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1 AFFILE, GRAZIANI, ANDREOTTI Se in Germania qualcuno si azzardasse a commemorare appena con una lapide Goering o Rommel, verrebbe subito arrestato, gettato in prigione e la chiave verrebbe invece gettata nella Fossa delle Ma- rianne. Perché? Perché in quel Paese, finita la guerra si fece chiarezza con il Processo di Norimberga: da una parte i nazisti assassini, criminali da impiccare e dall’altra i cittadini che dovevano sapere quali erano i crimini di chi li aveva guidati per 12 anni. In Italia niente Norimberga. Eppure di criminali ne abbiamo avuti! Caspita se ne abbiamo avuti! Ma chiarezza, appunto, non è stata mai fatta così che le italiche genti, ignoranti e smemorate, non sanno proprio cosa è accaduto, chi fu il criminale persecutore, chi il perseguitato. Ma perché da noi non si è fatta, non dico una Norimberga ma almeno una Frascati? Perché i prodi e vigorosi americani avevano rapporti stretti con il Fascismo e con la Mafia. Lo sbarco in Sicilia fu possibile senza gravi perdite per- ché guidato da Lucky Luciano. L’esercito USA avanzava preceduto da un carro armato su cui sventola- va una bandiera azzurra. Era il segno di riconoscimento di Luciano ai picciotti. Gli yankee debbono passare e basta. E la mafia siciliana si organizzò perché nessuno si azzardasse a reagire. Poi gli USA eb- bero stretti rapporti con Junio Valerio Borghese (quel delinquente golpista del 1970, ricordate?). Dove- va essere la testa di … ponte che legava esercito USA e Fascisti. Ma perché? Perché in Italia, contraria- mente a quanto avvenne in Germania, vi era un forte movimento di resistenza a maggioranza comuni- sta. Se l’Italia fosse stata liberata in queste condizioni e con i fascisti impiccati, come si sarebbe dovuto fare (come in Germania del resto), il Paese sarebbe diventato quasi certamente una Repubblica Popola- re. Gli USA, prevedendo questo scenario hanno difeso, sostenuto, foraggiato i fascisti (questo è il moti- vo della fucilazione immediata di Mussolini e gerarchi … gli USA volevano il prigioniero ma i partigiani sapevano di losche manovre). Ebbene, tra i criminali fascisti, militari, da impiccare vi era Graziani (insieme a vari altri, come Roatta, Robotti e Badoglio). Per quanto detto si salvarono, occorreva mantenere personaggi che avesse- ro esperienza militare da usare eventualmente contro una sollevazione comunista. E Graziani, uno dei salvati, è stato in questi giorni commemorato ad Affile con un esborso di 130 mila euro da parte della Regione Lazio (non si dimentichi che Polverini è una nostalgica di borgata). Ora che Graziani sia stato nel cuore dei fascisti è evidente a tutti (infatti Francesco Lollobrigida, inutile assessore ai trasporti della Regione Lazio era lì), pochi sanno che era amico del cuore di Andreotti con il quale ebbe un abbraccio sensuale nei primi anni Cinquanta proprio ad Affile. E la Chiesa? Non poteva mancare. La Chiesa era una corporazione fascista ed il parroco di Affile, Ennio Innocenti, ha fatto la commemorazione. D’altra parte Graziani ha firmato insieme a Padre Agostino Gemelli il Manifesto della Razza, e quindi occorre rendergliene merito. Un’ultima considerazione. Anche se i tribunali internazionali non sono stati fatti funzionare contro i fascisti vi era sempre la legge italiana che aveva inquisito migliaia di massacratori fascisti. Poi si fece un governo in cui Togliatti era ministro di Grazia e Giustizia ed a lui si deve l’orrenda amnistia che salvò, ancora, tutti i fascisti. Chi ha una qualche speranza di cambiamento in questo Paese deve vedersela, prima che con i nemici e gli avversari, con gli amici o presunti tali. Fatta questa premessa, entriamo in dettagli che illustrano le eroiche gesta dei nostri Badoglio, Graziani e Roatta. Cominciamo con il riportare quanto dice uno storico importante, Angelo Del Boca. E’ una persona di destra con due caratteristiche importanti rarissime nei personaggi di destra: è onesto e competente invece di disonesto ed ignorante.

Affile, Graziani e Andreotti

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Se in Germania qualcuno si azzardasse a commemorare appena con una lapide Goering o Rommel, verrebbe subito arrestato, gettato in prigione e la chiave verrebbe invece gettata nella Fossa delle Ma- rianne. Perché? Perché in quel Paese, finita la guerra si fece chiarezza con il Processo di Norimberga: da una parte i nazisti assassini, criminali da impiccare e dall’altra i cittadini che dovevano sapere quali erano i crimini di chi li aveva guidati per 12 anni.

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AFFILE, GRAZIANI, ANDREOTTI Se in Germania qualcuno si azzardasse a commemorare appena con una lapide Goering o Rommel, verrebbe subito arrestato, gettato in prigione e la chiave verrebbe invece gettata nella Fossa delle Ma-rianne. Perché? Perché in quel Paese, finita la guerra si fece chiarezza con il Processo di Norimberga: da una parte i nazisti assassini, criminali da impiccare e dall’altra i cittadini che dovevano sapere quali erano i crimini di chi li aveva guidati per 12 anni.

In Italia niente Norimberga. Eppure di criminali ne abbiamo avuti! Caspita se ne abbiamo avuti! Ma chiarezza, appunto, non è stata mai fatta così che le italiche genti, ignoranti e smemorate, non sanno proprio cosa è accaduto, chi fu il criminale persecutore, chi il perseguitato. Ma perché da noi non si è fatta, non dico una Norimberga ma almeno una Frascati? Perché i prodi e vigorosi americani avevano rapporti stretti con il Fascismo e con la Mafia. Lo sbarco in Sicilia fu possibile senza gravi perdite per-ché guidato da Lucky Luciano. L’esercito USA avanzava preceduto da un carro armato su cui sventola-va una bandiera azzurra. Era il segno di riconoscimento di Luciano ai picciotti. Gli yankee debbono passare e basta. E la mafia siciliana si organizzò perché nessuno si azzardasse a reagire. Poi gli USA eb-bero stretti rapporti con Junio Valerio Borghese (quel delinquente golpista del 1970, ricordate?). Dove-va essere la testa di … ponte che legava esercito USA e Fascisti. Ma perché? Perché in Italia, contraria-mente a quanto avvenne in Germania, vi era un forte movimento di resistenza a maggioranza comuni-sta. Se l’Italia fosse stata liberata in queste condizioni e con i fascisti impiccati, come si sarebbe dovuto fare (come in Germania del resto), il Paese sarebbe diventato quasi certamente una Repubblica Popola-re. Gli USA, prevedendo questo scenario hanno difeso, sostenuto, foraggiato i fascisti (questo è il moti-vo della fucilazione immediata di Mussolini e gerarchi … gli USA volevano il prigioniero ma i partigiani sapevano di losche manovre).

Ebbene, tra i criminali fascisti, militari, da impiccare vi era Graziani (insieme a vari altri, come Roatta, Robotti e Badoglio). Per quanto detto si salvarono, occorreva mantenere personaggi che avesse-ro esperienza militare da usare eventualmente contro una sollevazione comunista. E Graziani, uno dei salvati, è stato in questi giorni commemorato ad Affile con un esborso di 130 mila euro da parte della Regione Lazio (non si dimentichi che Polverini è una nostalgica di borgata). Ora che Graziani sia stato nel cuore dei fascisti è evidente a tutti (infatti Francesco Lollobrigida, inutile assessore ai trasporti della Regione Lazio era lì), pochi sanno che era amico del cuore di Andreotti con il quale ebbe un abbraccio sensuale nei primi anni Cinquanta proprio ad Affile. E la Chiesa? Non poteva mancare. La Chiesa era una corporazione fascista ed il parroco di Affile, Ennio Innocenti, ha fatto la commemorazione. D’altra parte Graziani ha firmato insieme a Padre Agostino Gemelli il Manifesto della Razza, e quindi occorre rendergliene merito.

Un’ultima considerazione. Anche se i tribunali internazionali non sono stati fatti funzionare contro i fascisti vi era sempre la legge italiana che aveva inquisito migliaia di massacratori fascisti. Poi si fece un governo in cui Togliatti era ministro di Grazia e Giustizia ed a lui si deve l’orrenda amnistia che salvò, ancora, tutti i fascisti.

Chi ha una qualche speranza di cambiamento in questo Paese deve vedersela, prima che con i nemici e gli avversari, con gli amici o presunti tali.

Fatta questa premessa, entriamo in dettagli che illustrano le eroiche gesta dei nostri Badoglio, Graziani e Roatta. Cominciamo con il riportare quanto dice uno storico importante, Angelo Del Boca. E’ una persona di destra con due caratteristiche importanti rarissime nei personaggi di destra: è onesto e competente invece di disonesto ed ignorante.

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"Italiani brava gente"?di Angelo Del Boca 

"Deportazioni di massa, bombardamenti con bombe di iprite, campi di concentramento, rappresaglie indiscriminate, stragi di civili, confisca di beni e terreni. Le pagine nere dei crimini commessi dalle trup-pe italiane in Eritrea, Somalia e Libia. Una politica coloniale all'insegna del mito sugli «italiani, brava gente». L'Italia repubblicana non ha ancora fatto i conti con l'«avventura coloniale» del fascismo, favo-rendo una storiografia moderata o revanscista." I paesi europei che hanno partecipato alla spartizione dell'Africa, si sono macchiati, tutti, indistintamente, dei peggiori crimini. E' un dato suffragato da episodi sui quali esiste, nella memoria e negli archivi, una documentazione im-ponente.Tanto nel periodo della liberaldemocrazia che durante i vent'anni del regime fascista, il comportamento dell'Italia nelle sue colonie di dominio diretto non fu dissimile da quello delle altre potenze coloniali. Impiegò i metodi più brutali sia nelle campagne di conquista che nel periodo successivo, stroncando ogni tentativo di ribellione. Con l'avvento del fascismo, poi, le condizioni dei sudditi coloniali si fecero ancora più precarie, soprattutto perché fu messa a tacere in Italia l'opposizione, tanto in Parlamento che negli organi di informazione. Grazie infine alle più capillari pratiche censorie, furono tenuti nascosti agli italiani episodi di inaudita gravità, come, ad esempio, la deportazione di intere popolazioni del Gebel cirenaico, la creazione nella Sirtica di quindici letali campi di concentramento, l'uso dei gas durante il conflitto italo-etiopico, le tremende rappresaglie in Etiopia dopo il fallito attentato al viceré Graziani. Quando Mussolini arrivò al potere, la riconquista della Libia era appena iniziata, mentre sulle re-gioni centrali e settentrionali della Somalia il dominio italiano era soltanto virtuale. A Mussolini, più che ai suoi generali, va dunque la responsabilità di aver adottato i metodi più crudeli per riconquistare le colonie pre-fasciste e per dare, con l'Etiopia, un impero agli italiani.

a) L'impiego degli aggressivi chimici.

Usati sporadicamente in Libia, nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel 1930, contro l'oasi di Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera massiccia e sistematica durante il conflitto italo-e-tiopico del 1935-36 e nelle successive operazioni di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia. L'Italia fascista aveva firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque paesi, un trattato inter-nazionale che proibiva l'utilizzazione delle armi chimiche e batteriologiche, ma, come abbiamo visto, neppure tre anni dopo violava il solenne impegno usando fosgene ed iprite contro le popolazioni libi-che.

In Etiopia le violazioni furono così numerose e palesi da sollevare l'indignazione dell'opinione pubblica mondiale. Le prime bombe all'iprite furono lanciate sul finire del 1935 per bloccare l'avanzata dell'arma-ta di ras Immirù Haile Sellase, che puntava decisamente all'Eritrea, e quella di ras Destà Damtèu, che aveva come obiettivo Dolo, in Somalia. In tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate su obiettivi militari e civili 1.597 bombe a gas, in prevalenza del tipo C.500-T, per un totale di 317 tonnellate. Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il 1936 e il 1939, durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge, infine, che durante la battaglia dell'Endertà furono sparati dalle batterie di cannoni di Badoglio 1.367 proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal ritenere che in Etiopia sia-no stati impiegati non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici.

b) I campi di sterminio.

Con il fascismo le vessazioni nei confronti degli indigeni raggiunsero livelli mai prima segnalati. Dal-l'esproprio dei terreni, dalla confisca dei beni dei «ribelli», dal diffuso esercizio del lavoro forzato, si pas-sò alla deportazione di intere popolazioni e alla loro segregazione in campi di concentramento, che sol-tanto la cinica prosa dei documenti ufficiali aveva il coraggio di definire «accampamenti». Il più noto e drammatico di questi trasferimenti coatti avvenne in Cirenaica nel 1930, dopo che Graziani aveva falli-to il tentativo di domare la ribellione capeggiata da Omar el-Mukhtàr. Su ordine del governatore genera-le Badoglio, il quale era convinto che la rivolta si sarebbe potuta infrangere soltanto spezzando i legami tra gli insorti e le popolazioni del Gebel cirenaico, Graziani predisponeva il trasferimento di 100mila civili dalla Marmarica e dal Gebel el-Ackdar ai campi di concentramento che aveva fatto costruire nella Sirtica, una delle regioni più inospitali dall'Africa del Nord. Quando i lager vennero definitivamente

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sciolti nel 1933, i sopravvissuti erano appena 60mila. Gli altri 40mila erano morti durante le marce di trasferimento, per le pessime condizioni sanitarie dei campi (per i 33mila reclusi nei lager di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c'era un solo medico), per il vitto insufficiente e spesso avariato, per le inevitabili epidemie di tifo petecchiale, dissenteria bacillare, elmintiasi, per le violenze compiute dai guardiani e per le esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga.

I campi di sterminio nella Sirtica non furono i soli. Memore della loro macabra efficacia, Graziani ne istituì uno anche in Somalia, a Danane, a sud di Mogadiscio. Secondo Micael Tesemma, un alto funzio-nario del ministero degli Esteri etiopico, che fu recluso a Danane per tre anni e mezzo, dei 6.500 etiopi-ci e somali che si avvicendarono nel campo, tra il 1936 e il 1941, 3.171 vi persero la vita. Un secondo campo fu istituito nell'isola di Nocra, in Eritrea. Qui le condizioni di vita erano anche più intollerabili, perché i detenuti erano costretti al lavoro forzato nelle cave di pietra, con temperature che a volte raggiungevano i 50 gradi. L'alto tasso di mortalità a Nocra era causato principalmente dalla ma-laria e dalla dissenteria, poi dal cattivo nutrimento e dalle insolazioni.

c) Le stragi.

L'intera storia delle conquiste coloniali italiane è punteggiata da stragi e da esecuzioni sommarie. Ma vi sono episodi che emergono per la loro spiccata gravità. Nella notte del 26 ottobre 1926, ad esempio, avendo saputo che lo scek Ali Mohamed Nur, un capo religioso ostile all'Italia, era sfuggito all'arresto e si era barricato con i suoi seguaci nella moschea di El Hagi, a Merca, una cinquantina di coloni italiani di Genale, ex squadristi, armati di moschetti e di fucili da caccia, puntò su Merca, circondò la moschea e trucidò tutti i suoi occupanti, un centinaio di somali. Il massacro sarebbe stato anche più ingente se, al mattino, a sostituire gli squadristi, che intendevano liquidare tutta la popolazione indigena della zona, non fossero intervenuti i reparti dell'esercito.

Dalla Somalia passiamo alla Libia. Nel febbraio del 1930, alla fine delle operazioni per la riconquista del Fezzan, Graziani spinse un migliaio di mugiahidin, con le loro famiglie, verso il confine con l'Algeria e poiché non fece in tempo ad intrappolarli, per due giorni consecutivi lanciò tutti gli aerei a sua disposi-zione sulle mehalla in fuga. Fu una carneficina, come testimonia lo stesso inviato de Il Regime Fascista, Sandro Sandri, il quale assistette ai bombardamenti e mitragliamenti del «gregge umano composti, ol-treché degli armati, da una moltitudine di donne e bambini». Ma è in Etiopia, nel cristiano e millenario impero del Prete Gianni, che furono consumati i più orrendi eccidi, alcuni dei quali non ancora studiati a fondo per cui il numero delle vittime potrebbe ancora au-mentare. Cominciamo con le stragi compiute ad Addis Abeba dopo l'attentato del 19 febbraio 1937 al viceré Graziani. Per tre giorni, su ordine del segretario federale della capitale, Guido Cortese, fu impar-tita agli etiopici, che erano assolutamente estranei all'attentato, una «lezione indimenticabile». Alla sel-vaggia repressione presero soprattutto parte camicie nere, civili italiani ed ascari libici e fu condotta, come riferisce un testimone degno di fede, il giornalista Ciro Poggiali, «fulmineamente, coi sistemi del più autentico squadrismo fascista». Quando, il 21 febbraio, Graziani diramò, dall'ospedale in cui era stato ricoverato per le ferite subite, l'ordine di cessare la rappresaglia, la capitale era disseminata di cada-veri. Mille morti, secondo Graziani; da 1.400 a 6.000, secondo le stime dei testimoni stranieri; 30mila, a sentire gli etiopici. Cessata la strage in Addis Abeba, la repressione continuò in tutte le altre regioni dell'impero. Si dava soprattutto la caccia agli indovini e ai cantastorie, ritenuti responsabili di aver annunciato nelle città e nei villaggi la fine prossima del dominio italiano in Etiopia. Secondo una relazione del colonnello Azolino Hazon, la sola arma dei carabinieri passò per le armi, in meno di quattro mesi, 2.509 indigeni. Alle ope-razioni repressive partecipò anche l'esercito. Al generale Pietro Maletti venne infatti affidato l'incarico di punire i religiosi della città conventuale di Debrà Libanòs, ingiustamente sospettati di aver favorito l'at-tentato a Graziani ospitando i due esecutori materiali, gli eritrei Abraham Debotch e Mogus Asghedom. Tra il 18 e il 27 maggio 1937 Maletti portò a termine la sua missione fucilando 449 monaci e diaconi. Queste cifre le abbiamo desunte dai dispacci che Graziani inviava quotidianamente a Mussolini, e fino a qualche tempo fa le ritenevamo attendibili poiché Graziani ha sempre avuto la tendenza a non cele-brare, e soprattutto a non ridurre, le cifre della sua macabra contabilità. Il viceré, infatti, commentando la strage di Debrà Libanòs non aveva mostrato alcuna reticenza nel sottolineare l'estremo rigore della punizione: «E' titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di applicare un provvedi-mento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'Abuna all'ultimo prete o monaco».

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Ma dovevo sbagliarmi sulle cifre della strage. Due miei collaboratori, Ian L. Campbell, dell'Università di Nairobi, e Degife Gabre-Tsadik, dell'Università di Addis Abeba, compivano fra il 1991 e il 1994 alcuni accurati sopralluoghi nelle località in cui Maletti decimò il clero copto e giunsero alla conclusione, dopo aver intervistato alcuni superstiti della strage e alcuni testimoni delle operazioni di Maletti, che le cifre riferite da Graziani erano del tutto inattendibili. In realtà, le mitragliatrici di Maletti hanno abbattuto a Debrà Libanòs, Laga Wolde e a Guassa, non 449 tra preti, monaci, diaconi e debteras, ma un numero di religiosi che si aggira tra i 1.423 e i 2.033. Data la serietà dei due ricercatori e il numero delle testimo-nianze raccolte, nel 1997 pubblicavo il loro lungo rapporto sul numero 21 di «Studi Piacentini». Questa non è che una sintesi molto lacunosa dei torti che l'Italia fascista ha fatto alle popolazioni afri-cane da essa amministrate. Dovremmo infatti anche parlare delle leggi razziali, che confinavano gli indi-geni nei loro ghetti, anticipando di vent'anni i rigori e gli abusi dell'apartheid sudafricana. Dovremmo ricordare i limiti imposti all'istruzione, tanto che in settant'anni di presenza italiana in Africa nessun in-digeno ebbe la facoltà e i mezzi per ottenere un diploma o una laurea. Dovremmo infine ricordare che ai sudditi africani erano riservati soltanto ruoli subalterni, i più modesti ed umilianti. Un fatto del genere non accadeva nelle colonie africane della Francia e della Gran Bretagna. Questi crimini furono accuratamente nascosti agli italiani con tutti gli strumenti di cui può disporre una dittatura. E se qualche verità filtrava all'estero, ad esempio sui gas impiegati in Etiopia, il regime reagiva rabbiosamente sostenendo che un popolo che stava portando la civiltà in Africa non poteva macchiarsi di tali infamie. Molti testimoni italiani di stragi o dell'impiego delle armi chimiche si decideranno a svelare i loro segreti soltanto trenta, quaranta, cinquanta anni dopo gli avvenimenti e sempre con qualche reticenza. Altri, invece, e sono i più numerosi, non hanno mai testimoniato sui crimini, perché non li ritenevano tali, ma li consideravano normali pratiche per tenere a freno popolazioni che giudicavano barbare. Molti, fra costoro, si sono fatti fotografare in posa dinanzi alle forche o reggendo per i capelli teste moz-ze di patrioti etiopici.

Questa macabra, allucinante documentazione fotografica è visibile negli Archivi storici di Addis Abeba e proviene dagli uffici degli organi giudiziari italiani scampati alle distruzioni della guerra, o dai portafogli degli italiani finiti prigionieri degli etiopici alla caduta dell'impero. Il mito degli «italiani brava gente» cominciò ad affermarsi quando ancora l'Italia era impegnata in Africa a difendere i suoi territori. Se si sfogliano le riviste coloniali dell'epoca si nota l'insistenza con la quale il regime fascista cercava di accreditare la tesi dell'italiano impareggiabile costruttore di strade, ospedali, scuole; dell'italiano che in colonia è pronto a deporre il fucile per impugnare la vanga; dell'italiano gran lavoratore, generoso al punto da porre la sua esperienza al servizio degli indigeni. Si tentava, insomma, di costruire il mito di un italiano diverso dagli altri colonizzatori, più intraprendente e dinamico, ma an-che più buono, più prodigo, più tollerante. Insomma il prodotto esemplare di una civiltà millenaria, il-luminato dalla fede cattolica, fortificato dalla dottrina fascista. Questo mito sopravviverà alla sconfitta nella seconda guerra mondiale e impregnerà tutti i documenti che i primi governi della Repubblica pre-senteranno alle Nazioni unite o ad altre assise internazionali nel tentativo, fallito, di salvare, se non tutte, almeno le colonie prefasciste. Non soltanto resisteva il mito degli «italiani brava gente», ma si impediva con ogni mezzo che si svol-gesse nel paese un sereno e costruttivo dibattito sul colonialismo. Gli effetti del mancato dibattito sono visibili, come sono palesi i danni arrecati. Il primo dato negativo è la rimozione quasi totale, nella me-moria e nella cultura storica dell'Italia, del fenomeno dell'imperialismo e degli arbitri, soprusi, crimini, genocidi ad esso connessi. A 117 anni dallo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta, a 91 dallo sbarco del generale Caneva a Tripoli, a 67 dall'aggressione fascista all'Etiopia, l'Italia repubblicana non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti, delle leggende, delle contraffazioni che si sono formate nel perio-do coloniale, mentre una minoranza non insignificante di reduci e di nostalgici li coltiva amorevolmente e li difende con iattanza. Non soltanto è stato contrastato ogni tentativo di aprire un dibattito a livello nazionale sul colonialismo, che coinvolgesse storici, forze politiche ed opinione pubblica, ma si è anche tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di esercitare il monopolio su alcuni archivi per impedire che affiorasse la verità, mentre una storiografia di segno moderato o revanscista favoriva palesemente la rimozione delle colpe coloniali. A quando i processi postumi ai Badoglio, ai Graziani, ai De Bono, ai Lessona, ai Cortese, ai Maletti e a tutti gli altri responsabili dei genocidi africani rimasti impuniti? A quando la verità nei libri di testo scolastici, che ignorano persino l'argomento? A quando la proiezione sulla Tv

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di Stato dell'inchiesta televisiva «Fascist Legacy» di Ken Kirby e Michael Palumbo sui crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani? Come è noto, la Rai-Tv acquistò questo filmato dalla Bbc molti anni fa ma non lo ha mai trasmesso. Perché? Per quali veti? Per quale ipocrita riser-bo? Per quale motivo è ancora proibito proiettare nelle sale Il Leone del deserto, il film di Akkad che narra l'epopea tragica di Omar el-Mukhtàr, impiccato da Graziani nel lager di Soluch?

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Perché dopo la guerra su tutto questo sia stato steso un velo di silenzio e soprattutto perché questi luoghi siano stati totalmente dimenticati dalla memoria locale e collettiva è uno dei grandi misteri che si unisce a quello della mancata epurazione di molti gerarchi fascisti che rimasero al loro posto o che addirittura furono collocati in posti importanti della rinata democrazia. Solo pochi anni dopo la guerra, nel 1953, Graziani divenne presidente del MSI. Si pensi che da tutti i campi del centro nord (basta sfogliare la monumentale opera "Il libro della memoria" di Liliana Picciotto Fargion, ed. Mursia) le persone concentrate in questi campi furono deportate verso lo sterminio in Germania. Le vicende di questi anni che vedono gli eredi del fascismo nel governo del Paese insieme a pericolose ideologie me-diatiche e xenofobe e la pericolosa involuzione antidemocratica e anticostituzionale a cui tutti assistia-mo, fa ritornare ossessivamente alla memoria quanto amava dire la filosofa tedesca Hannah Arendt: "Un popolo che non ha memoria è costretto a ripetere gli stessi errori del passato". Proprio in un numero di "Inter-nazionale" (21-27 novembre 2003) il corrispondente tedesco di N-Tv e di alcuni canali televisivi pubbli-ci della Germania, Udo Gumpel, ci ricordava l'assurda storia del cosiddetto "armadio della vergogna", l'armadio con le ante rivolto contro il muro, scoperto nel 1994 nei locali del Palazzaccio, il vecchio Pa-lazzo di giustizia romano. In quell'armadio sono stati sepolti e "archiviati" centinaia di documenti che riguardavano le stragi nazi-fasciste in Italia. Un armadio, come scrive Gumpel, "che fa vergogna alla giustizia, ma anche ai mass media", che hanno steso un velo profondo di silenzio. Certo in questa in-credibile dimenticanza, come in questo ritorno ad un passato, che speravamo estirpato, pesa indubbia-mente il ruolo della Chiesa cattolica nel Paese, ieri come oggi. Come mai la Chiesa affittava senza pro-blemi etici o morali, propri edifici per campi di concentramento allo Stato italiano (ricordo Agnone, Civitella del Tronto, Isola Gran Sasso, Roccatederighi,...) o mandava personale ecclesiastico, per lo più suore, (Alatri o Vo' Vecchio), per lavorare all'interno del campo. Come mai Borgoncini Duca, nunzio apostolico presso lo Stato italiano, uno dei pochi vescovi fatto cardinale da Pio XII dopo la guerra, visi-tava in lungo e largo questi campi. Faceva lo stesso il nunzio apostolico presso il governo di Hitler? E perché si preoccupava tanto delle sorti degli internati in Italia, mentre nei campi di Gonars (si parla di 500 morti), ad Arbe (1500 morti), in Tessaglia a Larissa (centinaia di morti per malnutrizione, 106 uccisi per rappresaglia), nell'isola di Molat (3500 furono gli internati e anche lì ci furono centinaia di morti) nessuno interveniva? Non risulta peraltro che qualcuno abbia fatto una stima complessiva dei morti per mano italiana nei campi sotto il regime fascista. Senza contare, come già scritto, che la Chiesa non mos-se un dito per fermare "il viaggio" verso lo sterminio degli internati nei campi italiani (di cui conosceva tutte le sedi), presi dai fascisti e dai nazisti in ritirata. Anche da quei luoghi che erano sedi ecclesiastiche come il seminario estivo di Roccatederighi dove furono portati alla morte un centinaio di ebrei. Anzi c'è di più come ci ha raccontato la storica Luciana Rocchi, il vescovo di Grosseto chiese al prefetto demo-cratico della sua città, gli affitti non pagati dalla fine della guerra in quanto lo Stato italiano non aveva disdetto l'affitto.

Posate, vasi e aquile d'oro il bottino di guerra di Graziani

1 giugno 2000 - Articolo messo in Rete alle 05:03 ora italiana (03:03 GMT)

COLLEGE PARK (Maryland) - Le 28 casse con il tesoro di guerra del maresciallo Rodolfo Graziani erano state messe al sicuro: in una stanza della sagrestia della chiesa di Santa Agnese, in via Nomentana a Roma. Erano piene di quelli che il maresciallo, dalla sua prigionia a Procida, definisce "ricordi personali e di fami-glia". E per i quali, in una supplica all'ammiraglio americano Ellery Stone, fa "appello al Suo nobilissimo sentimento di Soldato che non può rimanere insensibile alla voce di un altro sfortunato, ma sempre onorato,

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Soldato".In realtà, oltre ai ricordi di casa Graziani, pignolamente elencati ("tre gagliardetti della riconquista libica,per-gamene riguardanti la Cirenaica, dente di elefante legato in argento, autografo di D'Annunzio... "), le casse contengono i ricordi di un'altra famiglia: quella del Negus. 

All'imperatore di Etiopia, infatti, il viceré aveva sottratto vari oggetti e, soprattutto, l'aquila d'oro massiccio che si trovava, sul suo trono al momento dell'incoronazione. Un'aquila che gli americani restituirono all'im-peratore nel luglio del '45. Gli archivi declassificati dalla Cia mostrano un incredulo Hailè Selassiè che passa in rassegna il vasellame, le posate d'argento e le croci copte al momento della loro restituzione.Nella lettera all'ammiraglio Stone, Graziani si affanna a spiegare l'origine dei due servizi di posate in argento dorato (uno da 12 persone e uno da 18): sono stati "ricostituiti acquistando i singoli pezzi da indigeni di Ad-dis Abeba".

CNNItalia.it - Ecco i documenti della Cia su ebrei romani e spie SS - 30 giugno 2000 wysiwyg://17/

http://www.cnnitalia.it/2000/ITALIA/06/30/documentinazi/index.html 

 

Ecco i documenti della Cia su ebrei romani e spie SS

1 giugno 2000

Articolo messo in Rete alle 02:12 ora italiana (00:12 GMT)

All'interno:Gli archìvi di College Park "Cinque giorni per avvertire gli ebrei" L'oro degli ebrei romani "I vestiti di Mafalda e di Ciano" Dialogo sullo sterminio Battute sul forni crematorl [Borghese e von Fuerstenberg GII italiani nelle fabbriche del RelchLa Cia ha reso pubblici 400 mila documenti che vengono dagli archivi della Oss, i servizi segreti americani così come erano conosciuti durante la seconda guerra mondiale

di Riccardo Orizio - Cnnitalia

COLLEGE PARK (Maryland) — I nazisti avevano una insospettabile gola profonda in Vaticano: il monsi-gnore irlandese O'Flaherty, che rappresentava la Croce Rossa Usa. Gli agenti segreti delle SS trasferivano grosse somme di denaro tra Milano e Roma grazie al cardinale Ildefonso Schuster. I servizi segreti nazisti erano in costante contatto con aristocratici come Tasilo von Fuerstenberg (il genero del senatore Agnelli) e Junio Valerio Borghese, in vista di un nuovo Reich senza Hitler. Mussolini ordinava il furto di opere d'arte per farne poi gentile omaggio a Hermann Goering, in nome dell'amicizia nazi-fascista. Priebke si occupava probabilmente dell'oro sequestrato agli ebrei romani.

E nelle 28 casse che custodivano il tesoro di guerra del maresciallo Rodolfo Graziani, il viceré d Etiopia, gli Alleati trovarono piatti e posate provenienti dal palazzo reale di Addis Abeba e l'aquila d'oro massiccio del trono di Hailè Selassiè.

Gli archivi di College Park

Sono questi alcuni dei nomi e degli episodi che, dopo sei decenni di segreto assoluto, escono dai 400 mila documenti appena declassifìcati dalla Cia, finalmente riapparsi in decine di scatoloni di cartone grigio al se-condo piano di una palazzina di College Park, a metà strada tra Washington e Baltimora. Le scatole conten-gono intercettazioni "catturate" all'insaputa dei nazisti, diari sequestrati a prigionieri di guerra, interrogatori di agenti che facevano il doppio gioco. «In molti casi, sono segreti imbarazzanti per gli Alleati.

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Perché, per esempio, Londra non avvertì gli ebrei romani della retata organizzata da Kappler, la cui prepara-zione era stata intercettata il 6 ottobre 1943? Perché non cercò di evitare il loro trasferimento ad Auschwitz?

"Cinque giorni per avvertire gli ebrei"

"Secondo i miei calcoli, dopo la traduzione e vari passaggi burocratici, i vertici britannici entrarono in pos-sesso di quei documenti intorno all'11 ottobre, quindi con cinque giorni di preavviso sulla retata. Non han-no agito perché l'intelligence cercava segreti militari, non si occupava di questioni umanitarie. E poi agire avrebbe voluto dire far sapere ai tedeschi che le loro comunicazioni erano decifrabili", spiega Timothy Naf-tali, storico del Miller Center dell'Università della Virginia.

Naftali è l'esperto di spionaggio che ha selezionato per conto della Cia i 400 mila documenti declassificati lo scorso lunedì. Oltre alle intercettazioni ci sono chili di verbali tratti dagli interrogatori a prigionieri di guerra e rapporti segreti inviati da agenti sul campo.

L'oro degli ebrei romani

E' grazie a questi documenti che oggi si sa che la retata dei mille ebrei romani, per esempio, avvenne con la piena approvazione del maresciallo Rodolfo Graziani. Che una simile retata era stata prevista per Napoli, ma fallì "causa il clima ostile della città". E che non fu affidata ai carabinieri perchè considerati dai nazisti "inaffidabili" (Kappler ordinò che fossero disarmati). Che il clima era già così ostile da obbligare i nazisti a minacciare gli uomini che rastrellavano gli ebrei di "ritorsioni contro le famiglie" se non eseguivano gli ordi-ni "in modo conforme". Sempre da questi documenti si sa che all'inizio d'ottobre del '43 i nazisti confisca-rono agli ebrei romani 50 chili d'oro.

Il comando tedesco di Roma cercò subito di inviare il bottino alla Reichsbank di Berlino. Il 7 ottobre un telegramma da Berlino dice, enigmatico: "Non abbiamo ancora ricevuto il camion di Priebke. Sappiamo che è ancora all'ambasciata tedesca. Pregasi investigare". Cosa trasportava quel camion? L'oro?

Borghese e von Fuerstenberg

I nomi? Il diario di Zimmer spiega che in questa operazione furono coinvolti due principi: Tasilo von Fuer-stenberg, il marito di Clara Agnelli (la figlia del senatore Giovanni Agnelli), cittadino tedesco di casa a Tori-no e alla Fiat; e Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas, che "combatte una sua guerra personale contro le popolazioni slave" ed era pronto anche a negoziare con gli Alleati in funzione anti-russa.

Molti protagonisti avevano posizioni ambigue. Come il cardinale Ildefonso Schuster, che aiutava a trasferire denaro tra Milano e Roma per conto - chissà se in modo consapevole - di agenti nazisti. Altri hanno com-messo peccatucci di altro tipo: Graziani aveva nascosto in una chiesa romana il vasellame d'argento del Ne-gus.

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Oltre agli oggetti d'arte Graziani aveva nascosto anche documenti ufficiali del fascismo e documenti militari. Tutti oggetti che il maresciallo chiede in restituzione "a che possa tramandarli ai miei nepoti perché questi abbiano materia per giudicare realmente chi sia stato il loro Nonno e sia salva presso di loro la Mia Memo-ria".

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ITALIANI ... BRAVA GENTE?Nel sito http://www.criminidiguerra.it/html/DocumentiE.htm vi sono moltissimi documenti ed articoli che consiglio di andare a vedere. Io ne ho estratti alcuni che credo siano di immediato inte-resse. Occorre definitivamente smentire la leggenda degli italiani brava gente. Occorre dire la veri-tà che è stata sempre nascosta dai furbetti democristiani per tanti anni ed ora dal revisionismo fa-scista. Il guaio vero è stato l'assenza di una Norimberga italiana. Avremmo visto vari personaggi

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condannati a morte per crimini di guerra sia per le vergogne che ora andiamo a vedere sia per quelle già viste di Foibe, sia per altre che vedremo su Grecia, Albania, ...

http://www.criminidiguerra.it/html/repressionelibia.htm 

La repressione dell'esercito italiano durante la nuova occupa-zione della Libia1911 Trattato di Losanna: a conclusione della guerra italo/turca, la Libia restava sotto l'autorità formale del-la Turchia che demandava alla amministrazione italiana la sua autorità sulla fascia costiera tra Zuara e To-bruk.

1913 influenza italiana estesa a tutto il Gebel tripolino con la scusa di prevenire possibili rivolte.

1914 la resistenza libica costringe gli italiani a ripiegare sulla costa.

1921 discreto stato di pacificazione creato il governatorato di Tripolitania (Volpi)

1927 governatorato di Cirenaica (governatore Teruzzi)

1929 Badoglio governatore unico delle province di Tripolitania e Cirenaica. Attacchi di capi senussiti guidati da Omar el Muktar, simbolo della resistenza cirenaica, nei confronti delle nostre truppe.

