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GUERNICA OGGI SI CHIAMA VUKOVAR Parigi, ottobre 1991 L’esplosione della Jugoslavia è avvenimento storico nel farci scoprire che le cose non sono ciò che sono; che l’universalità dei principi è una nozione molto relativa, in particolare l’idea dei diritti dell’uomo, quando questo esempio ci dimostra che essi non sono gli stessi per tutti. Già se ne dubitava parecchio, ma oggi, grazie allo sforzo di alcuni, aiutati dal silenzio dei più, non si può più ignorare questa rivoluzione epistemologica. Infatti, le cose non sono ciò che sono, poiché, dopo l’inizio degli scontri in Croazia, , la maggioranza dei commentatori ha usato di tutte le antifone sugli Slavi dei Balcani per rappresentarci un indistricabile imbroglio interetnico , il cui carattere arcaico autorizzerebbe a rinviare schiena contro schiena i protagonisti del dramma ed ad esortare questi ritardati ad apprendere la democrazia, invece di vedere in questo dramma la novità d’una situazione legata al crollo dei regimi comunisti. Si tratterebbe dunque che in questo caso le idee siano più testarde dei fatti, che pure hanno la reputazione di esserlo? Poiché se le autorità di Belgrado negano le indipendenze di Croazia e Slovenia, col pretesto che si tratti di atti “illegali”, “unilaterali” ed “anticostituzionali”, è per lo meno stupefacente che i media dimentichino di ricordare che, al contrario, si tratta di atti legali e costituzionali, poiché le successive costituzioni jugoslave, da quella del 1946 a quella del 1974, garantivano , entrambi, per ogni Repubblica, il diritto all’autodeterminazione ed alla secessione. Ciò cambia tutto e dissipa la nebbia d’un preteso conflitto medievale: in seguito alle prime elezioni libere comportanti l’autodeterminazione della Croazia (al 94%), della Slovenia (all’88%), della Macedonia (al 95%), del Kosovo (al 99%), ed oggi (1992) della Bosnia-Erzegovina, il potere comunista della Serbia si è sentito minacciato. Aprendo il fuoco in Croazia nel maggio 1991, col pretesto di difendere gli interessi serbi, l’Armata Jugoslava – che “non è federale ma comunista in ciò che le resta di ideologia, e serba nei suoi quadri ” , come ha giustamente sottolineato Alain Finkielkraut - ha scatenato ne più ne meno che una guerra di rappresaglia e di conquista. Una guerra dove c’è un aggredito senza armi in partenza, ed un aggressore che dispone della terza forza militare d’Europa. E’ così difficile accettare che degli intellettuali, che di solito s’impegnano a difendere i diritti dei popoli, tacciano ostinatamente, e che non vi sia che Alain Finkielkraut ad avere il coraggio di rifiutare i cliché ed i riflessi condizionati, che sembrano sempre più prendere il luogo dell’analisi politica in coloro la cui professione sarebbe proprio di pensare? 1

Annie Lebrun

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saggio di una poetessa francese sulla PULIZIA ETNICA nella Jugoslavia post-titoista

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Page 1: Annie Lebrun

GUERNICA OGGI SI CHIAMA VUKOVAR

Parigi, ottobre 1991

L’esplosione della Jugoslavia è avvenimento storico nel farci scoprire che le cose non sono ciò che sono; che l’universalità dei principi è una nozione molto relativa, in particolare l’idea dei diritti dell’uomo, quando questo esempio ci dimostra che essi non sono gli stessi per tutti.

Già se ne dubitava parecchio, ma oggi, grazie allo sforzo di alcuni, aiutati dal silenzio dei più, non si può più ignorare questa rivoluzione epistemologica.

Infatti, le cose non sono ciò che sono, poiché, dopo l’inizio degli scontri in Croazia, , la maggioranza dei commentatori ha usato di tutte le antifone sugli Slavi dei Balcani per rappresentarci un indistricabile imbroglio interetnico , il cui carattere arcaico autorizzerebbe a rinviare schiena contro schiena i protagonisti del dramma ed ad esortare questi ritardati ad apprendere la democrazia, invece di vedere in questo dramma la novità d’una situazione legata al crollo dei regimi comunisti.

Si tratterebbe dunque che in questo caso le idee siano più testarde dei fatti, che pure hanno la reputazione di esserlo?

Poiché se le autorità di Belgrado negano le indipendenze di Croazia e Slovenia, col pretesto che si tratti di atti “illegali”, “unilaterali” ed “anticostituzionali”, è per lo meno stupefacente che i media dimentichino di ricordare che, al contrario, si tratta di atti legali e costituzionali, poiché le successive costituzioni jugoslave, da quella del 1946 a quella del 1974, garantivano , entrambi, per ogni Repubblica, il diritto all’autodeterminazione ed alla secessione.

Ciò cambia tutto e dissipa la nebbia d’un preteso conflitto medievale: in seguito alle prime elezioni libere comportanti l’autodeterminazione della Croazia (al 94%), della Slovenia (all’88%), della Macedonia (al 95%), del Kosovo (al 99%), ed oggi (1992) della Bosnia-Erzegovina, il potere comunista della Serbia si è sentito minacciato.

Aprendo il fuoco in Croazia nel maggio 1991, col pretesto di difendere gli interessi serbi, l’Armata Jugoslava – che “non è federale ma comunista in ciò che le resta di ideologia, e serba nei suoi quadri” , come ha giustamente sottolineato Alain Finkielkraut - ha scatenato ne più ne meno che una guerra di rappresaglia e di conquista. Una guerra dove c’è un aggredito senza armi in partenza, ed un aggressore che dispone della terza forza militare d’Europa.

E’ così difficile accettare che degli intellettuali, che di solito s’impegnano a difendere i diritti dei popoli, tacciano ostinatamente, e che non vi sia che Alain Finkielkraut ad avere il coraggio di rifiutare i cliché ed i riflessi condizionati, che sembrano sempre più prendere il luogo dell’analisi politica in coloro la cui professione sarebbe proprio di pensare?

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Al di là dei molteplici interessi internazionali di chiudere gli occhi su un putsch militare - i cui artefici hanno avuto l’abilità di procedere ad una presa del potere graduale - non ci troviamo anche noi davanti ad un’inquietante impotenza nel pensare il dopo-comunismo?

Non vedo altra spiegazione di fronte dell’accanimento con cui i fabbricanti di opinione ratificano in Francia l’enormità della menzogna secondo la quale, durante l’ultima guerra, tutti i Croati sarebbero stati ustasci e tutti i Serbi resistenti, nel mentre c’era più del 60% di Croati nei ranghi dei partigiani e Tito stesso era croato.

In questa maniera tutti i Francesi dovrebbero essere tenuti responsabili del repulisti del Vel-d’Hiv.

Poiché se in Croazia gli ustasci di Pavelic, messi al potere dalla Germania nazista, hanno eseguito la sua politica con zelo, facendo circa 23.000 vittime ebree, non si può dimenticare che allo stesso tempo in Serbia il governo del generale Nedic ha collaborato molto efficacemente coll’occupante, aiutato dal partito antisemita di Ljotic, e seguito più tardi dai cetniki del generale Mihajlovic, per arrivare a circa 24.000 vittime ebree.

L’opinione europea potrebbe allarmarsi un po’ di più del fatto che oggi le milizie serbe - che eseguono le azioni di commando dell’Armata “federale” - mettono tutta la loro fierezza nel farsi chiamare cetniki.

Per contraccambio è chiarissimo l’appello del 7 ottobre scorso (1991) delle comunità ebraiche di Zagabria e di Croazia, che si sentono minacciate al punto di chiedere ai loro omologhi di allertare l’opinione internazionale contro “l’aggressione e la distruzione della Croazia, delle sue città e dei suoi villaggi”.

Quanto alle numerose violenze dei fascisti croati contro i Serbi durante la Seconda Guerra mondiale, vi corrispondono disgraziatamente quelle dei fascisti serbi contro Croati e Mussulmani, anche se è difficile appoggiarsi a delle cifre che gli estremisti delle due sponde non esitano a far avvicinare al circa milione di vittime in totale della guerra in Jugoslavia ‘41-’45 .

Tra queste vittime ricordiamo il genocidio degli zingari attribuito solo agli ustasci, sebbene Raoul Hilberg, nella sua storia de la Destruction des juifs en Europe, citi questa nota del 29 agosto 1942 del Staatrat Turner all’attenzione del suo nuovo capo generale Löhr, nominato “Oberbefehlshaber Südost“: “Serbia, solo paese dove la questione Ebraica e la questione Tzigana sono risolte”.

Questo, a distanza di cinquant’anni, per dare la sinistra misura dello sterminio suscitato dai due totalitarismi dei nostri tempi su popoli vissuti precedentemente di buona intesa per dieci secoli.

C’è solo un modo per uscire dall’ingannevole battaglia di cifre: concentrarsi sulla natura del conflitto, che non è fra Serbi e Croati, ma fra un nazional-comunismo serbo e tutto ciò che può assomigliare ad un tentativo democratico.

Ed è a questo proposito che “l’indifferenza” dei commentatori - sottolineata a giusto titolo dallo storico Fejtö - per non parlare della disinvoltura dei responsabili

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europei, conduce a porsi delle domande sull’universalità dei diritti dell’uomo. Come credere infatti alle intenzioni “liberatrici” di una Armata che, col pretesto di garantire gli interessi serbi, dileggia, sin dalla repressione sanguinosa del 1981, il diritto di 2.500.000 Albanesi nella provincia del Kosovo, instaurandovi leggi eccezionali come “l’isolamento”, che permette di arrestare non importa chi, ne quando, ne per quanto tempo?

A questo punto ci si può domandare cos’altro difenda questa Armata se non i suoi privilegi e l’ideologia sulla quale questi riposano.

Si tratta infatti di un’impresa cominciata da lunga data per prevenire i pericoli di un’eventuale perestroika, che ha incoraggiato le peggiori espressioni nazionaliste di un malcontento crescente con una situazione economica disastrosa e l’imbavagliamento di ogni critica veritiera.

Non è un caso che in Serbia sia coincisa l’ascesa del nazional-comunista Milosevic nel 1986 praticamente colla ristrutturazione delle Regioni Militari del 1985, che sino allora corrispondevano alle Repubbliche esistenti, ridisegnate per assicurare l’impossessamento della Serbia su parti della Croazia e della Bosnia Erzegovina.

Ne è seguita, e nella norma, la neutralizzazione del potere federale. Il pretesto di proteggere le minoranze serbe della Croazia non è stato che un passo in più di questa strategia di conquista.

E’ perciò nell’ordine naturale delle cose che Milosevic sia stato uno dei primi a felicitarsi coi golpisti sovietici, e che nel marzo scorso (1992) il capo dell’Armata Jugoslava Kadijevic si sia incontrato segretamente col maresciallo Jazov (oggi agli arresti). Prova di più quindi che non si tratta di uno scontro interetnico, ma , come grida Bogdan Bogdanovic, ex sindaco di Belgrado e democratico convinto, di “una guerra di vecchi”, condotta dall’ “Armata di classe” , che “si fonda sulle idee dei vecchi dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti “: sono costoro infatti che hanno redatto confidenzialmente nel 1986 il Memorandum dove è esposta l’urgenza di riunire tutti i Serbi in un “impero” che avrebbe dovuto estendersi ovunque essi vi fossero, pur se minoritari.

Molto peso ha avuto in questa follia anche la gerarchia ortodossa, che insistendo sull’impossibilità “di far tacere la voce del sangue”, è giunta a consacrare l’anno 1991 alla vendetta dei “martiri serbi “ di cinquant’anni prima. Nuova alleanza del pastorale ed aspersorio che fa fremere.

Se pertanto è incontestabile che la Croazia conosca un rinnovato cattolicesimo, la misura non è confrontabile. E sebbene non si possa non fare delle critiche nei riguardi del governo democristiano di Tudjman e dei suoi innegabili errori – e non se ne astengono dal farlo le varie opposizioni in Croazia –l’attuale silenzio internazionale davanti ai pericoli interni ed esterni che rischiano di uccidere tutto ciò che è ancor vivo in questa parte d’Europa è ben altrimenti preoccupante .

Si è coscienti del pericolo di una proliferazione di bande armate da una parte e dall’altra?

Infine l’indipendenza croata, nascendo in queste drammatiche condizioni, tardando d’essere riconosciuta nei suoi confini e non in quelli tracciati dalle bombe,

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Mig e carri armati, non rischia alla lunga di essere minacciata da soluzioni disperate di tipo estremista?

Quanto poca importanza si da al numero crescente di diserzioni in Serbia, ed ad un movimento di opposizione che, dopo l’agosto (1991), ha preso la decisione rischiosa di incitare alla diserzione…

Per me questa distrazione è complicità criminale con uno degli ultimi poteri staliniani, ridotto a non avere più altro programma che la guerra.

Sino a quando ci si compiacerà in una bestialità ideologica che, non avendo eco, indebolisce un’opposizione democratica serba come quella di Ivan Djuiric, minacciato di morte dai tenenti della Grande Serbia?

Fino a quando si tacerà il fatto che solo il 15% dei riservisti di Belgrado ottemperano all’ordine di arruolamento, malgrado la proclamazione della legge marziale che condanna i disertori alla pena capitale?

Fino a quando infine l’intellighenzia, avvallando il massacro perpetrato sino a questo momento, continuerà ad abbandonare, come ha già fatto per decenni, i popoli schiacciati dai burocrati comunisti?

Dinnanzi ad un orizzonte così disperante, dove prosegue la devastazione colla volontà deliberata di distruggere i monumenti storici croati per annientare un popolo sino nella sua memoria, ci si può felicitare che dei belli spiriti trovino ancora il coraggio di commuoversi per Dubrovnik, premurandosi di aggiungere, come Jean d’Ormesson, che: “Non si tratta di prendere le parti in una guerra che oppone i Croati ed i Serbi, si tratta dell’idea che noi ci facciamo della cultura e della civilizzazione.”

Mi dispiace, ma quest’idea di cultura e di civiltà che preferisce le pietre, per prestigiose che siano, agli uomini, è immonda.

Ed il permettere agli intellettuali di dire non importa cosa ed il suo contrario per giustificare l’ingiustificabile è anch’essa che uccide, oggi come ieri. Guardate Aragon ed i processi di Mosca. Guardate Sartre e Kravcenko. Guardate Foucault e Khomeiny. Non ci si ricorda che nel 1956 era stato agitato pure lo spettro del fascismo ungherese per giustificare la repressione di Budapest?

Disgraziatamente, si dica ciò che si vuole, la situazione è oggi altrettanto chiara che allora:

“I FASCISTI SONO QUELLI CHE SPARANO SUL POPOLO”Lo si voglia o no , GUERNICA OGGI SI CHIAMA VUKOVAR!

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PREMESSA

Parigi, marzo 1993.So che gli uomini di solito hanno la debolezza di credere che ciò che stanno

vivendo sia una novità. Tra le varie disgrazie che non ho, essendo affetta senza dubbio più di chiunque del contrario, c'è la ripetizione dei comportamenti.

Tuttavia è da notare che sin dall'inizio della faccenda jugoslava l'incarnazione dei fantasmi - politici ed intellettuali - dei quali si ignorava sin qualche settimana prima l'esistenza , costituisce di per se una specie di novità . Non solo per la rapidità incosciente colla quale i più sono andati a cercare in un passato incerto tutti gli elementi suscettibili per denegare 1 la situazione presente. Ma soprattutto per il modo col quale una classe intellettuale, che ha urlato per cinquant'anni "il fascismo non passerà", si è mostrata incapace di discernere ciò che più gli assomigliava.

Senza la sensazione crescente di una catastrofe del pensiero che mi colpisce, che va di pari passo colle molteplici catastrofi ecologiche, psichiche e politiche che insorgono in questa fine di secolo, è probabile che la mia ventennale conoscenza della vecchia Jugoslavia mi avrebbe persuaso piuttosto a non intervenire. Ma la vicinanza non mi è più motivo di assistere passivamente piuttosto che rivoltarmi. Ed in cosa una violenza perpetrata laggiù sarebbe più atroce di quella commessa in un luogo per me completamente estraneo?

Aggiungo che il farsi portavoce di coloro che soffrono mi è sempre parsa un'attività sospetta, spesso condannata ad esercitarsi tra la semplice deplorazione, in fin dei conti inutile, e lo sfruttamento ideologico di coloro che si pretende difendere. Nella storia recente abbiamo visto come degli intellettuali impegnati si sono serviti di coloro che dicevano di servire.

Tolte alcune eccezioni 2, abbiamo al contrario il disastro di un'Europa Occidentale incapace di comprendere l'estrema disgrazia, raddoppiata giorno dopo giorno, dei popoli croato, bosniaco (mussulmani ed altri), albanese, macedone, tutti vittime della apparizione sulla scena in Serbia del primo Stato razzista in Europa dopo il III° Reich . Come se ci venisse dimostrato che il regno dell'evidenza era finito e che ormai occorreva imparare a denegare ogni verità di fatto.

E' in questo senso che la faccenda jugoslava ci riguarda molto di più di quanto si voglia credere. Tutte le spiegazioni che ci si ingegna a dare non hanno forse in comune il punto di renderci sempre meno conto di avvenimenti sempre più allarmanti?

In particolare, sembra che la tesi degli odi ancestrali risvegliati dal crollo del comunismo sia la più diffusa, permettendo di dissimulare meglio la novità della situazione.

I diversi popoli dell'ex Jugoslavia - oggi tutti in lotta contro il solo regime di Belgrado - invece di essere impegnati in una guerra tribale, come si ripete scioccamente, hanno dovuto rispondere alla riaffermazione improvvisa e brutale di un potere totalitario. Un potere totalitario che trova la sua potenza inedita nella fusione dei due totalitarismi dei nostri tempi in una specie di nazional-comunismo, del quale tutti si ingegnano a non discernere le caratteristiche paradossali.

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Ed ecco riemergere le mille maniere che ci rammentano la lunga cecità dell'intellighenzia occidentale nei riguardi dei paesi dell'Est. Di modo che una volta ancora in questa vicenda la regressione apparente dissimula una novità. Queste, francamente, non sono che contraddizioni, contro-verità e coscienza a buon mercato mescolate all'occorrenza , in gara colle grandi imprese della menzogna ideologica colle quali si è caratterizzato questo secolo, dai processi di Mosca al maccartismo, dall'affare Kravcenko 3 alla rivoluzione culturale cinese...

La novità consiste nel fatto che la falsificazione non è per niente imposta colla forza, cioè non da un potere o gruppo di pressione, ma è la reazione spontanea dell'attuale generazione che, credendosi capace di evitare le trappole dell'ideologia, fa di tutto per non vederle.

Ora, se un'epoca si giudica dalla coerenza tra ciò che dice e ciò che fa, sembra che la nostra sarà quella che nascondeva e imbellettava ciò che non ha fatto. L'atteggiamento riguardo i popoli dell'ex Jugoslavia è la dimostrazione migliore della denegazione alla quale sembra condannata, al punto di alterare in modo inquietante le condizioni stesse di qualsiasi comprensione.

L'esempio jugoslavo va considerato un fatto emblematico di tutte le catastrofi che si delineano all'orizzonte.

