, di una riappropriazione di massa di spazi e di costituzione alternativa di valori. Non è d’altra parte vero che il potere lo si possa distruggere solo possedendolo: è vero piuttosto che per possederlo bisogna cominciare a distruggerlo. Quanto alla rivoluzione, come esercizio del tutto dispiegato di una << pratica della pratica sociale >>, essa è più vicina di quanto si possa pensare. Nessuno di noi ha certezze in proposito - ma è ben vero che l’ubriacatura reaganiana ha

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mostrato a tutti quanto puzzi il potere reazionario e che l’accumulo spontaneo e profondo del momenti di rottura dell’ordine capitalistico si è nuovamente avviato - almeno nelle coscienze. E’ al terreno della rivoluzione che ci richiama direttamente l’analisi del funzionamento dello sfruttamento e della sua crisi nel Terzo mondo, - un’analisi fondamentale anche per l’identificazione dei temi della nostra ricerca sulle forme della lotta di liberazione. Su questo terreno (D) è essenziale una concentrazione ed un approfondimento specifico della ricerca.

Il politico oggi precostituisce il sociale. Lo slogan capitalistico << meno Stato >> è un idiota << flatus vocis >>, tanto più mistificato quanto più progressivamente la società è sussunta nel capitale e nel suo Stato. Un’orrenda falsificazione è, d’altro lato, il concetto di << autonomia del politico >> - questa quasi nazionalsocialista autodifesa di ceti reazionari o storicamente sconfitti e superati. Di contro, oggi il politico raggiunge l’apogeo della sua significatività precostituendo il sociale. Il politico è una dimensione produttiva, una potenza ontologica. Noi vi siamo dentro, la possediamo e di questa potenza siamo tuttavia alienati. Dobbiamo forzare la situazione. Dobbiamo considerare il politico come arma adeguata, dobbiamo costruirlo come contropotere, per liberare la società. La rivoluzione dei soggetti postmoderni è certo inattuale - come lo è la primavera nei mesi invernali.

Propongo a me stesso e agli altri amid di lavorare congiuntamente sui temi (a, b, c, d, e, f) e sui progetti (A, B, C, D).

Molto del lavoro qui indicato è stato iniziato, ed ha raggiunto un certo grado di formalizzazione, nell’ambito della discussione e delle analisi politiche dei Grünen tedeschi, - e di alcuni dei più attivi ed intelligenti gruppi ecologisti.

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