1930 Graziani vice governatore a Bengasi. Repressione violentissima (deportazioni, esecuzioni, confino). Viene rioccupato l'entroterra tra Bengasi e Tobruk. Viene costruito un reticolato di 270 km da Giarba a Giarabub atto a impedire che dall'Egitto arrivassero rifornimenti di armi, munizioni e cibo ai ribelli senussiti.

1931 occupata l'oasi di Cufra. Omar el-Muktar viene catturato e impiccato nel campo di concentramento di Soluch dopo un processo sommario che non tiene conto dell'età del prigioniero (73 anni) e del fatto che dovrebbe essere considerato prigioniero di guerra e non traditore visto che non ha mai percepito stipendi dal governo italiano.Ciò rappresentò il colpo di grazia della resistenza senussita. Ancora oggi la visione del film "Il leone del deserto", del regista siriano Mustafà Accad che narra le vicende di Omar dal punto di vista arabo, è vietato per censura ministeriale.

1934 Badoglio proclama che "la ribellione araba in Cirenaica è stroncata".Lo stesso Graziani parla di 1641 mugiahidin caduti tra il marzo 1930 e il dicembre del 1931.

Gli aspetti della repressione

Un aspetto della repressione sia in Tripolitania che in Cirenaica fu rappresentato dai tribunali militari specia-li. I processi avvenivano spesso all'aperto in pubblico per confutare le notizie di esecuzioni sommarie. Gli imputati indigeni venivano il più delle volte condannati a morte e le sentenze immediatamente eseguite. Le accuse più diffuse erano quelle relative all'aiuto dato ai ribelli.

A questo proposito Graziani scrive: "Non appena giunge la segnalazione di un arresto in flagranza di reato, il tribunale parte e la Giustizia scende dal cielo. E questo è diventato così nornale che quando un aeroplano giunge nel luogo dove è stato commesso un reato si sente mormorare negli accampamenti la parola tribunale" (in Graziani Cirenaica pacificata pag. 139).

1930 Deportazioni delle tribù che abitavano il Gebel cirenaico (chiamato anche Montagna verde per il clima abbastanza temperato e ventilato e perché luogo con sorgenti d'acqua) e chiusura delle zavie (centri poliva-lenti senussiti).Il motivo delle deportazioni era da ricollegarsi alla ripopolazione del Gebel da parte di coloni italiani.Esodo biblico durato 20 settimane. Delle 100.000 persone ne arrivarono 85.000 (relazione del generale Cicconetti al generale Graziani). Anche i capi di bestiame furono falcidiati dalla sete, dalla mancanza di foraggio e dalla

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aviazione che li mitragliò a volo radente lungo tutto il Gebel per evitare di lasciarli alle bande locali.Vari episodi di crudeltà tra i quali ricordiamo l'abbandono di 35 indigeni, tra cui donne e bambini, nel deser-to privi di acqua a causa di una rissa scoppiata tra loro; altri morti in seguito a fustigazioni, altri ancora morti di sete o per la fatica.Per evitare la sopravvivenza di bande furono avvelenate le "guelte", pozze d'acqua dove si abbeveravano gli animali, i pozzi d'acqua delle varie tribù, incendiati campi e raccolto (cfr Ottolenghi,op. cit pag 62 e seg).

Badoglio in una lettera a Graziani del 20/6/1930 giustificò le deportazioni perché "occorre creare un distacco territoriale tra le formazioni ribelli e le popolazioni sottomesse onde impedire alle seconde di sostentare le prime…. urge far refluire in uno spazio ristretto lontano dalle loro terre originarie, tutta la popolazione sottomessa, in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli".

In questo modo Graziani cerca di giustificare le deportazioni: "... lasciare le popolazioni nei loro territori di origine e dare ampia libertà di azione alle truppe per scovare e annientare i ribelli ovunque si trovassero. Non mi sfuggivano le tragiche conseguenze cui avrebbe condotto questo metodo perché conoscendo a fondo l'ignoranza delle popolazioni beduine, e l'opera su di essa compiuta dalla propaganda senussita, ritenevo che esse sarebbero state indotte a persistere nell'errore e a continuare a rifor-nire le masse armate di viveri, uomini, armi, donde sarebbe derivato lo sterminio pressoché totale delle popolazioni beduine della Cirenaica ...

La seconda via era quella di mettere le popolazioni in grado di non aver contatto con i ribelli ossia supplire con un intervento coattivo del Governo alla loro ignoranza e deficiente responsabilità risparmiandole agli orrori della guerra ... sarebbe stato me-glio far sopportare a questa i disagi e le ristrettezze del concentramento ... anziché esporle allo sterminio. Questo spirito umani-tario divenne oggetto di campagna diffamatrice nei confronti dell'Italia accusata di vilipendio e di offesa alla religione perchè abbatteva i suoi templi, di atrocità e di ogni genere e perfino del getto dell'alto degli aereoplani di gente musulmana! Nulla di più spudorato ... Oggi quelle popolazioni a rischio sterminio sono avviate a raggiungere quel livello di vita civile ed economica che ingentilirà i loro costumi nobiliterà i loro cuori e costituirà il primo fattore della loro felicità. Marsa el Brega, Agheila, Sidi hamed el Magrum oggi hanno l'aspetto di piccoli villaggi". (Graziani in Cirenaica pacificata pag. 304)

Il 31 luglio 1930 l'oasi di Taizerbo viene bombardata con bombe all'iprite.

Cufra, città santa per gli islamici perché sede della Senussia (confraternita sunnita), considerata da Graziani "centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico".Il 26 agosto Cufra è bombardata e i ribelli inseguiti, verso il confine con l'Egitto. Graziani parla di 100 ucci-si, 14 passati per le armi e 250 prigionieri tra cui donne e bambini. Il bilancio complessivo è molto più alto.Testimonianza del pilota V. Biano (in Del Boca Gli italiani in Libia).

"Partiti all'alba ... gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono finchè giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto perchè il bersaglio è diluito ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e lo abbattono... il gioco continua per tutta la giornata ... le carovaniere della speranza diventano un cimitero di morti.

Il 20 Gennaio 1931 Cufra è occupata; seguirono tre giorni di saccheggi e violenze di ogni tipo fatti dai nostri soldati col tacito assenso dei superiori.

17 capi senussiti impiccati

35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati

50 donne stuprate

50 fucilazioni

40 esecuzioni con accette, baionette, sciabole.

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Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene vio-lentate e sodomizzate (ad alcune infisse candele di sego in vagina e nel retto) teste e testicoli mozzati e por-tati in giro come trofei; torture anche su bambini (3 immersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi (ad al-cuni estirpati unghie e occhi) (Ottolenghi op. cit.pag 60 e seg.).

Grande impressione nel mondo islamico. La "Nation Arabe" scrive: "Noi chiediamo ai signori italiani… i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?"

Il giornale di Gerusalemme "Al Jamia el Arabia" pubblica , il 28 aprile 1931, un manifesto in cui tra l'altro si ricordano "alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo ... senza avere pietà dei bambini, nè dei vecchi ...".Graziani, che riporta il testo in Cirenaica pacificata, lo definisce "infarcito di menzogne tali che non so se muovano più il riso o lo sdegno".

1933 Balbo sostituisce Badoglio restando in carica sino al 1940.

L'impiego dei gas e delle armi chimiche

Gli aggressivi chimici furono impiegati per la prima volta nella prima guerra mondiale da Germania, Au-stria-Ungheria, Italia, Gran Bretagna e Russia.Il 17 giugno 1925 viene firmato da 25 Stati aderenti alla Società delle Nazioni un trattato internazionale che proibiva l'utilizzo di armi chimiche e batteriologiche.Il trattato fu ratificato dall'Italia il 3 aprile 1928.

Tra il 1923 e il 1931 l'aviazione italiana impiegò fosgene e iprite

ANNI LUOGO FONTI CARATTERISTICHE RISULTATI

1924/26

Tripolitania: accam-pamenti, uadi (letti asciutti di antichi corsi d'acqua)

Relazione Mombelli (generale)1

politica della terra bruciata e del terrore

bombardate 150 ten-de coniche, numero-so bestiame nuclei armati intenti a lavori di semina

6/1/1928Gifa: oasi a sud di Nu-filia (Tripolitania) su popolazioni Mogarba

Operazioni 29° parallelo per unificare Tripolita-nia e Cirenaica(Relazione generale Cicconetti2 a De Bono AUSSME)

10 bombe da 21 kg al fosgene da 3 aerei Caproni 111

4/2/28 Relazione De Bono sugli "esiti bombarda-menti in Tripolitania"3

3 tonnellate bombe esplosive e all'iprite

36 indigeni e 960 capi di bestiame

12/2/1928 Hon Uaddan Diario De Bono Bombe al fosgene

19/2/1928Cirenaica 15 km sud-est dello uadi En-gar(Gebel)

Relazione governatore Teruzzi4 8 quintali di iprite

42 individui centi-naia di capi di be-stiame uccisi

Marzo 1929 Zeefran Heleighima Relazione Teruzzi5 Bombe a gas 300 cammelli nume-rosi pastori

31/7/1930 Oasi TaizerboAutorizzazione Bado-glio (Relazione ten. col. R.Lodi al gen. Sicilia-ni6. Graziani7.

24 bombe da 21 kg a iprite da 4 aerei Romeo 12 bombe da 12 kg e 320 da 2 kg con esplosivo con-venzionale

Distruzione bestiame e di numerosi ribelli

1 "Relazione Mombelli: Caproni esplorò regione Uadi el Faregh...avvistò e bombardò grosso attendamento circa 150 tende coniche e rettangolari.Bombardò regione Saunno con esito visibilmente efficace settantina tende e numeroso bestiame al

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pascolo.Bombardò ripetutamente accampamento due chilometri est Garbagniha ... nonchè ... nuclei armati intenti lavori semi-na.".2 "A prova della terribile efficacia dei bombardamenti sta il fatto che basta ormai l'apparizione dei nostri apparecchi perché grossi aggregati spariscano allontanandosi sempre più".3 "Relazione De Bono al ministro delle colonie: 263 Op.UG/Segreto: Stamane come stabilito quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I quattro Ca 73 sonosi spinti circa settanta chilometri sud Nufilia bombardando anche a gas circa quattrocento tende....".4 "Relazione Teruzzi: Gebel. Ieri undici, aviazione Mechili bombardato efficacemente noto accampamento con bestiame pasco-lante .... Risulta da fonte attendibile che recenti bombardamenti eseguiti da aviazione abbiano causato ai ribelli quarantina persone uccise altrettanti feriti e sessantina cammelli abbattuti...".5 "Relazione Teruzzi: Sembra che nello Zeefran i ribelli abbiano abbandonato quaranta tende .... in seguito ripetuti bombar-damenti a gas".6 "Telegramma Badoglio a Siciliani e De Bono "Si ricordi che per Omar el Muchtar occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite....".7 "Graziani in Cirenaica pacificata a proposito del bombardamento dell'oasi di Taizerbo scrive "Fu effettuato il bombarda-mento con circa una tonnellata di esplosivo ... Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico.""

http://www.criminidiguerra.it/html/Itinerari.htm 

La guerra di conquista dell'Etiopia:i crimini sulle popolazioni e l'uso dei gas.Per Africa Orientale italiana si intende quel territorio comprendente Eritrea e Somalia costituito nel gennaio del 1935 dal fascismo in previsione della guerra con l'Etiopia che, dopo la conquista italiana. costituirà parte integrante del territorio.

L'Eritrea fu la prima colonia italiana costituita dopo l'acquisto da parte del governo italiano (1882) della baia di Assab, sul mar Rosso,dalla Società Rubattino che, a sua volta, l'aveva acquistata dieci anni prima da sultani locali.

La colonizzazione italiana proseguirà nel 1885 con l'occupazione di Massaua che porrà sempre più in primo piano i rapporti con l'Impero abissinio.

Nel 1886 l'eccidio di Dogali, compiuto dagli Abissini per contrastare l'espansionismo italiano, ne sarà un esempio.

L'espansionismo italiano continuerà sino ai limiti dell'altopiano etiopico e troverà un atto significativo nel Trattato di Uccialli che, per il governo italiano ma non per quello etiope, stabiliva una sorta di protettorato dell'Italia sull'Etiopia.

Dopo l'occupazione del Tigrè, avvenuta nel1893, il colonialismo italiano subisce una battuta d'arresto con le sconfitta di Amba Alagi, Macallè e Adua.L'Eritrea costituirà la base delle operazioni del fronte nord, guidate da Graziani, nella campagna di Etiopia.

Negli stessi anni L'Italia allargava la sua influenza verso il Benadir, Merca, Mogadiscio (Somalia italiana) pre-vi accordi con il Sultanato di Zanzibar.La Somalia diventerà la base delle operazioni del fronte sud guidate da Graziani, nella campagna di Etiopia.

Nella parte settentrionale gli accordi con l'Impero abissinio stabilivano che tutto "l'Ogaden restasse all'Abissinia".Fu proprio nell'Ogaden a Ual/Ual, ai confini con la Somalia italiana, che si verificarono quegli incidenti che fornirono il pretesto per l'aggressione all'Etiopia. Mussolini, che aveva già deciso l'intervento, tenta di prendere tempo sul piano internazionale e, nello stesso tempo, di organizzare tempi e modi di at-tuazione dell'aggressione.

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La campagna militare per la conquista dell'ETIOPIA

Ottobre 1935. De Bono ordina ai 3 corpi d'armata di passare il confine del Mareb (confine eritreo) avendo come primo obiettivo Adua e Adigrat.L'armamento è considerevole in quanto i centomila uomini che stanno per muoversi dispongono di 2300 mitragliatrici, 230 cannoni, 156 carri d'assalto. Dall'Eritra sono anche pronti a decollare 126 aerei.

I militari italiani avanzano senza incontrare resistenza. L'aviazione, intanto, bombarda Adua e Adigrat fa-cendo numerose vittime tra i civili.L'episodio è registrato nel diario di De Bono, che così scrive: "Il Negus ha già protestato per il bombardamento aereo dicendo che si sono ammazzati donne e bambini. Non vorranno che si buttino giù dei confetti".

Il 6 Ottobre l'armata italiana entra ad Adua incontrando poca resistenza in quanto Hailè Selassiè ha scelto la tattica del ripiegamento per portare i nemici al centro del paese, lontano dai loro centri di rifornimento.

Il ras Sejum, cognato del ras Cassa, a cui il negus aveva affidato il comando delle armate del nord, ripiega nel Tembien, camminando di notte per sfuggire all'osservazione aerea.

De Bono, intanto, provvede al rafforzamento delle posizioni occupate costruendo strade, impianti di linee telefoniche, allestendo campi...

Ma il comportamento delle truppe di occupazione si fa subito preoccupante, se De Bono il 15 Ottobre, alla vigilia dell'occupazione di Axum, scriverà al generale Maravigna "Allo scopo di evitare che si ripetano ad Axum depredazioni e danneggiamenti come si è verificato ad Adua, prego disporre che l'ingresso della città sia di massima interdetto ai militari sia metropolitani che indigeni, disponendo un servizio di vigilanza e perlustrazione all'interno della città stessa. (ASMAI AOI 181/24)

11 Ottobre. Defezione del degiac (comandante di reggimento) Gugsa, genero dell'imperatore, che produce effetti morali e militari sulle truppe etiopi.

18 Ottobre. Incontro di De Bono con Lessona, ministro delle colonie, e il maresciallo Badoglio inviati da Mussolini in Eritrea per relazionare sull'atteggiamento di De Bono, considerato troppo cauto nel procedere all'avanzata.

Mussolini, infatti, spinge per l'occupazione rapida di Macallè-Tacazzè che, secondo i suoi ordini, deve avve-nire il 3 novembre.

FRONTE SUD

Ottobre 1935. Graziani ordina subito massicci bombardamenti. Occupate alcune città tra cui Dolo, Dagne-rei, Oddo.

10 Ottobre. Primo bombardamento chimico a Gorrahei, campo trincerato, il più importante sulla strada di Dagahbùr.

2-4-5 novembre. 18 aerei Caproni lanciano 189 quintali di esplosivo, mentre i caccia a volo radente sparano 13.730 colpi.

"Tutta la zona pare arata dalle bombe: non c'è tratto che non sia sconvolto, ... l'azione aerea è stata formidabile e le sue tracce lasciano facilmente immaginare quale sia stato il tormento degli abissini che, pazzi di terrore, non hanno più resistito e sono fuggiti col loro capo morente." (Luigi Frusci generale in "In Somalia sul fronte meridionale" Cappelli 1936).

Il capo di cui si parla è il grasmac (comandante di zona) Afeuork che, sebbene ferito, si rifiuta di lasciare il comando e morirà prima di arrivare all'ospedale di Dagabhur.

11 novembre. Hamanlei attacco etiope. Quattro carri armati Fiat-Ansaldo vengono distrutti. Perdite italiane.

Graziani è costretto ad aspettare 5 mesi prima di riprendere l'offensiva nell'Ogaden.

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FRONTE NORD

De Bono, spinto da Mussolini, riprende l'operazione di conquista di Macallè.Non trovando resistenza la città viene occupata l'8 novembre. Ma con questa occupazione la situazione peggiora perché dopo settimane di marcia le armate abissine provenienti dalle regioni centrali sono giunte a contatto con gli avamposti nemici.

18 novembre. Gli aerei italiani scoprono il concentramento di reparti nemici (formato dall'armata del ras Cassia, da quella del ras Sejum) e lo bombardano con 45 quintali di esplosivo.Gli abissini reagiscono all'offesa aerea e sanno disperdersi in tempo per evitare gravi perdite.

11 novembre. Mussolini spinge De Bono a marciare su Amba Lagi, ma, di fronte alle perplessità di De Bo-no, acconsente ad una "ragionevole sosta a Macallè".

14 novembre. Mussolini comunica a De Bono che ha nominato come suo successore Badoglio.

28 novembre. Arriva Badoglio.

Con Badoglio la guerra muta carattere diventando guerra di distruzione.Verranno colpite le città, gli accampamenti, le strade, gli ospedali. Saranno impiegati per la prima volta i gas asfissianti e l'iprite.

A dicembre inizia la controffensiva etiopica: le tre armate etiopiche si stanno avvicinando a quelle armate italiane.

A sud dell'Amba Aradan si trova l'armata del ras Mulughietà, quella del ras Cassa si avvia verso il Tembien, mentre quella del ras Immirù ha le sue avanguardie nel Tacazzè.

4 dicembre. Vengono lanciati 45 quintali di bombe sulle colonne di ras Immirù per rallentarne l'avanzata.

6 dicembre. 76 quintali di esplosivo distruggono la cittadina di Dessiè e le tende della Croce Rossa. Nono-stante ciò gli abissini hanno imparato a camuffarsi e disperdersi e a metà dicembre sono a contatto con gli italiani su tutto il fronte.

14-15 dicembre. Le avanguardie di ras Immirù attraversano il fiume Tacazzè. Un altro contingente punta al passo di Dembeguinà dove passa l'unica via di comunicazione con le linee nemiche con lo scopo di tagliare la ritirata agli italiani.

La sconfitta di Dembeguinà apre a ras Immirù lo Scirè, mentre il ras Cassia invadendo il Tembiem, minaccia Macallè.

Di fronte a questa delicata situazione Badoglio decide di iniziare la guerra chimica, non solo per fermare l'avanzata delle truppe ma per terrorizzare le popolazioni.

Dal 22 dicembre al 18 gennaio vengono lanciati sul fronte nord duemila quintali di bombe, per una parte rilevante caricate a gas tra cui l'iprite (solfuro di etile biclorurato), che provoca la necrosi del protoplasma cellulare ed è sicuramente mortale.

TestimonianzeHailè Selassiè dinanzi all'assemblea ginevrina il 30 giugno 1936: "fu all'epoca di accerchiamento di Macallè che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò il procedimento che ho il dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono istallati a bordo degli aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si succedevano in modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu così che, a partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo di guerra."

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Dottor Schuppler, responsabile dell'ambulanza n.3, in un rapporto al ministro degli Esteri etiopico: "Ho l'onore di portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936, per la prima volta, delle bombe a gas sono state impiegate dagli aviatori italiani. Queste bombe hanno ucciso 20 contadini e io ho curato 15 casi di persone colpite dal bombardamento a gas tra cui 2 bambini. Le ustioni sono state provocate dall'iprite, usata a sud del passo di Alagi".

Dottor Melly, responsabile di una delle ambulanze inglesi: "Tra il 7 e il 22 marzo allorché questa ambulanza si trovava nella regione dell'Ascianghi, curammo dai due ai trecento casi di ustioni da iprite. La maggior parte dei gasati era rimasta momentaneamente accecata. Un gran numero di ustioni presentava un carattere particolarmente grave, terribile."

M. Junod, delegato Croce Rossa Internazionale, testimonia sul bombardamento all'iprite sull'aereoporto di Quorum.

FRONTE SUD

Contemporaneamente all'avanzata del ras Immirù a nord, il ras Destà giunge a contatto con le difese italiane del campo di Dolo.

Graziani decide di utilizzare in modo massiccio l'aviazione, ottenendo da Mussolini libertà d'azione per l'uso dei gas asfissianti.

Su Neghelli, base di rifornimento per gli etiopi, rovescia 177 quintali di esplosivo e di gas.Testimonianza di ras Destà all'imperatore: "Dal 17 dicembre gli italiani gettano anche bombe a gas, le quali piovono come la grandine... Le lesioni, anche leggere, prodotte da tale gas gonfiano sempre più sino a diventare, per infezioni delle gran-di piaghe".

30 dicembre. Graziani ordina un bombardamento nella zona di Gogorù per colpire lo stato maggiore del ras Destà. Vengono lanciati da tre Caproni 3.134 chilogrammi di esplosivo.Molte bombe colpiscono le tende e gli automezzi di un ospedale da campo svedese con i contrassegni della Croce Rossa provocando morti e feriti.

La notizia fa il giro del mondo.

La controffensiva di Graziani inizia il 12 gennaio nella battaglia del Ganale Doria che vede il lancio di 1.700 chilogrammi di gas asfissianti e vescicanti sulle popolazioni abissine e l'inizio del disfacimento dell'armata etiope; prosegue con la conquista di Neghelli (20 gennaio) su cui vengono lanciati ben 1.250 quintali di esplosivo. Le armate del ras Destà, bombardate e irrorate di iprite, tentano di raggiungere il Kenya, ma ver-ranno annientate nel cosiddetto "vallone della morte".

FRONTE NORD

La battaglia dell'Endertà.

Badoglio decide di prevenire l'avversario e dal 19 gennaio inizia la battaglia del Tembien.

23 gennaio. Ras Cassia telegrafa all'imperatore per invitarlo a protestare presso la Società delle Nazioni per l'uso di iprite da parte italiana. La battaglia si conclude il 24 e con essa la controffensiva etiopica.

Hailè Selassiè che aveva il suo quartiere generale a Dessiè decide di cambiare strategia e di andare incontro ai nemici avanzando verso Quoram. Secondo il negus questa scelta fu dovuta anche all'uso degli aggressivi chimici da parte italiana.

10 febbraio. Badoglio inizia l'offensiva sull'Amba Aradan durante la quale vengono sparate molte granate caricate con arsine.

Sull'Amba Aradan vengono catturati due europei al servizio del negus, il medico polacco Belau e il suo assi-stente che verranno torturati perché ritrattino la dichiarazione inviata alla SdN, che denunciavano il bom-bardamento indiscriminato di Dessiè.

17-18-19 febbraio. Tutti gli aerei disponibili del fronte nord inseguono l'avversario in rotta, lasciando cadere in una sola giornata 730 quintali di esplosivo. "I piloti sembravano scatenati. Si era data libertà di volo e di azione chi

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faceva prima a rifornirsi partiva, era una gara continua ... Non c'era bisogno di abbassarsi troppo: ogni spezzone piombava in mezzo a loro seminando la morte. Era una bella lezione per quelle teste dure" (testimonianza di Vittorio Mussolini in Voli sulle ambe). Il ras Mulughietà viene ucciso mentre le armate del ras Cassa e del ras Sejum sono avvolti nella manovra a tenaglia di Badoglio.

Febbraio/marzo. Seconda battaglia del Tembien. L'aviazione scaricherà 1.950 quintali di esplosivo. Con una manovra di accerchiamento gli italiani riescono ad annientare le armate abissinie in ritirata che vengono de-cimate dall'aviazione.

"I gruppi marciavano in pieno disordine ma l'obbligatorietà del percorso lungo la pista, la strettezza dei guadi, i binari delle pareti dei burroni, contribuivano inevitabilmente a tenerli addensati in colonna. Anche da mille metri era facile scorgerli. Poi si piombava, il veicolo imboccava il corridoio delle anguste valli, ne obbediva lo zig zag. Seminava intanto, sobbalzando agli schianti, il suo carico mortale". (Pavolini "Corriere della sera ", 3/3/1936.)

28 febbraio. Viene occupata Amba Alagi.

29 febbraio. Mentre è in corso la seconda battaglia del Tembien, Badoglio attacca l'ultima armata etiopica del fronte nord, quella del ras Immirù nella battaglia dello Scirè. Per fiaccare il nemico Badoglio, come di consueto, all'impiego dei caccia e degli aerei da bombardamento.

2 marzo. Verranno usati per la prima volta i lanciafiamme.

3-4 marzo. Badoglio, vistosi fuggire il grosso dell'esercito del ras Immirù verso i guadi del Tacazzè, ordina all'aviazione di proseguire da sola la battaglia.

Verranno lanciati 636 quintali di esplosivo e di iprite. Lo stesso Badoglio racconta che per rendere più com-pleta la distruzione vengono lanciate piccole bombe incendiarie che trasformano in un solo rogo i fianchi boschivi della valle del Tacazzè rendendo tragica la situazione del nemico in fuga. I piloti che scendono a volo radente per mitragliare i superstiti rilevano notevoli masse nemiche abbattute e grande quantità di uo-mini e di quadrupedi trasportati dalla corrente.

Intanto il ras Immirù viene inseguito a sud del Tacazzè e i ras Cassa e Sejum si ritirano su Quorum.

19 marzo. Il negus Hailè Selassiè, raggiunto nel suo quartier generale a Quorum, dal ras Cassa e dal ras Sejum, decide di avanzare verso gli italiani e di dare battaglia nel loro campo a Mau Ceu prima che arrivino forze più numerose.

Badoglio, che ancora non sa della decisione del negus, così scrive a Lessona in un telegramma del 12/3/36: "Se il nemico invece di accettare battaglia nei pressi di Quorum mi fa uno sbalzo indietro di cento chilometri, portandosi a Des-sì, sono fritto. Allora non rimane che il mio vecchio progetto. Mettere in azione tutta l'aviazione e cominciare da Addis Abeba a tutti i centri importanti. Tabula rasa. Sono convinto che in una settimana metteremmo l'Abissinia in ginocchio".

21 marzo. Badoglio apprenderà la decisione del negus e si preparerà alla battaglia di Mau Ceu.

29 marzo. Mussolini rinnova a Badoglio l'autorizzazione ad usare gas di qualunque specie (tel n.3652).

30 marzo. La battaglia durerà 13 ore durante la quale gli aerei italiani lanceranno 335 quintali di esplosivo e sparano 6.200 colpi di mitragliatrice.

1 aprile. Hailè Selassiè ordina agli uomini rimasti di ripiegare sulla pianura del lago Ascianghi dove verranno inseguiti e bombardati senza tregua.

4 aprile. Gli scampati alla battaglia di Mau Ceu verranno bombardati con 700 quintali di bombe, molte cari-cate ad iprite. "Per gli aviatori italiani non era più guerra era un gioco. Quale era il rischio nel mitragliare dei cadaveri e dei morenti i cui occhi erano bruciati dai gas?" ( testimonianza di Hailè Selassiè).Il giornalista Cesco Tomaselli racconta: "Le bombe esplodono nel fitto degli uomini che arrancano curvi, tenendo le mani sulla testa come si fa quando si è colti da una grandinata sui campi."

Molti moriranno per aver bevuto l'acqua contaminata dai gas tossici del lago dell'Endà Agafarì.È Hailè Selassiè che racconta l'atroce visione e sottolinea come "sarebbe stato necessario fissare questa immagine per poterla presentare al mondo e distruggere per sempre nel cuore degli uomini i propositi di guerra".

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FRONTE SUD

L'avanzata di Badoglio preoccupa Graziani di restare escluso dal successo finale; così, non potendo ancora iniziare l'azione di terra, comunica che inizierà la sua offensiva aerea su Harar: "Ho ordinato che oggi 30 aerei da bombardamento distruggano Giggiga... dopo la distruzione di Giggiga distruggerò Harar" (Graziani a Badoglio e Musso-lini 2/3/36).

22-23-24 marzo. 56 apparecchi lanciano 240 quintali di esplosivo.

29 marzo. Bombardata Harar, già dichiarata città aperta, e i cui obiettivi di importanza militare sono insigni-ficanti. Sulla città verranno lanciati 120 quintali di esplosivo.Un inviato del Corriere della sera, Mario Massai, che è a bordo di uno degli aerei scrive: "Per quaranta minuti sono sbocciati sui bersagli, nella massa del colore ocra delle casette di Harar, mostruosi funghi grigio-scuri per le esplosioni delle bombe di grosso calibro e sono sprizzate le lingue di fuoco degli incendi. La popolazione, che fin dal primo avvistamento si era rovesciata in torrenti umani per le strette vie verso l'esterno della città, ha assistito certo terrorizzata all'impressionante attacco aereo".

Già il 3 marzo Graziani, nella Memoria segreta operativa per l'azione su Harar, tra le condizioni per la riusci-ta della azione, poneva il "libero uso di bombe e proiettili a liquidi speciali per infliggere al nemico le massime perdite e soprattutto per produrne il completo collasso morale".

9 aprile. Graziani telegrafa a Lessona (sottosegretario alle colonie) per informarlo del bombardamento a iprite del giorno precedente a Bullalèh, Sassabanèh, Dagahbùr, Daagamedò, Segàg, Bircùt.

Due giorni dopo Mussolini telegrafa a Graziani ordinandogli di non fare uso di gas, ma dopo pochi giorni revoca l'ordine.

15 aprile. Graziani dà inizio all'offensiva su Harar.

Dopo aver gasato e bombardato per un mese la difesa etiope, Graziani inizia l'attacco da terra.Il vescovo cattolico di Harar scrive ai suoi superiori in Francia: "Il bombardamento che gli italiani hanno fatto con-tro la città è un atto barbaro che merita la maledizione del Cielo".

La battaglia dell'Ogaden si concluderà con la conquista delle città precedentemente bombardate.

FRONTE NORD

26 aprile. Badoglio inizia la marcia verso Addis Abeba.

2 maggio. Hailè Selassiè lascia l'Etiopia per raggiungere l'Europa.

La notizia provocherà gravi disordini e saccheggi ad Addis Abeba. La maggior parte dei seimila stranieri si rifugia nelle legazioni. Fonti italiane parlano di 600 morti.Il cronista G.Steer sciverà: "Di quelli che ho visto morti o morenti, non ce n'è uno solo il cui sangue non ricada sulla testa di Mussolini".

Si sa, infatti, che l'occupazione di Addis Abeba poteva avvenire la notte del 2 maggio e che il rinvio di tre giorni è da ricollegarsi al desiderio di sfruttare la tragedia in funzione antietiopica, perché fornisce l'occasio-ne di presentare il popolo etiope semibarbaro e incapace di gestirsi da solo.

3 Maggio. Badoglio riceve un telegramma da Mussolini: "Occupata Addis Abeba V.E darà ordine perché: 1) siano fucilati sommariamente tutti coloro che in città o dintorni siano sorpresi con le armi alla mano, 2) siano fucilati sommariamen-te tutti i giovani etiopi, barbari, crudeli, pretenziosi, autori motali dei saccheggi, 3) siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi, incendi 4) siano sommariamente fucilati quanti, trascorse 24 ore, non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni."(tel n. 5007)

5 maggio. Badoglio entra in Addis Abeba.

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Steer scrive: "Gli italiani istituirono immediatamente la pena di morte per due reati: il primo riguardava la partecipazione al saccheggio, il secondo il possesso di armi... Ottantacinque etiopi, accusati di saccheggio, furono giudicati e condannati a morte da una corte sommaria. Ma le fucilazioni eseguite dai carabinieri sul posto furono molte di più, ed esse vennero fatte senza alcuna parvenza di processo. Se oggetti che essi ritenevano rubati venivano scoperti in un tucul, il proprietario era immediata-mente ucciso. Inquirenti francesi hanno calcolato che almeno 1.500 sono stati liquidati in questo modo".

FRONTE SUD

9 maggio. Graziani incontrerà Badoglio alla stazione di Dire Daua. Con la stretta di mano tra i due e l'incon-tro tra le armate italiane del nord quelle del sud, si conclude ufficialmente la guerra.

26 maggio. Badoglio lascia definitivamente l'Africa.

Graziani diventa vicerè, governatore generale e comandante superiore delle truppe.

E vediamo un paio di foto:

La testa mozza del degiac, patriota etiopico, Hailú Chebbedè

<<<< La testa appesa ...

http://www.criminidiguerra.it/html/repressioneimpero.htm 

La repressione in Africa Orientale Italiana (AOI) dopo la pro-clamazione dell'ImperoGiugno 1936. L'Etiopia resta per quasi due terzi da occupare soprattutto nell'ovest e nel sud dell'impero.

I focolai di guerriglia sono presenti nello Scioa e lungo la ferrovia Addis Abeba-Gibuti. Difficoltà anche a causa della stagione delle piogge che blocca i movimenti nelle strade e rende difficili i rifornimenti.

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Graziani è praticamente assediato ad Addis Abeba, mentre Badoglio è in Italia a riscuotere premi e onori.

In complesso il periodo da maggio a ottobre ha un carattere prevalentemente difensivo. Si intensifica la re-pressione del ribellismo.

Nei primi giorni di giugno Mussolini telegrafa a Graziani i seguenti ordini:

"Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi" (tel n. 6496)

"Per finirla con i ribelli...impieghi i gas" (tel.6595)

"Autorizzo ancora una volta V.E a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribel-li e le popolazioni complici. (tel n. 8103)

Poggiali, nel suo Diario AOI, scrive a proposito di Addis Abeba: "Intorno alla città vi sono bande armate e minac-ciose. Da una settimana si vive sotto l'incubo di un assalto in grande stile".

L'attacco viene sferrato il 28 luglio.

Nel timore che la popolazione insorga i carabinieri operano arresti di massa di etiopi adulti e Poggiali affer-ma: "Probabilmente la maggior parte è innocente persino di quanto accaduto. Trattamento superlativamente brutale da parte dei carabinieri, che distribuiscono scudisciate e colpi di calci di pistola".

A questo attacco partecipa il degiac Aberra Cassa secondogenito del ras Hailù che gode di grande prestigio sia perché di sangue imperiale, sia perché si è distinto come grande combattente nella battaglia del Tembien e nella difficile ritirata di Mau Ceu. Inoltre gode dell'appoggio della chiesa copta e in particolare del vescovo di Dessiè, l'abuna Petros.Coadiuvato dal fratello, dopo i primi rovesci, adotterà una politica temporeggiatrice che lo isolerà rendendo-lo preda di Graziani.

L'attacco ad Addis Abeba fallirà, l'abuna Petros portato in piazza verrà giudicato colpevole da un tribunale militare e giustiziato dai fucili di 8 carabinieri.Graziani informa Lessona, ministro delle colonie: "La fucilazione dell'abuna Petros ha terrorizzato capi e popolazio-ne... Continua l'opera di repressione degli armati dispersi nei boschi. Sono stati passati per le armi tutti i prigionieri. Sono state effettuate repressioni inesorabili su tutte le popolazioni colpevoli se non di connivenza di mancata reazione" (telegram-ma n.1667/8906).

Un altro problema per Graziani è l'occupazione dell'ovest ( in particolare i centri di Gore, Lechemiti, Gim-ma, Gambela) che Mussolini vuole al più presto sotto controllo per allontanare il pericolo di una eventuale pretesa del governo inglese su quei territori in quanto confinanti con il Sudan.

Il problema più urgente è Gore dove da maggio si è insediato un governo provvisorio e dove si sono rifu-giati gli uomini del passato regime, gran parte dei Giovani Etiopi, la metà dei cadetti di Olettae, i soldati del ras Immirù ( il miglior generale di Hailè Selassiè).In questo contesto avverrà il rogo di tre aerei italiani da bombardamento, che provocherà grande ondata di indignazione in Italia, ma nessuna rappresaglia perché il 4 luglio la Società delle nazioni revoca le sanzioni all'Italia e il problema dell'Ovest non ha più quella urgenza prima sottolineata.

Dal mese di ottobre Graziani riprende la conquista dell'Ovest, mentre il ras Immirù tenta di sfuggire all'ac-cerchiamento e nello stesso tempo incita le popolazioni contro gli italiani: "Gli italiani che contro il loro diritto hanno ucciso i nostri soldati col veleno e con le bombe, sono forse venuti ora per guardarvi col cuore commosso, per farvi vivere tranquilli? ... Se gli italiani avessero un cuore buono e sapessero governare, non avrebbero dovuto combattere per 25 anni a Tripoli ... Gli italiani ci vogliono togliere il paese che i nostri avi resero prospero..."(ACS Fondo Graziani).Il ras Immirù si arrenderà il 16 dicembre e verrà confinato in Italia sino al 1943.

Nello stesso periodo vengono uccisi i tre fratelli Cassa.