UNA NOVITA' CATASTROFICA

Ma veniamo brevissimamente ai fatti, poiché questi sono visti da noi col disprezzo che laggiù è riservato alle persone.

Eccoci a più di due anni dalle prime elezioni libere tenutesi nella vecchia Jugoslavia (1990), nelle quali le repubbliche di Slovenia, di Croazia, alle quali sono seguite quelle di Macedonia, poi della Bosnia Erzegovina, 4 espressero in tutta legalità la volontà dei rispettivi abitanti dell’autodeterminazione prevista dalle Costituzioni del 1946 e 1974.

Violando il diritto delle genti, e contemporaneamente la Costituzione della Federazione, il potere serbo, disponendo della terza forza militare dell'Europa con un esercito federale del quale si è impadronito, ha risposto con una guerra di conquista che non ha tardato di rivelarsi come un piano deliberato di "pulizia etnica", mettendo sino ad oggi a ferro e fuoco un terzo della Croazia e due terzi della Bosnia.

Disgraziatamente ciò che dovrebbe essere chiaro continua a non esserlo nella realtà.

L'assedio di Sarajevo ha provocato dopo un po’ un'agitazione giustificata.

Come non deplorare questo ritardo , come non deplorare l'impostura di indignarsi solo ora di ciò che era iniziato già da molto tempo in Croazia?

Ancora nel novembre 1992 un incaricato d’affari internazionali del Partito Socialista Francese poteva tranquillamente affermare che - e ciò molto dopo la

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scoperta dei campi di concentramento serbi per Croati e Mussulmani - che "la responsabilità degli Sloveni e soprattutto dei Croati eguaglia largamente quella dei Serbi" 6.

Senza dubbio non si tratta che di ciarle d'un incaricato d'affari del partito socialista. Ciò sarebbe poca cosa e non dovrebbe avere conseguenze, ma tale punto di vista - di mettere alla pari aggressori ed aggrediti - al contrario non sembra convenire a diversi imprenditori, da Edgar Morin a Jean-Marie Domenach, da Bernard Kouchner a Bernard-Henry Lévi, - questi ultimi due stavano per trasferire la loro impresa a Sarajevo.

Ciò non ha impedito che, sin dall'inizio, lo stesso gioco di bilancia falsificatrice abbia permesso di opporre all'annuncio di ogni sopraffazione serba una corrispondente croata o bosniaca, fosse pur minima, supposta, o completamente falsa.

Non che io creda all'angelismo delle nazioni aggredite, ma da noi non si esita a rimproverarle di difendersi, accusandole di "aggiungere guerra a guerra".

E' quantomeno curioso che si perda il senso delle proporzioni sino a sforzarsi senza tregua di mettere sullo stesso piano una politica concertata di "pulizia etnica" e di massacri programmati, con dei crimini connaturati ad ogni guerra.

Dopo la scoperta, l'estate scorsa, di molteplici campi di concentramento serbi, e poi, in ottobre, delle fosse comuni di Vukovar, risultanti dal massacro dei feriti dell'ospedale dopo la presa della città dalle forze serbe, per non parlare degli stupri di massa stimati fra i 20.000 ed i 60.000 e che sembrano aver colpito donne, bambini e uomini non serbi, si è raggiunto un virtuosismo di equilibrio a misura che la simmetria si rendeva sempre più difficile.

Ciò non ha impedito che questi fatti importino così poco al burocrate del PS, il quale esprime l'opinione di molti suoi concittadini egualmente convinti di essere democratici, antifascisti ed antistaliniani, che egli possa parlare di "politica di pulizia etnica condotta dalle autorità serbe spesso colla complicità di Zagabria" 7.

Tutti costoro, come lui, persuasi della loro obbiettività, si sono costantemente fatti il dovere di evocare il problema delle minoranze serbe presenti nelle altre repubbliche senza rendersi conto di riprendere parola per parola le tesi colle quali Belgrado giustificava la sua politica di aggressione. E senza voler vedere inoltre che il problema delle minoranze deriva dal fatto che i Serbi non vogliono essere trattati come minoranze, quando essi stessi parlano di minoranza albanese della provincia del Kosovo, dove gli Albanesi sono il 90% della popolazione.

Sembra allora perfettamente normale che gli osservatori, osservando così poco, si intestardiscano nel voler parlare di guerra civile - non è questa l'espressione consacrata per presentare ogni reportage TV sull'ex Jugoslavia? - anche se non si tratta di una guerra fratricida ma del tentativo della repubblica di Serbia di appropriarsi del territorio delle altre repubbliche, cercando di annientare coloro che vogliono sfuggire alla sua egemonia.

Si è sentito modulare tanto e così bene - con tutte le sfumature della condiscendenza, del disprezzo e dell'ignoranza etnocentrica - di lotta interetnica, di vecchi odi che il crollo del comunismo avrebbe fatto risorgere, che questa rappresentazione è divenuta la chiave di lettura che ha permesse al contempo di

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disattualizzare, di relativizzare, in breve di denegare, di svuotare di ogni significato una situazione della quale la novità paradossale getta bagliori sinistri sui tempi a venire.

Questa novità, io l'ho percepita per caso nel maggio 1992 a Zagabria grazie ad un

vecchio prigioniero di Goli Otok, come si chiamava il gulag della Jugoslavia titista in pieno Adriatico, nel quale i detenuti, costretti a malmenarsi gli uni gli altri, diedero un esempio della famosa autogestione jugoslava.

Al contrario dei commentatori occidentali, che sembravano cadere di sorpresa in sorpresa davanti una regressione nazionalista, a creder loro, incontrollabile - per costui tutto era nell'ordine naturale delle cose: l'orrore, prima circoscritto nel limite di un lagher, era in procinto di espandersi, rivelando la vera natura del regime titista. Quella sorte, riservata a lungo ad un numero ridotto di persone, andava ora evidentemente a colpire tutta la popolazione.

Non c'era che da vedere, diceva, a quale punto le torture e le umiliazioni inflitte alle popolazioni di Vukovar, di Zaklopaca, di Jajce, di Slavonski Brod, di Dalj... (era prima di Banja Luka, di Bosanski Brod, di Mostar, di Sarajevo, di Trnopolje...) assomigliavano a quelle inflitte ai prigionieri di Goli Otok da lui vissute.

Per la prima volta, visto così dall'interno, l'orrore aveva un senso: ciò che si manifestava laggiù, e che noi occidentali non sappiamo leggere, rinviava all'essenza stessa del totalitarismo, proprio quello che Hannah Arendt aveva analizzato come progetto per il dominio totale, dove i campi "per inverosimile che possa apparire (....) sono la vera istituzione centrale del potere totalitario in materia di organizzazione sociale" 8. In questo progetto si trovano le fondamenta della scelta deliberata nelle azioni dell'armata serbo-federale di colpire sin dall'inizio obbiettivi civili, aldilà dei furori distruttivi inerenti ogni guerra. Bisognava annientare ospedali, scuole, maternità, monumenti storici, biblioteche, musei... visti in quanto sorgente, rifugio, o focolare di una vita civile.

Da allora, si è ben visto in qual modo il tessuto stesso della vita civile non ha cessato di essere attaccato, per attivare l'assunzione della realtà concentrazionaria. Non è per un caso che , nel suo "Journal de guerre", Zlatko Dizdarevic parli di Sarajevo come del "più grande campo di concentramento del mondo" 9 , dopo aver mostrato, per esempio, a proposito del sobborgo di Grbavica, come si opera questa trasformazione della vita civile in concentrazionaria:

"Per i Mussulmani, i Croati ed i Serbi "disobbedienti", Grbavica è un ghetto nel senso vero del termine. Ma anche più di un ghetto: Grbavica è un lagher. All'inizio le torture si limitano alle incursioni notturne di idioti che portano una calza sul viso che scendevano dalle grotte del Trebevic per ritornarci ai primi raggi di sole. Poi si sono messi a prendere casa per casa, quartiere per quartiere, vietando ogni "circolazione inutile" agli inquilini delle case requisite. Un giorno essi hanno raggiunto la riva della Miljacka e si sono accampati, chiudendo il cerchio attorno a coloro che erano restati a Grbavica..." 10.

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Non c'è che da scorrere "Le livre noir de la ex Yugoslavie" per misurare quanto, al di la dei crimini di guerra veri e propri, evidentemente imputabili più o meno ai singoli combattenti, la volontà d'imporre una realtà concentrazionaria determini la maggior parte delle violenze commesse dalle forze serbe.

" La maggioranza delle città coinvolte nella guerra sono state distrutte. Il tratto distintivo di questo conflitto è la distruzione delle città" 11, è detto nel "Rapport de "Save the Humanity " sur les violations des droits de l'homme et les crimes contre l'humanité en Bosnie-Herzegovine" (3 giugno 1992).

Segue una lista di città assediate e poi distrutte per arrivare a constatare che : "Il tratto comune in questi assedi è che le truppe serbe e l'armata jugoslava distruggono tutto durante i loro attacchi: le abitazioni, i quartieri residenziali, gli ospedali, gli uffici postali, i ponti, i sistemi di approvvigionamento dell'acqua e dell'elettricità, i locali della radio e della televisione, gli alberghi, le scuole ecc.ecc.. In questo senso, l'esempio di Sarajevo è emblematico poiché l'edificio della Posta è distrutto, tagliando così la città fuori dal mondo esterno" 12.

Detto altrimenti, si priva la popolazione di ogni possibilità di vita civile per rinchiuderla in una vita concentrazionaria. Di colpo tutte le persone diventano degli spostati, egualmente suscettibili di essere deportati, torturati o ammazzati.

E' la proliferazione trionfale della realtà concentrazionaria a detrimento di ogni altra realtà, che rende la situazione nuova e inquietante.

Il modo in cui i campi di concentramento tenuti dalle autorità serbe sono stati impiantati e disfatti per risorgere altrove, non è solo un'astuzia per depistare le diverse commissioni d'inchiesta. Una tale mobilità è significativa della pazzesca facilità colla quale la realtà concentrazionaria ha potuto prendere piede ora qua ora là, come una gigantesca perversione della vita , come provato dalle numerose testimonianze di vittime stupite di riconoscere dei vicini tra i loro carnefici.

Può darsi che sia sembrato un po' derisorio il fatto che gli ecologisti, dal maggio-giugno 1992, si siano commossi per le immense distruzioni della natura provocate dalla guerra, quando erano già scomparse tante vite umane. Nondimeno è loro il merito di aver allertato il mondo sulle molteplici possibilità devastatrici di una forza per la quale il principio è distruggere tanto uomini che animali o piante, qualsiasi forma di vita tentasse di sfuggirle.

Questo cambia tutto.

Il crollo del mondo socialista, invece di liberare i demoni del passato, ha al contrario liberato catastroficamente l'essenza di un potere che, contro ogni attesa, non si trattiene più.

In questo senso il disfacimento dell'ex Jugoslavia è l'equivalente politico delle nuove catastrofi ecologiche che minacciano sempre più l'equilibrio del mondo.

Si deve considerare molto bene la devastazione sistematica della Bosnia Erzegovina, e ci si deve domandare se, al di là del programma di pulizia etnica oggi proclamata, non si debba vedere al contrario una pianificazione socialista, sostituendo

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il suo abbrutente culto della gioventù col massacro e lo stupro dei bambini, la sua promozione di un folclore di comando coll'annientamento di ogni vita paesana, e le sue truffe culturali attraverso l'incendio delle biblioteche.

Come se il regime di Belgrado rivelasse improvvisamente, lasciandola scappare, la criminalità sulla quale si fonda (come tutti gli altri poteri cosiddetti socialisti) e della quale, più o meno inconsciamente, si è nutrita l'imbecillità progressista di questi tempi.

E' un fatto che ci ostiniamo a non vedere questa criminalità, che non ha cessato di mostrarsi a noi, stridente, opprimente, crescente. Non è con la deplorazione, che oggi è di tutti, che si possa cambiare qualcosa: si tratta della cecità durata un anno - il tempo necessario all'Armata federale per uccidere, solamente in Croazia, almeno 7.000 persone delle 14.000 scomparse, di ferirne 23.000 e di scacciarne 450.000. (al maggio 1993-ndt)

Una cecità della quale naturalmente Sarajevo è il campione "sin dal mese di giugno scorso "- ammette Bernard Henry Levi (l'industriale che voleva investire a Sarajevo) . E continua "è già da un anno che i dirigenti di Belgrado conducono la loro politica di pulizia etnica. Un anno che uccidono, violentano, deportano, torturano" 13.

Ammesso questo, allora perché si è mancato di reagire per ben sei mesi - particolarmente dopo l'estensione del massacro alla Bosnia Erzegovina nell'aprile 1992 - contro un totalitarismo, con gli smargiassoni del quale Lévi ed i suoi soci continuavano invece ad intrattenere relazioni?

Più di sei mesi di silenzio, durante il quale la Croazia ha pagato in migliaia di vittime che preannunciavano quelle successive della Bosnia Erzegovina.

E' da allora infatti che non si è saputo vedere ciò che invece vedeva quel superstite di Goli Otok; è da allora che non si è saputo riconoscere, nell'estensione dell'universo concentrazionario alla società civile, il momento stesso del totalitarismo, che è di mutare popolazioni intere in "criminali senza crimine" 14; è da allora che si è fatto il gioco degli assassini.

Non solo perché "per lunghissimo tempo la normalità del mondo normale costituisce la protezione più efficace contro le divulgazioni dei crimini totalitari" 15 , come ha ben sottolineato Hannah Arendt, ma anche perché, in questa prospettiva, l'Europa occidentale - in quanto "mondo di fuori" che si compiace "pure di prendere i suoi desideri per realtà" 16, non ha cessato di nutrirsi dell'irrealtà menzognera del modello totalitario, sino ad adottarne sempre più i metodi di denegazione che essa pretende peraltro di combattere.

Tutto si svolge come se, al momento in cui la realtà totalitaria starebbe per scomparire, come si cerca di convincerci, si sentisse la necessità e l'urgenza di assimilarne le lezioni.

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Di colpo si può valutare la posta in gioco della faccenda jugoslava, poiché la denegazione ci porta all'imprevisto esempio di un totalitarismo che l'ha praticata al più alto livello. Solo in questa luce si possono capire le incomprensibili letture di questa situazione che ci sono state nondimeno proposte, come modi di denegare l'evidenza totalitaria. E' notevole che, per arrivare a ciò, volta a volta queste spiegazioni si organizzano, a cominciare dal passato, dal presente come funzione dell'avvenire.

Tanto per cominciare, sembra difficile credere alla tesi di un fascismo croato atavico - che sarebbe causa degli avvenimenti attuali - se ciò non servisse a mascherare il ricordo del regime poliziesco di Belgrado, e l'indulgenza imperdonabile che i più hanno avuto per esso e le sue repliche: da François Mitterrand a Michel Rocard, passando per i postulanti alla nuova dissidenza in Croazia: tutti vi hanno lo stesso interesse ideologico.

E per misurare l'importanza, basti ricordare sino a dove François Mitterand ha osato spingersi dichiarando alla Frankfurter Allgemeine Zeitung nel dicembre 1991, cioè ad un mese dalla distruzione di Vukovar effettuata dall'Armata Federale serba, quanto segue:

"Come sapete la Croazia faceva parte del blocco nazista, non la Serbia. Dopo la morte di Tito il conflitto latente tra Serbi e Croati doveva scoppiare. Ed ora ci siamo. Io non credo che la Serbia voglia far la guerra per impadronirsi della Croazia, ma solo per ottenere un ridisegno delle frontiere ed una forma di controllo diretto o indiretto sulle minoranze serbe in Croazia."

Come incoerenza non c'è male: si apprende che far la guerra ad un altro paese per spostare le frontiere non è per nulla una guerra di conquista.

Quanto all'intempestiva simpatia di François Mitterand per la Serbia è ormai evidente che ciò deriva da un modo di concepire la storia riveduta e corretta dai presidenti, come fatto dal presidente attuale (1993) della Serbia, Dobrica Cosic, quando dichiarava che : "Hitler ha scatenato la Seconda Guerra Mondiale perché l'esercito polacco aveva per primo violato i confini tedeschi" 17 .

Con la stessa tranquilla facciatosta François Mitterand dimentica che ad Ante Pavelic, messo effettivamente al potere nel 1941 dalle autorità tedesche, corrispondeva a Belgrado un governo diretto dal generale Nedic, noto germanofilo ed antisemita serbo. Ciò che spinse i resistenti croati e serbi a lottare uniti contro lo stesso nemico. Dettaglio certamente trascurabile per François Mitterand che, nel febbraio 1993 pensava ancora che "dopo la morte di Tito e la caduta del comunismo hanno ripreso vigore le passioni etniche ancestrali " 18.

Non si finisce di contare quanti sono coloro che hanno seguito questo presidente in elmetto . Il suo gran rumore ha evitato così di analizzare la situazione attuale.

Certamente non tutti sono obbligati a riconoscere nell'armata serba "la forza massacratrice" , come ha fatto Michel Rocard già da molti mesi. 19 Ma, ben peggio, per nascondere anche la collusione colle vecchie democrazie popolari, molti hanno avuto tutto l'interesse a custodire e rinforzare questo amalgama di fascismo e Croazia. Oltretutto il mentire sul passato li autorizza a mentire sul presente.

Esistono, in effetti, segni premonitori di un neofascismo croato, 20 che vengono febbrilmente segnalati dai difensori dei diritti dell'uomo , i quali nel contempo si

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rifiutano di vedere la spaventosa novità del regime di Belgrado. Ad ascoltare questi difensori basta ormai un niente perché Zagabria affondi nell'oscurantismo cattolico-nazionale, come la Bosnia nell'integralismo.

Un anno e mezzo di guerra non vengono neppure presi in considerazione. Che importa!

Con quale piacere costoro hanno letto il "Manuale di sopravvivenza ai tempi della pace croata" 21 di una certa Dubravka Ugresic, mediocre scrittrice e funzionaria del passato regime, come dell'attuale. Nostalgica di un soggiorno a Mosca "tanto tempo fa", - "quale vita eccitante ed attiva c'era!", si appresta oggi a divenire una delle prime dissidenti del nuovo regime (quello di Tudjman n.d.t.). Dato che vuole molto nuocere, ha cominciato a giocare un ruolo in Germania ed in Francia dove nessuno conosceva la situazione fiorente a Zagabria, e nessuno rischia di scoppiare in una risata davanti a questa improponibile martire della libertà di pensiero.22

Disgraziatamente questa furberia privata , per miserabile che sia, si avvicina alla furberia teorica che consiste nel parlare di "prurito identitario" per qualificare i popoli coatti a resistere a ciò che piuttosto si dovrebbe chiamare "prurito totalitario di nuovo stile".

Nel febbraio 1992 , ebbe luogo a Parigi un convegno intitolato "Le tribù o l'Europa", al quale, per ufficializzare questa versione dei fatti jugoslavi, è stata invitata tutta la rispettabilità occidentale sia culturale che politica, il che ebbe il grande merito di occultare la natura del regime di Belgrado che ha potuto continuare a impunemente nelle sue imprese.

Poco importa che di fronte alla massa d'immagini e testimonianze schiaccianti per il potere e le forze serbe, diventi impossibile ai nostri esperti in totalitarismo il sostenere a lungo la tesi delle tribù. Essa ha dato tempo al regime di Belgrado per mettere in pratica il suo programma di "pulizia etnica."

E se Bernard-Henry Lévi, dopo essersi accorto della falsità di questa tesi, è obbligato a riconoscere che "oggi (...) le cose sono più complicate e questa idea di una "replica" o di una "regressione" o di un "ritorno" a delle forme fruste, o arcaiche, d'un legame sociale, dà troppo credito alla metafora di una Storia congelata che scioglie uno a uno i suoi cascami" 23, non è meno evidente che il suo rifiuto di tenere conto di ciò che chiama "guerra serbo croata" fa parte dello stesso discorso pericolosamente semplicistico avente il fine, cosciente o meno, di nascondere la novità della situazione e di bruciare contemporaneamente ogni prospettiva futura.

Riguardo l'avvenire tuttavia si sono fatti carico sin dall'inizio tutti coloro che hanno deciso che i popoli dell'ex Jugoslavia dovevano vivere assieme, anche se in nome di uno di essi venivano massacrati.

Sono gli incorreggibili partigiani del dialogo, che credono che l'obiettività consista nel tifare al 50%, anche quando i fatti infirmano costantemente questa risibile concezione d'imparzialità.

Nella stessa linea metodologica numerosi sono anche quelli che cercano di scusare il loro silenzio esaltando attraverso la città pluri-etnica di Sarajevo una Jugoslavia miniatura di quella che non possono più reclamare.

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Fantasticheria consensuale a piacimento, che permette soprattutto di esaminare parzialmente una realtà che si presenta in blocco, ed in maniera molto coerente, e che consiste in questi dati:

- il Memorandum SANU, fondamento teorico della politica di "pulizia etnica", formulato nel 1986 in seguito alla sanguinosa repressione dei moti del Kosovo da parte del potere di Belgrado nel 1981,

- le manifestazioni del 1988 contro l'Armata Federale in Slovenia che annunciavano gli scioperi ed i moti del 1989 nel Kosovo,

- ed infine l'assedio di Vukovar contemporaneo al licenziamento di 6000 insegnanti albanesi del Kosovo nel corso dell'estate 1991...

Si è voluta preservare la più che fittizia unità jugoslava così bene che si è arrivati a privilegiare un popolo a detrimento degli altri.

Inoltre, col pretesto che Sarajevo appariva all'intellighenzia, per principio internazionalista, più "politicamente corretta", si è giunti allegramente all'impasse nei riguardi dell'oppressione diversificata di un regime che attenta nondimeno all'identità di tutti.

E ciò che è più grave, questo pretesto è il miglior modo di camuffare più a lungo quella nuova specie di totalitarismo che il crollo del mondo comunista ha fatto apparire sul territorio della vecchia Jugoslavia.

Non bisogna farsi ingannare dall'ultimo punto di vista che ci si propone, dove l'accento non è messo più sul carattere regressivo della situazione ma, all'opposto, sulla sua modernità, e che questa volta stabilisce una nuova equivalenza tra nazionalismo serbo, quello croato e l'integralismo mussulmano, da mettere nel credito disastroso di cinquant'anni di jugo-comunismo.

Tutti gli pseudo gauchisti vanno pazzi per questa interpretazione, che salva in una sola volta la loro purezza teorica e la loro esecrazione del mondo. Ne consegue che si tratta di un altro modo di impedire ogni analisi futura, oscurando definitivamente la specificità del potere di Belgrado.

Per apparentemente meno stupida che sia, questa tesi è altrettanto falsa delle altre: non si può mettere sullo stesso piano aggressore ed aggredito, non si può mettere sullo stesso piano uno Stato che precipita freneticamente nel peggiore totalitarismo, con nazioni che cercano avventurosamente di uscirne.

Dietro questa equivalenza ingannatrice c'è il fantasma d'una unità perduta, la cui nostalgia serve a dissimulare il fatto che il totalitarismo sta gettando le sue maschere come mai nessun altro l'ha ancora fatto.

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UN PRODOTTO RIDUCIBILE DI SINTESI

Io non credo al progresso, ed ancora meno nell'orrore che in ogni altro ambito.24 Ma vi sono delle innovazioni che cambiano la sventura degli uomini. Qui si tratta dell'ideologia che oggi devasta l'ex Jugoslavia: pur sembrando una sinistra ripetizione, è invece un prodotto riducibile di sintesi che brucia tutte le piste, confonde tutte le finzioni e permette tutte le denegazioni.

"Ho l'impressione che in Occidente nessuno sia ancora cosciente dell'epidemia che sta avanzando", non esita a dire un oppositore al regime di Milosevic come l'architetto Bogdan Bogdanovic. "Si tratta di un virus pericolosamente ringiovanito, ma anche modificato. Come se questo nuovo nazionalismo avesse ingurgitato tutta l'arroganza concentrata dei marxisti, il loro spirito di esclusione e tutta l'ipocrisia bolscevica fondendosi con le varianti più morbide dello pseudo romanticismo" 25.

E Bogdan Bogdanovic precisa: "Un collettivismo fanatico ha rimpiazzato un altro, da cui la possibilità incredibile , mai vista prima, è di veder apparire sempre di più degli ibridi di bolscevismo e fascismo, di bolscevismo e razzismo, di neo stalinismo ed anti titismo..." 26

E' dubbio che le strane vie prese in questa faccenda dal nazionalismo e dal razzismo invitino a interrogarsi su questa ibridazione e l'inumanità nuova che ne risulta.

Contrariamente ai nostri specialisti che si ostinano a ritrovare nell'orrore jugoslavo i demoni che essi pretendono di combattere da tanto tempo, quelli che lottano oggi in Serbia contro ciò che si deve chiamare nazional-comunismo serbo non si sbagliano: "E' da tempo che io sono stupefatto: il fascismo, che si qualificava come "l'ultima fase del capitalismo in decomposizione", sarebbe invece "l'ultima fase del socialismo in decomposizione" 27.

Non c'è da meravigliarsi allora che le armate di Milosevic rinnovino la lunga tradizione di pulizia etnica 28, riaffermata e messa in pratica durante la Seconda Guerra mondiale dal generale Nedic, dal generale Mihajlovic ed i loro Cetnici. Ne tantomeno per la recente collusione del potere di Belgrado colla chiesa ortodossa che, con un messaggio del Patriarca Pavle e tutti i vescovi, dopo aver consacrato l'anno 1991 alla vendetta dei martiri serbi, spiega ai suoi fedeli che "il popolo croato è un popolo genocida " 29 , ed a proposito di Vukovar che "...tutti devono prendere parte alla pulizia, tutta la popolazione serba" 30.

Poco importa infine se l'ideologia risorta in Serbia, non panslavista ma piuttosto panortodossa, nel momento che si espande nell'Europa dell'Est, non sia più nuova dell'ideologia pangermanica all'apparizione del nazismo.

Tutto ciò è da mettere in conto del gigantesco bricolage di tutte le forme di esclusione che si sostanziano nel nuovo concetto di nazional-comunismo.

Poiché se, come insiste Hannah Arendt, una delle caratteristiche maggiori dei due totalitarismi dei nostri tempi è di non avere "mai predicato dottrine nuove" 31, e di non aver "mai inventato l'ideologia che fu già popolare" 32, la specificità del nazional-comunismo è di integrare questi prestiti in un processo di innesto e ibridazione senza limite. Oppure, come si dice, che il fine giustifica TUTTI i mezzi.

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E' su questo modello che si è sviluppato lo stupefacente percorso di Milosevic dopo la sua ascesa alla carica di presidente della Lega comunista di Serbia nel 1986.

La sua utilizzazione d'una critica populista della burocrazia di Tito, parallelamente alla ripresentazione di una identità serba minacciata dai più prossimi vicini albanesi, combina due temi poco nuovi entrambi. Molto giustamente Paul Garde avvicina al modello maoista "la rivoluzione culturale serba" 33, grazie alla quale Milosevic riuscì, tra il 1986 ed il 1989, ad eliminare i suoi avversari suscitando "un entusiasmo popolare delirante che condiziona le masse a lungo" 34 e che gli serve da "leva per imporre delle trasformazioni profonde alla sua repubblica ed a molte altre entità federali" 35.

Nondimeno è solo dal collage di questa pseudo-rivoluzione culturale con un sentimento nazionale esacerbato da una serie di comizi tenuti dal 1987 al 1989 che è nato il nazional-comunismo serbo, portatore di un nuovo razzismo la cui virulenza trova una sua nuova fusione nello stampo socialista.

E pertanto, cosa c'è di più ripetitivo che il razzismo nella sua logica e le sue pratiche? Invano si cercherà qualcosa d'inedito in questa dichiarazione recente, insieme ad altre mille, di un investigatore serbo sugli incidenti avvenuti nel 1991 nella Slavonia orientale (Croazia): "L'obbiettivo secondo me , non è solo di difendere la Serbità, ma di pulire il territorio per arrivare ad uno Stato etnicamente purificato" 36

Questa dichiarazione costituisce un perfetto esempio della logica di autorazzizzazione 37 che fu quella del nazismo, e che riposa sull'affermazione assoluta di un'identità razziale che giustifica purificazione, epurazione, sterminio.

Tutti i discorsi dell'attuale potere serbo ne partecipano, come testimoniato da questo annuncio, simile a tanti altri, fatto dal "ministro" dell'informazione della Barania e della Slavonia occidentale, proclamate province serbe indipendenti all'indomani dell'invasione della Croazia : "è ben evidente che espelleremo tutti coloro che hanno mariti o mogli croate, perché non pensiamo, a causa di qualche migliaio di famiglie miste, di mettere in questione le altre, nazionalmente pure. "38

Apparentemente nulla di nuovo a questo proposito. Tuttavia merita che ci soffermiamo sul commento che ne fa l'avvocato Nikola Barovic, partecipante ai colloqui del Circolo di Belgrado: "Perché ciò possa essere realizzato e perché possa essere costruito un nuovo mondo, perché possa essere migliorata la storia passata, per poter rimediare a ciò che successe in Kosovo nel 1389, al fine che si ristabilisca ciò che esisteva mille o cinquecento anni orsono e che non è mai esistito: ogni villaggio, ogni città devono essere distrutte. Questo si può paragonare a Pol Pot." 39

Il parallelo colla Cambogia è lungi dall'essere fortuito. Da parte sua, dopo aver visto i villaggi devastati in Croazia ed i bambini traumatizzati che vi si trovavano, il prof. Minkowsky, in una conferenza stampa nel giugno 1992, affermava che ciò gli ricordava il "lavoro" dei Kmer Rossi dei quali aveva potuto constatare le devastazioni. Come se , nell'uno e nell'altro caso fosse evidente una volontà di far tabula rasa prevalente in quel momento su tutte le altre motivazioni.

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E' oramai noto che "sul territorio dell'ex Jugoslavia la pulizia etnica appare non come conseguenza della guerra ma piuttosto come il suo obbiettivo"40 come sottolineava Tadeusz Mazowiecki durante la sua seconda missione nell'ex Jugoslavia, senza perdere di vista il razzismo che prolifera in tutti i territori dove ha regnato il regime comunista. Quando lo stesso Mazowiecki stima che "la purificazione etnica ha già largamente raggiunti i suoi obbiettivi"41 .... "I Mussulmani ed i Croati che vivono nelle regioni controllate dalle autorità serbe, si trovano sotto enormi pressioni e nel terrore. A centinaia di migliaia sono stati forzati ad abbandonare le loro case e tutti i loro beni per salvarsi la vita" 42, si è in diritto di domandarsi se la forza stupefacente del nazional-comunismo serbo non sia riuscita a dar corpo a ciò che assillava le vecchie democrazie popolari.

Detto altrimenti, se non abbiano paradossalmente la stessa origine la distruzione di Vukovar, i crimini razzisti dell'autunno 1992 perpetrati nell'ex DDR da bande neo naziste, i campi di concentramento serbi, senza parlare dell'antisemitismo del movimento Pamiat o di quello che si chiama il "bolscevismo nazionale russo" dell'Unione degli Scrittori di Russia...

Canalizzato, attizzato, esacerbato da Milosevic dopo il 1987 all'interno delle strutture del partito comunista serbo, questo razzismo ha acquisito nella vecchia Jugoslavia un carattere orchestrato che non ha potuto prender piede negli altri paesi dell'Est, dove è risorto qua e là con fiammate improvvise. Ma non siamo alla fine delle nostre sorprese.

Un esempio: l'adozione alla quasi unanimità, il 18 febbraio 1993, da parte dei deputati russi, di un ultimatum 43 che esigeva dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU sanzioni contro la Croazia allorquando questa si apprestasse a riprendere i territori occupati dalle forze serbe che dovevano esserle restituiti.

Questo rivela un inquietante complicità di punti di vista dell'attuale potere russo col governo di Belgrado.

Ma ciò testimonia che nella vecchia Jugoslavia - come nell'URSS e simili - le divisioni nazionali sono state tradizionalmente incoraggiate da un potere centrale che le manipolava per proprio conto, fino a lasciar pensare che l'inverso dell'internazionalismo "proletario" proclamato era innervato di tutti i particolarismi.

Potrebbe essere meno una perversione dell'ideologia comunista, come molti vorrebbero credere, piuttosto che una sua strana filiazione. Per lo meno è ciò che suggerisce la riflessione di P.-A. Taguieff sulle "autorazzizzazioni paradossali", dove la superiorità si determinerebbe con una "non appartenenza culturale", illustrata dal " tipo del militante senza radice", assicurato di far parte della "razza"degli spiriti senza razza" 44.

Razzismo astratto, si potrebbe dire, razzismo sotto vuoto, suscettibile di divenire un crogiolo per tutte le forme di esclusione. Poiché se "il buon rivoluzionario, in una tale prospettiva, è il soggetto sradicato, decomunitarizzato" ,45 si afferma la superiorità della nomenklatura, la cui caratteristica è di congelare come irreali coloro che non vi appartengono. E ciò sino a distruggere tutti i legami, affettivi, sociali,

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tradizionali, culturali...suscettibili di aiutare a contestare questa superiorità fittizia col sentimento d'inesistenza imposto agli esclusi.

Là si ritrova sicuramente l' " esperienza di assoluta non appartenenza al mondo" 46 sulla quale si fonda il dominio totalitario, secondo Hannah Arendt.

La novità del nazional-comunismo sarebbe, all'occorrenza, che paradossalmente questa "esperienza di assoluta non appartenenza al mondo", i carnefici la condividono colle loro vittime. Poiché non sono delle nozioni pure astratte di Proletariato, Classe, Storia...che non hanno mai potuto legare costoro alla comunità alla quale essi credevano di appartenere. E' da un tessuto sociale distrutto da cinquant'anni di ideologia menzognera che emergono oggi tanti assassini.

Da qui l'apparente mancanza di coerenza ideologica di questo nazional-comunismo in confronto alle altre imprese razziste: derivato dall'astrazione, non per questo non è più pericoloso, poiché il suo principio di esclusione è suscettibile di nutrirsi di tutto ciò che può dargli maggior realtà. Da ciò deriva la facilità colla quale il razzismo di sintesi uccide le popolazioni civili: essa è imputabile anche all'intercambiabilità teorica degli individui nel sistema socialista. E la ferocia, che sorprende gli osservatori dell'impresa di distruzioni in corso, deve pure molto a una tale ibridazione. Ed eccoci molto lontani dal semplice ritorno dei vecchi odi, quando questa ibridazione, dovuta a decenni di storia manipolata, di memoria distrutta e di realtà truccata, rende conto di una devastazione morale, sensibile ed intellettuale la cui caratteristica è deteriorare tanto il passato che il presente ponendo terribili ipoteche sull'avvenire.

Non che io ritenga l'Europa al riparo da simili disgrazie. Può essere solo una questione di tempo , visto la velocità colla quale la vita vi si degrada. Tuttavia la differenza è che le distruzioni umane - per allarmanti che siano - non sono ancora direttamente collegate alle distruzioni di un'ideologia imposta colla violenza di Stato che laggiù si riproduce per "clonazione terrificante" 47, per riprendere le parole di Bogdan Bogdanovic.

Dove trovare un'espressione più giusta per definire la nuova atrocità dello "stupro come strumento di pulizia etnica"? 48

Una volta di più avranno buon gioco coloro che cercano di ridurre gli avvenimenti jugoslavi alle categorie conosciute. Non vi sono infatti guerre dove gli stupri non siano stati commessi abbondantemente. Tuttavia non è ormai più possibile dubitare che "per la prima volta (...) nella storia militare moderna , lo stupro è stato utilizzato, nel corso del conflitto nell'ex Jugoslavia , come arma di guerra" 49, ed è pertanto questa novità , che tutti evitiamo di affrontare, che ci lascia stupiti dall'atrocità delle testimonianze. Poiché al di là della "straordinaria crudeltà in grande scala degli stupratori" 50, come al di là del numero inimmaginabile delle vittime che non sono sopravvissute - in particolare minorenni di meno di 15 anni morte per gli stupri

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ripetuti - c'è in questa utilizzazione dello stupro come arma genetica una perversione che ci rifiutiamo di considerare.

Innovazione senza precedenti: il crimine infatti non è più legato alla morte, ma alla vita. La "pulizia etnica" fa qui economia di sterminio per preferirgli la riproduzione, ma una riproduzione avvilente. Di modo che, rivelando perfino nel crimine la menzogna della lingua della giungla, questo mezzo di "pulizia" attraverso lo stupro ha la funzione di sporcare. In ciò si oppone completamente all'eugenismo nazista, che era per una politica di sterminio coll'obbiettivo inverso di assicurare la purezza della razza.

Qui, al contrario, la serbità alla quale si richiama il nazional-comunismo di Belgrado è una nozione sfumata, volta a volta legata al territorio, al sangue o anche alla religione, a credere all'ideologo e presidente del Partito radicale Serbo, amico di Milosevic, Seselj, che nel 1991 incitava a "sgozzare i Croati non col coltello, ma con un cucchiaio arrugginito" 51 : "I mussulmani di Bosnia sono in realtà dei Serbi islamizzati, ed una parte dei sedicenti Croati sono in realtà Serbi di religione cattolica. Tito ha forzato un milione di Serbi dopo la guerra a dichiararsi Croati" 52.

E' in questo senso che , legata alla natura ibrida del nazional-comunismo, questa nuova utilizzazione dello stupro delle donne, in maggior parte detenute sin a quando fosse loro impossibile abortire, supera paradossalmente il progetto di "pulizia etnica", anche se "la pratica dello stupro in Bosnia non è un effetto secondario del conflitto, ma si integra ad una politica sistematica di umiliazione...perpetrata coll'intenzione deliberata di demoralizzare, terrorizzare le comunità, per spingerle fuori della loro regione, e di mostrare la potenza delle forze di occupazione"53 . Praticati non tanto per propagare la "razza" serba quanto per deteriorare infinitamente l'Altra, questi stupri si impongono anche come atroce spettacolo della vita presa in ostaggio dall'ideologia, della vita fecondata criminalmente dall'ideologia, della vita avvelenata dall'ideologia sino all'avvenire, come se noi assistessimo alla catastrofica realizzazione di crimini teorici non commessi sino a qui che sul piano simbolico.