Il primogenito Uonduossen si arrese alle truppe del generale Pirzo Biroli e subito passato per le armi. Gli altri due si consegnarono spontaneamente al generale Tracchia contando sulla garanzia fatta dagli italiani di aver salva la vita; furono arrestati dai carabinieri, mentre bevevano il caffè nella tenda del generale Tracchia

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che così comunica la notizia a Graziani: "Alle 18,35 in Ficcè, sede della loro famiglia e noto covo di rivolta da cui par-tirono gli ordini per l'attacco alla capitale, Aberra e il fratello Asfauossen cadevano sotto il piombo giustiziatore."

L'unico capo etiope ancora in armi era ras Destà che, a fine novembre, dopo aver abbandonato Sidamo, si ritira al centro in una regione montuosa. Nel dicembre accetta di avviare trattative con gli italiani ma, la no-tizia della uccisione dei fratelli Cassa e la richiesta della sottomissione senza condizioni fatta dagli italiani, fanno fallire le trattative.Graziani ordina di bombardare la regione in cui il ras ha trovato rifugio. Si combatte per una settimana. Il ras, inseguito dall'aviazione e dagli autoblindo, viene nuovamente attaccato mentre sosta a Goggetti, ma rie-sce a scappare.

Secondo gli ordini di Mussolini, tutti i capi catturati verranno passati alle armi e lo stesso villaggio dato alle fiamme.

"È inteso che la popolazione maschile di Goggetti di età superiore ai 18 anni deve essere passata per le armi e il paese distrut-to" (tel 54000).

Il ras Destà verrà fatto prigioniero nel suo villaggio natale il 24 febbraio da uomini di un degiac collabora-zionista.

Consegnato agli italiani fu impiccato dagli uomini del capitano Tucci.

Sulla "Gazzetta del popolo" del 24 febbraio 1938 Guido Pallotta vice-segretario dei Guf, commentando la morte del genero dell'imperatore, scrive: "E nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo, la sfida più cocente alle truppe sanzioniste. Schiaffone magistrale che il capitano Tucci menò alla maniera squadrista sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina".

Ma dopo il fallito attentato a Graziani si scatena la reazione ancora più violenta degli italiani.17 febbraio 1937. Graziani invita nel suo palazzo di Adis Abeba la nobiltà etiope per festeggiare la nascita del principe di Napoli e per l'occasione decide di distribuire una elemosina ad invalidi del luogo (ciechi, storpi, zoppi ).

La testimonianza di un medico ungherese presente, sottolinea la dura rappresaglia seguita al fallito attentato. Anche le immagini del filmato Fascist legacy della BBC mostrano come nessun etiope uscì vivo dal cortile do-ve si teneva la cerimonia.Una nota dell'ambasciatore USA in Etiopia sottolinea che fatti del genere non si vedevano dal tempo del massacro degli armeni.

Graziani comunica immediatamente ai governatori delle altre regioni di agire con il massimo rigore.

Ad Addis Abeba è il federale Guido Cortese che scatena la rappresaglia.Testimonianza di Poggiali: "Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di maz-za, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocen-te".

Vengono incendiati tucul, chiese copte, terreni coltivati, quintali di orzo Anche la chiesa di San Giorgio vie-ne data alle fiamme "per ordine e alla presenza del federale Cortese".Ad Addis Abeba 700 indigeni vengono fucilati dopo essere usciti a gruppi dalla ambasciata britannica dove si erano rifugiati (fatto denunciato dal ministro inglese al Parlamento il 26/3/37).

Vengono inquinati i terreni con aggressivi chimici, abbattuto il bestiame.Molti uomini bruciati vivi, altri lapidati o squartati.

Mussolini con un fonogramma impone che ogni civile sospettato sia fucilato senza processo.

Il numero esatto delle vittime della repressione è di 30.000 per gli etiopi, tra i 1.400 e i 6.000 per inglesi, francesi e americani.

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Graziani il 22 febbraio scrive a Mussolini: "In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con l'ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul" (tel n. 9170).

26 febbraio. Graziani fa fucilare 45 "tra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti" (tel. N.9894 ).

Nei giorni successivi fa fucilare altri 26 esponenti della intellighenzia etiopica, elementi aperti alla cultura europea. Altri 400 notabili vengono trasferiti in Italia, mentre altri "elementi di scarsa importanza ma nocivi" con a seguito donne e bambini (tel. Graziani a Santini n.20650), vengono confinati a Danane dopo un viaggio durato più di 15 giorni che provocherà morti per stenti, vaiolo e dissenteria.

19 marzo. Graziani scrive a Lessona: "Convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti i cantastorie, gli indovini e stregoni della città e dintorni fossero passati per le armi. A tutt'oggi ne sono stati rastrellati e eliminati settanta."(tel. 14440).

21 marzo. Graziani scrive a Mussolini: "Dal 19 febbraio ad oggi sono state eseguite 324 esecuzioni sommarie... senza comprendere le repressioni dei giorni 19 e 20 febbraio"

30 aprile. Le esecuzioni sono passate a 710 (tel. n.22583), il 5 luglio a 1686 (tel n.33911), il 25 luglio a 1878 (tel. n. 36920) e il 3 agosto a 1918 (tel. n.37784).Dalla relazione del colonnello Hazon si evince che i soli carabinieri hanno passato per le armi 2.509 indige-ni.

Alcuni episodi raccontati dallo stesso Graziani testimoniano che le esecuzioni avvenivano spesso senza la minima prova.

14 marzo. Un nucleo di carabinieri, recatosi in una abitazione per arrestare un ricercato, arresta sia il pro-prietario che gli 11 indigeni che si trovavano sul posto per non aver favorito la cattura del ricercato.

Graziani scriverà a Lessona "Data la gravità del fatto li ho fatti passare per le armi" (tel. n.14150).

23 aprile. 32 capi amhara e 100 indigeni fucilati per condotta dubbia e Argio bruciata (tel. Graziani a Lesso-na n.23313)

25 aprile. 200 amhara arrestati, cacciati dentro una fossa e fucilati.

Poggiali scrive: "Nell'Uollamo un capitano italiano ha fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena. Il capo-famiglia denuncia la prepotenza e il capitano uccide tutta la famiglia compresi i bambini".

A maggio Graziani si vendica del clero copto accusato di connivenza con gli autori dell'attentato.Secondo la relazione del generale Maletti, che ha sostituito Tracchia nella repressione dello Scioa, in due set-timane le sue truppe incendiano 115.422 tucul, tre chiese, un convento, e uccidono 2.523 ribelli, servendosi del battaglione musulmano al posto di quello eritreo composto in gran parte da copti.

Maletti il 18 maggio accerchia il villaggio conventuale di Debra Libanòs, il più celebre di Etiopia."Questo av-vocato militare mi comunica che ha raggiunto le prove della correità dei monaci del convento ... Passi pertanto per le armi tutti i monaci compreso il vicepriore" (tel. di Graziani a Maletti n. 25876)-

Dopo aver ricevuto da Graziani la conferma della responsabilità del convento nell'attentato, il 20 maggio, trasferisce in un vallone a Ficcè 297 monaci e 23 laici e li passa per le armi".

Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d'ordine... Il convento chiuso definitamente." (tel. Di Gra-ziani Lessona n.23260).

Tre giorni dopo invia un nuovo telegramma a Maletti: "Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debra Libanòs. Ordino pertanto di passare per le armi tutti i diaconi" (tel. 26609).

In realtà recenti studi hanno fatto salire a 1600 il numero delle vittime del massacro di Debra Libanos.

Intanto continua l'azione antiguerriglia delle truppe italiane nelle regioni dell'impero come si deduce dai bol-lettini inviati al ministero dell'Africa italiana.I fatti si riferiscono a esecuzioni, rastrellamenti di armi, distruzioni di paesi ostili.

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4 aprile. Bruciato il paese di Atzei e il bestiame sequestrato dopo aver accertata la ostilità degli abitanti con-tro gli italiani.

12 aprile. Nella regione dei Galla-Sidamo erano stati sequestrati 2.000 fucili, 14 mitragliatrici, 50 pistole; nel territorio di Ambo 6.823 fucili, 16 mitragliatrici, 19 pistole.

18 aprile. Occupato e incendiato il villaggio di Eso dopo che erano stati catturati e eliminati 21 ribelli.

1 maggio. Graziani comunica a Roma che i bombardamenti nel governatorato dell'Harrar proseguivano.

In agosto scoppia simultaneamente una rivolta in varie parti dell'impero. Per Graziani il principale capo è Hailù Chebbedè.

Nel settembre del 1937 viene catturato e fucilato; la sua testa infilzata su un palo è esposta nella piazza del mercato di Socotà e Quoram.

Graziani, alla fine dell'anno, verrà sostituito con il Duca d'Aosta che attuerà una politica meno repressiva .

http://www.criminidiguerra.it/html/campiafrica.htm 

I campi concentramento per i civili nell'Africa italianaCampi di concentramento (16 in Libia 1 in Eritrea 1 in Somalia)

Campi di rieducazione (4)

Campi di punizione (3)

Nei campi vennero inviati sia le tribù allontanate dal Gebel el- Achdar sia gli indigeni appartenenti a tribù seminomadi vaganti attorno alle oasi o all'interno.

I principali campi di concentramento furono Soluch (a sud di Bengasi); Sidi el Magrum (a ovest di Bengasi) ;Agedabia (a 200 km a ovest di Bengasi) nelle vicinanze della primitiva sede della Senussia per dare un segna-le alla resistenza senussita della forza dei coloniali italiani;.Marsa el Brega; el Abiar; el Agheila.

Nei campi di rieducazione inviati giovani appartenenti a tribù più evolute per trasformarli in impiegati utili all'amministrazione coloniale.

Nei campi di punizione tutti coloro che avevano commesso reati o ostacolato l'occupazione italiana.

Testimonianza di un sopravvissuto Reth Belgassen recluso ad Agheila (cfr Ottolenghi op. cit.): "Dovevamo sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare... ricordo la miseria e le botte... Le no-stre donne tenevano un recipiente nella tenda per fare i bisogni... avevano paura di uscire rischiavano di essere prese dgli etiopi o dagli italiani…le esecuzioni avvenivano... al centro del campo egli italiani portavano tutta la gente a guardare. ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri fratelli. Ogni giorno uscivano 50 cadaveri."

Testimonianza della propaganda fascista "L'Oltremare": "... Nel campo di Soluch c'è ordine e una disciplina perfetta e regna ordine e pulizia".

Dopo il crollo della dittatura Canevari, che era stato comandante in Cirenaica, scrive: "Noi non abbiamo mai creato campi di concentramento in Cirenaica ma solo delle riserve in campi splendidamente sistemati e forniti di tutto il necessa-rio dalle tende ai servizi idrici ... In tal modo il governo italiano li sottraeva dal dilemma o rifornire i ribelli o cadere sotto le loro vendette. Dopo la permanenza nei campi, le popolazioni della Cirenaica tornarono alle loro terre rinnovate dalla scienza e dalla scuola"

La mancanza di volontà nell'ammettere l'esistenza di campi di concentramento in Libia, fa scrivere nel 1965, nel resoconto di G. Bucco e A. Natoli sulla "Organizzazione sanitaria in Africa" dal Ministero degli Affari Esteri, che "La maggior parte degli Auaghir viveva, prima di raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone... del Gebel", quando invece queste tribù vi erano state deportate.

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Motivi di chiusura dei campi

1) riduzione delle rivolte specialmente dopo l'esecuzione di Omar.el-Muktar.

2) coloni italiani già insediati nelle zone assegnate loro del Gebel cirenaico.

3) le popolazioni nomadi e seminomadi non avevano assimilato il tipo di vita sedentario imposto nei campi.

4) pericolo di epidemie per l'alto numero di individui inviati nei campi.

5) costi eccessivi sia dal punto di vista economico che militare.

 

CAMPI DI CONCENTRA-MENTO LIBIA 1930/1933

PROVENIENZA E/OCARAT-TERISTICHE DEI RECLUSI

LAVORI DEI RECLU-SI

NUMERO RECLUSI ALL'APERTURA

NUMERO RE-CLUSI ALLA CHIUSURA

SOLUCHGEBEL EL-ACHDAR E ZONA ATTORNO BENGASI (TRIBÙ SEMINOMADI)

LAVORI STRADALI E EDILIZIA COLTIVA-ZIONE TERRA AL-LEVAMENTO

20000 14500

EL-MAGRUM GEBEL EL-ACHDAR

LAVORI STRADALI E EDILIZIA COLTIVA-ZIONE TERRA AL-LEVAMENTO

13000 8500

AGEDABIA NOMADI MOGARBA

LAVORI EDILIZI FERROVIARI COLTI-VAZIONE ALLEVA-MENTO

9000 75OO

MARSA EL BREGA

MARABTIN PROVENIENTI DA OLTRE 500 KM MARCIA DI 2 MESI ALTRI VIA MARE NE PARTIRONO13200 NE ARRI-VARONO10000

LAVORI STRADALI ALLEVAMENTO 20072

EL-ABIAR TRIBÙ NOMADI ENTROTER-RA DI BENGASI

COSTRUZIONE DI STRADE PASTORIZIA8000

APOLLONIA 628

BARCE 438

AIN GAZALA 426

DRIANA 275

EL NUFILIA 225

DERNA 145

COEFIA-GUARSCIA 145

SIDI CHALIFA 130

SUANI EL TERRIA 100

CAMPI DI PUNI-ZIONE

DETENUTI COM-PLESSIVI TIPOLOGIA DETENUTI

NOCRA 1895 1930 ERITREA 3000 UOMINI SINO AL1910 DELINQUENTI CO-

MUNI POI DETENUTI POLITICI

EL AGHEILA 1930 LIBIA

30000 UOMINI 4500 DONNE

TRIBÙ RIBELLI, NOTABILI SE-NUSSITI, DEPORTATI

FUGGIASCHI DAI CC

DANANE 1935 SOMALIA

6500UOMINI 500 DONNE

VOLUTO DA GRAZIANI PER AC-COGLIERE I COMBATTENTI DEL-LE ARMATE DI RAS DESTA' (FRONTE SUD) MA POPOLATO DAL 1936 DI NOTABILI DI MEDIO E BASSO RANGO, DI EX UFFICIA-LI, DI MONACI COPTI, DI PARTI-GIANI ETC.

3175 MUOIONO PER SCARSA ALIMENTA-ZIONE, MALARIA ENTEROCOLITE,MAN-CANZA DI IGIENE

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CAMPI DI RIEDUCAZIONE ANNESSI AI CC

NUMERO DI INTERNA-TI SCOPO DEL CAMPO

SOLUCH 500 MASCHI 60 FEM-MINE

INSEGNAMENTO PROFESSIONALE /ECONOMIA DO-MESTICA

SIDI EL MAGRUM 200 MASCHI 30 FEM-MINE ARTIGIANATO/ECONOMIA DOMESTICA

AGEDABIA 120 MASCHI 10 FEM-MINE SCUOLA DI AGRICOLTURA E ORTICULTURA

MARSA EL BREGA 600 RAGAZZI SCUOLA MILITARE COMANDO TRUPPE INDIGENE

http://www.criminidiguerra.it/html/bombardagas.htm

I bombardamenti con i gas nell'Africa Orientale Italiana

DATA LUOGO FONTI CARATTERISTICHE

22/12/1935Dembenguinà (fronte nord)

Tacazzè

Diario storico del comando aereonautica.8°, 9° stormo.

George Steer inviato Times in Etiopia testimonianza di ras Immirù Hailè Sellasse.Relazione Dott. Schuppler, capo ambulanza. Al ministro degli esteri etiopico.

Dott.Melly capo ambulanza inglese.(1)

6 bombe C 500.T a iprite (prima azione di sbarramento C)

Dal 23 al 27 dicembre Telegramma di Hailè Selassiè alla So-

cietà delle nazioni (2) 60 bombe a iprite

28/12/35 Autorizzazione di Mussolini a Bado-glio sull'uso dei gas telegramma 15081

29/12/35 Risposta di Badoglio "già adoperato iprite"

Dal 2 al 4 gen-naio Sokotà; Lago Ascianghi Diario aereonautico 8° 9° stormo 58 bombe a iprite

5 gennaio 1936 Richiesta di Mussolini a Badogliodi arrestare i bombardamenti (sino alle riunioni ginevrine) telegramma 180

Dal 6 al 7 gen-naio

Abbi Addi e guadi tor-rente Segalò

Diario storico del comando areonauti-co 45 bombe C 500.T

Dal 12 al 19 gennaio Diario storico del comando areonauti-

co 76 bombe " "

19 gennaio Nuova autorizzazione di Mussolini telegramma 790

Dal 23 /12 al 23/3

Guadi del Ghevà, Guadi del Tacazzè zone di Quoram, varie carova-niere.

Diario storico comando areonautico 991 bombeC.500.T

11/2/36 Amba Aradan Diario storico comando artiglieria Uso di proietti ad arsine1367(3)

aprile Lago Ascianghi Testimonianza Hailè Selassiè ( 4)

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1) Steer "Per la prima volta un popolo che si ritiene civilizzato usa i gas tossici contro un popolo che si ritiene barbaro. A Badoglio... la gloria di questa ardua vittoria".

Immirù Hailè Sellasse (generale di Hailè Selassiè): "Fu uno spettacolo terrificante... Era la mattina del 23 dicem-bre avevo da poco attraversato il Tacazzè quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani... quel mattino non lanciarono bombe ma strani fusti che si rompevano non appena toccavano il suolo o l'acqua del fiume e proiettavano intorno un liqui-do incolore... alcune centinaia dei miei uomini erano rimasti colpiti... e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche."

Dott. Schuppler: "Ho l'onore di portare a vostra conoscenza che il 14 gennaio 1936 delle bombe a gas sono state usate dagli aviatori italiani. Ho curato 15 casi di persone... tra cui 2 bambini".

Dott Melly: "Tra il 7 e il 22 marzo ….nella regoine di Ascianghi curammo dai due ai trecento casi di ustione da ipri-te..." in (Del Boca I gas di Mussolini, Editori riuniti, pag. 118 e seg.)

2) "Il 23 dicembre, gli italiani hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione del Tacazzè, di gas asfissianti e tossi-ci, ciò costituisce una nuova aggiunta alla lista già lunga delle violenze fatte dall'Italia ai suoi impegni internazionali."

3) L'arsina agiva sulle mucose e sull'apparato respiratorio con effetti che,a seconda della concentrazione, potevano essere irritanti o mortali.

4) Molti moriranno per aver bevuto l'acqua contaminata. Il negus davanti l'atroce visione dei cadaveri dirà: "Sarebbe stato necessario fissare questa immagine per poterla presentare al mondo..."

DATA LUOGO FONTI CARATTERISTICHE

15/12/35 Somalia (fronte sud)Autorizzazione di Mussolini a Graziani sull'uso dei gas tele-gramma 14551

24/12/35 Areri Diario storico del comando del-l'aviazione in Somalia

17 bombe a iprite da 21kg 1 a gas fosgene da 41kg

30 /31/35 Dagahbur Sassabanech Bul-laleh

Diario storico AO

Relazione Graziani all egato 29571 bombe come rappresaglia per la uccisione di due aviatori italiani

Tra il 15 e il 30 dicembre 35

Malca Dida (Croce rossa svedese) Bullaleh (croce rossa egiziana) Neghelli (croce rossa etiopica)*

Relazione Graziani Grande sde-gno in Europa.

Telegramma Mussolini a Grazia-ni n 029: "Approvo ma ... evitare le istituzioni internazionali della Croce Rossa."

6 Gennaio 36 Nuova autorizzazione di Musso-lini a Graziani tel.334

12 /1/36 Offensiva del Ganale Doria

Relazione Graziani

Diario storico del comando bri-gata aerea

Diario srorico 31° gruppo AO

6 bombeC.500.T a iprite 18 da 41 kg a fosgene

25/1/36 10 bombe a iprite da 21 kg

16-25/2/36 Uebi Gestro Bale Diario storico del comando bri-gata aerea

10 bombe C500.T a iprite e 92 da 41 kg a fosgene

marzo Sulle difese abissinie nella zona di Harar

Diario storico del comando bri-gata aerea Relazione Graziani

49 bombeC500.T34 da 21 kg a ipri-te 88 da 41 kg a fosgene

8 aprile Sassabanech Dagahbur 13 bombe C500.T

10 aprile Telegramma di Mussolini 4081con l'ordine di non fare uso di mezzi chimici a Graziani

20 aprile Hamanlei, Bircut, Gunu, Bullaleh Relazione Graziani 12 bombe C500,T

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27/4 Nuova autorizzazione Mussolini tel.n7440

27/4 Sassabaneh Diario storico del comando bri-gata aerea Relazione Graziani 36 bombe a fosgene

Bullaleh Diario storico del comando bri-gata aerea Relazione Graziani 54 bombe a fosgene

Dal 24dic al 27 aprile 30500kg bombe iprite 13300 kg

bombe a fosgene

Nell'attacco a Malca Dida restò ucciso il medico svedese Lundstrom, 42 ricoverati, alcuni dei quali colpi-ti da iprite, e altri 50 restarono feriti .Gli attacchi si intensificarono nei mesi successivi e distrussero am-bulanze etiopiche a Dagabhur, Ualdià, Macallè, ospedaletti egiziani, inglesi, svedesi e finlandesi e gli uni-ci due apparecchi della croce rossa etiopica a Dessì e Quoram.

Gli attacchi aerei non finirono con la proclamazione dell'impero, ma si intensificarono in molte zone.

PERIODO LUOGO FONTI CARATTERISTICHE

Dal Maggio a Agosto1936

Sud/ovest Sidamo

Zona TacazzèDiario storico AOI Bombe C500T

Tra il 7 e il 12 settembre

Lasta (roccaforte dei fratelli Cassa) zona Tacazzè.Villaggi tra Lali-belà e Bilbolà.

Telegramma Lessona a Graziani n°10724"Autorizzo a impiegare i gas se li ritenga utile"

Telegrammi Graziani a Pirzo Biroli e al comandante dell'aviazione Pinna n°15633 e 15756(1)

Bombe C500T

21/22 OttobreZone del Monte Zuqualà e Debocogio villaggi rasi al suolo

Diario storico AOI

Relazione Gariboldi a Gallina tel n° 077701 24 ottobre "Zona del monte Debogogio è stata ipritata.Prudente informare le truppe operanti.."

Bombe C500T

Fine 1936/1937Ovest, Uollega, soprattutto vengono ipritati guadi, tor-renti carovaniere.

Diario storico AOI Bombe C500T

Graziani "La rappresaglia deve essere effettuata senza misericordia su tutti i paesi del Lasta... Bisogna distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile necessità di abbandonare questi capi... lo scopo si può raggiungere con l'im-piego di tutti i mezzi di distruzione dell'aviazione per giornate e giornate di seguito essenzialmente adoperando gas asfissianti." in Del Boca op cit pag. 60.

http://www.criminidiguerra.it/html/EstradizBBC.htm

La mancata estradizione e l'impunità dei presunti criminali di guerra italiani accusati per stragi in Africa e in Europa 

Da documenti ritrovati al Ministero del Foreign Office si evince che i governi inglese e americano adottaro-no una politica di copertura nei confronti dei criminali di guerra italiani, per motivi di opportunità politica.

Nella Dichiarazione di Mosca del 1943, gli alleati si impegnavano a perseguire i criminali di guerra nel paese dove i crimini erano stati commessi. Le Nazioni Unite istituirono una Commissione di inchiesta con il com-pito di creare una lista dei criminali di guerra per facilitare l'azione dei governi in tutto il mondo. In questa lista erano presenti tra altri Badoglio, Graziani, Roatta, Ambrosi.

Come sottolinea lo storico Michael Palumbo, sulla base di documenti trovati negli archivi di Washington, Londra e Roma, gli anglo-americani erano a conoscenza della efferatezza dei crimini italiani e, negli anni che seguirono l'armistizio, coprirono Badoglio e il suo gruppo perché li ritenevano affidabili per il loro antico-munismo.

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Nel settembre del 45, infatti, il tribunale speciale prese in esame il "caso Badoglio" e il Foreign Office, in un telegramma cifrato spedito all'ambasciatore inglese a Roma, fece pressioni perchè si intervenisse con Parri, allora Presidente del Consiglio dei ministri, per evitare o rimandare il processo: "Dovrebbe cercare di portare all'attenzione dell'onorevole Parri in maniera confidenziale e ufficiosa, il prezioso contributo che Badoglio ha fornito alla causa alleata, esprimere la speranza che questo contributo venga sottoposto alla attenzione della corte prima dell'udienza".

Parri rinuncia e il "caso Badoglio" fu abbandonato.

Nel 1946 la Jugoslavia e l'Etiopia protestarono per la mancata estradizione dei criminali di guerra italiani.

Dall'ambasciata della repubblica popolare federale di Jugoslavia al governo militare alleato: "Per facilitare il compito delle autorità militari a una lista contenente dati relativi a 40 criminali di guerra italiani è allegata la richiesta da trasmettere alle autorità competenti ad autorizzare l'arresto e la consegna al governo jugoslavo dei criminali in questione. Non un solo criminale di guerra italiano è stato consegnato alle autorità giudiziarie jugoslave e questo nonostante ripetute assicura-zioni dateci dal governo di sua Maestà".

Il Ministero degli Esteri britannico sottolinea le sue preoccupazioni: "L'arresto di alcuni elementi che hanno occu-pato alte cariche nel ministero della guerra italiano, provocherebbe un imbarazzo politico. Queste persone hanno aiutato in maniera esemplare gli alleati. Arrestarli creerebbe uno shock tale nel governo italiano e nell'opinione pubblica, che ci procure-rebbe molti problemi e causerebbe un grande scontento."

DaL Rapporto del funzionario del Foreign Office competente per i crimini di guerra:"La giustizia richiede di consegnare questi individui; motivi di convenienza spingono nella direzione opposta o almeno a non consegnare quelli che occupano posizioni più importanti".

Il 26 Aprile 1946 Lord Halifacs da Washington esprime il parere americano: "Il Dipartimento di Stato considera che la migliore tattica per entambi i governi sia tentare di guadagnare tempo".

J. Calvin del Foreign Office si disse d'accordo: "Questo mi sembrerebbe un caso in cui l'interesse di tutti sia di tempo-reggiare più a lungo possibile".

Viene comunicato alla Jugoslavia di aver bisogno di più tempo.

Anche la diplomazia italiana concorda con questa linea, attuando resistenza passiva alle richiesta dei paesi esteri.

Il Presidente del Consiglio italiano De Gasperi informa l'ammiraglio E.W. Stone (capo della Commssione Alleata in Italia), che il Ministero della Guerra "sta provvedendo ad una severa inchiesta, il cui esito sarà appena possi-bile portato a conoscenza..." della stessa; nella risposta l'ammiraglio mostra interesse perchè questo gli consente di prendere tempo con il governo jugoslavo, che richiedeva insistentemente la consegna dei criminali di guerra italiani.

Il 6 maggio 1946 il I governo De Gasperi istituisce una commissione d'inchiesta per i presunti criminali di guerra italiani, con l'obiettivo "di poter giudicare, con i propri normali organi giudiziari e secondo le proprie leggi, quelli che risultassero fondatamente accusati da altri stati."

L'11 settembre 1946 De Gasperi comunica a Stone che la Commissione sta per deferire ala giustizia penale militare quaranta inquisiti con l'accusa "di essere venuti meno, con gli ordini o nella esecuzione degli ordini stessi, ai prin-cipi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell'umanità, ed in modo particolare ai principi della inviolabilità degli ostaggi e alla limitazione del diritto di rappresaglia".

Il 21 ottobre 1946 Stone comunica alla Delegazione Jugoslava "di non aver competenza a richiedere al Governo Italiano la consegna dei criminali di guerra in quanto tale competenza spetta al paese interessato".

1947 Nuova richiesta della Jugoslavia che si appella nuovamente agli inglesi: "Nonostante i chiari obblighi inter-nazionali il governo britannico e quello americano hanno dilazionato facendo uso di vari pretesti e ritardato la consegna dei criminali di guerra italiani; come risultato di questo atteggiamento non uno solo dei 700 criminali della lista delle Nazioni Unite sui crimini di guerra è stato consegnato alle autorità jugoslave. Permettere questo stato di cose sta preparando una situa-zione tale da minacciare lo sviluppo delle relazioni pacifiche in questa parte d'Europa".

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Una settimana dopo l'ammiraglio Stone della Commissione di controllo del Foreign Office dichiara: "Dal momento che il governo militare alleato è stato smantellato, le richieste per la consegna degli italiani inseriti nella lista della commissione dei crimini di guerra, devono essere inoltrate direttamente al governo italiano".

Una scappatoia fu trovata dagli inglesi relativamente al fatto che gli alleati dovevano prendere in considera-zione solo richieste provenienti da canali diplomatici. La Jugoslavia non aveva l'ambasciata in Italia e non poteva inoltrare richieste.

Il principale interesse inglese era quello di processare italiani responsabili di crimini commessi contro soldati dell'esercito britannico.

Un caso di questo genere è quello relativo al Generale Bellomo accusato di essere il responsabile della morte di un prigioniero di guerra britannico ucciso dalle guardie durante un tentativo di fuga. Bellomo fu l'unico italiano giustiziato dagli alleati, nonostante gravi irregolarità processuali sottolineate da S. Ray, un corrispon-dente di guerra inglese, che seguiva il processo per un giornale nazionale. Ray scriverà al deputato laburista Igor Thomas: "Sono estremamente turbato; respinto appello del Generale Bellomo contro sentenza di mor-te. Ero presente a tutto il processo; non sono l'unico corrispondente britannico a pensare che il verdetto è contro il peso delle prove, che le capacità di accusa e difesa non erano eque, che un insufficiente peso è stato dato a chiare circostanze attenuanti e al buon carattere del Generale. Se colpevole, Bellomo è personaggio minore confronto a ex fascisti con i quali stiamo trattando. L'importante non è nostro prestigio ma diritto Bellomo di beneficiare di considerevoli dubbi che io credo esistano. Sarei grato se tu potessi fare qualcosa".

L'8 settembre 1945 arriva la risposta del Foreign Office alla richiesta di clemenza del parlamentare laburista I. Thomas.

"I verbali del processo sono stati attentamente studiati dal Foreign Office e mostrano come il procedimento sia stato effettuato in maniera normale e completamente giusta. Il generale Bellomo è stato condannato per aver commesso un omicidio particolarmente vigliacco per il quale non possiamo trovare circostanze attenuanti. Siamo sicuri che lei potrà condividere il fatto che l'effetto, sull'opinione pubblica del paese, di un perdono ingiustificato di un criminale di guerra, sarebbe altamente indesiderato.

Come sottolinea lo storico M. Palumbo: "La più grande ironia fu quella che gli inglesi giustiziarono l'unico generale antifascista nello stesso momento in cui stavano coprendo noti criminali di guerra italiani. Bellomo aveva infatti combattuto i tedeschi a Bari e per questo aveva ricevuto una medaglia d'argento al valor militare. Non piaceva a Badoglio perchè dimostrò a quegli italiani che erano scappati, come bisognava combattere i tedeschi".Bellomo aveva anche salvato la vita a un prigioniero inglese condannato a morte da alcuni gerarchi locali per aver ucciso due civili. In quella occasione sostenne che il prigioniero aveva agito per legittima difesa e quindi non si poteva parlare di crimine di guerra. Al generale Bellomo fu data l'opportunità di scappare ma rifiutò perchè sarebbe stato contrario al suo onore di militare .

Nel 1947 continuano le pressioni iugoslave per la consegna dei criminali di guerra.Il ministro italiano per gli affari esteri chiede a inglesi e americani tramite l'ambasciatore britannico a Roma che: "Al fine di diminuire le pressioni della Jugoslavia sull'Italia, in rispetto dell'articolo 45 del trattato di pace, il governo di Sua Maestà e quello degli Stati Uniti scoraggino ulteriori richieste per la consegna di criminali di guerra italiani, dichiarando di ritenersi soddisfatti di lasciare il processo e l'eventuale condanna di coloro che non sono ancora stati arrestati al sistema giu-diziario italiano".

L'accordo venne raggiunto 6 settimane dopo e il governo americano accettò di lasciare il processo di colpe-voli di crimini contro militari alleati nelle mani dei giudici italiani. Il governo inglese seguì l'esempio.

Gli alleati creavano così un precedente che rendeva impossibili ulteriori richieste iugoslave per oltre 800 criminali inclusi nelle liste delle Nazioni Unite.

Come sottolinea Marian Mushkat, delegato polacco alla commissione Onu per i crimini di guerra (1946/48): "Gli alleati occidentali sfruttarono la loro posizione preminente in seno alla commissione per i crimini di guerra e respinsero la maggior parte delle richieste degli iugoslavi ignorando molti documenti preparati dagli iugoslavi principalmente perchè il governo di Belgrado era considerato alleato dell'Unione Sovietica. Un altro pretesto per respingere i dossier preparati dagli iugoslavi fu quello relativo alla loro mancata compilazione. Questo argomento si rivelò fittizio perchè i componenti iugoslavi della commis-sione per i crimini di guerra erano avvocati brillanti e esperti in diritto internazionale e i fascicoli da loro sottoposti erano ben

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preparati e documentati.".

Nella primavera 1948 si tenne ultima seduta della commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra.

La Commissione decise di esaminare solo 10 casi tra le centinaia preparati dagli etiopi rappresentati da uno svedese.

Il primo caso da esaminare fu quello di Badoglio accusato di aver usato gas tossici e di aver bombardato ospedali della Croce Rossa durante la campagna di Etiopia.

Gli inglesi prendono le difese degli italiani.

ROBERT CRAIGE: "Quasi tutta la campagna di Etiopia è stata elaborata da Mussolini e Graziani. Ho seri dubbi sulle accuse rivolte a Badoglio anche per quanto riguarda l'uso di gas tossici. Nulla prova il coinvolgimento di Badoglio nella decisio-ne di farne uso".

RISPOSTA ETIOPE: "A prescindere dal fatto che i superiori abbiano o meno ordinato di commettere crimini era loro responsabilità sorvegliare i propri sottoposti e prevenire che i crimini venissero commessi. Il generale giapponese Yamascito venne condannato in base a questo principio".

NORWAY RYNNING: "Sono quasi certo che Badoglio, come comandante in capo e responsabile della realizzazione della campagna, debba in qualche modo essere stato coinvolto nella decisione di usare gas tossici visto che si tratta di una decisione che deve essere stata presa ad alto livello".

CRAIGE: "Si ma riguardo al bombardamento degli ospedali e delle ambulanze della Croce Rossa risulta chiaro dal carteggio che vi sono alcuni dubbi sulla volontarietà dei bombardamenti".

NORWAY: "Questa non era la posizione del governo britannico nel 35-36 quando respinse qualsiasi argomento avanzato dal ministro degli esteri italiano per discolparsi del bombardamento di unità mediche inglesi in Etiopia".

IL GOVERNATORE IMPERIALE ETIOPE: "Si è trattato della prima volta nella storia in cui la Croce Rossa è stata ripetutamente attaccata e questo avvenne quando Badoglio era il comandante in capo".

Con gli etiopi spalleggiati da Norvegia e Cecoslovacchia il comitato decise di inserire Badoglio nella lista come criminale di guerra di grado A per l'uso di gas tossici e per gli attacchi agli ospedali della Croce Rossa.

Il caso Graziani fu meno controverso e fu inserito con il grado A con 9 capi di imputazione.Anche gli altri 7 capi fascisti furono inseriti nella lista (De Bono, Lessona, Pirzo Biroli, Geloso, Gallina, Tracchia, Cortesi).

Gli etiopi organizzarono una loro commissione nazionale sui crimini di guerra.Nel 1949 l'Italia respinse la richiesta etiope per l'estradizione di Graziani e Badoglio.

Il 17 settembre l'ambasciatore etiope a Londra sottopose la questione al Foreign Office che considerò la richiesta inopportuna e consigliò di desistere.

Così nessun criminale fu mai estradato.

P. Badoglio morì nel suo letto con un funerale di stato.

R. Graziani fu processato da un tribunale militare e condannato il 2 Maggio 1950 a 19 anni di carcere, di cui 13 condonati, per la sua attività legata alla RSI. La pena da scontare di un anno e otto mesi fu ulterior-mente ridotta a quattro mesi per la richiesta della difesa, subito accolta, di far iniziare la decorrenza della carcerazione preventiva al 1945. Pertanto, quattro mesi dopo la sentenza, il 29 agosto Graziani tornò in li-bertà lasciando l'ospedale militare dove aveva trascorso gran parte della durata del processo. Nel marzo 1953 divenne presidente onorario del MSI. Morì nel 1955 per collasso cardiaco.

M. Roatta, responsabile di crimini in Jugoslavia, processato dall'Alta Corte di giustizia, la notte del 4 marzo 1945, nell'imminenza della sentenza, evase con l'aiuto dei servizi segreti e si recò in Spagna. Rimpatriò nel 1966. (cfr. Franzinelli, in Millenovecento, Gennaio 2003, pag. 102 e seg.).

C. Geloso e A. Pirzo-Biroli riconosciuti criminali di guerra per la politica repressiva attuata nelle regioni di cui erano governatori.

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S. Gallina, generale, riconosciuto criminale per le violenze, i rastrellamenti, le uccisioni fatte dalle sue trup-pe.