Per di più non può lasciarci indifferenti che le autorità mussulmane e cattoliche vengano a prestar man forte, sebbene denunciandoli, all'ignominia di quest'impresa di stupri pianificati. Si sa infatti che "al tempo della Conferenza internazionale sui diritti dell'uomo, i rappresentanti dei paesi islamici hanno invitato fermamente le donne violentate incinte a dare la vita ai loro figli ed allevarli nello spirito dell'Islam, e consigliato ai Mussulmani di sposare queste donne"54 Basta infine che papa Giovanni Paolo II° si sia di nuovo vergognosamente distinto, dopo aver denunciato in Africa l'impiego del preservativo come protezione contro l'AIDS, comandando alle donne violentate di custodire il bambino, per misurare la forza rivelatrice dell'orrore jugoslavo. Esso infatti dà corpo ad un rapporto col mondo nel quale tutti gli oscurantismi trovano il loro pascolo naturale.

Disgraziatamente ciò non è casuale. Come non è un caso che il famoso Memorandum SANU abbia sigillato nel 1986, con la coalizione del Partito, degli Scrittori, dell'Esercito e della Chiesa , tutte quelle istanze repressive che sono all'origine del nazional-comunismo serbo. Che questo, dopo di allora, abbia

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prosperato nelle proporzioni che si sa, non ha nulla di sorprendente: il terreno era preparato, come mai prima, attraverso le distruzioni di una ideologia che nel suo fondamento si era già presa la vita.

Se dopo averlo negato per più di trent'anni, oggi è senza dubbio di moda affermare la similitudine tra arte nazista e realismo socialista, in particolare attraverso l'immagine di una gioventù sana - la salute della quale è esibita sino all'oscenità - che serviva a nascondere la bastonatura ideologica da essa subita, nondimeno ci sono delle differenze. All'inverso del realismo socialista, l'arte nazista non mette mai in scena questi corpi menzogneri se non sullo sfondo di una natura intatta, simbolo della purezza originale alla quale aspira. Non perchè il nazismo non abbia avuto il tempo per ancorarsi nella storia, ma perché il suo proposito sta tutto nell'esaltazione e realizzazione di una razza pura.

All'opposto, la fabbricazione dell' "eroe socialista" implica un'altra concezione del mondo dove la storia, la cultura, le tradizioni ma anche la natura sono completamente rivedute e corrette. Mentre la "cultura" nazista può essere considerata come un prodotto di totale sostituzione, dovessero perirne gli uomini in breve tempo, la cultura "socialista" è stata al contrario un prodotto di infiltrazione facente capo ad un deterioramento attivo del reale tutto intero, come ne testimoniano oggi, una dopo l'altra, le catastrofi ecologiche delle quali l'agricoltura e l'industria socialiste sono state le promotrici.

E' giocoforza constatare che l'attuale utilizzazione dello stupro come arma genetica acquista tutto il suo significato in questa prospettiva: non si è giustamente sottolineato che rispetto alle altre pratiche di stupro legate alla guerra "c'è una differenza importante " consistente nel fatto che questa differenza “ ...si manifesta come una catastrofe programmata dagli uomini " 55 ?

Ed infatti, al di là del saccheggio dell'individualità di ogni donna, al di là dell'annientamento del suo potere amoroso, emerge dalle testimonianze raccolte che nessuna di esse ritornerà nel luogo, nella regione dove sono state trasformate in armi contro se stesse e contro il popolo al quale esse appartengono. Di modo che più della loro distruzione interiore, è la totalità del loro rapporto col mondo che si trova pervertito, attraverso il deterioramento definitivo dei loro legami affettivi, familiari, sociali, facendo di loro persone assolutamente spossessate di se stesse. A maggior ragione quando in numerosi casi gli stupratori sono stati identificati nei vicini - si è perfino arrivati a che delle bambine riconoscessero i loro educatori fra gli stupratori - ne consegue che "come l'incesto in famiglia tocca il legame di filiazione, così la crudeltà endogena tocca il legame sociale, il patto di fratellanza che sottende tutta la vita in tempo di pace. La qualità del passato allora è essa pure assassinata " 56

Condannate a portare, nutrire, a convivere nel più profondo di se stesse con ciò che le nega per sempre, non c'è una di queste donne che non sia, da sola, l'incarnazione delle distruzioni del totalitarismo.

Sarà per il fatto di essere riuscito a spezzare totalmente gli esseri umani che il totalitarismo jugoslavo, riattingendo catastroficamente alla sua essenza, sia venuto a prendersi proprio ciò che gli scappa naturalmente? Voglio dire, a prendere ciò che nella donna non dipende più da essa che dagli altri, ma la collega alla vita stessa.

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Come se, al di là della volontà di proteggere la "razza" serba, si trattasse di negare in ogni donna l'imprevedibilità della vita alla sua sorgente stessa. Di modo che si chiude il cerchio - che riconduce al nazional-comunismo - delle devastazioni, del quale il campionario ci viene dalle vecchie "democrazie popolari", facente capo a tutte le specie di crimini commessi sinora contro l'ambiente, sino al divenire umano.

Forse che la distruzione collettiva di Cernobil avrebbe qui trovata la sua replica, in scala individuale , nello stupro etnico?

Ciò che poteva ancora passare per risultato d'un errore prevedibile che tocca le vite nel loro sviluppo sarebbe oggi rimpiazzato da un'impresa deliberata che tocca la vita sin dal suo inizio.

Arrivati al punto in cui siamo è difficile non interrogarsi su tale progresso. Certo si è visto in Cernobil , lo so, la fine dell'impero sovietico, poiché la

catastrofe aveva distrutto ogni restante illusione ideologica, sino a svelare quale devastazione serviva a celare. Altri non hanno esitato a riconoscervi l'immagine della disintegrazione del sistema comunista. Sarebbe stato molto meglio non abbandonare la metafora in cammino e seguire molto attentamente lo sviluppo di una catastrofe così esemplare.

Soprattutto quando l'esplosione del complesso jugoslavo , in inversione speculare, sembra dare l'immagine di un mondo dove la catastrofe non è più nell'ordine delle eccezioni, ma rappresenta il sinistro corso delle cose.

Senza dubbio si era sognato di finirla col totalitarismo dei paesi dell'Europa dell'Est, come si era riusciti a tamponare la minaccia di Cernobil.

Pertanto, neutralizzato in tempo, vagamente domato, difficilmente colmato, il complesso di Cernobil continua ad emettere inquietanti radiazioni, anche se si lavora a mascherare la cosa sia da parte dell'ex URSS che dell'Occidente.

Va fatto notare similmente come l'Occidente si sia mostrato rassicurante e in mala fede a proposito dell'esplosione dell'ex Jugoslavia, come ieri a proposito di quella di Cernobil, per ingannare le vittime ed i testimoni più o meno lontani.

Quanto alle misure di ritorsione prese contro la Serbia, esse valgono l'efficacia delle misure di protezione dopo la catastrofe di Cernobil, nel mentre stabiliscono il disprezzo dei burocrati sovietici per i loro soggetti che trovano normale riscontro nel corrispettivi dell' Occidente.

Come pro memoria ricordiamo questo scoop de L'Humanité del 12 maggio 1986" A proposito della catastrofe di Cernobil : del pericolo nucleare, parliamone! Le

campagne sul pericolo "giunto dall'Est" servono a far dimenticare ciò che minaccia realmente l'umanità: il fantastico riarmo atomico lanciato da Reagan" 57

Ciò riecheggia François Mitterand quando spiegava ai francesi che le violenze commesse in Bosnia non vanno attribuite all'armata serba ma "alla guerra che si lascia andare" 58 . Oppure l'intervento dell'inenarrabile generale Morillon, capo dell'INPROFOR dell'ONU in Bosnia Erzegovina, che il 13 ottobre scorso ricordava che "nessuna sanzione era prevista in caso di violazione della risoluzione che interdice i voli militari sopra la Repubblica"… e "ciò va benissimo". 59

Sia ciò che sia, è tempo di vedere che i padroni del mondo hanno tutto l'interesse a non smettere di agitare i fantasmi della regressione nazionalista: ne traggono il

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duplice vantaggio d'impedire di combattere la nuova realtà nazional-comunista e contemporaneamente impedire la possibilità stessa di un internazionalismo, che consiste oggi nel far risaltare la complicità sovranazionale dei poteri che tendono ad ottenere lo stesso silenzio dalle vittime e dai testimoni.

"...UN RUOLO DISCRETO, MA MAGGIORE"

"Sulla Jugoslavia penso che l'Europa debba avere un ruolo discreto, ma maggiore: quello di ridurre gli spropositi" 60 , proclamava in dicembre uno dei nostri ascoltati esperti, che si dovrebbero ascoltare molto ancora per capire che confondono semplicemente spropositi e verità di fatto.

Rendiamo pure loro giustizia per averci rivelato, nella stessa occasione, che in questo affare il ruolo dell'Europa è si di ridurre l'orrore che essa garantisce, ma di ridurlo a quasi niente; avvolta in considerazioni ridicole del genere di quelle recenti di François Mitterand sul destino dei popoli jugoslavi che "non hanno la saggezza di gestire diversamente la loro nuova libertà" 61 .

Ciò sarebbe solamente miserabile se queste lezioni di geopolitica delle battute presidenziali non fossero la perfetta espressione della denegazione regnante.

Vista da qui, infatti, la questione jugoslava, a dispetto della sua realtà sanguinosa, ci riporta ad un problema di finzioni:

una realtà in disfacimento - quella del comunismo - per scongiurare la cui perdita l'Europa la sostituisce con la finzione degli odi ancestrali.

L'altra, che sta mettendo radice - quella del nazional-comunismo - che l'Europa si sforza di non riconoscere, mantenendo la finzione di un nazional-socialismo, cui non può per nulla essere comparata.

Gioco di specchi non nuovo se non per la sua improvvisa complicazione. Gioco nel quale l'Europa occidentale è altrettanto esperta che i suoi compari dell'Est.

Se qualcuno si meraviglia ancora di ciò che succede sul territorio dell'ex Jugoslavia , indipendentemente da una complessità geopolitica che esacerba oggi i contrasti ma che rende altrimenti la sua immagine sfuocata a volontà, gli specchi sono manipolati , da una parte e dall'altra, in modo da stornare l'attenzione sulla natura totalitaria della Jugoslavia titista.

E' bastato che Tito avesse rotto con Stalin perché ci si persuadesse di trovare nel suo regime il socialismo introvabile, del quale l'autogestione jugoslava è stata a lungo ed a più riprese la stupida bugia?

Delusione dopo delusione - e ve ne sono state molte, la Cina, Cuba, la Cambogia, il Vietnam...- ci si è lo stesso abituati a vedere gli uni o gli altri, pensando di medicare le loro piaghe e riconciliarsi teoricamente colla loro dottrina deteriorata, ricorrere all'autogestione.

Ciò è così vero che, per il suo posto privilegiato fra i due blocchi, la Jugoslavia titista ha potuto servire per una quarantina d'anni, a sinistra come a destra, volta a

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volta da anestetico o da tonico. Ciò che dà a posteriori la misura del poco credito che l'Europa occidentale ha sempre accordato alla realtà.

Infatti, contrariamente ad un'opinione che soddisferebbe tanto il mondo, il regime titista non ha mai rappresentato una sfida antistalinista. Per decisiva che fosse la rottura di Tito coll'URSS nel 1948, essa ebbe per effetto di dividere, come insiste Stevan K. Pavlowitch, "il Partito comunista di Jugoslavia non in stalinisti ed antistalinisti, ma in stalinisti "realisti" (i titisti) ed in stalinisti "idealisti" (i cominformisti)" 62.

Quanto alla specificità del regime jugoslavo, essa era legata ad una semi-indipendenza in rapporto all'URSS, che ciononostante non impedì mai al potere titista di "rinunciare alle sue origini ne alle sue aspirazioni totalitarie, tanto più che senza l'esperienza acquisita da Tito alla scuola di Stalin la Jugoslavia ed il suo partito comunista non avrebbero mai potuto tenere testa a quest'ultimo" 63

Ne testimoniano ancora oggi coloro che in gran numero hanno popolato, generazione dopo generazione, il campo di Goli Otok e le prigioni politiche del paese dell'autogestione. Tuttavia ciò meraviglia ancora talmente tanto che non ci si fa mai menzione. Dove e quando in occasione degli ultimi avvenimenti si è detto, nella molteplicità dei commentari, ciò che fu la realtà poliziesca di questo paese? E' con circospezione che si scopre la contestazione studentesca che si fece, tra il 1968 ed il 1971,dapprima a Belgrado, poi a Lubiana, per non parlare della "primavera croata" del 1971, che , per essersi sviluppata troppo vicino al partito comunista croato allora riformista, si è pure tristemente incagliata ed è stata selvaggiamente repressa. Di tutto ciò la stampa francese dell'epoca 64 aveva reso appena conto, contentandosi di segnalare l'esistenza di "nazionalisti" che venivano a perturbare sgradevolmente il più rassicurante regime comunista.

Nessuno è stato incriminato per questa disinformazione. Chi avrebbe avuto l'idea di mettere in dubbio quella che era, da noi come laggiù, la versione ufficiale dei fatti?

Di tali denegazioni per omissione la Jugoslavia titista ha ancora più largamente beneficiato degli altri paesi dell'Est. Usando in effetti molto abilmente una repressione molto più selettiva di quella esercitata nell'URSS o nelle altre democrazie popolari, il regime di Tito ha saputo effettuare il cambio come nessun altro dei suoi simili.. Ciò che si desiderava dare, e che tale fu, era di offrire l'immagine la più perfetta. Di modo che le tesi del ritorno agli odi ancestrali e delle responsabilità equamente ripartite si sono del tutto naturalmente imposte, al fine di salvare e prolungare la menzogna. Sino a lasciar supporre che la determinazione colla quale ci si intestardisce ancor oggi a voler contenere aggressore ed aggredito nella prigione di questo paradiso perduto - a costo che l'aggredito dovesse morirne - è proporzionale all'importanza di ciò che deve essere e restare occultato.

Ciò che l'Europa non ha voluto vedere, e che oggi si sforza sempre più di dissimulare, ecco che i popoli dell'ex Jugoslavia glielo mostrano, meno attraverso il loro dolore che attraverso il loro rifiuto. Rifiuto concertato, inatteso, rifiuto fisico, si potrebbe dire, di fare ancora una volta le spese della menzogna.

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Così hanno il torto immenso di non essere solo delle vittime un po troppo in vista - l'aiuto umanitario è là per trattarlo - ma di essere vittime che, giustamente, non si lasciano trattare.

Vittime che non si lasciano convincere di morire di fame quando invece muoiono di guerra. 65

Vittime che rifiutano di giocare il ruolo loro suggerito, mediante aiuto umanitario, i caschi blu ed l'assistenza internazionale.

Vittime che resistono e che, resistendo, spezzano il gioco internazionale ma soprattutto la sua dimensione spettacolare attraverso le sue panoplie di lusinghe.

Si può immaginare che coloro che decidono i destini del mondo non abbiano molta simpatia per queste vittime ribelli. Può essere anche che non comprendano ciò che accade nel loro villaggio globale quando, dal suo Journal de guerre, Zlatko Dizdarevic apostrofa Lord Carrington ed i suoi simili :

"Perché siete venuti? Per far sedere attorno ad un tavolo le tre parti in conflitto? Per dirci : "Avete ricevuto le vostre scatole di conserva, ora accettate la divisione " ? Ma ciò non si potrà. Tutte queste grandi scatole scadute, tutti questi pacchetti di Marlboro, questa Coca Cola e cioccolato non servono a niente...sa egli (Carrington) quanta gente è stata assassinata selvaggiamente perché i vari lord pensavano che si può fare ora qui ciò che non si è mai verificato innanzi? " 66

Difficile che la comunità internazionale perdoni a simili vittime il loro rifiuto di sottomettersi ai suoi ordini, temendo allo stesso tempo anche di vedere cadere le finzioni delle quali essa stessa è un esempio eclatante.

Come non lagnarsi con loro di avere svelato che il socialismo meglio temperato dell'Europa dell'Est nascondeva uno dei più duri noccioli stalinisti? Tant'è vero che cercando di salvare l'illusione jugoslava sino a sostenere la tesi buffonesca delle lotte tribali, le organizzazioni internazionali e l'Europa cercano pure di salvare l'illusione che si confonde colla loro stessa ragione di essere. Voglio dire i loro diritti dell'uomo, la loro libertà, la loro democrazia....tanto più credibili che restano allo stato di principi.

Ora è proprio la carta patinata di questi principi che i popoli aggrediti dell'ex Jugoslavia ci fanno vedere rompendo la tradizione dei paesi dell'Est chiusi su se stessi, preoccupati di mantenere a colpi di slogan la loro finzione, che ne facevano dei vicini di sogno. Nell'equilibrio mondiale la cortina di ferro garantiva anche la stabilità delle finzioni.

Su questo punto Hannah Arendt ha mostrato bene che i regimi totalitari riescono ad imporsi sia per la loro propria energia che per la tolleranza dei paesi non totalitari. Ma sembrerebbe che sia vera anche il reciproco, cioè le democrazie occidentali hanno sempre spiato nei loro avversari un'approvazione del loro liberismo, fosse questa derisoria sino alla finzione. Si ricordi l'attenzione ridicola che la stampa internazionale prestava all'abbigliamento di ogni successore di Stalin, inquietandosi di sapere se il burocrate arrivato al vertice dell'edificio poliziesco dell'Unione sovietica , cioè la peggiore canaglia uscita direttamente dagli uffici del KGB, indossasse cappelli inglesi ed abito italiano. Così si lasciava sedurre dalle uniformi bianche di Tito coi suoi bottoni e fibbia del cinturone in oro massiccio, contribuendo fortemente

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all'immensa lusinga jugoslava di un regime del quale l'immagine di un paese "dove si incontrano zingari felici" era così seducente, mentre la sua natura vera era inquietante.

E se in questo gioco di specchi la forzatura di un totalitarismo si misura dall'ampiezza della denegazione che mette in atto, si comprende meglio perché il paese apparentemente più aperto dell'Est abbia avuto, nel momento in cui il blocco comunista crollava, la reazione più dura, rivelando alla sua testa un potere terribile che sino a quel momento si era creduto ingenuamente estinto.

Da questo punto di vista è da notare come i numerosi commentatori dei primi avvenimenti dell'ex Jugoslavia abbiano sorvolato sugli stretti rapporti che il potere di Belgrado aveva intrattenuto con i golpisti sovietici. Si sa che Milosevic fu il primo a felicitarsi con costoro, come si è appreso dallo stesso Ante Markovic – il dileggiato primo ministro federale di allora - messo improvvisamente a disagio in un ruolo di complice.

Il ministro della difesa della federazione jugoslava oggi defunta, il generale serbo Kadijevic, aveva incontrato segretamente il 13 marzo 1991 il generale sovietico Jazov, successimamente arrestato, che allora "aveva accettato di vendere armi all'armata jugoslava senza l'accordo dei due governi." 67

Dettagli? Certo che no. Ciò che è fallito in Unione sovietica è riuscito invece in Jugoslavia. Ma è riuscito col consenso e l'appoggio di un'Europa che, rinnegando se stessa - almeno rinnegando il principio dei popoli di disporre di se stessi, che essa proclama - ha permesso alla finzione jugoslava di durare, dovesse garantirne sino alla mostruosità nella versione nazional-comunista.

Da quando ha coperto questo putsch con dolcezza, l'Europa ha implicitamente dato ragione agli assassini, in disprezzo sia delle loro future vittime che di noi occidentali che ne siamo divenuti testimoni manipolati.

Nella prefazione al Journal de guerre di Zlatko Dizdarevic, Rony Brauman dice chiaramente che "un certo ordine di cose che conveniva rispettare (...) è morto a Sarajevo " 68

Ecco che d'improvviso si vede ciò che non si doveva vedere.Allora, come i padroni del mondo non farebbero di tutto per lasciar morire

Sarajevo ed il resto della Bosnia Erzegovina? In dolcezza si intende , troppa precipitazione rischierebbe di stracciare il tessuto

del velo umanitario che è ormai l'ultimo brandello dell'illusione. Zlatko Dizdarevic lo dice chiaramente: "E' forse per questo che l'Europa, anch'essa, è avvinta oggi da dei miserabili e degli assassini. Visibilmente coloro che non possono uscire da Sarajevo sono i principali testimoni di uno degli avvenimenti più vergognosi che il mondo abbia mai visto. Questi testimoni potrebbero disturbare allorchè il momento non si avvicinasse per un esame di coscienza ." 69

Potrebbero essere testimoni molesti, la cui vita sempre più minacciata prova di giorno in giorno la soperchieria innominabile della congiunzione di due mondi che si prendevano opposti.

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Tanto questa congiunzione è evidente per gli stessi che ne sono gli strumenti, che non insisterei sulla truffa delle istanze internazionali, a dispetto delle dichiarazioni infinocchianti ed attenuanti degli uni e degli altri, che finiscono sempre per garantire il diritto del più forte, sia ieri in Cambogia che oggi nell'ex Jugoslavia.

Ad esempio invece di fare delle tesi di dottorato sovvenzionate dal ministro della cultura sui tagueurs - si avrebbe forse tutto l'interesse ad analizzare , tappa per tappa, come la stessa specie di mascalzoni abbia similmente messo a profitto la retorica menzognera degli organismi internazionali.

Ed è sorprendente come gli aggressori la facciano da padroni nella manipolazione di questa sovra - legalità che sembra fatta per loro.

E come ciò non lo sarebbe se si considera il comportamento delle diverse delegazioni serbe rappresentate a Ginevra da criminali di guerra che sono rispettivamente Karadzic, Dobrica Cosic e Milosevic, il quale, da parte sua , dichiara sin dall'inizio che "i Serbi e la Serbia non sono implicati in alcun modo nella guerra in Bosnia Erzegovina " 70 .

Ancora una volta niente di più attuale delle osservazioni di Hannah Arendt fatte in altri tempi : "Contrariamente a ciò che si sperava, ne l'importanza delle concessioni fatte, ne l'accrescimento del loro prestigio internazionale, contribuirono alla reintegrazione dei paesi totalitari nel concerto delle nazioni, o all'abbandono delle lagnanze menzognere secondo le quali il mondo intero farebbe lega contro di esse " 71.

Si pensi al complotto ordito dalle forze congiunte del Vaticano, dell'Islam, dei Massoni, degli Ebrei, dell'Europa e degli Stati Uniti, dal quale la Serbia attuale pretende di essere minacciata.

Ancora, riferendosi alla sua esperienza storica, Hannah Arendt sottolinea una cosa simile: "Ben lungi dall’impedirle, le vittorie diplomatiche precipitarono manifestamente il loro (dei nazisti ndt) ricorso a metodi violenti ed accrebbero la loro ostilità verso le potenze che si erano mostrate pronte a transigere " 72

Nello stesso momento che le forze serbe continuano a pestare nel mortaio Sarajevo, prendervi di mira i civili, mentre affamano e massacrano il resto della Bosnia Erzegovina, si dovrebbe credere ad un commentario sui recenti negoziati di Ginevra che essi proseguono .

E' per questo che Karadzic, rappresentante i Serbi di Bosnia, si trovava confortato nel dichiarare ai suoi combattenti, il 15 gennaio 1993, cioè nel pieno delle conversazioni diplomatiche, che i Serbi di Bosnia:

" non rinunceranno mai al loro Stato: lo vogliono e l'avranno, che sia composto di una o di più province " 73.

Qualche giorno più tardi non esitava di precisare che :"l'accettazione del piano Vance-Owen non ha per obbiettivo che di condurre ad

una tregua nel proseguo dell'obbiettivo fondamentale: la creazione di uno Stato serbo indipendente in Bosnia, preludio alla sua unione alla Serbia " 74

Tanta impudenza non sarebbe possibile che con la complicità di coloro che ci governano. Essenzialmente preoccupati di trascinare le cose - per favorire

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evidentemente la forza occupante - anch'essi sono divenuti maestri nell'arte del doppio linguaggio.

Ma non è penoso che François Mitterand dica ancora : "La Bosnia vittima di una guerra implacabile " 75 , quando per negare il più a lungo possibile la situazione degli aggrediti è stato messo in scena da tempo di tutto? E ciò al punto che solo gli aggressori non possono non mentire.

D'altronde perché non dovrebbero farlo, visto che tutto è arrangiato di modo che niente e nessuno possa venire a contraddirli? Soprattutto non le vittime, le cui testimonianze sembrano condannate a cadere di fuori come una nebbia che si sciolga al sole.

Quanto all'immagine, la disgrazia è che la sua irruzione - si ricordino i primi reportages dell'agosto 1992 sui campi di concentramento - in fin dei conti non cambia nulla a questo processo di denegazione.

Infatti, passato il primo impatto emotivo, presto dimenticato, non solo l'immagine non colpisce più ma diventa essa stessa sospetta, facendo pensare che possa essere il risultato di una manipolazione o che possa addirittura essere fabbricata.

"In un certo senso” , sottolinea molto giustamente Veronique Nahun-Grappe, “questi crimini contro l'umanità dell’Armata e delle milizie serbe hanno approfittato dell'effetto Timisoara per passare inavvertiti in Francia " (ed in Italia! ndt) 76

Se si è guardato all'intenzione colla quale le famose immagini di Timisoara sono state montate proprio a Belgrado, dalla Televisione ufficiale della Jugoslavia di allora, si può concludere che, falsando assolutamente il gioco, l'immagine ha, da questo fatto, il merito di rendere le cose un poco più chiare.

Insomma non è più necessario agli specialisti della denegazione opporre un contro esempio alla scoperta di ogni misfatto del nazional-comunismo serbo.

Grazie al sospetto in cui ogni immagine ormai può essere tenuta, basta semplicemente negare in blocco tutto ciò che potrebbe essere suscettibile di passare per prova o documento.

Va sottolineato , a questo riguardo, a quale punto la sovrinformazione della quale beneficiamo produce lo stesso effetto della sovrinformazione che ha avuto una parte considerevole nell'asservimento delle masse serbe.

Potendo sia condurre alla più grande indifferenza da noi, che alla più grande esaltazione collettiva laggiù, questa svalutazione assoluta dell'immagine apre la denegazione in tutti gli ambiti.

Ciò al di là delle testimonianze opprimenti riportate dai giornalisti, come pure alla molteplicità di missioni e rapporti speciali effettuati da una folla di esperti.

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Ancora recentemente, dopo l'agosto 1992, il relatore speciale della Commissione dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite, Tadeusz Mazowiecki, si veniva interrogando sul senso della sua attività:

"La mia missione è frustrante. Risento profondamente del fossato esistente fra la moltiplicazione delle inchieste e l'assenza di risultati concreti" 77.

Dopo il tempo che questi rapporti si accumulano - più pazzeschi gli uni degli altri sulla pulizia etnica, il trattamento dei prigionieri, le torture inflitte, lo spopolamento sistematico delle regioni... - sarebbe più giusto di domandarsi invece che a cosa servano, a chi essi servano.

Il fatto è che coloro ai quali potrebbero nuocere non si preoccupano più nemmeno di smentirli. Essi sanno bene che la situazione è tale che nessuna potenza occidentale si avventurerebbe a trarne delle conseguenze.

Il 22 gennaio ultimo (1993) François Mitterand non si sforzava ancora di far comprendere che:

"i responsabili europei non vogliono impegnarsi in imprese senza sbocchi " 78 ?Ciò che bisognava certo capire già il 12 gennaio, quando il ministro francese degli

Affari esteri, Roland Dumas, annunciava con gran fracasso l'intenzione francese "di liberare colla forza" 79 i detenuti dei campi di concentramento serbi, per ritornare sulla decisione l'indomani 13 gennaio dichiarando di "privilegiare il dialogo ed il negoziato " 80.

Come credere, in queste condizioni, alla finzione di un tribunale internazionale per giudicare i criminali di guerra, quando si negozia con loro?

Quindi non si può più parlare di disinformazione imputabile ai media quando si tratta d'una politica deliberata. E' in questo che risiede la novità della faccenda jugoslava, in cui si stabilisce come mai prima d'ora la profonda collusione delle potenze in campo, favorite le une e le altre dallo stesso uso della denegazione, alla quale l'innovazione di un oscurantismo provocato dall'immagine ha contribuito non poco.

L'intervento umanitario, denegazione spettacolare per eccellenza, suscita, tolta qualche eccezione, uno dei più larghi consensi. Ma si nota subito come esso diviene aggressivo, per poco che i beneficiari ne mostrino la sopercheria. Allora immediatamente, e del tutto normalmente, i beneficiari si trovano accumunati agli assassini. Con quale faccia tosta si è commentato il rifiuto degli abitanti di Sarajevo di accettare un aiuto umanitario di questo mese di febbraio 1993, che serviva a nascondere la verità delle forze serbe che, proseguendo la loro pulizia etnica, stavano affamando il resto della Bosnia Erzegovina.

Il nuovo ordine mondiale è quello di una denegazione che proscrive il reale.

Ed eccoci qui, a due anni dall’apertura della caccia sul territorio dell'ex Jugoslavia.

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UNA FACCENDA DI INTELLETTUALI

Nel maggio 1992 le autorità di Belgrado organizzarono a Parigi, nel "Centro culturale jugoslavo" , L'esposizione "Vukovar 1991 - Genocidio dell'eredità culturale del popolo serbo".

Coloro che avevano fatto bombardare ed assediare la città per tre mesi da 35.000 soldati, 600 blindati e centinaia di pezzi d'artiglieria , coloro che avevano uccise 2.000 persone, ferite 7000, deportate 5000 nei campi di concentramento in Serbia, erano gli stessi che esponevano i manifesti di caccia, come fossero essi le vittime!.

Un migliaio di Croati ed alcuni francesi riuscirono ad impedire l'apertura di questa esposizione, del tutto simile alla esposizione di Guernica o Oradour che Franco o Hitler avrebbero potuto mostrare all'estero in piena guerra.

Peraltro lo scandalo fu molto circoscritto. Ad eccezione di un giornalista che aveva visto qualche mese prima Vukovar devastata dopo l'ingresso delle truppe serbe, nessuno nei media volle recensire l'ignominia, e gli intellettuali contattati si tapparono in casa.

L'annuncio, alcuni mesi dopo, di visite organizzate della città, messe in piedi da agenzie di viaggi di Belgrado, passò per una bizzarria che meritava poco posto sulla stampa.

Il 18 novembre scorso (1992), l'armata serba celebrava il primo anniversario della "liberazione" della città. Alla tribuna c'era un ufficiale rappresentante le forze dell'ONU che potè udire il comandante di un'unità serba della città dichiarare : "Vukovar è in rovina ma noi la ricostruiremo. L'importante è che l'aria sia infine pura e che vi possiamo respirare liberamente". 81

Nel frattempo lo scrittore grandeserbo Milan Pavic - che Parigi aveva festeggiato due o tre mesi prima per il suo pietoso Dictionnaire khazars (i Khazari a suo parere erano implicitamente gli antichi Serbi, popolo superdotato) – nel quale il peggior kitsch letterario è mescolato ad un folklore da bazar - aveva proposto, con semplicità, di ricostruire la barocca Vukovar "in uno stile serbo-bizantino mai esistito" . 82

E' troppo , in un anno e mezzo, per una città svuotata dei suoi abitanti dei quali oltre agli uccisi e deportati accertati vi sono anche 3000 "spariti".

E' troppo per le falsificazioni su quello che non è più che "il regno della morte "83E' troppo per le menzogne lanciate, reiterate, accumulate per annientare un reale

che non si vuole arrendere.Siamo ad un tal punto che viene da domandarsi se all'origine di questa nuovo

racconto degli orrori, Vukovar ieri, Sarajevo oggi, non vi sia una agghiacciante frenesia nello sfregiare il reale, sino a distruggere ciò che è per rifabbricarlo da cima a fondo.

- "Cosa fareste se foste presidente serbo?", domandava un giornalista tedesco al leader serbo Seselj.

"Procederei alla mobilitazione di tutti i Serbi, poi con una guerra lampo amputerei la Croazia, ed infine informerei la comunità internazionale delle nuove frontiere serbe" 84.

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Seselj non è divenuto presidente , ma ciò è successo egualmente.- "E se i Mussulmani si opponessero alla soppressione del loro statuto di

nazione?" continuava l'intervistatore.- "In questo caso li cacceremmo dalla Bosnia" 85.-Non fosse per il suo carattere apparentemente tanto folle quanto rozzo, sarebbe

senza dubbio fuori luogo ravvisare una qualche novità in questo "programma ".Mirko Grmek, Marc Gidara e Neven Simac 86 infatti hanno riunito

un'impressionante documentazione che fa partire dall'inizio del diciannovesimo secolo la nozione di "pulizia etnica", come metodo, costantemente riformulato e poi applicato sino alla Seconda Guerra mondiale per realizzare una Serbia "omogenea e pura".

Quanto allo slogan delirante che Jovan Raskovic ha lanciato nel 1990, esso è all'origine del mattatoio attuale: "Là dove c'è un Serbo lì è la Serbia" 87, è evidente che esso echeggia le tesi del 1836 del linguista Vuk Karadzic sul tema "Serbi, tutti e dappertutto" 88 , come pure il programma del movimento cetnico del 1941 che diceva di voler : " realizzare una Serbia nella quale saranno riuniti tutti i Serbi e tutti i territori nei quali vivono i Serbi " 89, anche indipendentemente dal fatto che questi vi siano minoritari, come sta accadendo oggi.

Se infine, dopo il 1986, come nel 1936 e 1941, non si è trascurato di manipolare la storia per dare dei fondamenti pseudo scientifici alla stessa follia della Grande Serbia, si può constatare che nell'irrealtà mostruosa delle attuali dichiarazioni vi è una novità - e considerevole - nel folgorante passaggio alla messa in atto, che lo rendono pertanto più stupefacente.

Non si può per esempio non ricordare infatti, nei diversi interventi di oggi, l'affanno realista di uno dei peggiori teorici della "pulizia etnica", Vasa Cubrilovic, conosciuto per la sua memoria del 1937 "L'espulsione degli Albanesi ", il quale, offrendo i suoi servigi al governo di coalizione diretto da Tito si prendeva cura di sottolineare che: "La soluzione delle questione delle minoranze coll'espatrio è facile da realizzarsi in un tempo di guerra come l'attuale " 90 , per concludere : " Non avremo forse mai più l'occasione di rendere il nostro Stato etnicamente puro, del tutto nostro" 91.

Ciò non contrasta colla condotta del generale Mihailovic che, coi suoi cetnici, aveva utilizzato le circostanze della Seconda Guerra mondiale per tentare di realizzare la sua idea di Grande Serbia; nel mentre non vi è alcun dubbio per nessuno che l'attuale massacro è stato al contrario preparato, programmato e provocato, al di fuori di ogni fattore esterno ed a partire da un consenso dove si ritrovava al gran completo tutta la Nomenklatura comunista serba - Partito, Accademia, Armata, Scrittori – in cui potevano trovare posto i rappresentanti della Chiesa Ortodossa , dati i loro ottimi rapporti colla polizia segreta tanto nell'ex Jugoslavia come nell'URSS - come noto.

In questo senso, il rovesciamento di prospettiva è notevole, lasciando supporre che è stata quella società là che a rendere possibile ciò che sinora mai era stato ancora realizzato. Come se la lunga pratica socialista di strumentalizzazione del reale, che rende gli uomini, le cose, i luoghi, i climi.... modificabili a piacere, rimodellabili a

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piacere, ridefinibili a piacere, avesse provocato il più allucinante passaggio alla messa in atto che si possa immaginare.

Come se l'insieme di piani quinquennali aberranti, di complessi nucleari dubbi, di grandi lavori insensati - a causa dei quali l'inquinamento "socialista" è incomparabilmente superiore all'inquinamento "liberale" - avesse pesato con tutto il suo peso per aiutare una nuova generazione di assassini a schiacciare il reale.

Così, in quanto architetto, Bogdan Bogdanovic è stato particolarmente sensibile, nel momento della distruzione di Vukovar e di altre città della Croazia, a ciò che egli chiama "il massacro rituale delle città".

Nondimeno, indipendentemente dal fatto che questo "massacro" è toccato solo a città non-serbe, e che questo furore distruttivo non ha mai raggiunto il minimo agglomerato o città serba, la disgrazia è che l'attuale saccheggio non interessa unicamente le città come luoghi organici della vita civile e della sua memoria, ma anche le campagne come tessuto di una vita complessa che, ad un preciso ordine ed ad un determinato momento, sono sottratte alla vita umana. Numerosi testimoni riferiscono come le forze serbe si compiacciano di massacrare animali come umani, incendiare stalle come case.

Hannah Arendt sottolineava bene che "gli Stati totalitari si sforzano senza tregua - anche se non ci riescono completamente - di dimostrare che l'uomo è superfluo. E' a questo fine che essi praticano la selezione arbitraria di diversi gruppi da inviare nei lagher, che procedono regolarmente alle purghe nell'apparato dirigente ed alle liquidazioni in massa " 92.

Inquadrato in questa angolatura, il nazional-comunismo si distingue allora nel dimostrare che non solo l'uomo, ma la vita sotto tutte le sue forme, è inutile.

Tale sarebbe il risultato di questa ibridazione totalitaria che permette di ricorrere altrettanto bene allo sterminio che al deterioramento, alla corruzione che alla distruzione. Donde una nuova plasticità della morte, concepibile solamente là dove il Senso della Storia ha modellato gli spiriti per dare il suo ancoraggio teorico al formidabile disprezzo del reale del quale oggi il nazional-comunismo serbo è l'affermazione sanguinosa.

E' ciò che provano verosimilmente i rarissimi oppositori al regime di Milosevic che insistono tutti sulla spaventosa responsabilità degli intellettuali in questa faccenda.