G. Cortese, federale, considerato criminale per l'ondata di terrore scatenata ad Addis Abeba dopo l'attenta-to Graziani.

R. Tracchia considerato criminale per aver fatto fucilare i fratelli Cassa, dopo aver loro promesso salva la vita.

Fonte: Fascist Legacy, video-documentario prodotto da BBC, Londra 1990, con la regia di Ken Kirby e la consulenza storica di Michael Palumbo.

http://www.criminidiguerra.it/html/lacommissione.html

La commissione d'inchiesta per i presunti criminali di guerra italianiFu costituita con Decreto il 6 maggio 1946 presso il Ministero della Guerra (poi della Difesa).

Con questo atto il Governo italiano, come documentato da F.Focardi e L. Klinkhammer, cercava di evitare che i presunti criminali di guerra italiani venissero consegnati ai governi esteri, da cui venivano richiesti per essere processati.

Infatti la dichiarazione finale della Conferenza di Mosca del 30 ottobre 1943 prevedeva che gli italiani che si erano resi colpevoli di crimini nei paesi occupati dovevano essere "consegnati alla giustizia"; questo fatto era assodato anche per gli stessi diplomatici italiani che seguivano la questione.

Ma la scelta politica di non consegnare i presunti criminali venne motivata attraverso un'interpretazione strumentale della dichiarazione di Mosca da parte del Governo De Gasperi, sostenendo tra l'altro la necessi-tà di svolgere gli eventuali processi in Italia.

Ma il Trattato di pace (nell'art.38 della bozza presentata il 18.7.1946 e nell'art. 45 della versione definitiva firmata il 10.2.1947) prevedeva che l'Italia arrestasse e consegnasse ai paesi richiedenti le persone accusate di aver ordinato, commesso o essere stati complici di crimini di guerra, di crimini contro la pace e di crimini contro l'umanità.

Quindi la ventilata possibilità di sottoporre alla Magistratura italiana militari e civili italiani accusati di crimini di guerra, non poteva schiacciare il diritto delle nazioni colpite da azioni crimini attuate dall'esercito italiano.

In più venivano riconosciute responsabilità dei militari italiani anche per quei crimini contro l'umanità e contro la pace ritenuti addebitabili - secondo l'interpretazione ufficiale italiana - solo ai nazisti.

Allo scopo di rendere meno attaccabile il rifiuto di consegnare i presunti criminali richiesti, il Ministro della Guerra Brosio propose di istituire una commissione di inchiesta strettamente tecnica, per vagliare le accuse ed eventualmente deferire all'autorità giudiziaria gli inquisiti.

Quindi questa avrebbe dovuto essere composta da alti generali ed ex-ministri della guerra dei governi succedutisi dopo l'8 settembre 1943.

Il decreto ministeriale istituì quindi una commissione composta da sei avvocati (di cui tre erano deputati) e tre generali (in rappresentanza delle tre armi: esercito, marina e aviazione).

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I tempi di lavoro della commissione

La commissione operò per i primi mesi sotto la presidenza dell'ex-ministro della Guerra il senatore liberale Alessandro Casati. Nell'autunno del 1946 ne divenne presidente l'ex-ministro dell'Aeronautica il parlamenta-re Luigi Gasparotto, che poco dopo la lasciò essendo diventato Ministro della Difesa (da cui dipendeva la Commissione stessa), ma per diventarne nuovamente presidente a partire dal dicembre del 1947.Dalla documentazione visionata si è potuto accertare che la commissione proseguiva i lavori ancora nel lu-glio 1948.Nell'agosto dell'anno seguente, mutate le condizioni di politica internazionale, la Commissione aveva cessato il proprio lavoro.

La Memoria della commissione.

Nell'archivio dello stesso Gasparotto è depositata la premessa e la prima parte della Memoria redatta dalla Commissione stessa, che illustra l'impostazione sulla cui base venne svolto il lavoro di analisi delle accuse e della documentazione inviata dal Governo jugoslavo.

Nella Memoria compaiono ampie giustificazioni per le azioni criminose dei generali italiani; confrontandole con gli atti di difesa redatti dagli inquisiti (reperiti nello stesso archivio) si può constatare un'assoluta ugua-glianza di motivazioni.

Infatti il documento precisa che la commissione "tenuto nel debito conto il particolare ambiente in cui le persone indi-ziate come colpevoli di crimini di guerra ebbero a svolgere la loro attività".

Singolare è anche la coincidenza dell'analisi della situazione politica e militare fatta della Commissione con quella che emerge nei documenti redatti dai generali inquisiti, in particolare nel testo di Orlando e Robotti del novembre 1941 inviato al comandante della II Armata.

Nella Memoria inoltre viene presentata una ricostruzione storica dell'occupazione italiana dei territori jugo-slavi tra l'aprile 1941 ed il settembre 1943 (ovvero parte della Slovenia, della Croazia, compresa la Dalmazia, e della Bosnia ed il Montenegro).Viene tratteggiata un'immagine positiva del ruolo dell'esercito italiano: questo sarebbe stato ben accolto dal-la popolazione (anche perché l'occupazione tedesca era più temuta) ed avrebbe avuto anche il merito di por-re un freno alle terribili violenze degli ustascia croati.

Ma, secondo il documento, questa situazione quasi idilliaca sarebbe gradualmente mutata e "nell'estate del 1942, in conseguenza della situazione generale e soprattutto dell'entrata in guerra della Russia, le formazioni ostili assunsero maggiormente consistenza e migliore organizzazione; fra esse primeggiarono quelle partigiane" filo-sovietiche.

A questo punto la Commissione ammette che vennero adottati "veri provvedimenti repressivi, quali l'internamento delle persone sospettate di partecipare alla lotta partigiana o abitanti nelle vicinanza dei luoghi ove venivano compiuti atti di sabotaggio, operazioni di rastrellamento a breve e a largo raggio, ed azioni di rappresaglia per atti compiuti dal nemico in con-trasto con le leggi di guerra".

Il documento sostiene che in seguito a "gravi e numerosi … atti di ferocia commessi dai partigiani contro i militari da essi catturati: … le nostre Autorità dovettero adottare dei provvedimenti di rigore che, in altre condizioni, si sarebbero dovuti senz'altro considerare eccessivi".

Quindi la Memoria conclude la parte riguardante la Jugoslavia, ribadendo il ruolo positivo dei comandanti italiani in quanto i delitti "più atroci, le barbare distruzioni di interi villaggi e di edifici" sarebbero stati opera dei gruppi etnici in lotta fra loro, mentre "le nostre Autorità di occupazione" sarebbero intervenute "per assicurare una vita pacifica alle popolazioni".

E' chiaro dall'analisi di questo documento, che ha guidato l'azione della commissione, che questa si è fatta interprete delle indicazioni politiche, che emergono anche dai documenti del Ministero degli Affari Esteri.

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Infatti tra i nomi degli italiani richiesti per crimini di guerra figuravano quelli di ufficiali, funzionari, uomini politici che ricoprivano alte cariche nello Stato italiano, come ha scritto il ministro Brosio.

Molti generali, indicati nelle liste della Commissione delle Nazione Unite come criminali di guerra, ricopri-vano incarichi nel Ministero della Guerra, addirittura il gen. Orlando, uno dei teorici e degli artefici della repressione in Slovenia, era stato ministro.Quindi la Commissione più che d'Inchiesta, sembrava un collegio di difesa per quasi tutti gli indagati.

Facevano eccezione alcuni, ad esempio gli alti ufficiali del Tribunale Straordinario della Dalmazia, per cui, leggendo gli atti, si desume che fosse stato deciso il sacrificio forse ad una condanna a qualche anno di carce-re.

Ma queste affermazioni vengono puntualmente contraddette da numerose circolari e disposizioni emanate dai generali comandanti, che dimostrano senza alcun dubbio, la feroce volontà repressiva e vessatoria dei comandanti militari nei confronti della popolazione civile e dei partigiani.

Questi documenti erano a disposizione della Commissione, sia direttamente negli archivi militari italiani sia presso quelli alleati.

Ma un'altra conferma di tutto questo emerge dal diario di un cappellano militare, don Pietro Brignoli, edito postumo nel 1972, dal titolo Santa messa per i miei fucilati, in cui lo stesso testimonia le feroci rappresaglie ope-rate dall'esercito italiano; infatti il sacerdote era inquadrato nel II reggimento (comandante prima col. E.Silvestri, quindi col. U.Penna) della divisione Granatieri di Sardegna, operante in Slovenia ed in Croazia tra il maggio 1941 ed il novembre 1942, e prestò assistenza religiosa ai molti ostaggi civili, e ai pochissimi parti-giani catturati, che quasi ogni giorno venivano sommariamente “giudicati” dal tribunale di guerra del reggi-mento e subito fucilati; questo prete, un fervente anticomunista, narra dolorosamente anche del sistematico incendio di villaggi, della deportazione della popolazione nei campi di concentramento e dei continui furti operati dagli ufficiali e dalla truppa verso i civili.

Le liste dei presunti criminali di guerra predisposte dalla commissione

11 settembre 1946. In una lettera al Capo della Commissione Alleata Ammiraglio E. W. Stone, in risposta ad una sua in data 2 maggio 1946, il Presidente del Consiglio De Gasperi scrive che “la Commissione ha redatto un elenco di quaranta nomi di militari e civili, contro i quali può essere elevata l'accusa … di essere venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell'umanità”.

23 ottobre 1946. Un primo comunicato della commissione d'inchiesta indicava i nomi di sei inquisiti: i gene-rali Roatta, Robotti e Magaldi, i ten. col. Sorrentino e Caruso, e l'ambasciatore Bastianini.

13 dicembre 1946. Un secondo comunicato della commissione indicava altri otto nomi (fra cui i generali Pirzio Biroli, Gambara e Coturri, e inoltre Giunta e Grazioli.

Dal gennaio al maggio 1947 vennero emessi altri comunicati che indicavano in una ventina gli inquisiti defe-ribili al tribunale militare per crimini di guerra.

Nell'archivio Gasparotto sono conservate tre liste di lavoro della commissione d'inchiesta in cui sono indica-ti i nomi di militari e civili accusati da paesi esteri di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità:

Situazione al 25 gennaio 1947 12 gennaio 1948 23 marzo 1948

Deferiti 13 28 29 (+1)

Discriminati 23 111 133

Sospesi 7 2 6

Totale 43 141 168

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Quindi la lista smentisce i dati indicati da De Gasperi a Stone, ridimensionando le cifre.Come indica la tabella i quaranta nomi in realtà si riducono a tredici presunti criminali di guerra da deferire al tribunale militare.

La commissione in quasi due anni di lavoro (maggio 1946 - marzo 1948) ha giudicato deferibili al Tribunale militare solo 29 inquisiti (su 168 accusati esaminati a cui vanno aggiunti il personale del campo di concen-tramento di Arbe, ufficiali, sottufficiali e truppa delle divisioni "Re" e "Zara").

In realtà al gennaio 1948 i criminali di guerra la cui consegna era richiesta al Governo italiano da paesi esteri erano 295, che devono essere aggiunti ai 1697 compresi nelle liste delle Commissioni Onu per i crimini di guerra.

Quindi a fronte di 1992 casi segnalati dai paesi che avevano subito l'occupazione militare italiana e dagli Al-leati, la Commissione ne valutò, in base ai documenti citati, 168 e non prese in considerazione le azioni svol-te dai militari italiani in Africa (Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia) dove vennero usate bombe a gas e venne praticata una durissima repressione, attraverso la deportazione in campi di concentramento, torture ed ese-cuzioni sommarie anche nei confronti dei civili.

Le conclusioni del Governo

Alla luce di quanto riportato e dei rivolgimenti politici avvenuti tra il 1947 ed il 1948, il processo contro i 29 deferiti al Tribunale militare non fu mai celebrato. Non solo per i noti motivi (la Guerra fredda, per cui si ripuliva il passato di nazisti e di fascisti per utilizzarli nella lotta al blocco sovietico), ma anche perché da par-te degli alti generali italiani (per la maggior parte, i medesimi che comandavano l'esercito monarchico agli ordini del Comandante Supremo Mussolini) non vi era nessuna intenzione di condannare i propri colleghi, seppur responsabili di provati crimini efferati.

Infatti l'istruttoria per almeno 26 deferiti dalla Commissione d'inchiesta venne completata entro il gennaio 1948, ma d'altro canto lo stesso Governo italiano era conscio della non opportunità di svolgere processi contro presunti criminali di guerra italiani contemporaneamente a quelli contro i presunti criminali tedeschi (che stavano iniziando in Italia nei primi mesi del 1948), proprio perché “le accuse che noi facciamo ai tedeschi sono analoghe a quelle che gli jugoslavi muovono contro imputati italiani”.

Quindi, come scrisse il 20 agosto 1949 il Direttore Generale degli Affari politici del Ministero degli Affari Esteri, conte Vittorio Zoppi, all'ammiraglio Franco Zannoni, capo gabinetto del ministro della difesa, “la Commissione d'inchiesta che … non doveva dare l'impressione di scagionare ogni persona esaminata …selezionò un certo nu-mero di ufficiali che furono rinviati a giudizio … Fu spiccato nei loro confronti mandato di cattura, ma fu dato loro il tempo di mettersi al coperto … ciò fu fatto con il preciso e unico intento di sottrarli alla consegna [agli jugoslavi ndr]… Ottenuto questo risultato e venuto meno le ragioni di politica estera … il Ministero degli Affari esteri considera la questione non più attuale”.

L'epilogo.

Le conclusioni della questione sono custodite gelosamente negli archivi del Ministero della difesa, ma si può presumere, alla luce dei documenti analizzati, che i mandati di cattura siano stati ritirati ed anche i militari rinviati a giudizio per crimini di guerra abbiano potuto poi concludere (per la maggior parte) la propria car-riera nell'esercito dell'Italia democratica e antifascista.

Il Governo italiano, ex-ministri e gli alti quadri militari della neonata Repubblica italiana erano consci dei crimini operati dai militari italiani nel corso delle guerre coloniali e nel II conflitto mondiale e ne avevano le prove documentali.

Ma il Governo ha operato per evitare non solo di consegnare, ma anche di giudicare i presunti colpevoli delle stragi.

A questo scopo consapevolmente ha rinunciato al diritto/dovere di richiedere la consegna e di perseguire i militari tedeschi accusati di strage in Italia.Infatti richiedere la consegna di numerosi presunti criminali tedeschi per processarli in Italia, avrebbe voluto ammettere il principio e quindi non potersi rifiutare di consegnare i propri presunti criminali di guerra ad altri paesi richiedenti.

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Lo afferma l'ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, con la piena condivisione dei dirigenti del mini-stero stesso, in una lettera al Ministero degli Affari Esteri il 7 gennaio 1946: “… Il giorno in cui il primo crimina-le tedesco ci fosse consegnato, questo solleverebbe un coro di proteste da parte di tutti quei paesi che sostengono di aver diritto alla consegna di criminali italiani”.

Quindi la giustizia sta ancora aspettando, non solo per le vittime delle stragi tedesche, ma anche per tutti gli innocenti trucidati o mandati a morire da quei generali italiani primi protagonisti dell'aggressiva vocazione colonialista dello stato italiano.

 SI NOTI CHE TRA LE IMPUTAZIONI A GRAZIANI; BADOGLIO ED AL-TRI CRIMINALI NON FIGURANO LE ATROCITA’ AFRICANE.

Direttive di Mussolini per l'aggressione all'Etiopia [30/12/'35] 

Il problema dei rapporti italo-abissini si è spostato in questi ultimi tempi su un piano diverso: da problema diplomatico è diventato un problema di forza; un problema "storico" che bisogna risolvere con l'unico mez-zo col quale tali problemi furono sempre risolti: coll'impiego delle armi. [...] Il tempo lavora contro di noi. Più tarderemo a liquidare il problema e più sarà difficile il compito e maggiori i sacrifici [...] Bisogna risolve-re il problema il più presto possibile, non appena cioè i nostri apprestamenti militari ci diano la sicurezza della vittoria. Decisi a questa guerra, l'obiettivo non può essere che la distruzione delle forze armate abissine e la conquista totale dell'Etiopia. L'impero non si fa altrimenti. [...]

Condizione essenziale, ma non pregiudiziale della nostra azione, è quella di avere alle spalle un'Europa tran-quilla almeno per il biennio 35-36 e 36-37, che dovrebbe essee il periodo risolutivo. Un'esame della situazio-ne quale si presenta agli inizi del 1935, permette di prevedere che, nei prossimi anni, sarà evitata la guerra in Europa. [... ] -Per una guerra rapida e definitiva, ma che sarà sempre dura, si devono predisporre grandi mezzi. Accanto ai 60 mila indigeni, si devono mandare almeno altrettanti metropolitani. Bisogna concentra-re almeno 250 apparecchi in Eritrea e 50 in Somalia.Carri armati 150 in Eritrea e 50 in Somalia. Superiorità assoluta di artigieria e di gas. I 60 mila soldati della metropoli - meglio ancora se 100 mila - devono essere pronti in Eritrea per l'ottobre 35.

Umanità sì, promiscuità no!

Direttive di Mussolini a Graziani per l'impiego dei gas asfissianti.

- Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco [27 ottobre 1935]. - Autorizzo vostra eccellenza all'impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme. [28 dicembre 1935] - Approvo pienamente bombardamento rappresaglia e approvo fin da questo momento i successivi. Bisogna soltanto cercare di evitare le istituzioni internazionali e la croce rossa. [2 gennaio 1936] - Occupata Addis Abeba vostra eccellenza darà ordini perché: 1] siano fucilati sommariamente tutti coloro che in città o dintorni siano sorpresi con le armi in mano; 2] siano fuci-lati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheg-gi; 3] siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi, incendi; 4] siano sommariamente fucila-ti quanti, trascorse 24 ore, non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni. [3 maggio 1936] - Uno stra-niero mi segnala di aver veduto il giorno 15 aprile a Massaua un sottuficiale della regia marina giocare ami-chevolmente a carte con un indigeno. Deploro nella maniera più grave queste dimestichezze e ordino siano evitate. Umanità sì, promiscuità no. [5 maggio 1936].

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http://www.romacivica.net/anpiroma/FASCISMO/fascismo14.htm 

La guerra di Etiopia (1935)

Gli italiani in Etiopia: l'uso dei gas, la persecuzione degli ebrei libici

di Giovanni De Luna

Le grotte si aprivano nelle rocce sulla destra del fiume profonde, inaccessibili. Per stanare i guerriglieri oc-correva penetrare in stretti cunicoli dove poteva passare un uomo alla volta, facile bersaglio dei difensori. Si decise di inondarli di gas velenoso. I risultati furono definitivi e terrificanti. «28 marzo 1936... Sono stato a visitare i campi di battaglia che si trovano nei pressi di Selaclacà... ciò che mi ha fatto maggiore impressione è stata la vista di un gruppo di abissini morti in una specie di caverna, ben nascosta, che sembrava un infido nido difficilmente scovabile. Sono in tutto nove giovani vite, e sono abbracciate, o meglio afferrate una all'al-tra in una stretta disperata: il loro atteggiamento, le loro posizioni, e quel loro aggrapparsi alla terra o al compagno, mostrano evidente che morirono nel momento istesso che tentavano di fuggire disperatamente alla morte certa; e caddero così... come se in quel momento un fulmine li avesse improvvisamente e per sempre fermati e fotografati...». Non sono le grotte di Tora Bora: siamo in Etiopia, nel 1935 e la testimo-nianza è quella di un soldato italiano, Manlio La Sorsa, impegnato nella guerra scatenata dall'Italia fascista contro il regno del Negus. Pure, le grotte, le armi terrificanti, e soprattutto quei corpi avvinghiati nella morte ci restituiscono il fondo destoricizzato che ogni guerra porta con sé: dall'Etiopia all'Afghanistan, dal 1935 al 2001, in un tempo e in uno spazio radicalmente diversi, sembra che alla fine tutto si riduca a una ciclica ripe-tizione di gesti, a un frenetico andirivieni tra il morire e dare la morte. Quella guerra il fascismo la vinse so-prattutto grazie alla superiorità tecnologica, all'uso di armi e di tecniche militari terribilmente distruttive (i bombardamenti aerei, i gas) anticipando una delle configurazioni tipiche delle guerre postnovecentesche in cui - («guerra del golfo», Kosovo, Afghanistan) - il confronto è tra uomini e macchine, con ordigni sofisticati che riescono quasi ad azzerare le perdite nel proprio campo. La testimonianza del soldato italiano si presta anche a altre letture più interne alla nostra storia, che chiamano in causa «nodi» irrisolti della nostra memoria collettiva su cui vale la pena riaccendere i riflettori del dibattito storiografico. Quella di La Sorsa è infatti so-lo una delle tante voci raccolte in un libro appena uscito di Nicola Labanca (Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d'Africa, Museo storico Italiano della Guerra); un'antologia di grande efficacia che, per la prima volta, ci restituisce nitidamente gli aspetti soggettivi e autobiografici del nostro passato co-loniale, di quell'inseguimento «al posto al sole» che si protrasse ininterrottamente fino alla metà del Nove-cento. Labanca ha pazientemente raccolto lettere, diari, carteggi e memorie sparse in vari archivi (il fondo più consistente è quello conservato nell'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano), una documen-tazione straripante che lascia affiorare l'intero universo di quelle centinaia di migliaia di italiani che - tra il 1882 e il 1943 -, in Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia, furono coinvolti nel nostro «sogno africano». Per la maggior parte si tratta di scritti di petit blancs; non i diplomatici, quindi, non i militari, non quelli che anda-rono in colonia per assumere cariche istituzionali e amministrative o per investire grandi capitali, ma tutta la massa di quelli «che si mossero portando con sé solo se stessi e al massimo le proprie famiglie, con l'ausilio solo delle proprie braccia da lavoro o del proprio modesto titolo di studio, contadini, piccoli commercianti, microimprenditori». Furono l'assoluta maggioranza dei nostri coloniali; ai Censimenti del ventennio risulta-vano infatti solo un 2% di possidenti e imprenditori e un 5% di professionisti; per il resto, furono in gran parte i ceti medi a lasciarsi coinvolgere nei nostri progetti di dominio coloniale: in Africa cambiarono il loro nome - diventando petit blancs, appunto - ma non la propria condizione sociale. L'eccezionalità di questa documentazione sta proprio nella sua provenienza: tradizionalmente i ceti medi costituiscono un universo sociale amorfo, abituato a lasciare scarne testimonianze della sua «piccola storia», pronto a delegare il pro-prio protagonismo ai poteri forti che costruiscono la «grande storia». Qui, invece, è come se l'enormità del-l'avventura africana ne stimoli i ricordi, li solleciti a rompere la crosta del loro tradizionale riserbo per lascia-re liberamente fluire passioni, invettive, recriminazioni, entusiasmi, nostalgie. Lungo questo percorso si in-contrano testimonianze che si limitano ad aggiungere particolari inediti a quanto già si sapeva: ad esempio, il nesso ideologico tra le leggi contro gli ebrei del 1938 e la pratica di separazione razzista nei confronti della popolazione indigena avviata nei possedimenti coloniali, in particolare nell'Etiopia appena conquistata. Così, i ricordi di Arthur Journò ribadiscono questo collegamento. Siamo nel 1938 e Journò è un giovane ebreo italiano che vive a Tripoli. Il Governatore della colonia, Italo Balbo, ordina agli ebrei di tener aperti i loro negozi anche il sabato. Ovviamente i negozi restarono chiusi. A quel punto i fascisti prendono dieci ebrei

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libici e decidono per una loro pubblica fustigazione: «in mezzo alla piazza alcuni genieri dell'esercito aveva-no eretto un palco abbastanza alto proprio per dare la possibilità a tutto il popolino di godere dello spetta-colo... non so dire quante frustate ogni condannato ricevette, tenni gli occhi chiusi e sentivo solo i lamenti e i battiti delle mani della gente che gridava piena di odio».

Altre testimonianze ribadiscono stereotipi razziali, con particolare riferimento alle donne, («Entrando, l'in-gresso è squallido e umido. Un odore strano di erbe e di altre sostanze non definibili fluttua qui dentro; le abitatrici si avvicinano curiose, timide e sorridenti. Sembrano tante bestie rare...», Unno Bellagamba, 1935) che esaltano la natura ferina delle popolazioni nere, in un misto di disprezzo e timori ancestrali. In quasi tut-te domina poi un'autorappresentazione fortemente segnata dalla propaganda colonialista, in particolare - per quanto si riferisce all'Etiopia - di quella fascista, segnata dal trinomio «Dio, Patria, Famiglia»: «Dio, andare in Africa significava evangelizzare, essere missionari, pionieri in terre sconosciute e abitate da popoli primitivi; Patria, assicurare al proprio paese le materie prime, il lavoro e la possibilità di emigrare, accrescere il presti-gio del nostro popolo; Famiglia, una via più breve e più sicura per realizzare i sogni della famiglia, significava trovare un impiego al termine della campagna della conquista coloniale, nella stessa terra africana per la qua-le avevo arrischiato la vita», (Angelo Filippi, 1935). Sotto queste esplicite intenzioni affiora, però, anche una realtà diversa, quasi che quei documenti alla fine parlino «malgrado se stessi». Certamente in essi incontria-mo la guerra, la dimensione epica del «mal d'Africa», l'orgoglio di sentirsi allo stesso tempo italiani e conqui-statori; ma incontriamo anche la vita quotidiana, le abitudini e le relazioni sociali, mode e comportamenti collettivi e - soprattutto - il lavoro, tanto lavoro. Camionisti e braccianti, coloni agricoli e commercianti, pic-coli artigiani e impiegati, per tutti la vita in colonia è essenzialmente il lavoro, la fatica, il confronto assiduo con una natura sconosciuta, poche volte apprezzata per la sua bellezza, più spesso maledetta per le sue aspe-rità. La centralità del lavoro toglie, alla fine, ogni epicità a quei ricordi e ci consegna una delle chiavi per spiegare il «mistero» del loro inabissarsi fino a scomparire dalla nostra memoria collettiva. Per i petit blancs italiani la fine del sogno africano coincise, infatti, con la rovinosa sconfitta militare dell'Italia fascista. Il loro ritorno in patria fu traumatico. Nella nuova Italia repubblicana non c'era più nessun posto al sole da magni-ficare e difendere. I neofascisti tentarono di cavalcarne recriminazioni e rimpianti. Anche la Dc lo fece, in un modo tipicamente democristiano, alimentando cioè una politica puramente assistenziale, con una legislazio-ne che soddisfaceva tutte le loro richieste economiche, rifiutandone però la dimensione ideologica e revan-scista; si assicurò i loro voti, se non la loro riconoscenza. Alla fine, quando smisero anche di essere un serba-toio di voti, la loro memoria divenne solo un oggetto storiografico da studiare.

(La Stampa, 14 gennaio 2002)

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Fascismo e colonialismo"La donna bianca e l'uomo nero"

Norme a cura dell'Istituto coloniale fascista, 1937

Costretti a continui contatti con l'indigeno, bisogna studiarne attentamente la mentalità per poterlo guidare, senza urti ma con mano sicura, a contribuire utilmente col suo lavoro ai fini che noi ci ripromettiamo di conseguire. Caratteristica generale del negroide e del negro dell'Africa equatoriale è la poca disposizione ad un intenso e prolungato lavoro, un acuto senso della giustizia ed un profondissimo rispetto della forza. La poca disposizione pel lavoro è logica conseguenza delle scarsissime esigenze di vita dei popoli primitivi e spesso della facilità con cui essi possono ottenere senza grandi sforzi tutto quanto serve alla loro esistenza, per l'abbondanza dei frutti della terra e degli animali, che procurano loro spontaneamente ciò che occorre per il nutrimento, per il ricovero e per il rudimentale abbigliamento. La giustizia e la forza sono concetti così radicati nell'animo di tutti i popoli primitivi che devono essere alla base di ogni rapporto con loro.

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http://www.anpi.it/colonie/cirenaica.htm 

Le guerre coloniali del fascismo  La Cirenaica

 

La Cirenaica è la zona più ricca della Libia. L’altopiano del Gebel in particolare, grazie alla presenza di piog-ge, offre maggiori possibilità di coltivazione e di allevamento del bestiame che nel resto del Paese. La vita delle popolazioni seminomadi di religione musulmana è regolata dalla Senussia, un’organizzazione statuale nata agli inizi dell’Ottocento. Articolata in numerose "zauie" periferiche, la Senussia ha funzioni sia politiche che religiose e regola l’attività dei commerci, del pagamento delle decime e dell’attività amministrativa e giu-diziaria. Il carattere fortemente radicato della Senussia fa sì che in Cirenaica la ribellione alla colonizzazione sia più diffusa e difficile da sconfiggere perché mimetizzata nel territorio e sostenuta dalla popolazione.

Nel gennaio 1930 il generale Rodolfo Graziani viene nominato vicegovernatore della Cirenaica e affianca il governatore Pietro Badoglio nell’attuazione della "fase finale" della repressione della resistenza antitaliana, guidata da Omar al-Mukhtar. Si apre una guerra senza quartiere: viene attuato un piano di deportazioni delle tribù seminomadi che appoggiano i ribelli, si ordina di impiccare i capi ribelli catturati, viene emanato un proclama i cui si afferma che se il nemico non si piega, sarebbe stato sterminato: ogni cosa sarebbe stata distrutta, le proprietà confiscate, i colpevoli puniti persino nelle loro famiglie; vengono istituiti tribunali vo-lanti con diritto di morte per reati quali il possesso di armi da fuoco o il pagamento di tributi ai ribelli; viene permesso l’utilizzo di strumenti bombe ad aggressivi chimici, come testimonia un dispaccio di Badoglio al vicegovernatore Siciliani del 10 gennaio 1930: "Continui rastrellamenti e vedrà che salterà fuori ancora qual-cosa. Si ricordi che per Omar al-Mukhtar occorrono due cose: primo, ottimo servizio di informazioni; se-condo, una buona sorpresa con aviazione e bombe iprite. Spero che dette bombe le saranno mandate al più presto".

La riconquista della Cirenaica dura circa due anni e si conclude con un impressionante bilancio di vittime tra la popolazione.

Per togliere ai ribelli ogni sostegno da parte della popolazione, Graziani e Badoglio decidono che dal 25 giu-gno 1930 vengano creati dei campi di concentramento vicini alla costa per le popolazioni del Gebel che ave-vano dato appoggio alla resistenza antitaliana. Questi campi non solo rompono ogni legame tra popolazione e ribelli, ma spezzano ogni possibilità di autosussistenza delle comunità seminomadi. In sei campi principali e una decina di minori vengono deportate, dopo lunghe marce forzate, tra le 100 e le 120.000 persone, con tutti i loro beni e le loro greggi (circa un milione di animali), costrette a vivere in aree ristrette, dove le con-dizioni di vita diventano subito ai limiti della sopravvivenza. In una lettera a Graziani del 20 giugno 1930 Badoglio scrive: "Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perse-guirla fino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica".

Per togliere ai ribelli l’aiuto che proveniva dall’Egitto (dove si sono rifugiati circa 20.000 libici), alle popola-zioni della Cirenaica viene proibito ogni tipo di commercio con l’Egitto. A questo scopo dall’aprile al set-tembre 1931 viene innalzata una barriera di filo spinato, alta quattro metri, lungo i 275 chilometri tra il porto di Bardia e l’oasi di Giarabub, il cui tracciato viene controllato per mezzo di fortini e voli aerei. Inoltre i san-tuari locali dei Senussi vengono chiusi, sequestrate le loro rendite e confiscate le loro proprietà terriere. Vie-ne instaurato un vero e proprio regno del terrore: migliaia di esecuzioni, villaggi saccheggiati o costretti a piegarsi per fame, rappresaglie selvagge contro le comunità beduine se uno qualsiasi dei loro membri si uni-va al nemico.

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http://www.tightrope.it/USER/chefare/archivcf/cf19/libia.htm 

Libia: un test della "diversità "italianaPiace al "pacifismo" ed al "riformismo" sottolineare il ruolo "diverso " che l'Italia può svolgere e già in certa misura svolgerebbe nella difesa della "pace" e della "soluzione pacifica" dei conflitti internazionali.

Nel mondo arabo in particolare la Libia (che tuttavia non è la sola nazione ad avere goduto di questo privi-legio) ha avuto modo di sperimentare direttamente, sulla propria viva carne, tale "diversità" nel corso della occupazione della Tripolitania ad opera dell'Italia liberaldemocratica e fascista, durata dal 1911 al 1943.

Abbiamo poco spazio a disposizione per rammentare qualche aspetto di una "civilizzazione diversa", dal "volto umano" o - come piaceva dire ad inizio secolo ad un certo nazionalismo - da "nazione proletaria"; contrapposto a quello "predatore" delle grandi potenze (ohi, com'è vecchia questa menzogna social-sciovi-nista della "diversità" italica…). Lo useremo per pubblicare qualche cifra che non vuole essere sostitutiva, evidentemente, di un'analisi storico-politica, ma fornire solo un parziale promemoria di una minimissima parte delle atrocità che le popolazioni arabe hanno dovuto subire per mano del barbaro colonialismo impe-rialista.

La fonte delle cifre è un censimento libico del 1984. Non ci sono fonti italiane in materia, poiché la repub-blica democratica nata dalla Resistenza, giunta al suo 45° anno di vita, non ha ancora realmente aperto i propri archivi, peraltro abbondantemente purgati da "storici" di matrice fascista a cui erano stati affidati in cura…

Il censimento è del 1984 ed è parziale, in quanto riguarda soltanto 100.000 famiglie su 660.000 costituenti l'intera popolazione libica. I casi di "danni" accertati tra queste persone sono 199.269: 21.123 uccisi dalle truppe di occupazione (tra il 1911 e il 1932); 5.867 assassinati o imprigionati senza alcun processo; 25.738 costretti ad arruolarsi come ascari e a combattere contro i propri fratelli ribelli o contro le popolazioni del-l'Etiopia; 37.763 internati nei campi di concentramento; 30.091 costretti ad emigrare nei paesi vicini; 12.058 persone morte a causa di bombardamenti aerei e terrestri o di mine (fino al 1943); 14.910 mutilate dalle esplosioni di bombe e mine (anche dopo la seconda guerra mondiale); 30.321 persone che avevano subito danni alle aziende agricole o perdite di bestiame; 463 denunzie di avvelenamento di pozzi, incendi di boschi et similia, etc. etc.

Lo storico De Boca, che non è certamente un anti-imperialista neppure con le virgolette, non contesta affat-to questi dati. Al contrario non fa fatica a riconoscere che le cifre globali, ossia il costo materiale ed umano del banditismo della "diversa" Italia nei confronti della Libia è stato sicuramente di molto superiore. Gli in-ternati nei campi di concentramento furono più di 100.000. Il numero dei morti libici trucidati dalle truppe di occupazione è "di gran lunga superiore" ai 21 mila e passa indicati sopra (alcune centinaia di migliaia secondo cifre ufficiose). Il territorio libico è stato popolato di alcuni milioni di mine durante la guerra, e di-verse migliaia di libici sono morti e continuano a morire a causa delle mine. Intere regioni (almeno 3 milioni di ettari) sono state abbandonate per la stessa ragione. Più di 120.000 capi di bestiame sono saltati sulle mine nei primi 25 anni del dopoguerra. E poi c'è la ferita ancora aperta dei deportati in Italia a partire dal 1911, di cui né l'Italia liberaldemocratica, né quella fascista, né quella post fascista, l'una "diversa" dall'altra e l'una più fetente dell'altra, hanno voluto dire parola.

Eppure, dice ancora Del Boca in una intervista a "Politica ed economia" (maggio 1988), negli archivi semi proibiti "c'è, nero su bianco, tutto; compreso l'uso del fosgene, i gas (a proposito delle armi chimiche! - n.), le deportazioni, i lager, i 270 chilometri di filo spinato, le atrocità commesse dai Graziani (il Maresciallo fa-scista politicamente riabilitato da Andreotti - n.)".

Lontane vicende da ascrivere essenzialmente alla "malattia morale" del fascismo? Niente affatto! La demo-crazia le rivendica a pieno, nella sostanza.

Il giudizio globale lasciamolo a Sforza, un liberale ministro dell'Italia democratica, collega di governo - du-rante l'unità nazionale"- di Togliatti: "L'Italia democratica ritiene ingiusto e immeritato che le sia impedito di continuare a perseguire in Africa, secondo i principi proclamati dall'ONU (notate bene) e nel quadro delle sue istituzioni, l'opera di CIVILIZZAZIONE che ha intrapresa e perseguita con infiniti sacrifici e con risultati che il mondo intero ha ampiamente riconosciuto". A quei dì (1947-1949) anche il PCI sospetto di "doppio binario" e l'URSS sostenevano che la Libia avrebbe dovuto essere "lasciata" alla… "diversa" Ita-lia…

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Vediamo ora alcune foto, iniziando da un gigantesco campo di concentramento italiano fatto di tende nel deserto:

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Omar El Mukhtar, capo della resistenza libica, dopo l'arresto e prima dell'esecuzione

Tripoli 1943 / Addio all'Africa italiana

La fine dell'impero  Angelo Del Boca

http://www.nigrizia.it/doc.asp?ID=5284 

Seguita alla sconfitta di El Alamein, la caduta di Tripoli chiuse un'epoca. A sessant'anni di distanza, il maggior storico del colonialismo italiano ci ricorda quanto è costato - in termini di guerra di conquista, eccidi e spoliazioni - il nostro sogno colonia-le a Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Negativo anche il bilancio militare ed economico.

I1 23 gennaio 1943, giusto sessant'anni fa, il vice governatore della Libia, Francesco San Marco, affiancato dal prefetto di Tripoli, il duca Alberto Denti di Pirajno, si recava a Porta Benito, dove il generale Bernard Law Montgomery aveva posto il suo quartier generale, e gli consegnava le chiavi di Tripoli.