"...Non tenere conto del ruolo dell'intellighenzia dissidente nazionale, del suo ruolo negativo, sarebbe un errore imperdonabile " 93 dice Bogdan Bogdanovic, dimostrando come, a partire dai "monumentali" romanzi di guerra di Dobrica Cosic - attuale (1993) presidente della Serbia, ma precedentemente gloria del realismo socialista jugoslavo - "in una società culturalmente non compiuta, confusa a causa di decenni di oppressione, le immagini letterarie si separano facilmente dal testo e divengono incitamenti all'azione, come gli slogan ideologici da poco, scritti o proclamati alle processioni e parate..." 94

Che dire dello psicanalista Jovan Raskovic, capo del Partito democratico serbo di Croazia, deceduto nel 1992, che ha aperto la strada alla "pulizia etnica"? "La realtà umana si arricchisce dalla distruzione dei mondi interiori. E' nei cataclismi che si

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rivela la realtà etnica del popolo serbo...." 95 dichiarava colui del quale Karadzic , l'altro psichiatra psicopatico, doveva divenire il successore spirituale e politico.

D'altronde , nel gennaio 1992, sei mesi dopo l'inizio dell'invasione della Croazia, Raskovic esprimeva la sua soddisfazione sulla catena televisiva Yutel : "Io mi sento responsabile perché ho preparato la guerra, anche se non si trattava di preparativi militari. Se non avessi preparato questa tensione emotiva nel seno del popolo serbo, non sarebbe successo nulla. Il mio partito ed io stesso abbiamo dato fuoco al detonatore del nazionalismo serbo, non solo in Croazia, ma ovunque altrove, in Bosnia Erzegovina particolarmente. Noi abbiamo guidato questo popolo dandogli la sua identità " 96

Follia d'un uomo? No certamente. Il corso delle cose ce l'ha dimostrato ogni giorno, invitando a domandarci come questa follia abbia potuto prendere corpo.

Per il giornalista Stanko Cerovic, " l'intellighenzia è la maggiore responsabile di ciò che succede oggi " 97. Secondo costui "…il sistema di semilibertà intellettuale precedentemente in vigore in questo paese ha corrotto la sua intellighenzia ad un punto incomparabile rispetto gli altri paesi dell'Est " 98… Con la conseguenza terribile che, anche nel dopo-titismo , l'intellighenzia è rimasta di un opportunismo inaudito ". 99

Ciò pare tanto più vero, sebbene a partire dagli anni sessanta la pressione zdanoviana sulla vita artistica jugoslava si fosse alleggerita più che altrove; malgrado ciò questa rimase sotto costante sorveglianza, checchè se ne sia detto.

Nel gioco di denegazioni ad uso dell'Europa occidentale, nelle quali Tito era maestro più di chiunque altro, si poteva concedere senza rischio una libertà formale inconcepibile in paesi meno esperti nel manipolare quegli strumenti.

Così è a giusto titolo che il potere titista non trovasse pretesti per infierire contro ciò che non aveva senso, e particolarmente contro un modernismo privo di qualsiasi contenuto.

Perché mai l'autorità ideologica avrebbe dovuto manifestarsi contro un triangolo ripetuto migliaia di volte, contro una testualità intercambiabile per definizione, contro dei collage divenuti un passatempo come un altro, contro un surrealismo rivisto e corretto da qualche nomenklatura di Belgrado?

Per contro bisogna ricordare, attorno agli anni settanta, gli attacchi reiterati di Tito contro il pessimismo in materia artistica, contro quel "noir" che con occhio inquieto vedeva sorgere nella musica, nella letteratura e soprattutto nei film, cui invece suggeriva un'arte gaia che dovesse esprimere la gioia di vivere nella Jugoslavia socialista.

Non di meno una censura selettiva continuò ad esercitarsi sulla produzione artistica come nei cervelli, secondo gli imperativi ideologici del momento, assieme ad un’abile "proibizione senza proibire" giustificata da pretese ragioni economiche o tecniche . Si ricorse così molto all'altro modo di esercitare la censura, le sovvenzioni statali, particolarmente decisive in un paese dove il settore privato era ad uno stadio embrionale.

Infine come dimenticare il vergognoso "libro bianco", rapporto confidenziale di 237 pagine dattilografate, realizzato nel 1984 dal "Centro per l'informazione e la propaganda" del Comitato centrale del Partito comunista di Croazia - allora antenna

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del Comitato centrale federale - che inquadrava tutta la produzione artistica jugoslava del momento? Basti il tono :

" Di alcune tendenze intellettuali e politiche nella creazione artistica, nella critica letteraria, teatrale e cinematografica, e nelle relazioni pubbliche di un certo numero di creatori culturali che contengono messaggi politicamente inaccettabili ".

In quel libro bianco figuravano certamente alcuni nazionalisti che avevano commesso l'imprudenza di dichiarasi troppo apertamente contro il marxismo, ma tutta la prima parte dell'opera era consacrata ad esempio alla denuncia delle prime testimonianze sul campo di concentramento di Goli Otok.

Quest'opera anonima fu compilata da intellettuali per lo meno compiacenti, conosciuta in gran parte da coloro che si sono accomodati come da coloro che precedentemente avevano lasciato passare.

Essa ha pesato a tal punto che, a posteriori, non si sbaglia nulla nel far ricadere gran parte di responsabilità di ciò che succede oggi sul buon nome degli intellettuali dell'ex Jugoslavia, i quali raramente hanno avuto esitazione nel sostenere la linea ideologica del potere.

Ciò sembra tanto vero che nel suo Journal Zlatko Dizdarevic, evocando le rotture spesso dolorose alle quali l'ha condotto la guerra, fa riemergere un "imperdonabile passato dimenticato “, divenuto d'improvviso linea di divisione del presente:

" …per anni eravamo immersi insieme nella notte, e insieme ci siamo risvegliati. Abbiamo venerato gli stessi dei e rigettato gli stessi santi, perdonandoci quando ciò era possibile e dimenticando l'imperdonabile. Abbiamo vissuti tutti questi anni assieme , ed eccoci ora differenti: da una parte coloro che hanno rapportato la loro lotta col passato e colla sorte malefica di queste contrade, e dall'altra coloro che sono stati sconfitti dalle loro stesse ombre e dal male al quale non hanno saputo resistere. Non possiamo più proseguire per lo stesso cammino, poiché costoro non erano in pace con se stessi: ecco, questa è la loro tragedia." 100

E tale era la questione che poneva giustamente Radovan Ivsic, nel febbraio 1992, a proposito del dramma jugoslavo:

"…fino a quando si continuerà a tacere qui (in Francia ndt) che laggiù siamo in pieno " nel paese della menzogna sconcertante" 101, che deve la sua storia manipolata, la sua memoria amputata ed il suo linguaggio avvelenato al servilismo ed alla vigliaccheria di due generazioni di intellettuali? " 102

Questione terribile, nell'ex-Jugoslavia come nell'insieme dell'Europa dell'Est, che ipoteca a lungo tutto il post-comunismo, ma che spiega anche l'impossibilità dell’ Europa occidentale a comprenderla.

Poiché il comunismo, contrariamente ad altri regimi, è stato una faccenda degli intellettuali.

Non si insisterà mai abbastanza sino a che punto esso fu la creazione di quelli che l'hanno inventato, messo in pratica, e sostenuto anche quando, dopo un secolo, per poco che fossero sinceri, la gran parte di essi non vi riconoscevano più nulla di quello che avevano sognato.

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E' giusto sottolineare il legame quasi organico tra sapere e potere al quale il totalitarismo comunista ha dato realtà. E più particolarmente sottolineare che un sistema di pensiero totalizzante per sua natura, nel concepirlo, porti ad imporre un potere totalitario.

Si è giustamente sottolineato che " Chi in teoria domina la Storia è assicurato di dominarla in pratica " 103 per spiegare come, in questa prospettiva, il ruolo dell'intellettuale diventi considerevole.

Al punto che, in modo incontestabile, "la tirannia moderna non dà all'intellettuale solo una posizione privilegiata: per certi aspetti essa anche è una tirannia dell'intellighenzia" 104.

Oltre all'asservimento che questa tirannia ha imposto a tutti gli intellettuali i quali, da vicino o da lontano, hanno acconsentito a giustificarla, ha condotto l’intellighenzia ad un pazzesco rapporto del pensiero col mondo portandola disgraziatamente ad un delirio di onnipotenza. L’intellighenzia, alleata ad un’irresponsabilità garantita dal potere, si è imposta, coscientemente o no, ma per lungo tempo, come una sorte di modello della sovranità dello spirito sugli esseri e sulle cose.

Il problema è che questo modello pesa ancora sull'evoluzione di ogni pensiero tendente all'efficienza. E ciò che è più pericoloso, non ne è stata fatta mai la critica.

Ora non si tratta di denunciare semplicemente l'incontestabile desiderio di dominio, come hanno fatto per ben quindici anni i Nouveaux Philosophes, ma di sfrattare l'irrazionalità criminale di un pensiero che, nelle sue aspirazioni, e soprattutto nel suo funzionamento, sotto la razionalità della sua astrazione, fa deliberatamente economia dei corpi.

Certo, l'insieme della produzione realista socialista dimostra, colla sua estetica menzognera, l'estensione di questa perversione del rapporto colla realtà. Ma essa è lontana dal dare un'idea delle devastazioni provocate da cinquant'anni nel corso dei quali la più delirante razionalità non ha preteso niente meno che di assoggettare il mondo a favore della formidabile truffa di una onnipotenza riconosciuta del pensiero, per negare la realtà pur pretendendo di servirla.

Ciò non poteva che portare a pervertire o distruggere la realtà, o più esattamente, ad annientarla qualora non riuscisse a distruggerla pervertendola.

Faremmo molto male a considerare come una semplice battuta la constatazione di Bogdan Bogdanovic che: "i progettisti dell'orrore bosniaco sono due o tre poeti di dubbia qualità ed uno storico della letteratura che non ha fatto nemmeno gli esami , mentre lo stesso Karadzic, psichiatra del suo stato, stratega della sua funzione è - a tempo perso – un poeta folcloristico." 105

Così lo stadio supremo del comunismo non sarebbe il nazionalismo, come supposto da Adam Michnik, ma piuttosto il nazional-comunismo, che s'iscrive nella storia come il raggiungimento della formidabile manipolazione della realtà per farla coincidere con un insieme di idee aberranti, anche se dovessero perire migliaia di persone.

Allo stesso momento ecco che si avvera questa follia mortifera come nessuno l'aveva immaginata, mentre tutti credevano impossibile ormai qualsiasi cosa che gli potesse assomigliare.

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Tale è il più sinistro ritorno del reale, venuto a testimoniare la diretta filiazione del presente dal passato staliniano, nello stabilire, a dispetto delle varie critiche del totalitarismo, che l'attuale epoca non ha mai affrontato la gravità del suo rapporto coll'ideologia comunista.

Di sicuro ciò che oggi il dramma jugoslavo mette in causa, è il suo oscuro collegamento a questa ideologia, come pure l'inquietante modo di pensare che l'intellighenzia ha inconsciamente ereditato da essa, dopo che aveva creduto di essersene distaccata.

Di colpo si comprende meglio l'incredibile reticenza dell'intellighenzia europea davanti alla catastrofe jugoslava, donde anche la necessità di darne l'interpretazione la più sbagliata possibile.

Poiché la disgrazia è che questa intellighenzia non ha veramente rotto col totalitarismo, corrispondente alle strutture profonde di un funzionamento intellettuale che pretendeva di combattere e che non ha mai abbandonato.

So che il punto di vista rischia di sorprendere, quando la stessa intellighenzia non giura più che sul liberalismo, e quando gli attori dell'avventura staliniana stanno scomparendo uno dopo l'altro.

Certo, mi si rinfaccerà facilmente che c'è stato il 1956 col conseguente discredito del comunismo presso molti intellettuali, come pure la primavera di Praga ed il 1968.

Ma cosa potrei opporre più pesantemente del terzomondismo degli anni sessanta/settanta, che sulle prime è servito da splendido pretesto per risparmiarsi la riflessione sul fuorviamento staliniano.

Una tale diversione insperata rivelò ne più ne meno la stessa fascinazione che l'intellighenzia ebbe vent'anni dopo per i regimi della Cina e della Cambogia, dove il terrore e la persecuzione non disturbavano se presentati come involucro di una "rivoluzione culturale".

Si ricordi che tra quelli che hanno partecipato a questa nuova rinascita del totalitarismo, sono emersi nel 1977 i Nouveaux Philosophes.

La virata è stata tanto spettacolare, col suo rumore che lascia ancor oggi una sgradevole impressione di purga, che ha contribuito paradossalmente a chiarire l'irresponsabilità essenziale di tale intellighenzia dagli anni cinquanta ad oggi.

Irresponsabilità che la catastrofe jugoslava porta al gran giorno del giudizio, mettendo questa intellighenzia, abituata a valutare la realtà in funzione delle sue idee, nella situazione inversa, di dover valutare cioè le sue idee in funzione della realtà, cioè di riconoscere che le idee finiscono per incarnarsi.

Si può, ancora una volta, sostenere l'insostenibile?Si può , ancora una volta, scegliere le idee contro la realtà, quando il reale ritorna

a sconfessarle come mai prima, nella più terribile unità di luogo, di tempo e di azione?

Tale è la posta in gioco di questa faccenda, dove ciò che si gioca laggiù nella carne, si gioca qui nelle teste.

Oggi occorre che gli intellettuali siano sotto osservazione più degli altri solamente in questo senso. Altrimenti non varrebbe la pena di prestare tanta attenzione a

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persone che non l'hanno meritata ne per l'eccellenza delle loro opere ne per lo strepito delle loro azioni.

Ma è giunto il momento di misurare fino a dove la loro attitudine significa vittoria della denegazione all'opera, ed esaurimento di ciò che potrebbe opporvisi.

Senza dubbio il periodo staliniano è da lungo tempo terminato. Resta la consacrazione, ma anche l’ancoraggio di un rapporto col mondo nel quale il posto lasciato all'idea non poteva che sedurre la gran parte dell'intellighenzia dell'Est come dell'Ovest.

Il tipo di intellettuale impegnato fu l'espressione di questa fascinazione che ha allettato qui gli uni e gli altri a garantire l'asservimento dei popoli che pretendeva di aiutare, pensando in vece loro, ma anche giustificando la loro persecuzione.

E se, nei paesi dell'Est, molti intellettuali, per interesse, per paura o per vigliaccheria, scusavano il non scusabile, cosa dire di coloro che, al riparo della loro buona coscienza, si ingannano qui (in Francia, ma ovunque all'Ovest - ndt) con una foga tanto maggiore in quanto non rischiano nulla?

Certo, sono abbondanti ormai le memorie degli stalinisti pentiti, per perorare l'alienazione storica e, attraverso questa, fare mostra di una rottura spettacolare con quel tempo. Ma è una rottura formale, se non fittizia, per mascherare soprattutto a quali registri dello spirito fa appello l'ideologia comunista "nel postulare una relazione causale semplice tra comprensione, azione e risultato" 106 .

Volta a volta l'astrazione, la generalizzazione, come pure l'universalizzazione di questa intellighenzia, mai messe in causa per la loro collusione col potere o per la natura stessa del loro rapporto col mondo, non solo non sono mai state sanzionate, ma hanno ricevuto viceversa un credito illimitato e l'assicurazione di un'impunità definitiva.

E ciò vale per la progressiva adozione da parte di numerosi intellettuali dell'Est di forme moderne dell'insignificanza, e dei suoi ticchettii struttural-semiotico-sociologichesi 107 , che contrariamente a ciò che si credeva a Roma o Parigi, hanno sostituito il dominio della Storia col dominio del Senso, come d'altronde è già avvenuto da noi.

Non si dirà mai abbastanza a quale punto lo strutturalismo ed il post-strutturalismo, la decostruzione come la post-modernità ed i suoi discendenti (vedi glossario alla fine) - per differenti che fossero le loro vedute con quelle dell'ideologia comunista – hanno affermato la stessa indifferenza per il reale di questa.

Non è un caso che un certo numero di intellettuali, già compagni di strada, abbiano successivamente ingrossato i ranghi dello strutturalismo, ma anche della testualità e naturalmente della decostruzione.

Da qui la facilità degli scambi intellettuali fra l'Est e l'Ovest, precedenti di molto la caduta del muro di Berlino, molto meno strani di quanto si volesse farci credere,

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che si rendevano necessari come articolazione tra due meccanismi molto differenti ma che si completavano vicendevolmente nella negazione del reale.

Con il tempo furono possibili pure degli scambi culturali standard. Si percepiva la contentezza che interi settori di un sistema potessero convergere coll'altro.

E quando la macchina comunista diede seri segni di usura, si giunse segretamente a sperare che quasi tutti i suoi elementi potessero venire sostituiti, e che la fine del comunismo potesse essere indolore.

Non si poteva certo immaginare che se, per cinquant'anni, " il costo umano - in termini di privazioni, di dolori, d'ingiustizie e di morte - che era il prezzo da pagare (...) per l'instaurazione dei regimi comunisti nella metà dell'Europa, non suscitò mai preoccupazioni ne proteste" 108 , la fine del sistema comunista dovesse ricordare quanto il suo mantenimento era costato, ne trarre una riflessione morale.

Una superficiale pulizia preventiva era già stata fatta d'altronde già da vent'anni dall'équipe dei Nouveaux Philosophes , votati a questo genere di cose.

E perché mai questo passaggio indolore non sarebbe stato possibile, quando in fin dei conti si poteva constatare che la continuità passava per la modernità di un pensiero sempre così indifferente al reale, sin dai tempi della russofilia degli anni cinquanta? 109

E che dire di questa modernità che, ridotta a nient'altro che un discorso contingente, del quale gli aspetti, per innumerevoli che siano, sono altrettante simulazioni di una libertà che abbiamo perduta da tempo - non violentemente ma impercettibilmente, in balia di una indifferenziazione sensibile ottenuta con un costante flusso di immagini e parole - lentamente è pervenuta a spossessare gli esseri umani di se stessi, come in una trasposizione simbolica di ciò che in altri tempi si otteneva colla violenza?

E se si cercava tanto, a torto o a ragione, di convincerci dei meriti del consenso, non era forse perchè i due mondi, il totalitario e quello che dice di non esserlo, avevano cominciato a confondere segretamente i loro metodi per finire con ricongiungersi, all'insaputa di tutti?

Solo che si fecero i conti senza prevedere l'inceppo della macchina jugoslava, l'ultima dalla quale ci si potevano attendere delle difficoltà.

Sfuggiva il fatto che, pur essendo la prima ad aver cambiato quasi tutti i suoi elementi di rivestimento, non aveva cambiato nulla nel suo motore. Minacciato nella sua integrità, è bastato che si sbarazzasse dei suoi multipli belletti per svelarlo come una mostruosa protesi concepita per tenere la vita alla sua mercè. E sotto questa protesi, fatta di idee emesse , sviluppate, perseguite sempre nell'indifferenza per la realtà, non è apparso lo spettacolo degli odi ancestrali che si è voluto farci vedere, ma quello di un corpo amputato, contaminato, squartato, che attraverso l'immensità della sua sofferenza ritornava ad esporre l'immensità della miseria intellettuale che pretendeva di assoggettarlo, o anche semplicemente di passargli oltre.

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Un catastrofico ritorno del reale che testimonia non già le macerie delle ideologie, come ci si ripete in tutti i toni, ma gli incommensurabili misfatti e le loro metamorfosi, ci dimostra che le idee finiscono sempre per incarnarsi.

E' ridicolo ma istruttivo, a questo proposito, osservare gli uni e gli altri menzionare oggi, ad ogni occasione, La società dello spettacolo 110 , che ignoravano sin poco tempo addietro.

Ognuno usa quest'accoppiamento verbale quasi fosse l'inventore della teoria conosciuta sotto questo titolo. Tuttavia, per ridicolo che sia, una tale improntitudine non è del tutto gratuita.

Facendo come se avessero capito che "il solo fatto di essere rimasto senza replica ha dato al falso un qualità nuova" 111 e che " di colpo il vero ha cessato di esistere quasi dappertutto " 112 , i professionisti del pensiero hanno dedotto, per loro tornaconto, che il reale non è altro che ciò che essi ci dicono.

Ed infatti ci hanno talmente mentito che eccoci qua obbligati a credere loro sulla

parola, non essendo nulla di più vero delle parole che essi pronunciano, nel momento dove le enunciano.

Cosciente o no, quest'utilizzazione a contrario delle tesi di Guy Debord rappresenta un passo in più verso la denegazione del reale, ormai presentato come un residuo, un rifiuto da eliminare totalmente prima che sopravvenga l'imprevedibile, come nell'affare jugoslavo.

Ne consegue un trattamento continuo dell'informazione per stabilire sistematicamente la non-importanza degli avvenimenti, ed io non ho fatto altro che parlarne.

Resta la denegazione, il cui obbiettivo sembra a prima vista indeterminato, che si ricongiunge paradossalmente al peggiore trattamento ideologico del reale. Ciò si riconosce a prima vista dalla brutalità estrema colla quale la nostra società della concertazione e del consenso rigetta la realtà jugoslava.

Resta una curiosa similitudine tra l'insistenza grossolana dei responsabili e commentatori nel reiterare la loro interpretazione sbagliata degli avvenimenti, sino a sbarrare la via ad ogni altra interpretazione, e, da un po’ di tempo, l'atteggiamento da parte dei padroni del mondo nei confronti di migliaia di Albanesi, che senza scrupolo alcuno, si possono rigettare in mare! Col vantaggio che i detentori del potere possono contare oggi sull'intellighenzia che presta loro man forte, come sino a qualche decennio fa solo l'URSS sembrava meritarselo, che è normalmente solidale per condurre a fine questo genere di bisogna.

L'intellighenzia, sempre più disimpegnata, poiché si sente minacciata dalla realtà alla quale si è rifiutata sempre di rendere conto, ha paradossalmente tutto l'interesse a collaborare. Al punto che appare sempre più una denegazione, il cui obbiettivo è

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meno quello di far coincidere il mondo con una visione ideologica qualsiasi che piuttosto sbarazzarsi della realtà dei fatti.

In questo senso la scoperta dei campi di concentramento serbi nell'agosto 1992 costituisce la più clamorosa smentita dell'autorità intellettuale e morale che l'intellighenzia francese nientemeno pretende di avere ancora, dopo cinquant'anni.

Ma questa scoperta ci permette anche di misurare, attraverso l'enormità dei fatti, la posta in gioco stessa dell'irrealtà che si cerca di imporci.

E' illuminante il commento, senza dubbio un po' semplificatore e d'un tratto spazientito, di quella scoperta:

"- 1942, i nazisti adottano la soluzione finale,– 1992, gli estremisti serbi adottano la purificazione etnica, stesso obbiettivo, stesso metodo, stessa rinuncia ". Ma un Max Gallo si domanda: " quelli che per convincere e suscitare la passione vendicatrice utilizzano tali

paragoni, hanno tenuto conto che si rendono forieri del revisionismo storico? " 113

In realtà Max Gallo sembra molto meno preoccupato di differenziare assolutamente la "soluzione finale " e la "pulizia etnica " che di rendere sconveniente qualsiasi confronto che permetta di stabilire che, in questa guerra, vi è crimine contro l'umanità che porti ad interrogarci sulla specificità del nazional-comunismo serbo.

Come se vi apparisse, in negativo, l'attitudine degli intellettuali di sinistra del dopo guerra che :

"in un primo tempo (...) negavano formalmente le dicerie sui campi di concentramento, su torture o sui processi truccati, (nell’Urss-ndt)ecc..

Ma quando la negazione divenne impossibile - come nel caso dei campi sovietici o del soffocamento della dissidenza nelle nuove "democrazie popolari"- (gli intellettuali di sinistra-ndt) ri-descrivevano semplicemente gli avvenimenti in questione in un linguaggio compatibile coll'immagine che si voleva dare del comunismo " 114.

Alla stessa maniera Max Gallo ha ri-descritta la realtà in funzione dell'immagine che non voleva dare del nazional-comunismo serbo.

Denegazione ancora ideologica, si potrebbe dire, ma che si trova oggi raddoppiata attraverso i molteplici specialisti mandati al capezzale del reale per finirlo.

Che dire del turismo concentrazionario di un Bernard Kouchner che, nell'agosto 1992, si lusingava di esser stato pregato da Karadzic ed Izetbegovic "a visitare i campi dell'avversario ", e che questi gli aveva offerto " di aprire le loro porte, secondo una mia scelta ed a mia richiesta " 115 , e che andò sotto scorta di milizie serbe di campo truccato in campo truccato, per concludere che: "Bisogna moltiplicare visite come queste ". Ciò che lo ha condotto, senza che se ne sia reso veramente conto, a fare il più falsificante amalgama tra campi serbi e prigioni bosniache, quindi a negare implicitamente la realtà di quelli.

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Tuttavia, aggiungendo un " grazie davvero alla nuova comprensione delle persone che sono in carica " 116, egli ci da l'altra griglia della sua ri-descrizione: se campi di concentramento esistono, oggi il prenderne coscienza è ai carnefici comprensivi che lo dobbiamo.

Denegazione in due tempi, che chiarisce il modo con cui la nuova confusione che ne risulta prende del tutto naturalmente il posto delle falsificazioni tradizionali.

Da questo punto di vista il caso di Edgard Morin ha fatto epoca, costituendo da solo un'altra variante del meccanismo a doppia mandata della denegazione attuale.

Se nel febbraio 1992 costui metteva avanti: " una causalità circolare " 117, che gli permetteva di sviluppare la tesi dei torti patiti da Croati e Serbi, con una tenerezza particolare per questi ultimi, oggi tenta di ricredersi del suo errore inventando il concetto di "total-nazionalismo " 118 , col pretesto che non ne aveva " percepito il fenomeno nuovo che dopo il feroce smembramento della Bosnia Erzegovina, allorchè il nuovo viso total-nazionalista si è nettamente sovrimpresso su quello dell'eroica Serbia delle due guerre mondiali "119.

Se ne ricava che, in un caso come nell'altro, Edgar Morin ritrova, in immagine invertita, un'attitudine simile a quella di un buon numero di intellettuali degli anni cinquanta che "si facevano un dovere di non condannare ne difendere l'operato di Stalin, ma di spiegarlo " 120.

Infatti, similmente a coloro che "ricercavano un approccio verosimile e convincente a degli avvenimenti incomprensibili, dando una spiegazione suscettibile di perpetuare le illusioni degli anni del dopoguerra " 121, Edgar Morin ogni volta, dovesse soffrirne, si è ingegnato a darci una spiegazione sull'esattezza storica concernente le frontiere interne dell'ex-Jugoslavia, o l'origine della "pulizia etnica").

Così, nel febbraio 1992, egli proponeva come causa unica dell'agonia della Jugoslavia la coincidenza dei nazionalismi, coll'obbiettivo di negare l'esistenza di un totalitarismo uscito dall'apparato comunista serbo.

Obbligato tuttavia nel marzo 1993 di riconoscere l'esistenza di questo totalitarismo, egli diceva di preferire il termine di "total-nazionalismo a quello di nazional-comunismo, improprio ad un sistema dove l'ideologia comunista è scomparsa " 122.

Ciò che è, in realtà, un modo di reiterare la sua prima negazione; poiché afferma che se totalitarismo c'è, questo, in quanto espressione della Lega comunista di Serbia - recentemente ribattezzata socialista e di cui Milosevic è il presidente dal 1986 - per il fatto di appartenere all'ideologia comunista non saprebbe di esserlo.

Come non pensare al coltello senza lama al quale manca il manico di Lichtenberg! Si valuti di passaggio la prospettiva de-realtificante (che cancella la realtà) di

questa doppia denegazione che, pur ammettendo che il crollo del comunismo col suo sviluppo nel tempo avveniva all'interno di un quadro che era il suo proprio, ha il merito di dimostrare come la struttura circolare di questa doppia denegazione abbia annullato completamente il suo oggetto.

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Ciò vale pure disgraziatamente sia per gli ex stalinisti che per i nuovi venuti, per i quali la critica del totalitarismo non ha mai superato lo stadio della retorica umanista.

Poiché non è sufficiente disquisire sui diritti umani contro un potere totalitario che se ne proclama egualmente difensore. Ma per schernire sistematicamente questi diritti non serve altro che disinformarne le popolazioni delle quali il potere non ha mai cessato, generazione dopo generazione, di coltivare l'irresponsabilità e la sottomissione.

Come non meravigliarsi quindi che il 16 febbraio scorso (1993), il miserabile Jean-Pierre Faye abbia celebrato il "meraviglioso paese " 123 che fu la Jugoslavia titista, per incitare al dialogo Mussulmani, Croati e Serbi, quando questi ultimi, da un anno e mezzo, hanno interrotto il dialogo massacrando i loro interlocutori ?

Evidentemente ciò non importa nulla a Jean-Pierre Faye, come a tutti quelli che oggi trovano il modo di falsificare la storia, a guisa dei loro predecessori: essi semplicemente la negano, di giorno in giorno.

Questa nuova de-realtificazione integrale, alla quale siamo sottomessi, dà dei vantaggi considerevoli al potere: non ha più bisogno di messe in scena falsificatrici , perché anche noi, a nostra volta, siamo immersi nel " Paese della menzogna sconcertante " 124.

D'altronde come potrebbe essere diversamente quando la critica al totalitarismo, esercitata a gran rinforzo dai Nuveax Philosophes già da una quindicina d'anni, è cominciata con una menzogna? Menzogna consistente nell'occultare che, sin dagli anni venti, una critica molto più profonda al potere era stata fatta da parte di una sinistra libertaria che non si è mai voluto ascoltare, ma che, grazie a Victor Serge, André Breton, Boris Souvarine, Ante Ciliga, George Orwell...., ha avuto la sua nobile letteratura, ed allo stesso tempo i sui fondamenti di verità.

Può darsi che questa truffa iniziale dei Nouveaux Philosophes, compiuta nello stile del marxismo leninismo - dove i più hanno imparato a rifare la storia - abbia arricchito la nuova denegazione della facoltà di sopprimere ormai ogni prospettiva storica e, contemporaneamente, ogni analisi comparata.

Così, mentre da noi eserciti di sociologi non cessano di studiare l'alienazione televisiva, sembra incredibile che nessuno abbia nulla da ridire sul peso terribile di una televisione unica, completamente nelle mani del potere di Belgrado, che rappresenta uno dei più forti assi nella manica di Milosevic.

In questa integrazione di totalitarismo, di media e di propaganda di guerra, sullo sfondo del disastro economico, non ci sarebbe materia per analizzare l'ascesa del nazional-comunismo serbo, invece di bendarsi gli occhi gridando al nazionalismo, a torto e traverso, senza nemmeno tentare di discernere i popoli che a questo si richiamano per opprimere, e quelli che vi ricorrono per liberarsi?

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Francamente vi sono laggiù delle sottigliezze linguistiche delle quali noi non abbiamo la minima idea, quando ci parlano di "mercenari" al posto di "arruolati volontari" in Bosnia 125, "di fazioni " o di " due parti in conflitto a Sarajevo " 126 al posto di assediati ed assedianti...

Perché questo è ormai il linguaggio che si fa forte della svalorizzazione assoluta dell'immagine che assicura il trattamento finale dell'eliminazione della realtà per rifabbricarla a richiesta, non con la finzione scenica come i media di Belgrado, ma al contrario con un mondo deprivato di realtà.

Per esempio campi di concentramento che non ci sono, vittime che non ci sono, uomini infine che non ci sono.

Tutto ciò è altrettanto affar nostro che dei popoli dell'ex-Jugoslavia. Mentre le armate di Milosevic proseguono le loro imprese di "pulizia etnica", la comunità internazionale di concerto tenta di mettere a punto l’Uomo capace di avallare tutto, l'aiuto umanitario come le menzogne, cercando di convincerlo che l'uno non è possibile senza le altre. Rimescolando tutto, diplomatici, funzionari internazionali, organizzazioni non governative, ministri, giornalisti, militari...

Più che mai, tolta qualche eccezione, l'intellighenzia occidentale è parte pregnante in tutto ciò. Essa vi gioca il suo sostegno allo stesso tempo della sua impunità, al prezzo di un anestetico morale che solo la rende capace di mantenere la finzione secondo la quale il divenire delle idee sarebbe indipendente dal divenire degli uomini e delle cose.

Tutto il dramma jugoslavo, al contrario, prova che le idee hanno il peso della carne e del sangue, e che si stanno preparando catastrofi per ricordarcelo. Prima che queste sopravvengano, è importante tuttavia ritenere che abbiamo constatato, coll'esempio jugoslavo, l'inutilità degli specialisti della pace come di quelli del pensiero, ma soprattutto l'estrema nocività di questi ultimi, ai quali spetta, checchè ne dicano loro, l'esorbitante privilegio di decidere del destino degli uomini loro malgrado. Da questo punto di vista la loro irresponsabilità vale la loro responsabilità. Poiché sono essi che tengono il gioco della rappresentazione alla quale lavorano, coscientemente o no, per assicurare il trionfo assoluto sul reale.

La novità è che gli intellettuali non hanno nemmeno più bisogno, come cinquant'anni fa, di impegnarsi in modo spettacolare al servizio degli assassini. Ormai devono solo salvaguardare il regno della finzione, della quale sono divenuti i maestri incontestabili . Essi sono del tutto naturalmente a fianco degli assassini, qualsiasi essi siano, anche non condividendone le opinioni.

Proprio ciò si è verificato nell'ex-Jugoslavia, dove gli assassini avevano bisogno di tutti gli specchi esistenti per creare la finzione che volevano imporre. L'intellighenzia ha loro prestati tutti quelli di cui disponeva per giustificare la sua esistenza.

Da qualche tempo si disputa molto sulla nozione di crimine contro l'umanità. Ai miei occhi, eccone un bel esempio.

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NOTE1 la Le Brun usa in tutto il testo questo termine giuridico che significa "negazione di un fatto reale" (n.d.t.)2 Innanzitutto penso a Alain Finkielkraut, del quale debbo salutare la lucidità ed il coraggio, come testimonia la sua riflessione nel "Comme peut-on etre croate" (Ed. Galimard, 1992)3 Nel 1949 si tenne a Parigi il processo che oppose Viktor Kravcenko- ex alto funzionario sovietico che aveva scritto "Ho scelto la libertà" in cui descriveva la dittatura comunista - al settimanale "Les lettres françaises" diretto da Louis Aragon, intellettuale comunista che lo aveva denunciato come un falso per le sue rivelazioni sul terrore staliniano, oggi ampiamente riconosciuto. Similmente anche in Italia quelle rivelazioni venivano bollate dal PCI come falsità (n.d.t.). 4 per non parlare della Regione Autonoma del Kosovo dove, per il terrore esercitato dalla polizia serba, il voto degli Albanesi si è svolto in modo semi clandestino.6 Gerard Fuchs "Pour une intervention en Bosnie", Le Monde 22-23 novembre 1992.7 Cioè della Croazia, della quale un terzo è ancora occupato dalle forze serbe ed allorchè queste proseguono la loro pulizia etnica in Bosnia e Croazia.8 Hannah Arendt, "Il sistema totalitario" ed. du Seuil 1990, pag. 174. In italiano in "Le origini del totalitarismo" ed. di Comunità 1989 , p. 599 e segg.9 Zlatko Dizdarevic, "Le journal de guerre, chronique de Sarajevo assiégé" ed. Spengler, Paris 1993, pag. 15010 id. pag. 9811 "Le livre noir de l'ex Yugoslavie, purification ethnique et crimes de guerre", ed. Arléa, Paris 1993, pag. 512 id.. pag. 513 Le Monde, 5 gennaio 1993.14 Hannah Arendt, op.cit., pag. 1815 id. pag. 17116 id. pag. 17217 Le Monde, 17 febbraio 199318 id. 9 febbraio 199319 L'Heure de la vérité, 7 giugno 199220 esisteva nel 1993 un piccolo movimento neoustascia che organizzò una sua milizia, la HOS. Essa combattè a Vukovar assieme a volontari di ogni altra tendenza (persino un gruppo di trotzkisti belgi!). Ben presto tutti i volontari vennero integrati nell'improvvisato esercito croato HVO . Tudjman fece circondare la sede HOS e, disarmati i neoustasci, fece assassinare Paraga, il loro leader, dalla sua fida polizia. Oggi quel movimento è quasi inesistente. Il Manifesto esagerò a tal punto l'importanza dei neoustasci che continua a dare l'epiteto di ustascia a tutta la Croazia dopo ben 10 anni! L'accecamento ideologico di giornalisti come De Francesco e Grimaldi è ben degno di nota21 Liberation, 8 e 9 dicembre 199222 Non è che io (Annie) voglia pretendere che esista una libertà totale in Croazia. Questo è un paese pur sempre in guerra, in una situazione economica disastrosa e privo di vere tradizioni democratiche dopo un cinquantennio di jugo-comunismo.