Nel ricordare il breve discorso del vincitore, Denti di Pirajno, che era, oltre che un alto e stimato funziona-rio coloniale, uno scrittore finissimo, così si esprimeva: «Montgomery non mi piacque, sia perché il vinto non trova mai simpatico il vincitore, sia perché ci parlava senza guardarci, col capo insaccato fra le spalle rachitiche e lo sguardo inchiodato al suolo. Ebbi allora l'impressione che con questo atteggiamento volesse ostentare il poco conto in cui ci teneva e questo, in un conquistatore, mi parve ingeneroso».

Il prefetto di Tripoli non era soltanto turbato per il disprezzo che il vincitore della battaglia di El Alamein ostentava nei riguardi delle autorità italiane. Era anche avvilito per la mancata difesa di Tripoli, che militari e gerarchi fascisti avevano solennemente promesso di operare ad oltranza, casa per casa. Ma al momento di mettere in pratica questi bellicosi propositi - riferiva Denti di Pirajno - «tutti se ne erano andati: i condottieri che avevano giurato di difendere la città sino all'ultimo mattone, i gerarchi del "di qui non si passa". L'ultima nave ospedale, dirottata su Zuara, era partita vuota di feriti, ma stracarica di greche, di aquile, di medaglie».

Con la caduta di Tripoli, ultimo lembo di terra africana ancora presidiato dall'Italia, si concludeva un'epoca. Finiva la spinta espansionistica che aveva avuto inizio nel 1869 con l'occupazione della baia di Assab, nel Mar Rosso. Crollava l'ultimo pilastro dell'impero dell'Africa italiana, voluto con ostinazione da Benito Mus-solini, con un costo altissimo di vite umane e di risorse economiche. Dopo settant'anni di presenza italiana in Africa, il nostro paese usciva definitivamente dal Continente Nero lasciandovi il ricordo indelebile di stra-gi, di deportazioni, di devastazioni, di spoliazioni. Inutilmente Mussolini lanciava il 9 maggio 1943, cele-brando l'anniversario della fondazione di un impero che oramai non c'era più, la parola d'ordine : "Torne-remo". Due mesi dopo cadeva il regime fascista e con esso tutti i miti che aveva creato.

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Dogali, Adua, Kars bu Hadi

II bilancio della presenza italiana in Africa non poteva, sotto tutti i punti di vista, essere più negativo. Sotto il profilo del prestigio militare l'Italia ne usciva malconcia. Alla resa dei conti, infatti, erano più le sconfitte che i successi. Dogali, Adua, Kars bu Hadi non erano soltanto brucianti disfatte. Mettevano in evidenza tutti i difetti del tardo colonialismo italiano: dilettantismo, imprevidenza, iattanza, disprezzo per l'avversario, eroi-smo di chi ormai non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare.

Ad Adua, Oreste Baratieri, con 5mila morti, 2mila prigionieri e la perdita di tutti i cannoni, si aggiudicava la palma del generale più sconsiderato, più inesperto, più biasimevole. A Kars bu Hadi, il colonnello Antonio Miani perdeva mille uomini, 5mila fucili, alcuni milioni di cartucce, 6 sezioni di artiglieria, tutte le mitraglia-trici, l'intero convoglio di rifornimenti e persino la cassa militare. Tante armi, viveri e denaro da alimentare e rendere vincente la rivolta araba. In pochi mesi i mujaheddin avrebbero ripreso tutti i territori conquistati dagli italiani in quattro anni di guerre, salvo Tripoli e poche altre città della costa.

Si faceva così strada la convinzione, negli alti comandi, che, per strappare una sicura vittoria, fosse necessa-rio mettere in campo uomini e mezzi che fossero almeno il doppio di quelli schierati dall'avversario. Infatti, memore di Adua, Mussolini impiegava nella conquista dell'Etiopia armate così possenti e soverchianti come l'Africa non aveva mai visto. E paventando ancora amare sorprese, ordinava a Badoglio e a Graziani di ag-giungere alle armi convenzionali anche quella proibita dei gas, violando così gli accordi internazionali che l'Italia aveva sottoscritto.

Poi, un giorno, per questi condottieri troppo celebrati e persino mitizzati, sarebbe venuto il momento della verità. Nel giudicare l'operato di Rodolfo Graziani in Africa settentrionale, nel corso della seconda guerra mondiale, l'addetto militare tedesco a Roma, Enno von Rintelen, così si esprimeva: «Egli condusse la guerra in Africa come una campagna coloniale; i suoi avversari non erano però dei nativi, bensì dei soldati dell'im-pero mondiale britannico».

Graziani si era costruito tutta la sua fortuna, in Libia e in Etiopia, battendo formazioni di patrioti male ar-mate, ricche soltanto di un indomito coraggio. Ma posto di fronte ad un esercito regolare e modernamente equipaggiato, egli rivelava tutti i suoi limiti, perdeva il controllo di sé stesso e delle sue armate, la sua leggen-da si trasformava in una penosa parodia. E con lui scomparivano dalla scena, uccisi o fatti prigionieri, i Ber-gonzoli, i Gallina, i Tracchia, i Pitassi Mannella, che con troppa facilità avevano raggiunto i massimi gradi nella campagne coloniali. Scompariva anche il generale Pietro Maletti, che nel 1937, in Etiopia, aveva massa-crato duemila monaci e diaconi della città conventuale di Debrà Libanòs.

Fallimento del fascismo

Se le campagne coloniali non avevano certo aumentato il prestigio dell'esercito italiano, il bilancio economi-co si chiudeva in net-ta perdita. Fra i motivi che avevano spinto l'Italia a partecipare allo "scramble for Africa", c'era stato anche quello di dirottare la corrente emigratoria, che aveva sempre preferito le Americhe, verso le colonie che l'Italia si era aggiudicata in Africa. Nella sola Etiopia, Mussolini aveva ipotizzato di inviare due milioni di contadini senza terre, ma nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, i coloni insediati sulle migliori terre etiopiche erano soltanto 31mila. Anche nelle altre colonie, decisamente più povere del-l'Etiopia, l'afflusso degli italiani era stato più che deludente. In settant'anni, di fronte a venti milioni di dispe-rati che avevano scelto le Americhe, gli italiani che avevano optato per l'Africa erano appena 300mila.

Per rendere più agevole il loro insediamento (non certo per mi-gliorare la sorte dei nativi), lo stato italiano aveva impegnato forti capitali nella realizzazione di alcuni progetti. Citiamo, ad esempio, i comprensori di bonifica lungo il Giuba e 1'Uebi Scebeli, in Somalia; quello di Tessenei in Eritrea; le decine di villaggi agrico-li costruiti sul finire degli anni '30 in Tripolitania e in Cirenaica. Ma i maggiori investimenti Roma li realizza-va in Etiopia.

Per il solo sistema viario, vitale per incrementare i traffici e per spostare rapidamente le truppe, venivano importati dall'Italia 1.192.000 quintali di cemento, 72.600 quintali di ferro, 12.319 quintali di dinamite, il tut-

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to gravato dai noli marittimi, dal pesante pedaggio del canale di Suez, dai prezzi proibitivi imposti dai "pa-droncini" per i trasporti su autocarro.

Osservando, costernato, lo sperpero del denaro pubblico, il ministro degli Scambi e Valute Felice Guarneri scriveva: «Tutta l'economia dell'impero prosperava in un clima artificioso, che traeva alimento unicamente dalla trasfusione di beni e ricchezze che la madrepatria faceva con generosità da gran signora. Era mia pro-fonda convinzione che noi non avremmo potuto durare a lungo nello sforzo». Si rischiava la bancarotta.

Questo immenso sforzo, realizzato, fra l'altro, tutto a detrimento del Sud dell'Italia, i cui problemi, nel clima di esaltazione imperiale, venivano ignorati, non sarebbe servito a nulla. Con l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 1940, l'Africa Orientale Italiana (Aoi) rimaneva isolata dalla madrepatria e risultava accerchiata da territori in gran parte amministrati dalla Gran Bretagna. La difesa dell'Aoi non sarebbe durata che diciassette mesi. Prima ad essere occupata dalle forze alleate era la Somalia, poi l'Eritrea (nonostante l'accanita resisten-za a Cheren) e, per ultima, l'Etiopia. Il mattino del 28 novembre 1941 si arrendevano gli ultimi capisaldi di Ualag, Chercher, Celgà e Gorgorà, nella regione di Gondar. L'impero voluto da Mussolini non esisteva più.

C'erano altri bilanci da stilare. Eravamo andati in Africa per portarvi la civiltà e il benessere, perché questo - si diceva all'epoca - era il "fardello" dell'uomo bianco. Ma, alla resa dei conti, non avevamo portato alcuno sviluppo. Avevamo soltanto adottato una politica di rapina, che consisteva nel riservare ai coloni italiani le migliori terre e nell'impedire la creazione di una classe dirigente africana proibendo ai nativi l'accesso agli studi.

Nel 1950, ad esempio, quando l'Italia ritornava in Somalia con il mandato delle Nazioni Unite di condurla in dieci anni all'indipendenza, sul paese dei somali gravava ancora la più buia notte coloniale. I suoi primati erano tutti negativi. Il tasso di analfabetismo toccava il 99,40 per cento. Nessun somalo era riuscito a diplo-marsi o a laurearsi. Su di una popolazione di 1.242.000 abitanti, soltanto 20mila vivevano in case in muratu-ra, tutti gli altri in baracche, tende, tucul e arich. C'era un medico ogni 60mila anime e 1.254 postiletto nei dieci ospedaletti distribuiti su di un territorio vasto come una volta e mezza l'Italia.

400mila morti

C'era, infine, un ultimo e tragico bilancio da compiere. Qual era il costo della presenza italiana in Africa? Quante vittime avevano mietuto le guerre di conquista, le operazioni di grande polizia coloniale, le azioni di contro guerriglia, il lancio dei gas sulle popolazioni civili? Anche se, in questi casi, le stime sono sempre ne-cessariamente approssimative, si può comunque sostenere che, fra il 1890 e il 1941, sono morti, a causa del-l'espansionismo italiano, circa 400mila fra eritrei, somali, libici ed etiopici. Il paese maggiormente colpito è stato la Libia, con 100mila morti: questi ultimi sicuri, non "approssimativi", schedati uno per uno negli ar-chivi del Libyan Studies Center di Tripoli.

Il cinquanta per cento morti in combattimento, l'altro cinquanta durante la deportazione in massa delle po-polazioni della Marmarica e del Gebel Akhdar e nei tredici campi di concentramento costruiti nell'inferno della Sirtica. Per dare un'idea della decimazione subìta dai libici ricordiamo che, all'epoca, la Libia contava 800 mila abitanti. Come a dire che un libico su otto ha perso la vita a causa della presenza ostile degli italiani.

L'altro paese che ha pagato un prezzo altissimo nei tentativi di difendere la propria indipendenza è l'Etiopia di Hailé Selassiè. Anche se la cifra di 760mila morti, fornita alle Nazioni Unite dalle autorità etiopiche, appa-re decisamente eccessiva, quella di 300mila vittime non è molto lontana dalla realtà.

A questa cifra si arriva sommando i caduti militari e civili durante il conflitto italoetiopico del 1935-36; i pa-trioti uccisi in combattimento o fucilati dopo un processo sommario nei cinque anni della guerriglia; i milita-ri e civili (fra questi ultimi, moltissimi esponenti del clero copto) assassinati in seguito all'attentato a Graziani del 19 febbraio 1937; i confinati deceduti per privazioni ed epidemie nei lager di Danane e di Nocra; i con-tadini morti a causa dei patimenti subiti dopo la distruzione dei loro villaggi e il saccheggio dei loro beni.

Per questi morti e per i danni causati dall'aggressione fascista, l'Etiopia chiese all'Italia un risarcimento di 184 milioni di sterline. Roma chiuse la partita con 6.250.000 sterline. Con altri paesi, come la Libia, fu anco-ra più avara.

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L'Italia poteva tornare in Africa, nel dopoguerra, per riparare i suoi torti e per rifarsi una reputazione. Invece non ha pagato i suoi debiti (o lo ha fatto in maniera insufficiente) e ha destinato male i suoi aiuti, usando una politica non giusta, non riparatrice, non lungimirante. Una politica spicciola, povera di fantasia e di vera solidarietà. Una politica che non ha il senso della storia, che non conserva la memoria del passato.

http://www.pasti.org/delboca2.html 

Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre rimosse in Italia. Anzi, ai respon-sabili si erigono monumenti. Ecco qualche testo per non dimenticare

L'INFAMIA DELLE DEPORTAZIONI

Da: "Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi"di Angelo Del Boca, Laterza, 1991, cap. IV

L'esproprio delle zavie

Proseguendo il riordino organizzativo della colonia e la lotta senza quartiere contro la Senussia, nella prima decade di maggio del 1930 Graziani adotta un altro provvedimento particolarmente severo: il raggruppa-mento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei presidi italiani. Con questa misura presa con-temporaneamente al razionamento dei viveri, il vicegovernatore della Cirenaica confida di disseccare la prin-cipale sorgente che alimenta la ribellione. Ha così inizio la prima, biblica migrazione dai territori dell'altipia-no verso le zone più sicure della costa. Quasi 900 tende Abid vengono riunite nella piana di Barce; 1400 tende Dorsa intorno a Tolmeta; altre 3600 tende, che prima erano sparse sino a el Mechili, vengono rag-gruppate fra Cirene e Derna. Ma non si tratta di un provvedimento definitivo, poiché tanto De Bono che Badoglio hanno in mente una operazione più vasta e radicale, che porti allo sgombero totale del Gebel Achdar. Questa di maggio, dunque, è soltanto la prova generale della deportazione in massa che verrà fatta tra luglio ed agosto.

Si è appena conclusa questa operazione quando Graziani, con il consenso di Badoglio e di Roma, applica una nuova misura: I'esproprio integrale dei beni mobili ed immobili delle zavie senussite. Il provvedimento, già allo studio da un paio di anni, era sempre stato rinviato perché si temeva di turbare la coscienza religiosa delle popolazioni libiche e di commuovere l'opinione pubblica musulmana (1), poiché le zavie erano, prima che organi di propaganda politica e di collegamento tra le popolazioni e i ribelli, centri spirituali ed assisten-ziali. Le ultime perplessità vengono però a cadere nel maggio del 1930 quando lo scontro con la Senussia si fa totale. « Mai il governo italiano si è trovato in vera lotta armata di fronte alla Senussia come lo è attual-mente; - scrive Badoglio a De Bono - mai la Senussia ha fatto appello come ora a tutti i suoi aderenti per averne aiuti materiali e morali al fine di constrastare il nostro dominio; mai è ricorsa a intimidazioni, a mi-nacce, a violenze di ogni genere per sollevarci contro i nostri sudditi. A questa decisa azione di ostilità, è giu-sto e doveroso contrapporre da parte nostra un identico atteggiamento Le mezze misure non giovano a nul-la. Quando si è in guerra, non è lecito avere degli scrupoli e conservare al nemico le proprietà da cui ricava i mezzi per continuare la lotta » (2).

Il 29 maggio reparti di carabinieri invadono simultaneamente le sedi di tutte le zavie (3), traggono in arresto 31 capi zavia e pongono i sigilli sulle proprietà della confraternita. I capi religiosi sono dapprima confinati in un campo nei pressi di Benina; poi, sembrando imprudente mantenerli in Cirenaica, il 28 settembre vengo-no imbarcati sul cacciatorpediniere Stocco ed awiati ad Ustica (4). Nel bando diramato agli indigeni il 2 giu-gno, Graziani spiega i motivi del grave provvedimento e soggiunge: « Da oggi siete tutti liberati dal paga-mento della zacat, anzi chi lo farà ugualmente, sarà considerato reo di tradimento e punito perciò con la morte » (5). Per Omar alMukhtàr il colpo è durissimo. In pochi giorni egli si vede privato prima del sostegno delle popolazioni, poi del supporto delle zavie, che gli fornivano, con le decime, senti di ogni genere ed in-formazioni. Comunque non si abbatte e fa sapere che non concluderà alcuna pace che sia in contrasto con gli interessi della Senussia e che « combatterà sino alla morte » (6).

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Il patrimonio confiscato è enorme. Si tratta di centinaia di case e di quasi 70 mila ettari della miglior terra della Cirenaica. Per fare qualche esempio, la sola zavia di Bengasi ha 8 immobili e 2 mila ettari di orti e giar-dini; quella di Tilimum ha 12 immobili ed una rendita di 15 mila lire annue nette; quella di Marada possiede 11 giardini e 517 palme sparse nell'oasi; quella di Tocra 19 immobili; quella di Mrassas 15 mila ettari (7). Se-condo le stime fatte fare da Graziani il reddito annuo delle zavie, escluse quelle di Giarabub e di Cufra, su-pera le 200 mila lire, gran parte delle quali finivano nelle casse della ribellione. « Considero pertanto la chiu-sura delle zavie - scrive Graziani a Badoglio il 14 giugno - un provvedimento fondamentale per lo stronca-mento della ribellione» (8)

Nel timore, però, che il provvedimento provochi l'indignazione e la collera delle popolazioni musulmane, Graziani chiede a Mohammed er-Ridà di stilare e di divulgare un documento a favore della chiusura delle zavie. Il Senusso, ormai incapace di opporsi alle sempre più frequenti pressioni degli italiani, accetta l'incari-co e dirama un comunicato con il quale sconfessa l'operato dei suoi fratelli Mohammed Idris e Ahmed esh-Sherif, invita i ribelli a sottomettersi « al caro Graziani », che è « un padre compassionevole, clemente, mise-ricordioso e giusto » e soggiunge: « Il sequestro dei beni della Senussia e la loro confisca oggi è un provve-dimento giusto, poiché lo hanno causato i miei fratelli. Essi pertanto sono i responsabili di fronte ai capi della Confraternita per il male che hanno fatto » (9). A favore della misura si schiera anche il direttore del giornale bengasino « Berid Barca », Mohammed Mohesci. L'articolo di questo collaborazionista è quanto di più servile si possa immaginare. Egli definisce le zavie « consolati del nemico » e si meraviglia che siano state chiuse soltanto ora e non nel 1923 dopo la abrogazione degli accordi con la Senussia. « La chiusura di queste zavie - scrive inoltre - mentre sopprime un mezzo non indifferente di connivenza coi ribelli, ritorna a van-taggio della grande maggioranza dei sottomessi in quanto elimina una grave causa che dava luogo all'accusa di connivenza. [...] Non esageriamo dicendo che la parola confisca significa in questo caso liberazione di tali beni religiosi dalle mani degli usurpatori » (10).

Tolte alla ribellione le principali fonti di finanziamento, Graziani decide di sferrare una grande offensiva contro i ribelli, convinto di poter ripetere i successi ottenuti in Tripolitania e di poter mettere una buona volta le mani su Omar al-Mukhtàr. Meditando sul suo passato fortunato e sul fatto che ha piegato ad uno ad uno tutti i capi della guerriglia, Graziani scrive: « Siccome io sono stato seme pre un po' mistico [...], sono stato sempre convinto che questo sia avvenuto non per semplice caso umano, ma per una volontà ed una ispirazione superiore legittimante in me la certezza che i ' capi ribelli sarebbero tutti finiti per le mie mani ' » (11). Con queste convinzioni, il 16 giugno 1930 Graziani lancia quasi tutte le forze presenti in Cirenaica con-tro i duar di Omar che stanziano nella regione del Fayed, a sud di Cirene. Ma ancora una volta Omar riesce a sgusciare tra le truppe del colonnello Spatocco, che attaccano da nord, e quelle del colonnello Maletti, che incalzano da sud. Il rastrellamento dura fino alla fine di giugno, ma senza alcun risultato apprezzabile.

Il 20 giugno, mentre le operazioni nel Fayed sono ancora in corso, Badoglio invia a Graziani una lunga lette-ra con la quale critica duramente l'operato del vicegovernatore e gli impartisce nuove direttive intese ad im-primere una netta svolta alla lotta contro la Senussia. « Ho voluto lasciar compiere a V.E. questo primo ciclo operativo senza un mio diretto intervento, - scrive Badoglio - sia per non intralciare l'opera, sia anche per corrispondere al desiderio di V. E. che mi ha telegrafato di rimandare la mia venuta costì a ciclo operativo chiuso. Ma è mio stretto dovere ora intervenire, perché la responsabilità dell'azione viene direttamente a me, prima di giungere al ministero ».

Chiarito l'ordine delle responsabilità, Badoglio analizza l'azione condotta nel Fayed da Graziani e tutte le operazioni che l'hanno preceduta a partire dal 1923 per giungere a concludere « che le manovre chiamate a largo raggio sono sempre fallite e saranno sempre, finché durano le attuali condizioni, destinate al fallimento ». Due sono le cause essenziali del ricorrente insuccesso: «Il vigilantissimo servizio di protezione e di infor-mazione dei ribelli » e la straordinaria abilità di Omar alMukhtàr, il quale non si lascia mai cogliere da « me-galomania guerriera » e, « da freddo e sereno valutatore delle sue forze e delle conseguenti possibilità, rifiuta il combattimento e disperde le sue forze [...]. Se V.E. esamina la storia di tutte le operazioni, - continua Ba-doglio, calcando non poco la mano - vede che sovente abbiamo preso delle greggi, ma non abbiamo mai inferto colpi severi all'avversario, appunto per la persistenza delle condizioni suaccennate ».

Se dunque la controguerriglia tradizionale non dà alcun frutto, bisogna adottare, precisa Badoglio, altri me-todi, anche se severissimi o addirittura catastrofici per i libici: « Bisogna anzitutto creare un distacco territo-riale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la po-

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polazione della Cirenaica ». Per realizzare il distacco territoriale tra ribelli e sottomessi, prosegue Badoglio, « urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa all'azione diretta contro i ribelli » (12).

Cinque giorni dopo aver scritto questa lettera, che provocherà la deportazione dal Gebel di 100 mila arabi, Badoglio si incontra con Graziani ed insieme concertano le modalità per effettuare l'operazione, che non ha forse precedenti nella storia dell'Africa moderna. Badoglio non è però il solo responsabile di questa infamia (13). Il ministro De Bono sollecitava questa misura estrema da tempo e non ci risulta che Mussolini abbia avuto qualche scrupolo nell'approvarla. Badoglio è soltanto il cervello che ha teorizzato i vantaggi della de-portazione, l'uomo che ha messo in moto l'ingranaggio letale. E' certo, tuttavia, che egli imbocca la via della repressione più spietata dopo che il suo doppio gioco è stato smascherato da Omar al-Mukhtàr. C'è indub-biamente, nella sua scelta di un provvedimento che può condurre, come condurrà, allo sterminio di un po-polo, un fatto personale, un rancore sordo, che spartirà con Graziani. Entrambi non saranno soddisfatti che quando vedranno il corpo del vecchio Omar oscillare appeso alla forca, nella piana di Soluch.

I lager della Sirtica

Il provvedimento di sgombero della Cirenaica non colpisce le popolazioni dell'intero territorio. Ne sono escluse quelle urbanizzate (circa 50 mila persone), quelle stabili intorno ai centri costieri (10-15 mila) e inol-tre quelle delle oasi dell'interno (5-10 mila), le prime perché più fidate, le altre perché facilmente controllabili e comunque lontane dalle regioni dove più viva è la ribellione. Vengono invece deportate tutte le popolazio-ni nomadi e seminomadi, per un complesso di 90-100 mila persone, a seconda delle stime (14). Deciso il 25 giugno, dopo l'incontro a Bengasi tra Badoglio e Graziani, lo sgombero totale dell'altipiano comincia a compiersi due giorni dopo e il 7 luglio, come apprendiamo da un telegramma di Badoglio a De Bono, è in pieno svolgimento senza che Omar al-Mukhtàr vi si possa opporre. Scrive Badoglio: « Gli Auaghir sono tutti riuniti fra Giardina, Soluch e Ghemines. Ho loro parlato assai severamente ieri mattina. Domani sarà ultima-to il concentramento dei Braasa, Darsa e Abid fra Tolmeta e Tocra. Martedì si inizierà lo spostamento degli Abeidat. Questo imponente movimento sarà ultimato verso il 20. [...] La raccolta dell'orzo sull'altipiano sarà terminata con la fine dei movimenti di concentramento, cosicché nessun indigeno dovrà più trovarsi sull'al-tipiano, e chiunque sarà incontrato sarà passato per le armi come ribelle » (15).

Nella stessa giornata del 7 luglio Badoglio emana il foglio d'ordine n. 151 riservato ai comandanti militari e ai funzionari civili della colonia. Con questo documento, che rivela un linguaggio nuovo, più scopertamente brutale, Badoglio informa i suoi collaboratori che la popolazione indigena ha accolto il grave provvedimento « senza alcuna reazione, anzi con supina obbedienza, come con uguale sentimento aveva subito il ritiro delle armi. Essa ha perfettamente compreso che la forza è nelle mani del Governo, non solo, ma che il Governo è deciso a qualsiasi estremo provvedimento pur di ottenere l'esecuzione perfetta degli ordini impartiti ». Dopo aver raccomandato di esercitare la massima vigilanza intorno ai campi di concentramento che si stanno co-stituendo, « giacché ogni minimo allentamento frustra tutta l'efficacia dei provvedimenti in corso e prolunga la ribellione», Badoglio precisa come si dovrà d'ora innanzi combattere l'ultima campagna contro i duar di Omar.

« Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della sparatoria da lontano », scrive Badoglio. L'avversario va agganciato, va aggredito all'arma bianca. E se riesce a sottrarsi all'accerchiamento, va subito organizzato l'inseguimento, che non deve conoscere limiti ed «essere feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia al ribelle nella quale sarà redditizio ogni atto della più sfrenata audacia » (16).

Tra giugno e luglio viene completata l'evacuazione del primo e del secondo gradino del Gebel, il che provo-ca il vuoto intorno ad Omar al-Mukhtàr, ormai costretto a rifornirsi soltanto in Egitto. Un testimone di questo esodo forzato, Federico Ravagli, lo descrive con versi assai modesti, che hanno il solo intento di per-fezionare il mito di Graziani:

 

« D'oltre confine arrivan armi e messisul Gebel, dove la rivolta ha sede;non son le zavie i templi de la fede,non son fedeli e puri i sottomessi.

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Genti, alla costa! », disse: e senza ambagiun'immonda migrò biblica schiera,sottratta a l'odio ai morbi ed ai contagi.

E perché un varco sol non fosse aperto,gettò di ferro un'ispida barrierada Solum a le soglie del deserto (17).

 

Completato il trasferimento delle popolazioni dal Gebel alla costa, Graziani si accorge che il distacco tra sottomessi e ribelli non è però completo. Non è cessato del tutto, infatti, né il pagamento delle decime, né le fughe dai campi degli uomini validi per riempire i vuoti dei duar. D'accordo con Badoglio, Graziani applica allora misure più radicali e, fra queste, il trasferimento dei campi di concentramento nel sudbengasino e nella Sirtica, regioni notoriamente fra le più inospitali. « Il paese di el Magrun - riferisce il giornalista Os. Felici - è sorto sulla terribile piana riarsa, senza una mica d'ombra, appunto per raccogliere i nomadi. Graziani ha pensato che, a cominciare dal luogo, essi debbono avere la sensazione precisa del castigo » (18).

Il materiale documentario sulla deportazione delle popolazioni cirenaiche è assai scarso e quel poco che è finito negli archivi di stato è generalmente reticente. Non c'era, in realtà, da gloriarsi dell'operazione e questo forse spiega la carenza dei documenti. Per cui non siamo in grado di descrivere il calvario di tutte le tribù. Disponiamo soltanto di un'ampia e dettagliata relazione sull'esodo degli Auaghir, grazie alla solerzia del commissario regionale di Bengasi, Egidi. In base a questo rapporto, apprendiamo che il 27 giugno reparti di carabinieri e di ascari eritrei fanno sgomberare i centri di Tocra, di Bersis e di Mebni e ne avviano le popola-zioni verso il campo provvisorio di Driana, che dista una cinquantina di chilometri. Dopo una sosta di qual-che giorno, il 4 luglio gli Auaghir riprendono la marcia scortati dagli ascari. Sono alcune migliaia, in grande maggioranza donne, bambini e vecchi. Al loro seguito 2 mila cammelli, che trasportano le loro povere mas-serizie. In coda alla carovana il bestiame della tribù, circa 6 mila capi, cioè quel poco che si è salvato dalle razzie e dalle controrazzie.

La carovana segue l'itinerario Driana - Sidi Mansur - Benina en-Nauaghia - Hosc el Ghetaan - Ghemines. Forse duecento chilometri, ma per vie impervie ed in regioni semidesertiche. Sin dai primi giorni di marcia, i più vecchi e i più deboli tendono a staccarsi dalla colonna. Ma gli ordini sono severissimi. Si legge nella rela-zione: « Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così draconiano, fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche il bestiame che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di poli-zia che avevano il compito di proteggerlo e di custodirlo » (19).

l percorso fra Driana e Ghemines viene compiuto in dodici giorni. Di questa marcia della morte non sap-piamo altro. Nessuno ha tenuto il computo dei ritardatari abbattuti con una fucilata. Né il commissario re-gionale di Bengasi, né i capi della tribù degli Auaghir. Comunque la dimensione è quella dell'eccidio, come vedremo più avanti quando cercheremo di fare un po' di conti. Ma il calvario non termina a Ghemines. La destinazione finale è Soluch. Altri cento chilometri di deserto, di pene, di cedimenti, di morte. E quando gli Auaghir giungono a destinazione, vengono ammassati in un grande campo circondato da una doppia barrie-ra di filo spinato. Dal quale non usciranno per tre anni.

Non diversi debbono essere stati i trasferimenti delle altre popolazioni. Ma il primato della sofferenza spetta senza alcun dubbio agli Abeidat e ai Marmarici, che in pieno inverno sono costretti a compiere una marcia di 1100 chilometri dalla Marmarica alla Sirtica. Gli Abeidat e i Marmarici erano stati concentrati nel campo di Ain el Gazala, nelle vicinanze di Tobruk. Ma non si erano rassegnati, come gli altri, al loro destino ed ave-vano deciso di defezionare in massa d'accordo con Omar al-Mukhtàr che agiva nei dintorni. Il complotto era stato però scoperto nel dicembre del 1930 e sventato. Per punizione Graziani ordina il trasferimento dei 6500 Abeidat e Marmarici nella Sirtica e sceglie, per la marcia che dura alcuni mesi, la stagione più inclemen-te. «Questo energico provvedimento all'estero fece versare torrenti d'inchiostro e fu condannato come bar-baro - scrive Imerio da Castellanza -. Del resto, riflettendo che le genti della Marmarica sono nomadi, una marcia un po' più lunga non era poi un castigo sproporzionato allo scopo che Graziani voleva ottenere, cioè la pacificazione della colonia» (20).

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Vediamo ora dove sono dislocati i campi di concentramento. Secondo una relazione di Graziani del 2 mag-gio 1931, cioè a trasferimento ultimato, risulta che i lager più importanti sono concentrati nel sudbengasino e nella Sirtica. L'accampamento più grande è quello di Marsa Brega, che raccoglie 21.117 fra Abeidat e Marmarici. Seguono Soluch, con 20.123 Auaghir, Abid, Orfa, Fuacher e Mogàrba; Sidi Ahmed el Magrun, con 13.050 tra Braasa e Dorsa; el Agheila, con 10.900 fra Mogàrba, Marmarici e parenti dei ribelli in armi; Agedabia, con 10 mila persone, di cui non si specifica la tribù; el Abiar, con 3123 Auaghir. Complessivamen-te, dunque, questi sei lager raccolgono 78.313 cirenaici (2l). Ai quali vanno aggiunti i confinati nei campi minori di Derna (145 tende), di Apollonia (1354), di Barce (538), di Driana (225), di Sidi Chalifa (130), di Suani el Terria (100), di enNufilia (375) e i due di Bengasi, Coefia e Guarscia (245). Calcolando quattro per-sone per tenda, si hanno altri 12.448 confinati, che portano il totale generale a 90.761 (22). Ma non è finita. Bisogna tenere conto delle persone abbattute durante le marce di trasferimento e dei morti nei lager, per denutrizione, malattie e tentativi di fuga, nei primi mesi di prigionia. La cifra totale dei deportati sale così a non meno di 100 mila.

Questa cifra rappresenta esattamente la metà degli abitanti della Cirenaica, se teniamo per buono il censi-mento turco del 1911, che dava una popolazione di 198.300 anime (23). Se si considera che altri 20 mila ci-renaici hanno lasciato il paese per rifugiarsi in Egitto, si deve calcolare che soltanto poche decine di migliaia di persone non hanno conosciuto i rigori della deportazione e della detenzione. Rigori che provocano un numero altissimo di decessi. Dalla già citata relazione del commissario regionale di Bengasi, Egidi, appren-diamo infatti che i reclusi del campo di Soluch scendono, in poco più di un anno, da 20.123 a 15.830, e quel-li di Sidi Ahmed el Magrun da 13.050 a 10.197 (24). Quando le autorità italiane compiono il 21 aprile 1931 il primo vero censimento, condotto con tecniche moderne, scoprono che gli indigeni sono soltanto 142 mila. In venti anni, in altre parole, la popolazione ddla Cirenaica è diminuita di circa 60 mila unità: 20 mila per l'esodo verso l'Egitto, 40 mila per i rigori della guerra, della deportazione e della prigionia nei lager. In nes-sun'altra colonia italiana la repressione ha assunto, come in Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un auten-tico genocidio (25).

Entriamo ora in uno dei lager, quello di Sidi Ahmed el Magrun, ed ascoltiamo ciò che ci riferisce un giorna-lista fascista, Os. Felici, certo non sospetto di simpatia per i reclusi. «Il campo ha la forma di castrum roma-no - scrive -. Ogni lato misura milleduecento metri. Dentro, vi sono otto quadrati, disposti in maniera che, davanti ad ogni gruppo di due di essi, vi è altrettanto spazio libero da poter ospitare gli animali. Ogni qua-drato conta da quindici a venti file. Tutto è numerato e specificato. Si sa così quali genti ospitino i quadrati, divisi l'uno dall'altro da ampie strade, e le file. Vi è il capo del campo, vi sono i capi quadrato, vi sono i capi fila. Tutti, si badi bene, indigeni » (26).

I tredicimila reclusi di Sidi Ahmed el Magrun vivono in tende, come, del resto, gli abitanti di tutti gli altri campi. «Che cosa siano le tende non è possibile dire - scrive Os. Felici -. Le vele marinaresche più provate e rabberciate non avrebbero nulla da invidiare. Le pezze di Arlecchino sono infinitamente minori delle pezze che la donna beduina s'industria ad applicare a queste case del deserto»(27). Descritte le abitazioni, Felici si chiede: «Come mangia tutta questa gente? Parte di essa è tesserata. E la tessera dà diritto a ritirare ogni dieci giorni tanto orzo in ragione di mezzo chilo a testa»(28). Con razioni così scarse non si vive. E poiché il go-verno della Cirenaica non intende sobbarcarsi il mantenimento dei reclusi, gli uomini validi vengono impie-gati nella costruzione di strade e le donne nella coltivazione di alcuni orti sorti nelle vicinanze dei lager. Altri confinati badano al bestiame e si muovono scortati da reparti di ascari o di carabinieri.

Anche negli altri campi le condizioni economiche delle popolazioni sono poverissime ed ogni giorno si combatte per la sopravvivenza. Di questo diffuso malessere c'è traccia anche nelle relazioni governative, an-che se esse, come è ovvio, tendono a celare le vere dimensioni del dramma. Scrive, ad esempio, il commissa-rio regionale di Bengasi: «Le condizioni economiche della popolazione di Soluch non sono troppo floride: il predonaggio con le sue razzie ridusse sensibilmente l'ingente numero di bestiame che, specie gli Abid e gli Orfa, avevano. L'allontanamento dalle loro terre, tanto opportuno e necessario per la sicurezza del territorio, ha contribuito, sia pure in misura tenue, a peggiorare le condizioni»(29). Ben più crudeli ed amare sono le testimonianze dei sopravvissuti. «Ci davano poco da mangiare - riferisce Reth Belgassem -. Dovevamo cer-care di sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare»(30). «Ri-cordo la miseria e le botte - racconta a sua volta Mohammed Bechir Seium -. Ogni giorno qualcuno si pren-deva la sua razione di botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo duecento grammi, che doveva bastare per tutto il giorno»(31).

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Pessime anche le condizioni sanitarie dei lager. A Soluch, per ventimila internati, c'è soltanto un medico, il quale, per giunta, deve anche badare ai tredicimila reclusi del campo di Sidi Ahmed el Magrun. A Marsa Brega, dove sono confinati ventunomila cirenaici, «il servizio sanitario — confessa lo stesso Graziani — è attualmente disimpegnato da un sezione fissa di sanità, che lavora sotto il controllo del medico di Agheilat, che si reca a Marsa Brega un paio di volte per settimana»(32). Una vaccinazione antivaiolosa di massa riesce a bloccare questo flagello, ma non altre epidemie. Nel marzo del 1933 il commissario regionale di Bengasi, Egidi, avverte Graziani che a Soluch si sta diffondendo il tifo: «A me e al signor direttore di sanità sembra che il periodo di attesa caldeggiato da codesta direzione sia superato: il tifo petecchiale esiste e si estende. Prego codesta onorevole direzione di volermi fornire le istruzioni ed i mezzi necessari per fronteggiare l'epidemia»(33).

Non bastassero la fame e le epidemie, nei campi i guardiani esercitano ogni sorta di violenze. Racconta Reth Belgassem, recluso ad el Agheila: «Le nostre donne dovevano tenere un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori rischiavano di essere prese dagli etiopi (34) o dagli italiani. Non la-sciavamo mai sole le nostre donne. Le tenevamo chiuse tutto il tempo anche se l'odio dei guardiani era quasi tutto rivolto agli uomini» (35). Un tentativo di fuga, un atto di ribellione, il rientro tardivo nei campi sono quasi sempre puniti con la morte. «Le esecuzioni avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare - riferisce Reth Belgassem -. Ci costringe-vano a guardare mentre morivano i nostri fratelli»(36). «Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta cada-veri - racconta Salem Omran Abu Shabur -. Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che mo-rivano di fame o di malattia»(37).

Di questa tragica realtà poco trapela in Italia, dove, del resto, si hanno scarse notizie anche sulla guerra libi-ca, che si trascina, dimenticata, da vent'anni. E quel poco che trapela passa attraverso il filtro severo della censura o viene deformato dagli organi della propaganda. Così, per «L'Oltremare», il campo di Soluch è una specie di paradiso dove fioriscono l'ordine e una disciplina perfetti» e dove «regna ovunque l'igiene e la puli-zia»(38). Anche per Giuseppe Bedendo, il cantore delle gesta di Graziani, i lager sono istituzioni benefiche, per le quali il vicegovernatore non ha proprio nulla da vergognarsi, al contrario:

 

Jè dette da magna, tutto jè dette,medichi, medicine, garze, benne,jè dette stoffe pè fasse le tennee jè spedì financo le ricette.

Era concentramento, era galera?Quello ch'à fatto, no, nun era abbuso! (39).

 

E pazienza che questi giudizi vengano espressi durante il fascismo. Ma anche dopo il crollo della dittatura c'è chi, come il generale Canevari, scrive: «Noi non abbiamo mai creato 'campi di concentramento ' in Cirenai-ca, ma solo delle ' riserve ' in campi splendidamente sistemati e forniti di tutto il necessario, dalle tende di lana di cammello nuove agli impianti igienici, ai servizi idrici, ecc. In tal modo il governo italiano sottraeva i ' sottomessi ' al tremendo dilemma: o rifornire i ribelli o cadere sotto le loro vendette, e perciò li salvava an-che dalle conseguenze dei loro atti. [...] Dopo la permanenza negli accampamenti preparati da Graziani, le popolazioni della Cirenaica tornarono alle loro terre di coltivazione e di pascolo rinnovate dalla scienza e dalla scuola»(40).

Le scuole e i collegi per i bambini abbandonati sono appunto indicati dalla storiografia fascista come un in-negabile titolo di merito. Nel collegio di Soluch, ad esempio, sono stati raccolti 375 ragazzi e 125 ragazze. Secondo il commissario Egidi, essi fruiscono di un «vitto speciale », costituito da tè e pane al mattino; una minestra a mezzogiorno e un pezzo di pane alla sera; due volte alla settimana un pezzo di carne (41). E' po-chissimo, ma è sempre di più di quello che ottengono gli adulti nei campi. Inoltre i maschi ricevono lezioni pratiche di agricoltura, mentre le ragazze seguono corsi di taglio e cucito. «Come marciano e sfilano! — os-serva Os. Felici in visita al collegio — E come i loro esercizi sono perfetti! Perfetti tanto, da parere quasi meccanici. Nel saluto, nell'andatura, essi hanno un non so che di lievemente caricaturale, come se, più dello spirito, fossero persuasi della forma di ciò che imparano. Ma quale materia di soldati non è in questi ragaz-

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zi?»(42). Ce n'è molta, infatti. Graziani è il primo ad accorgersene. E subito moltiplica questi collegi sino a costituirne una dozzina, con 2800 elementi. E saranno i migliori serbatoi di volontari per i battaglioni libici in via di ricostituzione.

Orfani di ribelli, segregati in collegicaserme agli ordini di severissimi sottufficiali dell'esercito italiano, in po-chi anni essi perdono ogni legame affettivo e culturale con il Gebel che li ha generati. Come pazze marionet-te, essi si esibiscono in perfetti esercizi ginnici davanti alle autorità e cantano, tra gli altri inni del regime, due preghiere, I'una dedicata al re, l'altra al duce. La prima dice: «Il nostro Re si chiama Vittorio Emanuele. E' chiamato anche il Re Vittorioso, perché egli è il capo dell'Esercito che ha vinto i nemici d'Italia. Egli è molto sapiente, coraggioso, buono. Durante la grande guerra egli fu alla fronte con i suoi soldati e non ebbe mai paura. Egli vuole bene al suo popolo, lo aiuta nei suoi bisogni e lo consola nelle sue sventure. Emanuele vuol dire 'mandato da Dio' e il nostro Re venne proprio mandato da Dio per far grande l'Italia ». Quella de-dicata al duce, dice: «S. E. Mussolini è il grande Capo, il nostro Duce. Duce è chi guida, chi va avanti per insegnare la strada buona. [...] Ha dato a noi la coscienza del nostro destino, l'orgoglio di essere figli d'Italia. Signore, noi ti preghiamo, proteggilo tu!»(43).

Ancora ieri seguivano trotterellando il cavallo del padre ribelle tra le forre e le foreste del Gebel. Oggi, di colpo, sono diventati figli d'Italia. E sembrano orgogliosi di esserlo. Di pregare devotamente per il Re e il Duce. Di essere uguali, o quasi, agli altri ragazzi della penisola, che cantano le stesse canzoni, che pregano per gli stessi semidei. Hanno tra i 9 e i 15 anni. Quasi nessuno è stato alla scuola coranica. Sono lavagne pu-lite sulle quali si può scrivere di tutto. Di lì a quattro anni, sufficientemente indottrinati, i più grandicelli sce-glieranno con gioia la carriera militare e finiranno in Etiopia, con la divisione Libia. Saranno delle perfette macchine da combattimento. Dei perfetti galli assassini. Da Gianagobò a Dagahbur non faranno un solo prigioniero (44). Mentre i ragazzi imparano ad uccidere, gli adulti, nei campi, ricevono, con il sussidio di mi-nacce e di botte, un solo insegnamento: quello di sollevare il braccio nel saluto romano. E lo fanno di conti-nuo, come tanti automi. Os. Felici ne è tanto meravigliato e sconvolto, che scrive: «Saluti, saluti. E' tutto un sollevamento di braccia nell'atto del saluto romano. Non ho mai veduto tanti, tanti saluti. Chi siede, si alza e saluta. Ora che scrivo, ho dinanzi agli occhi come una selva di braccia levate, tutte protese nel saluto roma-no»(45).

Dopo aver costruito questo universo concentrazionario, che Marie Edith De Bonneuil definisce «visione da incubo» (46), nonostante la sua sconfinata ammirazione per il fascismo, Graziani si accorge che, malgrado le misure radicali che ha adottato, Omar al-Mukhtàr continua a ricevere le decime, seppure in misura minore. La sua attenzione si appunta perciò sui notabili della Cirenaica sospetti di conservare legami con la Senussia e il 6 novembre 1930 ordina l'arresto di 120 capi e il loro internamento nel campo di Benina. Nel comunica-re a Badoglio la sua decisione, Graziani dice: «Le popolazioni potranno così essere realmente governate sen-za capi e con la diretta influenza dei commissari, a fianco dei quali saranno messi dei mudir, che cercherò di trovare tra i vecchi sciumbasci dei battaglioni libici e zaptiè»(47).

Qualche mese dopo, nel maggio del 1931, a repressione quasi ultimata, Graziani rivela tutta la sua soddisfa-zione in un documento riservato al ministro De Bono. «I campi sono ormai sulla via della definitiva siste-mazione, — scrive — e mentre assicurano l'eliminazione della connivenza dei sottomessi con i ribelli, pre-parano per il prossimo domani una popolazione più docile ed abituata al lavoro, che sicuramente si attacche-rà per ragioni di interesse ai nuovi territori nei quali è stata trasferita, perdendo l'abitudine al nomadismo e acquistando i gusti e le esigenze delle popolazioni sedentarie, sulle quali necessariamente deve fondarsi e svilupparsi il programma di pacificazione e valorizzazione della Cirenaica»(48). La reclusione nei campi du-rerà mediamente tre anni. Gli ultimi lager saranno sciolti nel settembre del 1933. Dei centomila che erano partiti dal Gebel, ne torneranno a casa sessantamila. Forse di meno.

Si va a Cufra

La creazione dei campi di concentramento e la loro dislocazione lontano dal Gebel, due fatti che provocano la cessazione del finanziamento locale della ribellione, pongono Omar al-Mukhtàr in una situazione di estrema difficoltà. A partire dal luglio del 1930 sempre più frequenti sono infatti i suoi appelli a Mohammed Idris ed ai fuorusciti libici che vivono in Egitto. Ma il loro aiuto è scarso e comunque insufficiente a mante-nere in armi i duar di Omar, anche se i loro effettivi sono stati drasticamente ridotti. Il colonnello Nasi li valuta, in questo periodo, tra i 500 e i 600, e soggiunge: «Il profano, o comunque l'osservatore superficiale, non può non chiedersi come mai 13 mila uomini non riescano, in quattro e quattr'otto, a farne fuori 500. A questa semplicistica domanda conviene rispondere altrettanto semplicemente: appunto perché sono solo

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500 ribelli, dispersi, però, in un territorio grande due volte l'Italia. [ ... ] Il nemico principale non è qui il ri-belle, è l'immensità del territorio, la mancanza di strade. In taluni scacchieri la sete: ecco il solo, grande ne-mico»(49).

Colpita alla radice, l'organizzazione ribelle deve modificare la propria struttura e la propria tattica. Omar è infatti costretto a frazionare i duar, a spostarli di continuo, a tenere le sue forze in potenza senza mai impe-gnarle seriamente. Come giustamente fa osservare Nasi, da tempo Omar ha abbandonato la speranza di po-ter ricacciare gli italiani alla costa e non intende altro che «dimostrare al mondo che è capace di mantenere in Cirenaica uno stato di brigantaggio per il quale la vita normale non è possibile e confida che noi si debba, ancora una volta, scendere a patti» (50). A rendergli la vita difficile da luglio Graziani gli mette alle calcagna Giuseppe Malta, uno dei giovani colonnelli che più si sono distinti nella controguerriglia in Tripolitania. Af-fiancato dai tenenti colonnelli Piatti e Marone, dai maggiori Lorenzini e Ragazzi e dall'ex capitano turco Akif Msek, Malta non dà tregua ai ribelli per tutta l'estate e l'autunno del 1930, battendoli l'8 ottobre all'uadi es-Sània, qualche giorno dopo a Bir Zeitun e il 2 novembre a Caf el Telem (51).

Le perdite dei ribelli in questi scontri, un centinaio, non sono altissime, ma oramai non ci sono più a portata di mano i sottomessi a fornire i rimpiazzi. Per rincuorare i suoi uomini, Omar fa circolare la notizia che i Sef en-Nasser sono in arrivo da Cufra con 500 uomini. Ma a questa storia non crede nessuno. Omar è irrime-diabilmente solo, con la sua fede, la sua ostinazione, i suoi duar che ogni giorno che passa si vanno assotti-gliando. Badoglio aveva previsto questa lenta agonia e il 9 settembre 1930 invia a Graziani questo caloroso plauso: «Dal rapporto settimanale vedo che la caccia ai beduini continua con risultati notevoli e che i rifor-nimenti dal confine si fanno sempre più difficili (52). La linea, dunque, è quella buona. Occorre che tutti si convincano che la nostra divisa è attualmente: ' non mollare '. Sarà questione di tempo, ma questa volta la ribellione si esaurirà. Bravo Graziani, continui!» (53).

Mentre Graziani non dà tregua ad Omar al-Mukhtàr, Abd el Gelil Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, che si sono rifugiati nell'oasi di Taizerbo, cercano di dare una mano ad Omar compiendo frequenti scorrerie nel sudcirenaico tra la Sirtica e le oasi di Gialo. L'11 giugno, ad esempio, una quarantina di Mogàrba e di Zueia, comandati dal figlio di Saleh el Atèusc, si impadronisce a Sneiah Hamed di 200 cammelli. Il 3 luglio, a Udeiat el Hod, una ventina di Mogàrba al comando di Abd Rabba el Goder compie una nuova razzia. Ma sono missioni suicide, perché sulle oasi di Gialo veglia il colonnello Maletti, che si è creato una fama per i suoi inseguimenti celeri ed implacabili. Comunque Graziani non sopporta neppure questi colpi di spillo e medita subito un'adeguata rappresaglia.

Come obiettivo sceglie Taizerbo, una grande oasi a 250 chilometri a nordovest di Cufra, dove è convinto si siano concentrati tutti i ribelli fuggiti dalla Tripolitania. I1 31 luglio quattro apparecchi Romeo, al comando del tenente colonnello Roberto Lordi, partono da Gialo e puntano sulla lontana Taizerbo. Giunti sull'oasi, che comprende una decina di nuclei abitati, gli aerei lasciano cadere il loro carico, costituito da 24 bombe da 21 chili ad iprite, da 12 bombe da 12 chili con esplosivo e da 320 bombe da 2 chili. La stampa italiana dà molto rilievo al micidiale bombardamento (54), ma tace, ancora una volta, sull'impiego dei gas, che hanno causato nell'oasi morti ed un indescrivibile panico.

Sugli effetti del bombardamento abbiamo la testimonianza di un libico raccolta il 13 novembre 1930 dal comandante della tenenza dei carabinieri di el Agheila, Vincenzo Cassone, ed inviata a Roma dal tenente colonnello Lordi. Essa dice: «Come da incarico avuto dal signor comandante l'aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed bu Ali, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento effettuato a Taizerbo. Il predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombar-damento e seppe che quali conseguenze immediate vi furono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva cosi la carne viva priva di pelle, piagata»(55).

In seguito al bombardamento, Abd el Gelli Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, con i loro uomini, si ritirano su Cufra, decisi a giocare nell'oasi la loro ultima carta prima di sconfinare in Egitto. Ma anche per Cufra i giorni sono contati. Già il 16 maggio Badoglio aveva scritto a De Bono: «Cufra sta diventando il centro di raccolta di tutto il fuoruscitismo libico. Essa inoltre resta ancora a segnare il dominio temporale della Senussia in casa nostra. Più si ritarda l'occupazione e più la situazione diventerà grave. Io rivolgo viva preghiera a V. E. affinché voglia insistere presso il Capo del Governo per avere lo stanziamento occorrente. Occorrono sei

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milioni. Quando si pensi a quello che è costata l'occupazione di Giarabub, si deve concludere che la mia richiesta è molto parsimoniosa» (56).

In attesa del finanziamento, Graziani fa bombardare anche Cufra. Il 26 agosto quattro Romeo si portano infatti sul grande arcipelago di oasi e, come riferisce Graziani, «due apparecchi bombardarono el Giof, altri due et-Tat, producendo visibilissimo effetto. Molte case crollarono. Fu lanciata oltre mezza tonnellata di esplosivo. Successive informazioni dettero che le perdite subite dalla popolazione non furono gravi, ma il panico invase tutti, compresi i capi, i quali capirono come il cerchio si incominciasse a stringere intorno a loro» (57). Un paio di settimane dopo, il 9 settembre, De Bono torna alla carica con Mussolini per ottenere i sei milioni necessari all'impresa e così giustifica la richiesta: «Cufra ha assunto, in questo momento, una par-ticolare importanza quale vero e proprio centro dei traffici che mantengono in vita la ribellione in Cirenaica. A Cufra, poi, risiedono, e naturalmente operano, esponenti importanti non soltanto del senussismo cirenai-co, ma anche dell'ormai stroncata ribellione tripolitana. [...] Chiedo pertanto a V. E. il consenso per eseguire questa operazione militare, che non presenta rischi e difficoltà, se non dal punto di vista logistico, ma che ha importanza notevolissima per la soluzione dell'annosa questione cirenaica» (58).

Qualche giorno dopo Mussolini accorda il suo consenso e subito ha inizio la preparazione dell'impresa, che dura cento giorni e viene affidata al generale Ronchetti, al quale tocca risolvere un problema logistico mai prima di allora affrontato nel deserto. Per rifornire le tre colonne che convergeranno su Cufra egli deve provvedere al trasporto, con autocarri e cammelli, di ben 20 mila quintali tra viveri, carburanti, lubrificanti, munizioni e materiali vari. La prima operazione che Ronchetti deve compiere, intanto, è quella di riconosce-re il terreno. Egli fa perciò compiere alcune ricognizioni dell'itinerario Gialo - Bir Zighen e del percorso Uau el Chebir - Uau en-Hamus - Taizerbo. In base ai dati raccolti, si accerta che la colonna principale, che partirà da Agedabia, avrà davanti a sé un terreno facile, camionabile, per 640 chilometri, fino ai pozzi di Bir Zighen. Gli ultimi 180 chilometri, invece, presentano maggiori difficoltà perché al piatto serir si sostituisce una bar-riera di dune mobili. Anche le altre due colonne, che partono rispettivamente da Zella e da Uau el Chebir, dovranno compiere un percorso difficile, ma comunque praticabile. A preparazione ultimata, il corpo di spedizione risulta composto da 654 nazionali (ufficiali, sottufficiali e truppa) e da 3321 ascari, con 378 au-tomezzi, una sezione di autoblindate, 7 mila cammelli, 3 cannoni, 70 mitragliatrici e 25 aerei da ricognizione e da bombardamento. Una forza almeno dieci volte superiore a quella dell'avversario.

A Cufra, intanto, si attende con comprensibile inquietudine l'imminente attacco italiano. La preoccupazione è tanto più viva in quanto nella città santa del senussismo non c'è la concordia. Scems ed-Din, che fa parte della famiglia senussita essendo figlio di Ali el Chattabi, è contrario alla resistenza e vorrebbe andarsene in Egitto con tutta la popolazione delle oasi. Contrari a questa decisione sono invece il capo locale degli Zueia, Abd el Hamid bu Matari, i capi dei Mogàrba Saleh el Atèusc e Rhmed bu Sceaeb e il capo degli Ulad SuIei-man Abd el Gelil Sef en-Nasser. Insieme essi possono disporre di una mehalla forte di 600 uomini, con una buona dotazione di armi moderne ed un abbondante munizionamento. Essi sono perciò decisi di dare com-battimento agli italiani alle porte di Cufra, contando sul loro affaticamento dopo il difficile percorso fra le dune mobili. A rinfrancarli nella loro determinazione, in dicembre giunge a Cufra un messo latore di una lettera di Ahmed esh-Sherìf con la quale egli investe dei pieni poteri Saleh el Atèusc e Abd el Gelil Sef en-Nasser. Questo intervento dell'ex Gran Senusso tronca il di verbio. Scems ed-Din, con alcuni ikhuàn, pren-de la strada dell'Egitto. Gli altri capi si preparano a resistere sbarrando le strade di accesso a Cufra (59).

Il 20 dicembre 1930 la colonna principale del corpo di spedizione, che comprende i reparti del tenente co-lonnello Maletti e dei maggiori Lorenzini e Rolle, lascia Agedabia per Gialo, dove giunge, a scaglioni, tra il 22 e il 27. Una furiosa tempesta di sabbia, che danneggia autocarri e autoblinde, provoca un ritardo di tre giorni, cosicché la colonna non sarà pronta a ripartire, dopo la revisione delle macchine, che il 31 dicembre. II 9 gennaio è ai pozzi di Bir Zighen, mentre le colonne secondarie, partite da Zella e da Uau el Chebir, rag-giungono Taizerbo I'11 gennaio. Commentando questo secondo sbalzo, Graziani può con orgoglio sostene-re che il corpo di spedizione «in 10 giorni attraversò, con marcia ammirevole per regolarità e disciplina, i 400 km di desolato serir che separano Gialo da Bir Zighen senza lasciare indietro, nel lungo e non facile percor-so, né un uomo, né una macchina. La perdita si ridusse ad un centinaio di cammelli» (60).

Il 12 gennaio 1931 Graziani si trasferisce in volo da Bengasi a Bir Zighen per assumere l'effettiva direzione delle operazioni nella fase conclusiva dell'impresa. Due giorni dopo viene ripresa l'avanzata verso sud. La colonna Maletti, partita da Bir Zighen, e la colonna Campini, che si è mossa da Taizerbo, marciano su itine-rari mano a mano convergenti e vengono mantenute in contatto dagli aerei. AlI'alba del 19 gennaio, mentre sono in vista delle prime oasi di Cufra, il loro distacco è quasi annullato. Qualche ora dopo, verso le 10, uno

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degli aerei in servizio di collegamento avvista la mehalla ribelle, che si è attestata sul margine settentrionale dell'oasi di el Hauuari, arroccandosi su alcune colline.

II combattimento si accende subito furioso. Maletti cerca di prendere la mehalla tra due fuochi. I ribelli, dal canto loro, applicando la loro tattica tradizionale, si aprono a ventaglio e cercano di avvolgere le ali dello schieramento avversario. Ma troppo grande è la sproporzione tra le forze in campo. Dopo due ore di aspri combattimenti i ribelli sono costretti a cedere e si ritirano prima nell'oasi di el Hauuari, dove tentano ancora una breve resistenza, poi verso le oasi maggiori di et-Tag e di el Giof. Ma oramai la loro è una fuga disordi-nata che, come vedremo, non si arresterà che in Egitto o nel Tibesti. Sul terreno hanno lasciato un centinaio di morti, tra i quali il capo degli Zueia, Abd el Hamid bu Matari. Da parte italiana, due ufficiali e due ascari morti e 16 feriti (61).

Subito dopo ha inizio l'inseguimento dei ribelli, sia da parte di reparti cammellati che dell'aviazione. In que-sto implacabile inseguimento, condotto per giorni e giorni e in tutte le direzioni, poiché i ribelli e le loro fa-miglie si sono frazionati, si completa la strage dei difensori di Cufra. Graziani parla di altri 100 uccisi, di 14 passati per le armi e di 250 prigionieri, compresi le donne e i bambini. Ma il bilancio complessivo è molto più alto. Micidiale, come sempre, l'aviazione, che parte alla caccia con 25 apparecchi. Scrive uno dei piloti, Vincenzo Biani: «Partiti all'alba da Bir Zighen, gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono, finché giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto dato che il bersaglio è estremamente diluito, ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e li abbattono. [...] II gioco continua per tutta la giornata; il giorno dopo si ripete; il terzo giorno anche; tutte le possibili vie di ritirata sono esplorate e battute fino alla distanza di trecento chilometri, fino a quando cioè si può avvistare l'ultimo fuggiasco. Le carovaniere della sperata salvezza diventano un cimitero di morti abbandonati, che nessuno penserà mai a sotterrare» (62).

Mentre Graziani e Badoglio (giunto in volo da Tripoli) festeggiano a Cufra il loro successo (63), gli scampati al combattimento di el Hauuari e al successivo inseguimento si dirigono in gran parte verso il confine egi-ziano, gli altri verso il Tibesti e il Borcu. Saleh el Atèusc, con i suoi uomini e le loro famiglie, raggiunge el Auenat, l'ultima oasi con buona acqua in territorio libico, e più tardi i pozzi di el Merga. Da questo momen-to, mal consigliato da una guida infida, Saleh el Atèusc, con la sua gente, sbaglia cammino e comincia ad er-rare nel deserto alla disperata ricerca di acqua e di cibo. Vaga per 70 giorni cercando invano l'accampamento di nomadi che gli era stato segnalato. «Nel frattempo — racconta — macellavamo i pochi cammelli rimastici per estrarre dalla loro vescica quel poco di liquido che vi si trovava, liquido che distribuivamo ai più assetati per salvarli da una morte sicura. Ben 170 persone hanno trovato la morte per la sete ed i superstiti sarebbero certamente morti se la provvidenza non ci avesse assistiti nell'avviarci in una località dove trovammo un sac-co di farina, uno di zucchero e the» (64).

Avvistati finalmente da una pattuglia di soldati inglesi, i ribelli vengono disarmati e avviati al posto di fron-tiera di Bu Mungar. In seguito vengono trasferiti in autocarro, su loro richiesta, nella valle del Mio, a el Minya, dove si accampano nella proprietà di Ali bey el Masti, grande protettore dei libici fuorusciti. «Dal nostro arrivo in questa località, — riferisce ancora Saleh el Atèusc — altre 17 persone hanno trovato la morte per forti diarree provocate indubbiamente dall'abbondanza del vitto consumato dopo un così lungo periodo di completa privazione» (65). Meno tragica, invece, la peregrinazione di Abd el Gelil Sef en-Nasser e della sua gente. Anch'essi toccano i pozzi di el Auenat e di el Merga e poi si perdono nel deserto al confine tra l'Egitto e il Sudan. Ma il loro incubo dura poco, perché vengono subito rintracciati dalle pattuglie an-glo-egiziane ed avviati anch'essi a el Minya (66).

La notizia che la città santa di Cufra è caduta nelle mani di Graziani e che i suoi difensori sono stati in gran parte massacrati riempie di dolore e di sdegno le popolazioni del mondo islamico. Il 9 febbraio 1931 il gran-de quotidiano del Cairo «AlAhràm» pubblica un articolo dal titolo I martiri della fede, nel quale si afferma, tra l'altro: «Il bilancio italiano sarà forse arricchito dal denaro che produrranno i beni confiscati ai senussiti, ma l'onore conta più del denaro ed è più caro dei propri figli» (67). «La Nation Arabe», dal canto suo, scrive: «Noi chiediamo ai signori italiani [...], i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appar-tenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante: ' Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà? ' Nei tempi moderni non sono consentiti questi metodi medioevali e certo essi non rialzeranno il prestigio del fascismo e dell'Italia agli occhi del mondo» (68).

In Cirenaica l'occupazione di Cufra produce un'impressione ancora più profonda. Lo stesso Graziani am-mette che «gli indigeni l'hanno vista con animo addolorato per il carattere squisitamente mistico che quel-

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l'oasi conservava». Graziani avanza anche l'ipotesi che la perdita di Cufra «potrebbe rinfocolare anziché af-fievolire lo spirito religioso che infiamma i combattenti del Gebel, tesi in un'ultima volontà di resistenza pur di mantenere alto il simbolo senussita». Egli è anche convinto che ora gli aiuti dall'Egitto si riverseranno in misura maggiore sul Gebel, proprio per mantenere viva la rivolta nell'ultimo lembo di Cirenaica libera. E conclude il suo dispaccio a Badoglio dicendo: «Mi compete perciò il dovere di reagire subito a qualsiasi sen-so di ottimismo possa ingenerarsi nei riguardi delle conseguenze della recente occupazione che, a mio pare-re, rimarranno circoscritte ad un fatto locale, se pur di indubbio valore morale» (69).

NOTE

(1) Il primo cenno all'esproprio delle zavie è contenuto in una lettera di Federzoni a Teruzzi del 15 giugno 1928. Il ministro chiedeva al governatore di presentargli un progetto per l'indemaniamento dei beni delle zavie e lo pregava di «togliere all'indemaniamento il carattere di provvedimento preso in odio alla religione» (ASMAI, Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 5179). Di studiare il problema veniva dato l'incarico al capo del-l'Ufficio fondiario, il giudice Adolfo Fantoni. Si vedano i suoi rapporti: Relazione e schema di decreto circa l'acquisizione delle terre al patrimonio della colonia al fine della colonizzazione, Bengasi, 28 novembre 1928, n. prof. 1019; La natura giuridica degli auqaf delle zavie senussite della Cirenaica, Bengasi, 11 agosto 1930, n. prof. 8825 (in DLPA).

2 ASMAI, Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 10891 del 19 agosto 1930.

3 Fatta eccezione per la zavia di Giarabub, poiché la località era riconosciuta luogo santo anche da molti musulmani che non aderivano alla setta della Senussia. Le zavie erano 49, così distribuite: 3 nella zona di Bengasi, 2 a el Abiar, 2 a Soluch, 8 a Barce, 6 ad Agedabia, 7 a Cirene, 11 a Derna 4 a Tobruk, 1 a Giarabub e 5 a Cufra.

4 Insieme ai capi zavia fu confinato anche Hassan erRidà, sulla cui fedeltà Graziani nutriva molti dubbi (ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 25. Tel. 2968 del 17 agosto 1930).

5 Cit. in R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 126.

6 ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 29. Graziani a Badoglio, tel. 2055 del 5 giugno 1930.

7 Ivi, pos. 150/7, f. 15. Fernando Valenzi, Relazione sull'accertamento del patrimonio delle zavie senussite in Cirenaica, 14 aprile 1931.

8 Ivi, pos. 150/8, f. 25. Lettera n. 2230.

9 Ivi, pos. 150/7, f. 16. Allegato ad una lettera di Graziani a Badoglio, n. 2143, del 7 giugno 1930.

10 Ibidem. L'incarico di predisporre l'accertamento del patrimonio delle zavie e il loro assorbimento da par-te del demanio della colonia fu affidato al consigliere di Corte d'Appello Fernando Valenzi.

11 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 149.

12 ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2.

13 Il 1° luglio 1930 Badoglio inviava a De Bono una lunga relazione con la quale lo metteva al corrente delle decisioni che aveva preso riguardo la deportazione degli indigeni. In questo documento, che ripete ed amplia le considerazioni fatte nella lettera a Graziani del 20 giugno, Badoglio, tra l'altro, tracciava un ritratto di Omar al-Mukhtàr particolarmente positivo: «La ribellione si impernia su di un uomo che gode di un'autorità e di un prestigio assoluti. Omar al-Mukhtàr non divide il suo potere con alcuno. Ha solo luogotenenti devoti e disciplinati. Non è quindi possibile adoperare il solito sistema di incunearsi tra le gelosie, le rivalità, gli odi, che sempre esistono quando vi sono capi diversi. In tutti i momenti ed in ogni circostanza la sola sua ferma volontà detta legge. E' abilissimo come comandante e come organizzatore (ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2).

14 Per un accurato studio sulle deportazioni e la vita nei lager, si veda G. Rochat, La repressione della resi-stenza in Cirenaica, cit., pp. 15589.

15 ASMAI, Libia, pos. 150/21, f. 90. Tel. 146, riservatissirno personale.

16 Ivi, pos. 150/22, f. 98.

17 F. Ravagli, Alba d'impero, cit., p. 59.

18 Os, Felici, Terra nostra di Cirenaica, Sindacato italiano arti grafiche Roma 1932, pp. 4344.

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19 ASMAI, vol. V, Inventari e supplementi, pacco 5. Commissariato regionale di Bengasi, Relazione sugli accampamenti, 28 luglio 1932, p. 4.

20 Imerio da Castellanza, Orizzonti d'oltremare, Berruti, Torino 1940, pp. 13334.

21 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto n. 1058 del 2 maggio 1931.

22 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., cartina annessa alla p. 104.

23 Secondo uno studio eseguito dal colonnello Enrico De Agostini nel 1922-23, gli abitanti della Cirenaica erano 185.400. EvansPritchard dava una cifra leggermente superiore, che si avvicinava a quella del censi-mento turco. Secondo un'altra valutazione (Annuario statistico italiano 1928), gli abitanti erano 225.000.

24 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 13 e 24.

25 Lo stesso flagello si abbatté sul bestiame, che era la principale risorsa della Cirenaica. Rochat calcola che perirono il 90/95 per cento degli ovini, caprini e cavalli e l'80 per cento dei bovini e dei cammelli (G. Ro-chat, La repressione della resistenza in Cirenaica, cit., p. 161). Uno dei rari funzionari che cercò di contenere la furia distruttrice di Graziani fu il commissario Giuseppe Daodiace. Nel chiederne il rimpatrio, Graziani così scriveva al MAI: «La forma mentis del dottor Daodiace era inveterata nei vecchi sistemi ed egli è stato sempre da me violentato perché seguisse i nuovi. Mai naturalmente ho detto quale sforzo mi sia costato in-canalare la volontà del funzionario in questione ai metodi nuovi da me attuati e da lui non approvati». «Che io non li approvassi - scriveva Daodiace a Brusasca il 7 gennaio 1951 - risulta dalle tante e ripetute mie pro-teste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini. Non posso precisare in che anno, un gruppo di zap-tiè, ai quali era stato ordinato la fucilazione di 36 fra donne e bambini di un attendamento, si presentò a me per protestare, facendomi conoscere che se fosse loro stato impartito nuovamente un ordine consimile avrebbero preferito disertare» (AB, b. 44, f. 236).

26 Os. Felici, op. cit., p. 44. L'autore fa intendere che si trattava di guardiani estratti dalla stessa popolazione di reclusi. Ma non era così. Si trattava invece di libici che già avevano servito come ascari nell'esercito italia-no.

27 Ivi, p. 45.

28 Ibidem.

29 Relazione sugli accampamenti cit., p. 20.

30 E. Salerno, Genocidio in Libia, SugarCo, Milano 1979 p. 90.

31 Ivi, p. 99.

32 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto

33 ACS, Carte Graziani, b. 4, f. 8, sottof. 8. Relazione di Egidi al Governo della Cirenaica, 6 marzo 1933. Migliaia di detenuti furono colpiti anche da deperimento organico, da oligoemie, da dissenteria bacillare e da elmintiasi.

34 Il testimone allude agli ascari reclutati in Africa Orientale. Tra di essi, infatti, numerosi erano gli etiopici delle regioni settentrionali.

35 E. Salerno, op. cit., p. 91.

36 Ivi p. 90.

37 Ivi p.95

38 «L'Oltremare», n. 4, aprile 1931, p. 151.

39 G. Bedendo, Le gesta e la politica del generale Graziani, Edizioni generali CESA, Roma 1936, p. 196.

40 E. Canevari, op. cit., pp. 33435. Ma il resoconto più reticente ed avvilente sui campi è quello di Giuseppe Bucco e Angelo Natoli, autori di L'organizzazione sanitaria nell'Africa Italiana, della serie L'Italia in Africa, edito nel 1965 dal ministero degli Affari Esteri. Gli autori non accennano mai ai campi di concentramento, ma li gabellano come attendamenti spontanei. Si legga, ad esempio, che cosa scrivono del famigerato lager di Soluch (p. 316): «La maggior parte degli Auaghir transumanti viveva, prima di raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone carsiche e boscose del Gebel». Il corsivo è nostro.

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41 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 2122.

42 Os, Felici, op. cù., p. 47.

43 Ivi, pp. 4849.

44 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell'impero, cit., pot 66680.

45 05. Felici, op. cit., pp. 4445.

46 «L'Illustration», 4 novembre 1933: Vers la farouche Senoussi, p.312.

47 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. 3D. 3912 del 4 novembre 1930 Nello stesso telegramma Graziani con-sigliava di non inviare i nuovi arrestati ad Ustica, perché l'isola, già zeppa di deportati libici, rischiava di di-ventare un covo di intrighi.

48 Ivi. Rapporto n. 1058, cit.

49 Guglielmo C. Nasi, La guerriglia e l'impiego delle truppe in Cirenaica, in Governo della Cirenaica, Orga-nizzazione marciante, Pavone, Bengasi 1931 p. 56.

50 Ivi, p. 57.

51 In uno di questi scontri cadeva Fadil bu Omar, luogotenente di Omar al-Mukhtàr e suo consigliere più ascoltato.

52 Il traffico con l'Egitto si svolgeva in questo modo. I ribelli conducevano il bestiame razziato o di loro proprietà verso il confine e, qui giunti, barattavano con i contrabbandieri oppure con fuorusciti libici il loro bestiame in cambio di tè, tabacco, farina, indumenti, armi e munizioni. Ad un dato momento, il ministro italiano al Cairo, Cantalupo, avvertì Graziani che, da notizie in suo possesso, alcuni contrabbandieri sbarca-vano viveri ed armi sulla costa della Cirenaica. Graziani promosse un'indagine, per poi affermare che la no-tizia era falsa (ASMAE, Libia, b. 5, f. 6).

53 Cit. in Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero, Laterza RomaBari 1981, p. 352.

54 Si veda, ad esempio, Sandro Sandri, L'esplorazione e il bombardamento di Cufra «Gazzetta del Popolo», 14 settembre 1930.

55 Cit. in E. Salerno, op. cit., pp. 6061.

56 ASMAI, Libia pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 1148, riservatissima. Si era anche tentato di inviare un inter-mediario a Cufra per invitarne gli abitanti ad arrendersi senza combattere, ma De Bono non era convinto delI'efficacia di questa operazione e infatti fu lasciata cadere (ivi. De Bono a Badoglio, tel. 3591 dell'a giugno 1930).

57 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 170.

58 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 66641.

59 Anche Mohammed Idris aveva inviato un suo corriere a Cufra per sconsigliare Scems ed-Din di evacuare l'oasi (ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Telespr. 24293/1139 del 20 dicembre 1930).

60 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 192.

61 Graziani riconobbe il valore dell'avversario. Scrisse: «La mehalla ribelle [...] pur essendosi trovata di fronte a forze molto superiori di quelle contro le quali riteneva di cover combattere, si batté con audacia ed acca-nimento singolari e non cedette se non quando si vide irreparabilmente sopraffatta e quando capì che se avesse insistito sarebbe stata presa fra due fuochi e totalmente annientata» (R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 201). Si vedano, per l'impresa di Cufra, anche il libro di Dante Maria Tuninetti, II mistero di Cufra, Calcagni, Bengasi 1931; e l'articolo di Giorgio Menzio, Come giungemmo a Cufra, «Nuova Antologia», mar-zo 1937.