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Resta il fatto che l'attuale potere è stato eletto democraticamente nelle prime elezioni libere, che l'opposizione raggruppa il 57 % dei voti e che, soprattutto , nella situazione attuale, non si tratta di essere per un governo qualsiasi, ma di lottare contro il totalitarismo serbo.23 Le Monde, 5 gennaio 199324 affermazione riferentesi all'adesione al surrealismo dell'Autrice.25 Bogdan Bogdanovic , conversazione, Le Messager européen, n.6, ed. Gallimard, 1992, pagg 81,82.26 Id. pag. 8227 Alojsa Mimica, citato da M.Grmek, N.Simac, M.Gidara, in Le nettoyage ethnique, Fayard, Paris 1993, pag. 331.Questa citazione, come la gran parte di quelle degli oppositori di Belgrado ai quali mi riferisco, vengono da L'Altra Serbia (Druga Srbija, ed. Plato Beogradski krug et Borba , 1992), opera risultante da dieci colloqui organizzati dall' aprile al giugno 1992 dal Circolo di Belgrado, nel quale si sono ritrovati un piccolo numero di pacifisti ed intellettuali serbi per condannare il nuovo totalitarismo serbo. Si deve essere grati agli autori suddetti di aver consacrato il loro ultimo capitolo a questa "altra Serbia". Si trova anche l'edizione italiana de L'altra Serbia, gli intellettuali e la guerra a cura di Melita Richter Malabotto, ed. SELENE EDIZIONI 1996 Milano.28 Vedere in proposito la documentazione raccolta in "Le nettoyage ethnique", op.cit.29 proposto dal mediaticissimo monaco Filaret, citato in "Le nettoyage ethnique", op.cit., p.28130 Mons. Lukijan, arcivescovo ortodosso della Croazia del Nord, citato in Le nettoyage ethnique, op.cit. , p. 28131 Hannah Arendt, op.cit. p. 88.32 Id.33 Paul Garde, Vie et mort de la Yugoslavie, ed. Fayard, 1992, pagg. 252-26234 id.pag. 25335 id.36 NIN, Belgrado, 18 maggio 1992, citato da Le nettoyage ethnique, op. cit., p.28237 definizione di P.-A. Taguieff, La Force du préjugé, saggio sul razzismo ed i suoi duplicati, ed. Gallimard, 1990 (1987), coll. TEL, cf. pagg. 163-175.38 Citato in Le nettoyage ethnique, op. cit., p.337.39 id. p.33740 Le Monde, 30 ottobre 199241 id.42 id.43 cf.Le Monde, 20 febbraio 199344 P.-A. Taguieff, op.cit. pag. 16945 id. p. 17046 Hannah Arendt, op.cit., p.22647 Bogdan Bogdanovic, Le Messager européen, op.cit. p. 82

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48 Tadeusz Mazowiecki, Rapporto alla Commissione dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite del 17 ottobre 1992, citato nel Livre noir de l'ex Yugoslavie, op.cit. pag. 42049 Livre noir de l'ex Yugoslavie, op.cit. pag. 42050 Jadranka Cacic - Kumpes , Guerre, ethnocide et viol", citato nel Livre noir de l'ex Yugoslavie, op.cit. pag. 44151 Duga, Belgrado, 5 luglio 1991, citato in Le nettoyage ethnique, op.cit. p. 30252 Der Spiegel, 6 agosto 1991, citato in Le nettoyage ethnique, op.cit. p. 30553 rapporto della Comunità europea, citato nel Livre noir de l'ex Yugoslavie, op.cit. pag.. 42054 Jadranka Cacic - Kumpes , "La guerre, l'ethnicité et le viol", Livre noir de l'ex Yugoslavie, op.cit. p. 44455 Rupert Neudeck, "Le viol et la conception forcée utilizés pour la premiere fois comme armes de guerre dans l'histoire militaire moderne", in Livre noir de l'ex Yugoslavie, op.cit. p. 44856 Véronique Nahoun-Grappe, Le Monde, 13 febbraio 199357 Citato in Tchernobyl. Anatomie d'un nuage, ed. Gerard Lebovici, Paris 1987, pag.8158 Le Monde, 2 gennaio 1993.59 Le Monde , 13 ottobre 199260 Alain Minc, La revue des Deux Mondes, dicembre 1991, pag. 16.61 Le Monde, 9 febbraio 1992.62 Stevan K. Pavlowitch , L'heritage titiste, in De Sarajevo à Sarajevo, sotto la direzione di Jacques Rupnik, ed. Complexe, Bruxelles 1992, pag. 1763 id. op. cit. pag. 5864 figurarsi l'italiana! (ndt)65 per riprendere la sottolineatura di Michel Floquet e Bernard Coq: "visto da Londra o da Parigi, il dramma jugoslavo si risolve così: come far credere a gente che sta morendo di guerra che in realtà sta morendo di fame?" tratto da Les tribulations de Bernard Kouchner en Yugoslavie, ed. Albin Michel, 1993.66 Zlatko Dizdarevic, Journal de guerre, op.cit., pag. 8367 Le Monde, 21 settembre 199168 Zlatko Dizdarevic, Journal de guerre, op.cit., pag VIII69 id. pag. 10270 Zlatko Dizdarevic, op.cit. pag. 7071 Hannah Arendt, op. cit. , pag. 12372 id. pag. 12373 Le Monde , 15 gennaio 199374 id. 31 gennaio 199375 François Mitterand in Vendredi, settimanale del Partito socialista francese, 22 gennaio 199376 Le Monde , 13 gennaio 199377 Le Monde, 2 febbraio 199378 Vendredi, op. cit.

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79 Le Monde, 12 gennaio 199380 Le Monde, 13 gennaio 199381 Le Monde , 20 novembre 199282 riportato da Bogdan Bogdanovic nel suo testo Le Massacre rituel des villes.83 Per riprendere l'espressione di Vesna Bosanac, direttrice dell'ospedale di Vukovar al momento della resa della città. Le monde , 20 novembre 1992.84 Der Spiegel, 6 agosto 1991, citato in Le nettoyage ethnique, op.cit., pagg. 303-30485 id.p.30586 Le Nettoyage ethnique, op.cit.87 id.p.31088 id.p.4089 id.p.19790 id.p.22691 id.p.22792 Hannah Arendt, op.cit.,p.197-19893 Bogdan Bogdanovic in Le Messager européen, op.cit.,p.8294 id.p.8295 citato ne L'Express, 4-10 febbraio 1993 96 id..97 Stanko Cerovic: intervista su France-Inter, 3 novembre 1992. Quest'analisi mi sembra una delle più acute sulla situazione intellettuale dell'ex-Jugoslavia, anche se , d'altronde, non possa trovarmi d'accordo coll'amalgama semplificatore che S.Cerovic ha la tendenza di fare tra i regimi di Belgrado e di Zagabria la quale, per uscire dallo stesso clima avvelenato, non può essere messa sullo stesso piano.98 Id.99 id.100 Zlatko Dizdarevic, Journal de guerre, op.cit. , p.66101 il riferimento è al famoso testo omonimo, Au pays de la ménzonge déconcernant, di Ante Ciliga, autobiografico della sua militanza nella IIIa Internazionale e della sua deportazione in Siberia in un gulag, riferentesi all'URSS del 1936, anno della sua pubblicazione. Testo conosciuto in Francia ma mai tradotto in Italia. Hannah Arendt vi attinse per il suo concetto di "totalitarismo" in Le origini del totalitarismo del 1951.(ndt)102 Radovan Ivsic, La Machine infernal, su Lettres françaises n. 17, febbraio 1992. Per dissipare ogni equivoco, segnaliamo che quest'articolo comincia con queste righe : " Non mi sarei mai permesso di scrivere su Lettres françaises, se non si trattasse , a proposito dell'ex-Jugoslavia, di farvi apparire allo specchio l'orizzonte sanguinoso al quale le ideologie di questo giornale hanno operato durante decenni ". (è una rivista legata al Partito comunista francese. ndt)103 Toni Judt, Un passé imperfait, les intellectuels en France 1944-1956, ed. Fayard, 1993, p.376104 id. p. 376105 Bogdan Bogdanovic, Le Messager européen, op.cit., p.84-85.106 Tony Judt, op.cit., p.370

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107 riferimento ironico ai linguaggio politichese nell'ambiente letterario di Parigi. Vedi appendice . (n.d.t.)108 Tony Judt, op.cit., p.169109 con questi evidenti intenti si tenne a Trieste nel 1988 un seminario internazionale "La riforma del socialismo", organizzata dai circoli Gramsci d'Italia, a cui parteciparono diversi intellettuali dell'Est. Preoccupati soprattutto di salvare la classe dirigente con una abiura pubblica del leninismo a favore della "socialdemocrazia" integrata nel capitalismo, tutti gli interventi dei delegati del realsocialismo guardavano all' "esempio spagnolo", per il passaggio indolore dalla dittatura franchista alla democrazia. Unici interventi fuori dal coro, appassionati per i valori di giustizia sociale ed anticapitalisti, per una democrazia sociale autentica, ideali ai quali avevano dedicata la loro vita intera, furono quelli dei letterati ungheresi François Fejtö, socialdemocratico rifugiato in Francia, e Vasharely, ex comunista riformista ungherese nel governo Nagy, che patì per questo anni di reclusione... Tutti gli altri, russi, polacchi, cecoslovacchi e soprattutto jugoslavi, grigi funzionari "politologi", al sociale non dedicarono nemmeno una parola, ne tantomeno alla loro travagliatissima storia di rapporti coll'URSS. Gli interventi in politichese degli jugoslavi furono assolutamente incomprensibili per la loro totale astrazione dal reale (nota autobiografica del traduttore).110La società dello spettacolo, di Guy Debord - Sugarco Milano 1990. Testo base del Situazionismo scritto nel 1967.111 Commentaires sur la société du spectacle , Guy Debord, ed. Gérard Lebovici, 1988, p.22112 id.,p.22113 Le Monde, 15 gennaio 1993114 Tony Judt, Un passé imperfait, op.cit,. p.144115 Michel Flocquet e Bernard Coq, Les tribulations de Bernard K. En Yugoslavie, op.cit., p. 170116 op.cit., p. 172117 Le Monde, 7 febbraio 1992118 Le Monde, 11 marzo 1993119 id.120 Tony Judt, op. cit., p.145121 id.122 Le Monde, 11 marzo 1993123 Tavola rotonda alla FNAC, Parigi 16 febbraio 1993124 riferimento all'op.cit. di Ante Ciliga125 manipolazione segnalata su Le Monde il 20 febbraio 1993 da Michel Polac, che fu tra i rarissimi ad aver visto, sin dall'inizio, la posta in gioco in questa faccenda jugoslava.126 Sottolineato da Zlatko Dizdarevic ,op, cit., p.99.

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POSTFAZIONE del TraduttoreTrieste 17 novembre 2003Nella sua polemica con Marx, Bakunin sosteneva che “il suo socialismo di Stato sarebbe stato il più oppressivo e tirannico dominio degli intellettuali sul popolo”. Sconfitto politicamente nella sinistra europea che lo ha vituperato per oltre un secolo, Bakunin aveva visto giusto. Dopo di lui la Luxemburg e via via tutta l’opposizione libertaria . Negli anni venti Bruno Rizzi , reduce dall’URSS, metteva in guardia sul “nuovo medioevo” cui andava incontro la Russia di Lenin governata dai nuovi bojardi, i commissari “del popolo”. Un istro-croato, Ante Ciliga, testimoniava per primo la sua esperienza nei lagher sovietici…Ne Rizzi ne Ciliga sono stati mai presi in considerazione dalla intellighenzia di sinistra italiana, impermeabile alla realtà sino al crollo di tutti i suoi miti.Dopo il crollo dell’URSS la catastrofe jugoslava la ha colta di sorpresa, e non si è ancora riavuta dal colpo subito. Le vicende jugoslave io le ho seguite da Trieste, osservatorio privilegiato sia per la maggior conoscenza della realtà jugoslava che per la lingua, ma anche la città più fascista e contemporaneamente più stalinista d’Italia. Non tanto per l’adesione numerica, ma per la sua intellighenzia italiana. Essa è filo serba, dalla destra estrema alla sinistra estrema. Non solo Fini corse da Seselj nel 1991, ma l’esistenza di un lunghissimo contenzioso sull’Istria aprì un’inquietante attività anche istituzionale per creare nuovi conflitti colle neonate repubbliche di Slovenia e Croazia. L’operazione “Tempesta” che portò all’eliminazione della sacca cetnica di Knin mise in luce preparativi militari segreti di volontari italiani per un blitz serbo-italiano in Istria.L’intellighenzia di sinistra non ha voluto accorgersene e si è particolarmente sbilanciata nella difesa dell’ultimo simulacro della finzione “socialista” e “jugoslava”, identificata nella Serbia di Milosevic.I Croati e gli Sloveni, odiati dall’emigrazione istriana e dalmata e dal fascismo di confine triestino, lo sono ora anche dai comunisti per il loro “tradimento del comunismo”…per non parlare degli Albanesi, divenuti bersaglio di un razzismo diffuso, dalla Lega a Rifondazione…C’è quindi anche in Italia un’alleanza oggettiva nazional-comunista filoserba.Cossiga, dopo la secessione della Slovenia, giunse ad offrire nel 1991 alle truppe serbe la ritirata attraverso il porto di Trieste, e furono i suoi amici fascisti , forse gladiatori indisciplinati, ad impedirlo (o fu messinscena?)…La Le Brun espone una serrata critica all’intellighenzia occidentale accomunandola a quella jugoslava nella responsabilità della denegazione della realtà del regime totalitario jugoslavo.La Le Brun sin da allora negava lucidamente la versione corrente della regressione tribale per spiegare la catastrofe jugoslava-Confesso che all’epoca era caduto anch’io in quella semplicistica spiegazione, anche se nella mia quasi quarantennale frequentazione della ex-Jugoslavia non mi ero mai accorto di nulla. Ma i profughi disperati che trovai in una visita che feci con Salvatore Gallo, responsabile di Amnesty per Trieste, alla caserma dismessa di Cervignano, (alcune

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centinaia di rifugiati a fronte dei 4 milioni!) mi richiamarono alla realtà. Tutto si poteva ipotizzare meno che quelli fossero dei trogloditi. Gente di cultura come semplici operai, colpevoli per gli apparati polizieschi di avere cognomi di origine serba o croata… Un ingegnere ignorava persino la sua origine serba, scoperta da funzionari dell’anagrafe di Fiume, per cui gli era stata incendiata la casa! La persecuzione era quindi di Stato. La “pulizia etnica” era pianificata dallo Stato , attuata per via burocratica, come già quella nazista, ma da un apparato che era sempre quello , prima “comunista” o “socialista”, poi “democratico” : cambiava solo etichetta! Altro che regressione tribale!L’Italia, come Stato, non era dammeno. La nostra polizia di frontiera era elogiata per il gran numero di profughi - con abile camuffamento linguistico, ribattezzati “clandestini” - che riusciva a bloccare e respingere oltre il confine, blindato nuovamente come ai tempi più bui della guerra fredda...I nostri commentatori mediatici si destreggiavano fra solidarietà ed espulsioni, condanna della pulizia etnica e finanziamento al loro esercito, affari coi carnefici e carità…L’imbroglio mediatico era totale, ma funzionava …Persino il parroco di Banne, frazione di Trieste, a capo dei suoi parrocchiani, tutti sloveni, si oppose poco cristianamente a che i profughi della ex Jugoslavia potessero venir ricoverati nella capiente caserma di Banne, che coi suoi 3000 posti letto è stata lasciata piuttosto andare in rovina, assieme all’Ospedale Militare di Trieste…L’”inquinamento etnico”, ecco la paura anche a Trieste e sull’altopiano! Nel 1993 ad una trasmissione di Gad Lerner vennero invitati esponenti istriani notoriamente fascisti ad urlare che ben gli stava a “sti s’ciavi”, che si ammazzassero pure tutti, che erano balcanici indegni di appartenere al genere umano, ecc.ecc. ecc….Questo coll’intento di persuadere che “profughi” per l’Italia erano solo loro. Fulvio Molinari, nel 1993 capo redattore della Rai 3 di Trieste, nel commentare il nastro miracolosamente sfuggito alla distruzione della bomba che uccise a Mostar tre suoi (e miei) colleghi - nel quale Lucchetta aveva intervistato in un rifugio una mamma e bambin nella Sarajevo bombardata dall’artiglieria serba, e poi, nel bosco, il marito e padre, cetnik, che li bombardava. E Molinari: “La sofferenza degli abitanti di Sarajevo (non degli assediati) non deve far dimenticare la sofferenza dei soldati serbi, costretti ad una vita durissima nei boschi ghiacciati…”. E l’immagine li mostrava tra i cannoni, e poco discosto, uno spiedo con un maiale intero che arrostiva…Il regista ucciso, Lucchetta, attraverso immagini per le quali ha dato la vita assieme ad Ota e D’Angelo, voleva forse sottolineare l’assurdo comportamento di un tipico uomo massa ben indottrinato e manipolato dal totalitarismo, che , obbedendo ad ordini bestiali, giungeva a bombardare la sua città, la sua casa, la sua stessa famiglia …(Fulvio Molinari è un ex DC passato al PCI e consociativamente divenuto capo redattore del TG3 – tipico esempio di intellettuale …organico! ) La Le Brun con pochi tratti descriva tutto ciò in uno sconsolante, ma veritiero quadro di degradazione morale dei “maestri” del pensiero. Non posso che concordare con lei, col suo amore per la verità, e per questo ho tradotto il suo pamphlet, ignorato purtroppo in Francia. Anche se fa male, la verità è vita. E vincerà. Fabio Mosca

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INDICE

Pag.1 …………... Prefazione dell’AutorePag.2 …………... Una novità catastroficaPag.9 …………... Un prodotto riducibile di sintesiPag.16…………... Un ruolo discreto, ma maggiore”Pag.21…………... Un “affaire” di intellettualiPag.37…………... NotePag.42…………... Postfazione del Traduttore

Registro Stampa Tribunale di Trieste n.940

Stampato in proprio

Trieste 25 agosto 2003

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Al di la di questo squallore pochi hanno sostenuto la necessità di un intervento esterno (la NATO) per por fine al delirio nazional-comunista serbo.. Anzi, quell’intervento ha “cancellato” d’un sol colpo tutta la storia terribile precedente, facendo divenire l’armata di Milosevic addirittura aggredita, nel pieno della sua pulizia etnica mostruosa. L’assedio di Sarajevo venne spezzato dalla distruzione aerea degli oltre mille cannoni che da due anni vomitavano bombe sulla città. Ma l’attenzione si soffermò sull’uranio impoverito. I coltelli a serramanico usati per scannare i mussulmani a Srebrenica non attraevano l’attenzione… i falli serbi per stuprare per ordine militare mussulmane e croate per sporcarle nemmeno…

Milosevic godeva ancora di credito, e firmava in pompa magna la “Pace di Dayton”, riverito da tutti. Bene diceva la Le Brun che un eventuale futuro Tribunale Internazionale sarebbe stato inficiato nella sua autorità da questo precedente…

Ora si poteva dedicare al suo Kosovo, dal quale era partito. Ma per farlo occorreva riprendere fiato, dopo la batosta dell’intervento NATO,( il primo) .Vendette perciò a compiacenti acquirenti italiani, ben rappresentati nel governo, la Telekom Serbia. Ne ricavò abbastanza danaro per riprendere in grande la guerra a quel Kosovo che, dimenticato a Dayton perché “non violento” guidato dal pacifico Rugova, sorta di Ghandi, aveva visto apparire una pattuglia di guerriglieri, l’UCK.Centinaia di villaggi vennero incendiati, centinaia di migliaia di Albanesi senza casa si dettero alla macchia sulle montagne. Migliaia attraversavano quando potevano le frontiere minate e guardate da migliaia di truppe speciali serbe.L’UCK seppe resistere, sostenuta soprattutto dall’emigrazione. In essa erano confluite forze composite, dai comunisti “enveristi” ai nazionalisti del Bali Kombetar.

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L’ONU inviò osservatori Ma la macchina scoperta dalla Le Brun della denegazione totale è intervenuta: erano vere quelle immagini di gente rastrellata, di villaggi incendiati, quei miserabili campi profughi a ridosso della frontiera albanese, o era un abile montaggio cinematografico? La realtà qual’era?A tanto è arrivata la macchina della menzogna sistematica! Nemmeno il flusso continuo di profughi era più testimonianza della realtà…Come dice la Le Brun la realtà era soppressa.

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