62 V. Biani, op. cit., pp. 24344

63 Graziani non lesinò negli autoelogi. Scrisse che «l'occupazione di viva forza dell'oasi di Cufra rappresenta la più grande operazione sahariana che sia stata mai compiuta». E ancora: «In questa impresa, si assomma lo sforzo dei capi e dei gregari, sforzo eroicamente compiutosi nel silenzioso sacrificio del deserto, e che deve

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essere cantato ed esaltato come fonte inesauribile di forza e di bellezza morale» (R. Graziani, Cirenaica paci-ficata, cit., pp. 203 e 205).

64 ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Cantalupo a MAE, telespr. 1551/482 dell'8 maggio 1931. Il racconto di Saleh el Atèusc fu raccolto da un informatore egiziano al soldo della nostra legazione al Cairo.

65 Ibidem. Quando la carovana di Saleh el Atèusc fu avvistata e portata in salvo dal funzionario inglese ed esploratore M. P. A. Clayton, era ridotta a 37 persone. Clayton salvò anche la carovana guidata da Moham-med Mittah. Secondo i calcoli dell'esploratore inglese, i libici persero nel deserto alcune centinaia di uomini. Per i suoi salvataggi, Clayton ricevette una decorazione (cfr. «Bourse Egyptienne» del 4 giugno 1931). Nel 1941 il maggiore Clayton guiderà i primi raid contro le basi italiane della Cirenaica.

66 ASMAE, Libia, b. 1, f. 3. Cantalupo a MAE, telespr. 1960/615 del 12 giugno 1931.

67 La traduzione dell'articolo in ASMAE, Libia, b. 1, f. 7.

68 «La Nation Arabe» n. 2, febbraio 1931: L'impérialisme italien en Tripolitaine. L'occupation de Koufra.

69 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Tel. 270 del 30 gennaio 1931.

http://www.pasti.org/salerno.html 

Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre rimosse in Italia. Anzi, ai respon-sabili si erigono monumenti. Ecco qualche testo per non dimenticare

BOMBARDAMENTI E GASIl presente scritto costituisce il terzo capitolo del libro "Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell'avventu-ra coloniale (1911-1931)" di Eric Salerno, SugarCo Edizioni, Milano 1979

Si potrebbe definire un «falso per omissione» il volume firmato da Vincenzo Lioy e curato dal «Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa» , dedicato alle operazioni dell'Aeronautica in Eritrea e in Libia. Il libro fu pubblicato nel 1964 e ad un primo esame sommario poteva apparire come un tentativo di fornire, con un minimo di obiettività, una traccia di quanto era stato compiuto dalle forze aeree italiane in due momenti della conquista coloniale. Il tono spesso enfatico e trionfalistico, l'apologia dello strumento militare, infastidivano ma non sembravano intaccare una certa «onestà» storica dell'autore. Le operazioni di ricerca dei dor (i gruppi armati di ribelli) in Libia, gli avvistamenti compiuti dagli aerostati prima e dagli ae-roplani poi, i bombardamenti che crescevano d'intensità con l'intensificarsi della guerra ma soprattutto con la crescita dell'arma aeronautica, sono puntualmente registrati. Meno spazio, viceversa, è stato concesso dal-l'autore a spiegare contro chi, in Libia, l'Arma aeronautica stava realmente combattendo: la parola ribelli fi-nisce per essere un termine anonimo ed insignificante quando non viene collocato nel contesto che l'ha ge-nerato. Altri autori certamente non sospetti, come lo stesso Graziani riconoscevano come il ribelle libico era, in certe fasi della storia della Resistenza, l'intera popolazione del paese. Uomini, donne e bambini aiuta-vano chi combatteva con le armi e lo sostenevano non solo nascondendolo dai rastrellamenti ma anche at-traverso un appoggio logistico e morale. Era una lotta di popolo quella che per anni ha paralizzato l'esercito italiano in Libia. E riconoscere questo particolare fondamentale, mettere l'accento su di esso, doveva appari-re a Vincenzo Lioy come un'arma a doppio taglio: significava riconoscere che in molti casi, forse nella mag-gioranza dei casi, gli aviatori italiani gettarono le loro bombe su concentramenti di civili e non, invece, su gruppi di soli armati. Il problema - quello delle gravi omissioni - non è, però, questo. La verità, che poteva trasparire da una lettura accorta di certi libretti apologetici di regime e balzare agli occhi dai racconti freddi e quasi distaccati, ma resi fumosi dal passare degli anni, dei superstiti libici, è invece emersa da una ricerca ne-gli archivi del Ministero degli esteri. Ed altri dati sono probabilmente nascosti negli archivi militari.

Quasi più grave della stessa azione coloniale e fascista in Libia è la constatazione che la penna censoria dello storico «democratico» , incaricato di fornire un quadro il più fedele possibile di quanto di negativo e di posi-tivo c'era nel passato coloniale dell'Italia, ha volutamente nascosto all'Italia repubblicana una realtà spesso feroce. Una realtà che sarebbe stata giudicata ugualmente feroce allora, come viene giudicata tale oggi. La Libia fu per l'Arma aeronautica italiana ciò che Guernica fu in Spagna per la Luftwaffe di Hitler: un campo

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vivo su cui sperimentare le ultime tecniche della guerra. Per preparare altre guerre ed altre conquiste. Le prove di ciò esistono negli archivi italiani ma furono totalmente - e volutamente - ignorate dal Comitato per la documentazione dell'Opera dell'Italia in Africa.

L'Italia con la sua aeronautica riuscì a stabilire in Libia alcuni record. Per la prima volta nel mondo aeroplani e dirigibili furono impiegati a scopo bellico. Per la prima volta un apparecchio volò di notte per una missio-ne di guerra. Sotto i titoli a piena pagina dei giornali che fornivano un primo elenco delle vittime italiane della battaglia di SciaraSciat, il 25 ottobre 1911, c'era un collage fotografico che raffigurava i volti di cinque aviatori militari che avevano appena raggiunto Tripoli. «Il Messaggero» raccontava che:

«Il campo di lancio per gli aeroplani è stato improvvisato in un campo di sofsa (il trifoglio per foraggio che vien coltivato nell'oasi dei dintorni di Tripoli, vicino al mare) a ridosso del cimitero degli ebrei a Bab Isdid» .

E poi questo brano così «romantico» :

«Uno dopo l'altro, con delle grandi tende verdi, sono innalzati gli hangars, i quali sembrano dei grandi padi-glioni eretti per accogliervi un'elegante colonia di bagnanti...» .

Gli aerei erano piccoli, imparavano a stare in volo, potevano caricare ancora solo modeste quantità di bom-be. E gli attacchi contro le linee degli arabi o dei turchi sembravano efficaci a livello psicologico più che ma-teriale. I primi anni della guerra, dunque, furono per l'Arma aeronautica una specie di rodaggio. Un rodaggio che valeva sia per le macchine che per gli uomini. E che avrebbe lasciato spazio e tempo allo sviluppo di armi sempre più micidiali e a tecniche di bombardamento più precise.

Le alterne vicende della guerra libica fecero sì che cinque o sei anni dopo il suo inizio erano entrati in servi-zio aerei nuovi, più grandi e tecnicamente più capaci di svolgere il ruolo bellico al quale erano stati predispo-sti. Le azioni militari assunsero contorni diversi. Tra il maggio e l'agosto del 1917, ad esempio, furono ese-guite in Tripolitania un centinaio di azioni offensive con il lancio di bombe incendiarie «sui campi di orzo dei ribelli, con mitragliamenti nelle oasi di Zanzur, Sidi ben Adem, Fonduc ben Gascir, Fonduc Scrif, Gedi-da, Agelat, Sormen, Punta Tagiura, Zavia, Azizia» . I campi dei ribelli intorno a Zanzur e a Zavia erano stati bombardati anche nel mese di aprile con 1270 chilogrammi di liquido incendiario oltre a 3600 chili di alto esplosivo. La politica italiana nei confronti dei ribelli era già da allora quella della «terra bruciata» . Distrug-gendo i campi d'orzo si costringevano i «ribelli» , armati e non, ad abbandonare la lotta e a disperdersi verso zone dove sarebbe stato più facile sottometterli.

Con l'aggravarsi della situazione politicomilitare le autorità italiane furono costrette ad ammettere la crescen-te difficoltà per le formazioni italiane di imporsi alla popolazione libica. Le azioni militari e quelle dell'Aero-nautica in particolare, assumevano toni sempre più «incisivi» . Dal 1924 al 1926 gli aerei avevano l'ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane. Non si trattava di azioni militari contro altre forze armate, regolari o ribelli che fossero, bensì di bombardamenti indiscriminati della popolazione civile per fiaccarla e tentare di dividerla dagli uomini in armi.

Nel notiziario politico inviato al governo della Tripolitania il 26 febbraio 1924 dal generale Mombelli ctè solo un breve accenno ad una di queste operazioni:

«Caproni esplorò regione Uadi elFaregh fino Bir Yaggadia, avvistò e bombardò a Giocch el Meter grosso attendamento circa centocinquanta tende coniche e rettangolari. Bombardò regione Saunno con esito visi-bilmente efficace settantina tende coniche e numeroso bestiame al pascolo. Bombardò ripetutamente ac-campamento due chilometri est Bir Garbagniha di cui notiziario precedente nonché, nuclei armati scorti regione elGren Zauiet ed Gtafia etTumbia intenti lavori semina» .

Non c'è bisogno di commentare questa breve nota. Lo stesso Mombelli, il 17 maggio 1926, inviava al Mini-stero delle colonie una lunga relazione in cui spiega come le forze armate a sua disposizione fossero impe-gnate a conseguire una serie di obiettivi come «impedire raccolta orzo da parte ribelli e distruggere vasti se-minati esistenti nel Gebel meridionale» . Le descrizioni non mancano:

«...aviazione assolse assai bene compito collegamento segnalando obiettivi alle colonne operanti e compien-do bombardamenti. Così mattino giorno sette Caproni di Apollonia bombardava greggi lungo uadi el Grei-hat e lanciava bombe incendiarie sulle messi di uadi Mekeughina. Pomeriggio giorno otto apparecchi di Merg spezzonavano e mitragliavano efficacemente accampamenti in fuga nello uadi Scebeicha, affluente del basso Sammalus. Ribelli risposero al fuoco colpendo ripetutamente apparecchi. Mattino seguente aviazione Merg bombardò accampamenti presso Gadir Bu Ascher e anche in questa occasione velivolo fu colpito da

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pallottola. Caproni di Apollonia mattino nove bombardava accampamenti e bestiame a sud Gasr Remtaiat. Durante volo osservatori hanno rilevato vasti incendi delle messi provocati dalle nostre colonne e hanno raccolto indicazioni di seminati ancora intatti che costituiranno obiettivo ulteriori operazioni...» .

La politica della «terra bruciata» , del terrore, aveva spinto migliaia di uomini, donne e bambini a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l'Algeria, chi in direzione del Ciad o dell'Egitto. I morti e i feriti non si potevano contare. E i bombardamenti diventarono più violenti, più scientifici e, come si è detto, anche «sperimentali» . Così come Guernica fu sperimentale per l'aviazione nazista, l'Arma aerea italiana si servì della guerra di Li-bia per prepararsi alla successiva conquista dell'Etiopia.

Gife è un punto sulla carta geografica della Libia. Una piccola oasi situata tra la costa mediterranea, a sud di Nufilia, e la catena dei monti Harugi. Un'ampia conca di alcuni chilometri di diametro nella quale, quando è stagione delle piogge, si formano alcuni stagni che in caso di piogge abbondanti assumono l'aspetto di veri e propri [aghetti. Nel 1928 erano in corso le cosiddette «operazioni del 29° parallelo» , una vasta azione bellica che aveva tre scopi principali dichiarati: unificare la Tripolitania e la Cirenaica divise dalla ribellione delle popolazioni della Sirtica, occupare militarmente una catena di oasi - Socna, Zella, Marada, Augila, Gialo - sul 29° parallelo e tentare di consolidare l'effettivo dominio politico militare italiano sui territori a nord. Senza la riuscita di questo sforzo militare sarebbe stato impossibile tentare la rioccupazione del Fezzan e poi la ri-conquista della Cirenaica (mai in pratica sottomessa al dominio italiano) e lo schiacciamento della lotta di liberazione. Il 6 gennaio 1928 De Bono inviava al Ministero delle colonie questa breve relazione:

«263 Op. U.G./Segreto/Novità giorno/Marce colonne proseguono regolarmente. Stamane, come stabilito, quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I quattro Ca 73 sonosi spinti circa settanta chilometri sud Nufilia bombardando anche a gas circa quattrocento tende. Apparecchi fatti segno tiro di fucileria tutti rientrati base Sirte prima ore undici. Collegamento fra le tre colonne effettuato» .

Nel volume sull'opera dell'Aeronautica questo episodio è raccontato in poche righe, ma dell'uso dei gas non si fa menzione. Eppure l'estensore del libro si è servito degli stessi documenti che abbiamo potuto consulta-re negli archivi del Ministero degli esteri e dai quali risulta, nonostante omissioni e lacune, l'uso sistematico di gas — proibiti dalla Convenzione di Ginevra — contro la popolazione civile della Libia. Esiste anche un altro racconto dei fatti di Gife. Non è ufficiale. Fa parte di Ali sul deserto, di Vincenzo Biani, un volume di ricordi di guerra presentato in termini elogiativi dal maresciallo Balbo:

«Una spedizione di otto apparecchi fu inviata su Gifa, località imprecisata dalle carte a nostra disposizione, che erano dei semplici schizzi ricavati da informazioni degli indigeni; importante però per una vasta conca, ricoperta di pascolo e provvista di acqua in abbondanza. Ma senza oasi e senza case: un punto nel deserto.«Fu rintracciata perché gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggia-schi e trovarono finalmente sotto di se un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava.

«Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionava-no benissimo. «Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante, mentre si preparavano gli apparecchi per un'altra spedizione.«Ci si dava il cambio nelle diverse missioni. Alcuni andavano in ricognizione portandosi sempre un po' di bombe con le quali davano un primo regalo ai ribelli scoperti, e poi il resto arrivava poche ore dopo. In tutto il vasto territorio compreso tra El Machina, Nufilia e Gifa i più fortunati furono gli sciacalli che trovarono pasti abbondanti alla loro fame» .

Ogni pagina di questo libro è intrisa del clima di razzismo che sembrava, allora, aver coinvolto tutti. Non è un semplice racconto di esperienze militari truci come ogni avventura bellica, bensì un'apologia della violen-za fascista - spesso negata dallo Sesso regime - nei confronti di un popolo che il Biani, come altri militari e politici, riteneva inferiore. In un certo senso Ali sul deserto è un'opera ingenua che tradisce con la loro esaltazione certi segreti come quello dell'uso dei gas.

«Al di sotto era un brulicar di gente che fuggiva in tutte le direzioni, invano cercando un rifugio; ché la terra s'era tramutata, d'un attimo, in un campo di mine fatte saltare da una misteriosa potenza, folle e distruttrice. «Si vedevano le bombe staccarsi dalle fusoliere, in frotte quelle piccole da due chili, isolate le altre più grandi

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da dodici chili; rotolar giù disordinatamente fino a che non avevano trovato l'equilibrio della traiettoria, e poi precipitare come saette sui cumuli della gente e sugli ammassi di tende; con una tale precisione che sembra-va seguissero l'attrazione magnetica del bersaglio. «Gli occhi degli aviatori, raccolta la visione dello spettaco-lo, riprendevano la fissità scrutatrice della indagine fredda, quando si trattava di guidare di nuovo la propria macchina sul folto della massa nemica. «Una fila di tende fu spazzata via da una folata di morte e i loro cenci si confusero a brandelli di carne sulla terra chiazzata di rosso. «Un branco di cammelli, colpiti in pieno, si abbatterono al suolo sull'orlo di un burrone, precipitando dentro, l'uno sull'altro. Da quella massa informe ancora agitata dai contorcimenti della rapida agonia, un rivolo di sangue allagò il fondo della valle, come allo zampillare d'una improvvisa sorgente. «Arrivava su fino in alto l'odore acre delI'esplosivo bruciato, e l'aria stessa era tutta in sommovimento. Gli scoppi si ripercuotevano sulle ali con sussulti e sobbalzi che metteva-no a dura prova i muscoli dei piloti... «Una carovana di un centinaio di cammelli, terrorizzati dalle prime esplosioni, si erano allontanati in gran fretta, dondolando sulle groppe i loro carichi malfermi, ma due Ro-meo, che li avevano visti, volsero da quella parte. «Il primo passò sputando addosso alle bestie una spruzzata di pallottole che nella maggior parte andarono a vuoto, poi l'arma s'incantò e non volle più saperne di spara-re. «Il pilota si arrampicò per aria lasciando libero il campo al compagno che sopraggiungeva, rasente a terra, dalla coda verso la testa della carovana, mettendo a segno un intero caricatore sui fianchi dei cammelli. «Molti stramazzarono a terra scoprendo i ventri obesi e annaspando nell'aria con le zampe lunghissime, uni-co mezzo a loro disposizione per dire che erano dispiacenti di morire. Ma nessuno li compianse. «Il Primo Romeo, anzi, riparato il guasto della mitragliatrice, ricalò giù e fece poco più lontano un altro mucchio di cadaveri» .

Ali sul deserto ci ha fornito una traccia, labile e precisa sull'uso dei gas proibiti dalla convenzione di Gine-vra e da tutti gli altri accordi internazionali:

«Una volta furono adoperate alcune bombe ad yprite, abbandonate dal tempo di guerra in un vecchio ma-gazzino ed esse produssero un effetto così sorprendente che i bersagliati si precipitarono a depositare le ar-mi» .

In effetti l'uso del gas non costituì un episodio isolato: esso faceva parte di un piano preciso e sistematico. I risultati delle incursioni aeree furono attentamente studiati per conoscere non solo il numero delle vittime che esse provocavano e gli effetti immediati prodotti dalla morte chimica, ma anche per conoscere gli even-tuali effetti ritardati su coloro che venivano sfiorati dai gas. E' un particolare, questo, sconosciuto della guer-ra di repressione - o non sarebbe il caso ora, di definirlo «di sterminio»? - attuata da Graziani per conto del governo fascista di Roma contro la popolazione della Tripolitania, del Fezzan e della Cirenaica. Sono elo-quenti questi brani tratti da una lunga relazione firmata dal generale Cicconetti ed indirizzata a De Bono alla fine del gennaio 1928. L'alto ufficiale afferma che «la maggior parte degli aggregati Ghedafa-Orfellini e Fer-giani sono a noi sottomessi» e che i «Mogarba Reedat, colti alla sprovvista dalla nostra impetuosa avanzata sono fuggiti disordinatamente dopo aver subito ingenti perdite di uomini e di materiali» . Gli Orfella, come i Mogarba, non si erano mai realmente sottomessi ai conquistatori italiani. I primi, di origine berbera, nomadi della Sirtica di Socna e del Fezzan, avevano accettato un compromesso con le autorità italiane allo scopo - ciò si è dimostrato evidente in seguito - di impedire che il governo arrivasse a presidiare il territorio orfelli-no. Abd en Neby Belker, uno dei capi degli Orfella, nel 1923 si schierò decisamente contro i tentativi italiani di occupare il paese di Beni Ulid. Secondo Graziani gli elementi dissidenti erano divisi in due nuclei l'uno di un centinaio di armati a seguito dei fratelli Sef en Nasser di Brach; l'altro, di circa duecento fucili, seguiva Abd en Neby Belker. I Mogarba, anche essi nomadi della Sirtica, si dividono in due rami: Mogarbet es Ree-dat e Mogarbet esSciamach. In una relazione dello Stato maggiore della Tripolitania (1930) si afferma che:

«...i Mogarba, anche nel passato, non solo non si sottomisero al nostro Governo, ma ci opposero valida resi-stenza nel marzo 1914, sostenendo contro le nostre truppe il combattimento di Nufilia; mantennero poi sotto assedio lo stesso presidio fino a che, per intervenute trattative, quest'ultimo non si ritirò a Sirte (no-vembre 1914)» .

Nel 1926 la popolazione Mogarba era dislocata lungo il uadi Faregh (i Sciamach) e nella Choscia (i Reedat). «Ribelli» erano gli armati e l'intera popolazione «civile» , donne e bambini. Si trattava di un popolo che resi-steva all'esercito italiano e non un nucleo di guerriglieri isolato e privo del supporto popolare. Le operazioni militari italiane, e soprattutto, quelle eseguite dall'Aeronautica assumevano proprio per questo fattore i con-torni di un genocidio programmato. L'uso sistematico dei gas è dimostrato dai documenti in cui viene inol-tre sottolineata l'efficacia dei bombardamenti. Il generale Cicconetti, nella sua relazione, spiega infatti:

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«a) che le perdite in uomini sono certamente di gran lunga superiori a quelle segnalate le quali si riferiscono solo ai caduti contati sul terreno e non tengono conto dei feriti che non possono essere mancati né di quelli caduti in seguito agli effetti micidiali dei bombardamenti aerei e agli effetti non considerati né accertabili subito dei gas. «A prova della terribile efficacia dei bombardamenti sta il fatto che basta ormai l'apparizione dei nostri aerei perché grossi aggregati spariscano allontanandosi sempre più. «b) che anche per il bestiame, a quello catturato e distrutto dalle mitragliatrici va aggiunto quello colpito dai gas e dalle bombe degli aerei e che è finora incalcolabile. Le plaghe bombardate non hanno ancora potuto essere visitate e solo quando lo saranno potremo dire l'ultima parola» .

Nella maggior parte delle relazioni e dei telegrammi inviati dalla colonia al ministero si tende ad utilizzare la parola generica di «ribelli» per indicare le vittime delle azioni militari. In alcuni casi però la distinzione fra armati e popolazione civile sembra passare inosservata attraverso le maglie di ciò che costituiva, evidente-mente, una forma di censura. Il governatore della Cirenaica Teruzzi, in una delle sue note quasi quotidiane al Ministero delle colonie parla dell'uccisione di due uomini e di quattro donne nel corso di un bombarda-mento sul Gebel, la zona montagnosa dove si trovavano allora la maggioranza degli accampamenti dei no-madi, e di risultati molto efficaci ottenuti durante altre azioni dello stesso genere nella zona.

Non viene specificato il tipo di ordigno lanciato dagli aerei, cosa, invece, che fu fatta il 4 febbraio 1928 dal governatore della Tripolitania De Bono, nelI'informare i suoi superiori che nella stessa giornata «come già preannunciato» tutti i Caproni disponibili si erano portati in volo a sud di Gifa (Gife). I ribelli avevano già levato il loro accampamento e «con cammelli carichi erano già in movimento verso sud-est. «Sono stati bombardati con circa tre tonnellate di esplosivo e bombe iprite con evidenti risultati...» . Un'altra operazione dello stesso tenore fu comunicata da Teruzzi il 12 febbraio:

«Gebel. Ieri undici aviazione Mechili bombardato efficacemente noto accampamento con bestiame pasco-lante due chilometri ovest uadi Tamanlu. Risulta da fonte attendibile che recenti bombardamenti eseguiti da aviazione abbiano causato ai ribelli quarantina persone uccise altrettanti feriti e sessantina cammelli abbattu-ti...» .

Sette giorni più tardi - come informava ancora Teruzzi - una pattuglia di Caproni 73 dell'aviazione di Benga-si sganciava otto quintali di gas iprite su un accampamento di un centinaio di tende e «numeroso bestiame» nella regione che si trova quindici chilometri a sudest del uadi Engar. «Sembra» , aggiunge Teruzzi, «che nel-lo Zeefran Heleighima ribelli abbiano abbandonato quaranta tende, di cui venti coniche, in seguito ripetuti bombardamenti gas» .

Nel 1930 troviamo la firma di Badoglio sotto un telegramma inviato da Roma a Siciliani a Bengasi e per co-noscenza a De Bono, ministro delle colonie. Riferendosi alla situazione in Cirenaica Badoglio ammonisce: «si ricordi che per Omar el Muchtar occorrono due cose: primo, ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe iprite. Spero che dette bombe Le saranno mandate al più presto» .

Le bombe arrivarono. E furono usate in modo sempre più massiccio ed indiscriminato. C'è in Cirenaica pacifi-cata, uno dei volumi con i quali il generale Graziani volle giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio della popolazione libica che già all'epoca gli venivano rivolte, un breve capitolo sul bombardamento di Taizerbo avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l'esortazione di Badoglio all'uso del-l'iprite. Nella lingua dei tebù, una delle numerose tribù camitiche africane, Taizerbo sta per «sede principale» . Oggi i tebù abitano più a sud, nelle montagne del Tibesti parte in Libia, parte in Ciad, ma una volta essi avevano a Taizerbo la sede del loro sultanato. Situata duecentocinquanta chilometri a nordovest di Cufra, l'oasi è lunga venticinquetrenta chilometri, larga dieci ed è solcata nel mezzo da un avvallamento che contie-ne stagni salmastri e saline. All'epoca dell'intervento italiano vi si trovavano gruppi di palme, tamerici, acacie, giunchi e vi sorgevano una decina di nuclei abitati. Per la conquista di Cufra sede della Senussia, centro spiri-tuale della resistenza antiitaliana Taizerbo era considerata un'oasi di grande importanza strategica. Scriveva Graziani:

«Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di partenza dei nuclei razzia-tori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l'oasi e - se del caso - bombardarla. «Dopo un tenta-tivo effettuato il giorno 30 - non riuscito, per quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento del motore di un apparecchio - la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e brillantemente portata a termine. «Quattro apparecchi Ro, al comando del ten. col. Lordi, partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10 dopo aver raggiunto l'obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende. «Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnella-

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ta di esplosivo e vennero eseguite fotografie della zona. «Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziato-ri, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico» .

Vincenzo Lioy, l'autore del volume sul ruolo dell'aviazione in Libia, riprese senza modificarla di una virgola la versione riferita da Graziani nel suo libro. Ma Graziani aveva tralasciato l'importante particolare dell'uso di grandi quantità di iprite ed aveva omesso di riportare una relazione agghiacciante che gli era pervenuta qualche mese dopo sugli effetti del bombardamento. Questa relazione, regolarmente archiviata, era ugual-mente a disposizione dello storico Lioy quando fece la sua ricerca. Da un rapporto firmato dal tenente co-lonnello dell'Aeronautica, Roberto Lordi, comandante dell'aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il 17 agosto) si apprende che i quattro Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite, da 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili. Stralciamo dalla relazione la parte che si riferisce all'avvicinamento e al bombardamento di Taizerbo.

«...in una specie di vasta conca s'incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvi-state una decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull'oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace» .

II primo dicembre dello stesso anno il colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo «ottenute da interrogatorio di un indi-geno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni or sono» . E' una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila.

«Come da incarico avuto dal signor comandante l'aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mo-hammed bu Alì, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. «II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, e seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. «Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. «Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. «Riesce a spe-cificare, che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. «Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombarda-mento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano. «Oltre a quelle sopradette non ha saputo fornire alcuna altra notizia» .

Secondo l'Enciclopedia Americana l'iprite puo provocare malattie ereditarie ed i suoi effetti si potrebbero ri-scontrare, perciò, non solo nelle persone direttamente colpite dai bombardamenti ma anche nei loro discen-denti. La Treccani afferma che l'iprite (prese il nome dalla città francese di Ypres nelle cui vicinanze fu lancia-ta per la prima volta dai tedeschi nel 1917) attacca tutte le cellule con le quali viene in contatto, distruggen-dole completamente. Non solo agisce sulle mucose, ma anche sulla pelle producendo infiammazioni vesci-che e piaghe assai difficili a guarire. Più violentemente (è sempre la Treccani che lo specifica) agisce sulle mu-cose degli occhi e, quando venga respirato il suo vapore, sulle vie polmonari. Se con la respirazione i vapori d'iprite entrano nel circolo sanguigno, distruggono i globuli rossi, producendo rapidamente la morte. Non c'è dubbio che l'effetto dei gas sulla popolazione libica, priva peraltro di qualsivoglia possibilità di ricorrere a moderne cure mediche, doveva essere micidiale.

L'uso dell'iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente uria scelta sia militare che politica come i bombardamenti della popo-lazione civile in Libia doveva corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise. L'Italia fascista era pronta ad inviare in Libia migliaia di coloni che avrebbero potuto coesistere con la popolazione locale soltanto se questa avesse non solo accettato di sottomettersi all'autorità di Roma, ma soprattutto di modificare radical-mente la propria esistenza nomade ed «anarchica» . L'Italia, comunque, aveva scelto per la Libia una forma di colonizzazione basata sulla gestione delle ricchezze della terra attuata direttamente da coloni italiani con lo sfruttamento, ove fosse possibile, di manodopera locale. Per Graziani, che aveva carta bianca sul terreno, e per i dirigenti politici e militari che da Roma lo spronavano a concludere al più presto una «conquista» co-minciata quindici anni prima, la decisione di servirsi di gas tossici non poteva prescindere dalla consapevo-

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lezza che essi, colpendo in modo particolare la popolazione civile, avrebbero finito per distruggere, almeno in parte, quella forzalavoro locale che un giorno, altrimenti, si sarebbe potuta mettere a disposizione dei co-loni italiani. Probabilmente, nascosti negli archivi, giacciono ancora i documenti che potranno dimostrare - come già sembrano fare quelli finora reperiti - la non casualità della scelta italiana di utilizzare i gas tossici in Libia.

Molto tempo era passato da quel lontano 1911 quando i primi aviatori italiani atterrarono in Libia, avan-guardia di un'arma che con il passare degli anni si sarebbe affinata e ingrandita. Dal novembre 1929 alle ul-time azioni del maggio 1930 l'aviazione della Cirenaica eseguì secondo fonti ufficiali ben 1605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice. Le fonti, però, non precisano quante tonnellate di bombe erano cariche di iprite.

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Dattiloscritto di pp. 26, parzialmente numerate, senza data né firma, ad uso dei comandi dell’Ae-ronautica in Africa Orientale, come da timbro a inchiostro sulla prima di copertina e altre pagine interne. Corredato da tre fotografie.

Istruzione sulla bomba C. 500 T. 

E’ diviso in parti:I. Istruzione sul funzionamento, conserva-zione ed impiego della spoletta "T" per bomba C-500 T.II. Caratteristiche e norme d’impiego della bomba C-500 T.III. Conservazione manipolazione della bomba C-500 T.IV. Tavole di tiro della bomba C-500 T e ta-bella di graduazione della spoletta "T" per detta bombaV. Appendice: rilievo della direzione del ven-to al suolo e della quota del bersaglio.

[...][p.10]

La bomba C-500 T. è stata realizzata con lo scopo di permettere il tiro da alta quota con aggressivo liquido, contro bersagli di vaste dimensioni.

Essa è munita della spoletta "T" la quale, come specificata nella I^ Parte, è congegnata in modo tale da provocare l’esplosione della bomba prima che questa raggiunga il suolo.

L’esplosione genera una pioggia di aggressivo liquido che va a depositarsi sul terreno sotto forma di gocce di varia grandezza (più grosse al centro della zona colpita, più piccole ai bordi).

L’area irrorata da ogni singola bomba e la concentrazione dell’aggressivo sull’area stessa, dipendono, come è ovvio, dalla intensità del vento dal suolo e d’altezza di scoppio della bomba.

Per un’altezza di scoppio sul terreno che si aggiri sui 250 metri e per vento al suolo d’intensità compresa fra i 3 e i 9 m/s, si può considerare che l’area efficacemente colpita dall’aggressivo vari tra i 50.000 e gli 80.000

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mq. Distribuiti in un ellisse molto allungata il cui asse maggiore, (disposto secondo la dire-zione del vento) può avere lunghezza dai 500 agli 800 m., ed il cui asse minore può avere una lunghezza dai 100 ai 200 metri.[...]

[pp.11-12]Circa l’efficacia dell’aggressivo liquido si può dire che esso agisce principalmente per con-tatto delle goccioline sulla pelle degli individui colpiti. Il contatto ha luogo anche attraverso gli indumenti di qualsiasi natura essi siano (lana, tela, cuoio, ecc) se chi li indossa, appena si accorge di essere colpito, non abbia l’avver-tenza di liberarsene. I vapori sono dannosi solo in forti concentrazioni, concentrazioni che è difficile ottenere mediante l’impiego

della bomba C-500.

L’effetto dell’aggressivo liquido non è immediato. I primi sintomi si manifestano dalle 6 alle ore 12 dopo che l’individuo è stato colpito. Dopo 12-24 ore si manifestano le prime lesioni che, se la superficie colpita è grande, sono gravissime e che, ad ogni modo sono di lentissima guarigione anche se la superficie colpita è piccola.

La persistenza dell’aggressivo sul terreno, varia a seconda della natura di quest’ultimo ed aseconda [sic] della temperatura dell’aria. [...]

Tenendo conto delle caratteristiche della bomba C-500 e delle proprietà dell’aggressivo in essa contenuto si possono trarre le seguenti norme generali a carattere orientativo, sulla scelta dei bersagli e sulle modalità d’azione, norme che dovranno di volta in volta essere applicate a seconda delle esigenze che la particolare situazione richiede.

1. Scelta dei bersagli

L’azione dell’aggressivo liquido è sempre diretta a colpire esseri animati (agglomerati di persone o di bestie).

L’obiettivo animato può essere colpito direttamente facendo cadere su di esso la pioggia di aggressivo, od indirettamente facendo cadere la pioggia di aggressivo su una zona di terreno che esso certamente ed entro breve tempo dovrà attraversare [meno di 24 ore].[...]In questo caso è da tener presente che, quando l’odore dell’aggressivo sia noto al nemico, questo potrà evi-tare di attraversare la zona infestata allungando magari il suo percorso di marcia. In tale caso si sarà solo causata al nemico una perdita di tempo, cosa questa che può però avere, in particolari condizioni, qualche importanza.

[...][13]Non sarebbe razionale, salvo in rari casi, impiegare contro piccoli nuclei quantità di aggressivo sia pure mo-deste perché pochi uomini potrebbero facilmente porsi in salvo dalla nube aggressiva portandosi sopravven-to e soprattutto perché non si usufruirebbe del grande vantaggio offerto dall’azione portata con bombe C-500 di poter cioè colpire vastissime zone senza che nessuno degli esseri animati in esse contenuti possa sfuggire all’azione dell’aggressivo.

(Archivio dell’ Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, Fondo AOI, cart. 176, fasc.1.)

Vediamo una documentazione fotografica su questa bomba:

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un bombardamento con queste bom-be su un villaggio

un poco di morti

un volto sfigurato dall'iprite

 

 

http://www.intermarx.com/ossto/osstomenu.html

Il genocidio italiano in Cirenaica, 1930-1931[1] 

di Matteo Dominioni

 

La conquista della Libia negli anni si dimostrò ben più difficile di quanto si era propagandato. Anche duran-te gli avvenimenti bellici molte cose non si vennero a sapere, soprattutto in patria, per via di un distacco, cercato ed ottenuto nei fatti, tra il fronte e la patria. Tale distacco emerge prepotentemente nel momento in cui il conflitto si tramutò da nazionale, fatto da un esercito regolare di massa con gossi apparati per la crea-zione dell'opinione pubblica, in coloniale, fatto da volontari, coloni e mezzi militari più evoluti. Agli inizi del 1930 si stava ultimando, dopo un ventennio di guerra, la conquista della parte occidentale della Libia, la Tri-politania, mentre ad oriente, Cirenaica, era in atto uno scontro tra fascisti e patrioti libici che durò più a lun-go e fu più intenso negli scontri.In gennaio il generale Graziani, sulla scia della popolarità e degli agganci seguiti alla conquista della Tripoli-tania, viene nominato vicegovernatore della Cirenaica e insieme a Badoglio diventa uno dei personaggi chia-

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ve della fase finale, quella risolutiva. Per farci un'idea del loro operato è sufficiente ricordare, per ora, che il primo diede vita ai "tribunali volanti" con diritto di morte per reati quali possesso di arma da fuoco o paga-mento di tributi ai ribelli; il secondo propose l'utilizzo di strumenti terroristici, quali le bombe ad aggressivi chimici per stroncare la resistenza libica[2].Il fronte opposto era occupato dalla Senussia, organizzazione statuale dei seminomadi di religione musul-mana. Nata agli inizi dell'ottocento, si basava su di numerose zauie, luoghi periferici del controllo politico, e allo stesso tempo religioso, che regolavano l'attività dei commerci, del pagamento delle decime e dell'attività amministrativa e giudiziaria in una società di numerosi duar, accampamenti talvolta militarizzati, sparsi per l'altopiano del Gebel.

I fascisti compresero che per rompere i legami organizzativi della resistenza dovevano eliminare la Senussia come fattore di mantenimento dell'ordine feudale. In un territorio come quello del Gebel però non era ac-cettata l'invasione di stranieri che poteva mettere a repentaglio il delicato equilibrio ecologico, in relazione alla densità demografica, che si era instaurato. L'altopiano presentava maggiori possibilità di coltivare e alle-vare bestiame soprattutto per la presenza di piogge senz'altro maggiori che nella parte occidentale del paese. Tale fertilità tuttavia veniva messa in discussione dall'arrivo di nuove genti che non avevano minimamente intenzione di mantenere il naturale ordine delle cose della natura ma di colonizzare e portare un altro mon-do fondato sul dominio e non sul rispetto della natura.

L'invasione fu vista come annientamento delle proprie risorse e di conseguenza della propria esistenza. Resi-stere significava tentare di sopravvivere, farsi soggiogare era, agli occhi dei libici, come andare incontro a un suicidio perchè avrebbe rotto il naturale rapporto di equilibrio con la natura e con esso la vita stessa. Chia-rendo tale atteggiamento della maggioranza della popolazione locale, che non deve essere colto solamente nell'omogeneità delle posizioni data la numerosa eterogeneità delle culture di origine tribale, è possibile comprendere il forte attaccamento per l'indipendenza che portò tutta la popolazione a collaborare coi ribelli ed a pagare di persona.Di fronte ai colonizzatori si presentava un problema di non poco conto: la zona più ricca della Libia, la Ci-renaica, era quella che presentava una ribellione diffusa e difficile da sconfiggere perchè mimetizzata nel ter-ritorio e soprattutto perchè godeva dell'appoggio della popolazione. Non dev'essere trascurato il ruolo della dirigenza della resistenza che, grazie soprattutto all'opera di Omar al-Mukhtar, fu in grado di impiegare un efficiente sistema informativo e un veloce reclutamento delle forze.

I fascisti decisero un'azione radicale sulla collocazione geografica delle etnie per mezzo di movimenti coatti di popolazione. A partire dal 25 giugno 1930 si decise per la creazione di campi di concentramento che do-vevano contenere le popolazioni del Gebel che avevano dato maggiore appoggio alla resistenza. Furono immuni alla detenzione le popolazioni già sottomesse e quelle stanziate al di fuori del Gebel. Lo scopo era quello di rompere ogni legame tra ribelli e popolazione ma anche di rompere ogni possibilità di autosussi-stenza delle comunità. Lo stesso Badoglio, cosciente di cosa stava andando a fare, dice: "Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sotto-messa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica"[3].

Quanti furono i deportati dal Gebel ai campi limitrofi alla costa? Giorgio Rochat giunge ad una stima, per approssimazione, di 100/120.000 persone, praticamente tutta la popolazione del Gebel. Tuttavia, anche operando in modo così radicale, non si raggiunsero gli obiettivi prefissati cosicchè a fine agosto fu deciso di muovere nuovamente i campi in zone costiere perchè i legami tra Senussia e popolazione non erano venuti meno. Furono inasprite le sanzioni verso i detenuti e irrigidite le norme riguardanti la detenzione. All'inter-no dei campi vigevano condizioni precarie per la mancanza di cibo e di risorse; ci furono epidemie di tifo a cui difficilmente si riuscì a porre rimedio per l'assoluta mancanza medici - due per 60.000 detenuti - e di strumenti basilari, anche semplici pentole, per sterilizzare vesti e vettovagliamenti. Il disinteresse dei fascisti si tramutò in una filantropia che si concretava nel trasmettere, forzatamente, ai locali una sorta di etica del lavoro. Venivano negati i mezzi di produzione (terra e bestiame) ma allo stesso tempo si ricercava di inserire (sussumere) i locali in lavori di natura propriamente capitalistica.

La popolazione del Gebel, una volta rinchiusa, divenne versatile serbatoio di forza lavoro a basso prezzo da inserire nelle innumerevoli opere pubbliche (soprattutto strade) che andavano di pari passo coll'occupazio-ne. Ai lavoratori veniva dato un salario tre volte inferiore a quello degli italiani che li metteva su di un piano di subordinazione ed allo stesso tempo li privava gradatamente degli strumenti e delle conoscenze nei lavori tradizionalmente sviluppati. Alle donne venivano dati telai e materie prime da impiegare nella fattura di tap-

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peti e tessuti. Lo scopo era inserire gradatamente la popolazione entro un rapporto sociale legato al salario e alla produzione per l'accumulazione e non per l'autoconsumo. Tuttavia tali iniziative erano destinate a fallire, perchè i fascisti volevano ricreare in maniera coatta comunità artificiali di autosussistenza, senza rendersi conto che la precedente distruzione dell'autosussistenza formatasi attraverso pratiche graduali socialmente e culturalmente accettate impediva poi di ricreare mondi artificiali funzionanti in tale realtà perchè ad essa estranei.

Fu imposto un vero e proprio modo di produzione altro. Se le popolazioni erano in precedenza occupate nell'allevamento del bestiame e nell'agricoltura, ora venivano impiegate nella costruzione di opere edili o nella pesca. L'imperialismo italiano fu innanzi tutto esportazione di un modo di produzione che andò a de-strutturare i rapporti sociali precedenti.

Un altro modo per spezzare i legami tradizionali della società libica fu l'eliminazione del 90-95% del bestia-me tra gli anni 1930-1931. In una società dedita alla pastorizia, oltre che all'agricoltura e al commercio, veni-vano messi in discussione i requisiti minimi di approvvigionamento delle popolazioni del Gebel. Un ultimo provvedimento fu infine utilizzato per fare terra bruciata attorno ai ribelli di Omar al-Mukhtar: la proibizio-ne del commercio con l'Egitto, dove circa 20.000 libici che si erano rifugiati erano certamente interessati a dare man forte ai patrioti. Più tardi, allo scopo di porre fine al contrabbando che avveniva per mezzo di pic-cole spedizioni su cammelli, i fascisti decisero di costruire un reticolato lungo 270 km lungo la direttrice Bardia-Giarabub. Dall'aprile a settembre 1931 fu costruito tale recinto largo qualche metro e impenetrabile perchè controllato per mezzo di fortini e voli aerei.

Una volta depredato il Gebel, per il lungo e per il largo, agli italiani non restava altro che porre fine alla resi-stenza in un ambiente finalmente immune, dove i rastrellamenti risultarono efficaci a tale scopo. I ribelli non avevano più la possibilità di muoversi in maniera discreta ed era venuta meno la precedente copertura delle popolazioni. Gli esploratori al servizio degli italiani tallonavano i ribelli passando informazioni tempestive ai comandi per un pronto intervento. L'accerchiamento dei ribelli veniva fatto in maniera tale da presidiare eventuali vie di fuga. In caso di fuga intervenivano l'aereonautica e la cavalleria per inseguire in maniera più stringente il nemico.L'arresto di Omar al-Mukhtar avvenne nel settembre del 1931 e l'esecuzione della con-danna a morte, già decisa in sede extragiudiziaria, si tenne, secondo macrabo rito colonial-fascista, sulla pubblica piazza. Il 9 dicembre si riunirono i rimanenti oppositori all'occupazione e decisero per la resa. L'uccisione di Omar al-Mukhtar apparve come l'episodio definitivo di una serie che aveva portato a un velo-ce indebolimento della Senussia.Una volta intacccate, come si è visto, le basilari strutture della produzione, dei commerci e dell'amministra-zione, la vittoria era totale . Furono distrutti non solo i caratteri propriamente endogeni della società senus-sita, ma anche quelli esogeni come il rapporto tra densità demografica-popolazione. E totale fu anche il do-minio, che fu subito da tutta la popolazione nonostante i ribelli in armi fossero tra i 600 e gli 800, con varia-zioni a seconda del dor che veniva coinvolto negli scontri.

Risulta enorme la sproporzione nel perseguire i ribelli e i loro fiancheggiatori: i secondi pagarono molto di più, primo perchè erano marginalmente coinvolti nelle battaglie, secondo perchè perirono in maggior nume-ro. Si tenga conto del fatto che l'amnistia per i ribelli entrò in vigore prima della chiusura dei campi che an-darono in contro a tale sorte proprio a causa della contraddizione per cui non si potevano perseguire le po-polazioni anziché i diretti responsabili dei fatti.

Secondo fonti italiane i morti tra i ribelli per il periodo 1923-1931 sarebbero stati 6.500 ma c'è un vizio di forma in tali dati, che sono presi da materiale di parte. Altri sono i numeri macabri che emergono tenendo conto dell'esistenza dei campi, delle malattie, dei trasferimenti e dell'impoverimento arrecato alle popolazio-ni. Prendendo in considerazione valutazioni e censimenti della popolazione, effettuati prima e dopo la guer-ra dalle autorità coloniali, si ha la conferma di una impressionante diminuzione demografica nella Cirenaica. Da dati del 1928 gli abitanti sarebbero stati 225.000, mentre dal censimento del 1931 risulterebbero essere 142.000 compresi gli italiani e i nuovi immigrati. Tenendo conto di quanti fuggirono dal Gebel verso l'Egitto (10-15.000 persone) e del tasso di incremento demografico, il genocidio fascista dovuto alla repressione sa-rebbe di circa 45-50.000 persone che crescono fino a 70.000 se ai dati italiani si sostituiscono quelli dell'an-tropologo Evans-Pritchard[4] .

"Questo non è l'unico genocidio della storia delle conquiste coloniali, se ciò può consolare qualcuno, ma è certo uno dei più radicali, rapidi e meglio travisati dalla propaganda e dalla censura"[5].

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Una volta che la ribellione fu vinta le popolazioni non poterono tornare nei luoghi d'origine sul Gebel che erano destinati, essendo le zone più fertili, agli italiani. I libici subirono così la radicale modifica dei principa-li aspetti della vita materiale e non solo: in quanto seminomadi furono rinchiusi in riserve, dove essere sfrut-tati come manodopera semplice.

GRECIA 1943: quei fascisti stile SS 

Domenikon come Marzabotto. Oltre 150 uomini fucilati per rappresaglia. Ora un documentario alza il velo sulle stragi del nostro esercito. Occultate.di Enrico Arosio  da l'Espresso n° 9 del 6 marzo 2008

 

I partigiani avevano fatto fuoco dalla collinetta, quando il convoglio aveva rallentato in curva, a un chilome-tro dal Villaggio di Domenikon. Erano morti nove soldati italiani. Dunque i greci andavano puniti: non i partigiani, i civili, Domenikon andava distrutta. Per dare a tutti «una salutare lezione», come scrisse poi il generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo. «Qui al villaggio, prima, i soldati italiani veni-vano per un'ora o due, flirtavano con le donne, poi se ne andavano. A Elassona avevano fidanzate ufficiali. Erano dei dongiovanni», racconta un contadino davanti alla cinepresa. Prima, sì. Non il 16 febbraio 1943. Quel giorno gli italiani brava gente si trasformarono in bestie.

L'eccidio di Domenikon, la piccola Marzaabotto di Tessaglia, è un crimine italiano dimenticato. In stile nazi-sta, solo un po' meno scientifico. Fu il primo massacro di civili in Grecia durante l'occupazione, e stabilì un modello. Il primo pomeriggio gli uomini della Pinerolo circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazio-ne e fecero un primo raduno sulla piazza centrale. Poi dal cielo arrivarono i caccia col fascio littorio. Scesero bassi, rombando, scaricando le loro bombe incendiarie. Case, fienili, stalle bruciarono tra le urla delle donne, i muggiti lugubri delle vacche. Gli italiani gliel'avevano detto, raccontano i vecchi paesani:  «Vi bruceremo tutti». Il maestro, che capiva la nostra lingua, avvertì: «Mamma. Ci ammazzano tutti». Molti non avevano mai visto un aereo. Al tramonto, raccontano i figli degli uccisi, le famiglie di Domenikon furono portate sulla curva dei partigiani. Dopo esser stati separati dalle donne, tra pianti e calci, tutti i maschi sopra i 14 anni, fu ordinato, sarebbero stati trasferiti a Larisa per interrogatori. Menzogna. All'una di notte del 17 gli italiani li fucilarono nel giro di un'ora, e i contadini dovettero ammassarli in fosse comuni. «Anche mio padre e i suoi tre fratelli», ricorda un vecchio rintracciato da Stathis Psomiadis, insegnante e figlio di una vittima che si è dedicato alla ricostruzione dell'eccidio, indicando la collina di lentischi e mini. La notte e l'indomani i soldati della Pinerolo assassinarono per strada e per i campi pastori e paesani che si erano nascosti: fecero 150 mor-ti.

È tutto ricostruito nel documentario "La guerra sporca di Mussolini", diretto cl Giovanni Donfrancesco e prodotto dal! GA&A Productions di Roma e dalla televisione greca Err, che andrà in onda il 14 marzo su History Channel (canale 405 di Sky), La Rai si è disinteressata al progetto. Il film, che riapre una pagina odiosa dell'Italia fascista, si basa su ricerche recenti della storica Lidia Santarelli. La docente al Centre for European and Mediterranean Studies della New York University, parlarndo con "L'espresso" di Domenikon e dei massacri italiani in Tessaglia, Epiro, Macedonia, li definisce "un buco nero nella storiografia". Che cosa sa il grande pubblico della campagna di Grecia di Mussolini? Ricorda il presidente Ciampi, le commosse rievocazioni della tragedia di Cefaalonia, il generale Gandin e la divisione Acqui, le emozioni cinematografi-che di "Mediterraneo" e del "Capitano Corelli", con gli italiani abbronzati, generosi. portati a fraternizzare. Una proposta di legge (Galante e altri) presentata alla Camera il 24 novembre 2006 per istituire una Giorna-ta della memoria delle vittime del fascismo accenna all'eccidio di Domenikon; ma è un'eccezione.

Italiani brava gente? Per nulla. «Domenikon», dichiara la Santarelli nel film, «fu il primo di una serie di epi-sodi repressivi nella primavera-estate 1943. Il generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di oc-cupazione, emanò una circolare sulla lotta ai ribelli il cui principio cardine era la responsabilità collettiva. Per

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annientare il movimento partigiano andavano annientate le comunità locali» . L'ordine si tradusse in rastrel-lamenti, fucilazioni, incendi,  requisizione e distruzione di riserve alimentari. A Domenikon seguirono eccidi in Tessaglia e nella Grecia interna: 30 giorni dopo 60 civili fucilati a Tsaritsani. Poi a Domokos, Farsala, Oxinià. Le autorità greche segnalarono stupri di massa.

Civili trucidati dagli italiani per rappresaglia

Azioni di cui praticamente non esistono immagini, memorie sepolte negli archivi militari. il comando tede-sco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il ripetersi delle violenze contro i civili. Nel film il diario del soldato Guido Zuliani racconta di rastrellamenti e torture. Il capo della polizia di Elassona, Niko-laos Bavaris, scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: «Vi vantate di essere il Paese più civile d'Europa. ma crimini come questi sono commessi solo da barbari». Fu internato, torturato, deportato in Italia. La figlia: "Un incubo". Gli italiani imitarono i tedeschi, ma senza la loro tecnica. Nel campo di concentramento di Luisa, a nord di Volos dove nacque Giorgio de Chirico, furono fucilati per rappresaglia oltre mille prigionieri greci. Molti morirono, ricorda "La guerra sporca di Mussolini", di fame. denutrizione, epidemie. Le brande con i mate-rassi di foglie di granturco erano infestate dalle pulci. L'occupazione (sino al settembre '43 gli italiani ammi-nistrarono due terzi della Grecia, un terzo i tedeschi) si caratterizzò per le prevaricazioni continue ai danni di innocenti. La Tessaglia era il granaio greco. L'esercito italiano eseguiva confische, saccheggi, sequestri. In-trodotta la valuta di occupazione, il mercato nero andò alle stelle. La razione di pane si ridusse a 30 grammi al giorno. Il film mostra abitanti di Atene morti di

Bambini vittime della carestia ammassati in ospedale ad Atene nel 1941

fame gettati come stracci agli angoli delle strade. «Nel solo inverno 1941», ricorda la professoressa Santarelli a "L'espresso", «da carestia indotta dall'amministrazione italiana fece tra i 40 e i 50 mila morti. Nell'intero periodo morirono di fame e malattie tra i 200 e i 300 mila greci. Un altro capitolo poco studiato è la prosti-tuzione: migliaia di donne prese per fame e reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani». Nel 1946 il ministero greco della Previdenza sociale, nel censire i danni di guerra, calcolò che 400 villaggi aveva-no subito distruzioni parziali o totali: 200 di questi causati da unità italiane e tedesche, 200 dai soli italiani.

La Grecia rimossa ci costringe a riflettere. Come dice nel film lo storico Lurz Klinkhammer, il massimo stu-dioso di atrocità tedesche in Italia: «La leggenda del bravo italiano non è completamente inventata. Ciò che è inventato è che tale immagine fosse l'aspetto dominante nell'occupazione di quei territori». I generali Geloso e Benelli altro non fecero che applicare le linee guida del generale Roatta in Jugoslavia, che teorizzò la stra-tegia «testa per dente». Klinkhammer dichiara che le fucilazioni italiane in Slovenia, nella provincia di Lubia-na. ebbero le stesse dimensioni delle fucilazioni tedesche in Alta Italia dopo l'8 settembre. Oltre 100 mila slavi transitarono per i campi di concentramento italiani in Jugoslavia. Nell'isola di Rab, di cui il film mostra cadaveri scheletrici, morì il 20 per cento dei prigionieri. Klinkhammer usa per l'esercito di Mussolini, ricor-dando i crimini in Etiopia e Cirenaica con l'impiego di gas contro i civili, il termine "programma di elimina-zione". E se dopo il 1945 Badoglio e Graziani furono i primi due criminali di guerra elencati dalle autorità etiopi, per la Grecia e i Balcani furono sollevate analoghe richieste per i generali Roatta, Ambrosio, Robotti e Gambara.

Fucilazione di civili in Slovenia

A Londra la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra ricevette una lista con più di 1.500 se-gnalazioni di criminali di guerra italiani. Perché tutto andò insabbiato? Ecco un'altra rimozione nazionale. Nel 1946 era cambiato tutto: l'Europa spaccata in due tra Alleati e blocco sovietico. L'Italia di De Gasperi rientrava nella strategia di compattamento occidentale contro Stalin. Il nostro governo rifiutò la consegna dei responsabili di atrocità alla Grecia. Mentre De Gasperi istituiva una commissione d'inchiesta, chiedeva a Washington di temporeggiare. Stessa richiesta da Lord Halifax per il governo britannico, pur vicino alla Grecia, dove infuriava la guerra civile tra monarchici e comunisti. In breve: l'Italia rinunciò a chiedere estra-dizione e processo per i criminali nazisti (ricordate "l'armadio della vergogna"), la Grecia fece lo stesso con l'Italia. La Guerra fredda fu la pietra tombale alle richieste di giustizia (vedere intervista a Filippo Focardi qui sotto).

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Domenikon oggi è un paesino circondato dalla macchia, da ginepri, cardi e rosmarini. I tramonti lo tingono di rosa come nel 1943. I patrioti come Stathis Psomiadis hanno cercato di sollevare il velo dell'oblio, e que-sto documentario è un tributo agli innocenti. la realtà però è amara. Domenikon, riconosciuta città martire nel 1998, non è diventata memoria collettiva, come da noi Marzabotto. Molti greci non conoscono queste vicende. Perché già nel 1948, con la rinuncia del governo a chiedere l'estradizione dei criminali italiani, la questione si chiuse. I processi non furono mai istruiti. Anni dopo anche il Tribunale di Larisa archiviò il ca-so. E di Domenikon resta la memoria di pochi, gente semplice, poco rnediatica, come si dice oggi. E un tramonto rosa malinconico. Sopra il villaggio, sopra la giustizia e la storia.

IN NOME DELLA REALPOLlTIK colloquio con Filippo Focardi

Perché di Domenikon e dei massacri italiani in Grecia ancora oggi non si sa nulla? Risponde lo storico Fi-lippo Focardi dell'Università di Padova.

«Ci si lavora in pochi, più o meno dal 2000. Si è studiata abbastanza l'Africa orientale, poco la Jugoslavia e la Grecia. Domenikon è a tutti gli effetti una strage sconosciuta».

Esiste una differenza tecnica tra strage italiana e strage tedesca?

«La differenza sostanziale, rispetto a Marzabotto, sta nel fatto che gli italiani trucidarono solo i maschi sopra i 14 anni. Klinkhammer parla del "codice maschile della guerra". Se vogliamo, Domenikon è paragonabile alla strage tedesca di Civitella Valdichiana, estate 1944».

Perché gli alleati protessero l'Italia dalle richieste sui crimini di guerra?

«Primo motivo: lo status internazionale dell'Italia, che si differenziò dalla Germania dopo 1'8 settembre con il riconoscimento della cobelligeranza. Tutti i partiti italiani, dalla Dc al Pci, già dal maggio 1944, chiesero che i criminali di guerra fossero giudicati e puniti in Italia. Secondo: la politica degli angloamericani nella logica nascente della Guerra fredda. La Gran Bretagna, che era intenzionata a punire gli italiani per i crimini contro i prigionieri inglesi, col governo Attlee finì per proteggere Badoglio e la sua cerchia. Washington era impegnata a procrastinare, circa le richieste greche e jugoslave, dopo l'occupazione di Tito della Venezia Giulia, e gli inglesi si avvicinarono alle posizioni Usa anche per non indebolire il governo italiano. Nel 1946, in vista del trattato di pace, si impose una politica di stallo, con accordi diplomatici riservati».

Temporeggiò anche il governo De Gasperi rispetto all'estradizione dei criminali nazisti .

«Infatti. I criminali di guerra tedeschi processati in Italia, tra il 1947 e il 1962, furono pochissimi: appena 13 sentenze. Il nostro governo volle evitare un'ondata di procedimenti contro i tedeschi anche per proteggere i criminali italiani da un effetto boomerang. In Francia vi furono centinaia di processi, in Olanda oltre 200, in Danimarca 77. In Italia non si ebbero sentenze capitali, l'ergastolo a Kappler, Reder e a un contumace. E anche Mischa Seifert arriva tardi».

Le stesse autorità greche si arresero presto.

«Che io ricordi, l'unico criminale italiano processato dai greci fu Giovanni Ravalli, del servizio informazioni della divisione Pinerolo, coinvolto nelle repressioni antipartigiane. Arrestato. giudicato dal tribunale di Ate-ne. condannato all'ergastolo nel 1946. si salvò perché era stato compagno di scuola di Francesco Bartolotta, capo di gabinetto di De Gasperi: grazie all'azione del governo italiano fu graziato dal re nel 1950. Nella memoria collettiva greca i crimini italiani furono oscurati da due fattori: prima dalle atrocità tedesche, poi dalla sanguinosa guerra civile».

E. A.

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1939, mille morti in una foiba

Etiopia: quella strage fascista mai raccontata

dal nostro inviato PAOLO RUMIZ (Da Repubblica del 22 maggio 2006)

 

ADDIS ABEBA

Fucilati dopo la resa o avvelenati con i gas nella grotta dove si erano rifugiati. Mille morti, come minimo. Peggio di Marzabotto, perché non fu rappresaglia. Peggio di Srebrenica perché morirono anche donne, vecchi e bambi-ni. Unico paragone possibile, le foibe, ma con un'esecuzione concentrata in un unico luogo. Le prove di un efferato crimine italiano riemergono in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell'impero, gettano luce sini-stra su un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da scampagnata coloniale. Le ha trovate in queste settimane Matteo Dominioni, 33 anni, dottore di ricerca dell'università di Torino. Prima le carte, do-cumenti inoppugnabili. Poi le ossa umane, nella grotta dell'infamia, ancora avvolte da fosche leggende. La con-ferma definitiva di quanto avvenne in quelle ore tra il 9 e 1'11 aprile 1939. Tutto comincia per caso, con un pacco di telegrammi dimenticati in un faldone dal titolo «Varie» all'ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito. Dentro, un manoscritto senza firma, con una mappa della zona di Debra Brehan, 100 km a Nord di Addis Abeba, nell'al-to Scioa. Il contenuto, confermato da altri documenti, è agghiacciante.

UNA carovana di «salmerie» dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di liberazione, si è rifugia-ta in una grotta dopo essere stata individuata dall'aviazione italiana, e non accenna ad arrendersi pur essendo circondata da un numero soverchiante di uomini. La sproporzione è totale: le «salmerie» della resistenza etiope sono in prevalenza vecchi, donne e bambini, parenti degli uomini in armi, che garantiscono la cura dei feriti e il sostentamento dei partigiani alla macchia (ad Adua, mezzo secolo prima, dietro ai 100 mila combattenti e'erano 80 mila persone di supporto).

La grotta ed alcuni poveri resti

L'ordine dei Duce è perentorio: stroncare la ribellione che perdura sulle montagne a tre anni dall'ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Ma stavolta stanare i ribelli è impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con bombe a gas d'arsina e con la micidiale iprite che devastò le trincee della Grande Guerra.

L'Italia ha firmato il bando internazionale di queste armi letali, ma ormai le usa in grande stile su autorizza-zione di Mussolini. Nella grotta il «bombardamento speciale» — gli eufemismi sulle bombe intelligenti si inaugurarono allora — è portato a termine dal «plotone chimico» della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più «nobili» delle nostre Forze Armate.

La notte dopo, una quindicina di ribelli armati tenta una sortita e riesce a scappare. Molti cadaveri vengono gettati fuori dalla grotta. Gli altri muoiono avvelenati o si arrendono all'alba del giorno 11. Ottocento per-sone, si legge nel documento, che il mattino stesso vengono fucilate, «d'ordine del Governo Generale». Co-me dire del generale Ugo Cavallero o dello stesso Amedeo di Savoia, pure lui di nobile reputazione. Un massacro, contro ogni norma della convenzione di Ginevra. Ma non è finita. Dentro c'è chi resiste ancora — uomini, donne e animali — e i nostri chiedono i lanciafìamme per «bonificare» l'antro, ramificatissimo. I meticolosi telegrammi degli alti comandi sono istantanee dall'inferno. «Si prevede che fetore cadaveri et ca-rogne impediscano portare at termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mi-ne. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche». La prevalenza di inermi disarmati tra i ribelli è ormai chiara. In quegli stessi giorni, in un'altra grotta della zona, ne vengono uccisi 62, di cui due donne. Ma vengono «ri-sparmiate 62 donne et 58 bambini», poi sono «catturati 33 muli, 3 cavalli et 23 asini denutriti dal lungo di-giuno», e successivamente altri «27 uomini, 16 donne e 4 bambini».

Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato di Dominioni. Ma mancano ancora i riscontri sul ter-

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reno, così il ricercatore organizza un blitz col supporto dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Va in Africa dove viene accompagnato dal giovane studioso etiope Johnatan Sahle. Siamo a fine aprile, in tempo per evitare le grandi piogge equatoriali. La mappa trovata allo Stato maggiore consente di individuare facilmente la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un terreno crivellato di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di Ankober, 2600 metri di quota, alta sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà.

La zona di uno dei numerosi crimini della brava gente italica

E' dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme («non ottocento, ma migliaia di morti») e l'indicazio-ne delle strada giusta, fino al paesino di Zemerò, e poi — per altri 30 chilometri fuori pista — fino al villag-gio di Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia, 180 metri a picco sopra la bocca dell'inferno. Il nome della grotta dice già tutto: Amezegna Washa, antro dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuoi dire Fiu-me del Tiranno. All'imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti dell'esercito italiano. La gente del posto ha già elaborato magicamente l'evento, racconta che gli scheletri trovati davanti alla grotta sono «caduti dal cielo come monito» e poi sono stati spostati nella chiesa di Jigem, ora irraggiungibile perché infestata di briganti.

Dentro la caverna non c'è più andato nessuno, da allora. Si dice che sia piena di spiriti, pronti a spegnerti la candela con un soffio per inghiottirti nel buio. Ma Dominioni ha una dotazione di torce elettriche che nes-sun Grande Spirito può toccare, così molti giovani del villaggio si fanno coraggio e decidono di accompa-gnarlo nella caverna, in una missione scientifica che per loro diventa esorcismo. Dentro, un labirinto, in par-te impercorribile. Ma bastano i primi cento metri alla luce incerta delle torce per dare conferme. «Ossa dap-pertutto — racconta il ricercatore — quattro teschi, di cui uno con addosso la pelle della schiena; proiettili, vestiti abbandonati, ceste per il trasporto delle granaglie». E poi rocce annerite, forse dai bivacchi (ma era difficile che i ribelli accendessero fuochi il cui fumo li segnalasse all'aviazione italiana) o forse dai lancia-fiamme.

Gli italiani, raccontano i figli e i nipoti di chi vide, calarono verso l'imboccatura della grotta dei pesanti bi-doni che poi furono fatti esplodere con i mortai. Era quasi certamente l'iprite, il gas che corrode la pelle e brucia le pupille. E ancora: chi non fu fucilato, fu buttato nel burrone sotto la grotta. «Fu colpa degli ascari, le truppe indigene inquadrate nell'esercito italiano» è l'obiezione ricorrente di fronte ai massacri in Abissinia. «Ma gli ascari - ribatte Dominioni - non si muovevano mai senza l'ordine di un ufficiale bianco. La ferocia di queste repressioni era anche il segno dell'esasperazione dei fascisti di fronte alla resistenza degli etiopi. La rabbia per un controllo incompleto del territorio».

No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione di Gondar, Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece buttare i capitribù nelle acque del Lago Tana con un masso legato al collo. Achille Starace ammazzava i prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza, prima li feriva con un colpo ai testicoli. Fu quella la nostra «missione civilizzatrice»? L'Africa per noi non fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito poi nei forni di Bir-kenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di «buono»— Italo Balbo governatore della Libia — fece frustare in piazza gli ebrei che si rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato. 

Quanti perfidi depistaggi della coscienza. «Ambaradan», per esempio. Da noi è una parola che fa ridere; vuoi dire «allegra confusione». Ma quando sai cosa accadde nella battaglia dell'Amba Aradam, montagna fatale dell'Etiopia, quel termine sembra coniato apposta per coprire l'orrore. Migliaia di tonnellate di iprite per sta-nare i nemici arroccati nelle grotte, cioè morte orrenda, inflitta vigliaccamente con sofferenze inaudite. Ba-doglio fece agli etiopi ciò che Saddam fece ai Curdi. Solo che Saddam è alla sbarra, e l'Italia non ha risposto dei suoi crimini.

«C'è bisogno di parlarne — spiega Dominioni—il vuoto storico e morale da riempire è enorme. A ottobre sarà la prima volta che italiani ed etiopi dibatteranno insieme ad un convegno, a Milano, sull'Africa orientale italiana sotto vari aspetti, organizzato dall'Insmli. Prima non s'era fatto mai». La cosa, ovviamente, dà fasti-

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dio. Chissà che agli etiopi non venga in mente di chiederci danni di guerra, cosa che finora non hanno fat-to».

«Gli etiopi non hanno mai capito perché l'Italia ha voluto quella guerra dopo innumerevoli trattati di pace, fratellanza e promesse di coesistenza pacifica» va giù duro il professor Abebe Brehanu, uno dei massimi sto-rici di Addis Abeba. «E che sia chiaro — insiste — la vostra non fu una colonizzazione, ma una semplice invasione, contro tutti i trattati internazionali. Un atto di illegalità totale di cui ci chiediamo ancora il senso».

ALCUNE CONCLUSIONI DEDICATE AI BIPEDI IMPLUMI ACEFALINon sono altro che alcune informazioni fondamentali per persone pensanti ma, appunto, occorre esse-re pensanti. Come sappiamo i fascisti non lo sono e danno giudizi senza mai preoccuparsi di informar-si. Il loro cervello è piccino e vi sono pochi neuroni, tutti disastrati, molti zoppi e quindi non in grado di trasferire informazioni. Bisogna accarezzarli e dir loro sempre sì, in fondo sono come cagnolini sem-pre obbedienti al padrone.

Riguardo al sindaco di Affile, Ercole Viri, probabilmente non sa chi era anche Almirante. Per ricordarglielo parto un poco indietro nel tempo.

Quando Milano cadeva perché i partigiani la stavano via via occupando tutta, Almirante scappò dal palazzo del potere in cui era rifugiato, si travestì da partigiano con il foulard rosso al collo e scappò verso il Sud d’Italia. Ora, o Mussolini era un quaquaraquà oppure ciò che diceva aveva un senso. Ricor-date il Se avanzo seguitemi e se indietreggio uccidetemi!? Ebbene i partigiani che lo hanno catturato non hanno fatto altro che rendere onore alle sue volontà, lo hanno ammazzato anche perché scappava con varie casse d’oro degli italiani verso la Svizzera. Un altro fuggiasco era proprio Almirante, un noto massacra-tore della RSI che firmava manifesti che condannavano alla fucilazione tutti coloro che avessero colla-borato con la Resistenza. Fu Terracini che cercò di farlo arrestare ma un Parlamento imbelle fatto di democristiani e fascisti in doppio petto lo ha impedito. Fare un monumento ad Almirante ed intestargli una piazza può essere iniziativa solo di un paesino sperduto di una Repubblica delle Banane. Occorre inviare giornalisti e fotografi e fotografare alcuni strani abitanti della Repubblica.

In questa Repubblica delle banane il Presidente è appeso ad una liana e si dondola senza sapere nulla del mondo in cui vive. Così Graziani sarebbe una brava persona? Uno assolto dal crimine di colla-borazionismo con i tedeschi. Bravo l’umano sulla liana! E’ uno che sa tante cose! Solo che Graziani non ha commesso crimini contro l’umanità perché ha collaborato con i tedeschi ma per altro, per moltissi-mo altro che in queste pagine è raccontato. Può darsi che ad un fascista le cose dette non facciano im-pressione, infatti sono crimini contro l’umanità e non contro quelli della Repubblica delle banane.

Ma il sindaco che tra un’oscillazione ed un’altra della liana adocchia qualche notizia ci racconta di foibe e massacro degli italiani d’Istria. Poverino, non ne azzecca una. Ma poiché occorre salvare dal degrado tanta persona occorre raccontargli come stanno le cose.

FOIBE: GLI ASSASSINI RECLAMANO LA MEMORIAwww.fisicamente.net

Tanti anni fa, nel 1945, le brigate di Tito in Jugoslavia, si liberarono dal nazifascismo senza alcun inter-vento di qualche potenza esterna. Da soli, dopo anni sulle montagne e soggetti alle violenze criminali degli occupanti sostenuti da una Chiesa fascista, quella di Beato Stepinac, riuscirono a cacciare gli occu-panti. Chi erano in dettaglio questi ultimi? Tedeschi ed italiani che misero in piedi 22 campi di concen-tramento per sterminare i serbi, gli zingari, gli ebrei, i gay, ... ogni persona che puzzasse di antifascismo

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o risultasse diversa. Da questa operazione che tra gli italiani era guidata da generali e da ladri come Gelli che si addestrava alla professione rubando lingotti d'oro alla Banca di Belgrado.

Nei campi di sterminio nazisti e fascisti, dove si veniva ammazzati anche da una mazza spaccapietre che ti colpiva sul cranio sfondandolo, furono fatte fuori 800 mila persone gettate in fosse comuni (vedi: http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-612.htm , http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-299.htm, http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-52.htm). La Jugoslavia ebbe nella Seconda Guerra Mondiale ben 1 milione e 400 mila morti civili (e 300 mila militari), l'11 per cento della popolazione. E l'Italia, uno dei Paesi che aveva scatenato i massacri, solo 400 mila morti di cui 80 mila civili per un totale dello 0,9 per cento della popolazione (sempre furbi!).

Mano a mano che avanzava la sconfitta dei criminali, i tedeschi si ritirarono verso Nord mentre gli ita-liani scapparono verso Ovest inseguiti dalle brigate di Tito furiose per i 4 anni di crimini e violenze che avevano dovuto subire. I primi italiani li incontrarono in Istria e nei territori ex italiani della Dalmazia. La furia era incontenibile e gli italiani erano tutti uguali, tutti nemici acerrimi da sterminare. Ne presero a caso, li gettarono, alcuni ancora vivi, in fosse carsiche presenti nel territorio, le foibe. In totale questo secondo orrore comportò secondo la maggioranza degli storici dagli 8 mila ai 10 mila ammazzati.

Questi i fatti che la retorica bolsa degli italiani brava gente non ha mai voluto riconoscere, Solo pochi storici ne hanno scritto ma le cose che documentavano non avevano alcuna risonanza perché gli italiani continuavano ad essere brava gente. A questa retorica si è associato anche Napolitano quando ha esalta-to in modo commosso le vittime che sarebbero state della barbarie degli jugoslavi. Vi fu la protesta del Presidente della Slovenia ma Napolitano aveva ed ha certezze incrollabili che discendono dalle amicizie anticomuniste dei tempi miglioristi. E la storia non è maestra di nulla con i fondamentalisti.

I fascisti, la loro parte più ottusa (quasi tutti), esaltano la festa del 10 febbraio. Eppure grazie ad altri storici come Del Boca abbiamo appreso delle stragi che i nostri fulgidi eroi al comando di Roatta, Gra-ziani ed altri banditi hanno fatto in Africa. I gas che ammazzavano insieme all'Iprite, un napalm allo stato brado, contro popolazioni inermi per dare un impero al Duce esercitandosi nel razzismo mai mor-to in quei banditi (poveri diseredati italiani potevano e possono finalmente sentirsi superiori a qualcuno ...).

Quindi tutti felici e tra memorie e contromemorie non ve n'è mai una che ricordi il sacrificio di migliaia di partigiani che hanno ridato la libertà (oggi gravemente offesa) a questo Paese.

Ma noi stiamo vivendo in diretta un falso continuo giornaliero e quindi non dobbiamo stupirci. Cosa è altrimenti la telenovela dell’ex buon Presidente del Consiglio che è vittima di magistrati cattivi? Mai nes-suno ha avuto tanti processi come me, dice! Ma nessuno gli dice che forse è perché mai nessuno con tanti crimini da verificare si è azzardato ad assumere il potere.

Ed ora sindaco, se impara la lezione può scendere dalla liana. Altrimenti resti pure lì, ce ne fa-remo una ragione e continueremo la nostra grama vita senza il suo pendolare. Un’unica avvertenza non spenda i soldi pubblici per sciocchezze ma pensi ad un asilo, ad un ambulatorio, a cose utili a tutti … Ma già, da lassù lei non è in grado di vedere ….