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Blitz nell’arte figurativa 68. Il Novecento (14) L’arte figurativa tradizionale fu emarginata nel ‘900 perché considerata anacronistica. La considerazione è sicuramente eccessiva. Essa, per ignoranza, si riferisce all’arte accademica, tipica dell’800. Ma quest’ultima ha ben poco a che fare con l’arte figurativa per eccellenza. La questione sta nel fatto che la calligrafia pittorica e scultoria due secoli fa, con la presa del potere da parte della borghesia, s’inaridì, cristallizzandosi intorno a ripetizioni parodistiche esangui. Quando il Dada attacca questo tipo di arte, in realtà attacca l’egemonia borghese, cieca e sorda nei confronti della crescita culturale. Si ha una conservazione che si organizza in corporazioni nelle quali il “diverso” non entra. L’arte è solo un contorno da esibire, qualcosa di prezioso, o reso tale dalla propaganda economicamente interessata. Nulla a che vedere con il concetto artistico originale, ben orientato a coprire le necessità spirituali dell’uomo: un’evoluzione nella rappresentazione dell’immagine per scoprirvi verità assolute. Il fenomeno toccò il culmine durante Umanesimo e Rinascimento, l’uno per razionalizzare la spiritualità (per dare alla spiritualità una logica), l’altro per celebrare sentimentalmente questa razionalizzazione. Le immagini del tempo (siamo nel ‘400 e ‘500) contengono perfezioni mentali più che estetiche. La perfezione consiste nel fatto che il contenuto ammirevole e profondo si fa, inevitabilmente, forma esemplare. Dunque, la figura oggettiva, e soggettivamente partecipata, si conferma, con Leonardo, Raffaello e Michelangelo, con Tiziano, il solo autentico e possibile linguaggio delle arti figurative. La soggettività del Novecento è responsabile di un protagonismo fisico generale prodotto dal sistema sublimato in modo pseudo-intellettuale. L’arte figurativa tradizionale nel ‘900 è derisa, tuttavia fortunatamente sopravvive. I concetti espressi dal Postmodernismo le hanno ridato dignità, ancora di più la crisi dell’arte moderna, sempre più incolpata di auto-supervalutazione e di superficialità. La crisi delle gallerie si spiega anche così. Resistono i grandi nomi per via di una robusta rete commerciale che sa tramutare una cosa in qualcos’altro. Dunque, l’arte figurativa tradizionale può, tenendo conto della modernità delle visioni e considerazioni, continuare il suo cammino in modo più agevole. Insomma, non si può più dipingere e scolpire come nel ‘500 perché i tempi oggi sono molto diversi di quelli di ieri, le situazioni completamente cambiate, i riferimenti altri a causa di un’evidente emancipazione pratica e intellettuale. Quella pratica è preminente, per via dei benefici portati dalle varie rivoluzioni industriali, quella intellettuale vive quasi a parte, confortata dagli strascichi sentimentali del Romanticismo che tramuta in varie considerazioni morali, sovente incisive e naturalmente moderne. Il relativismo che ha caratterizzato il ‘900 è stato un terreno di coltura per queste considerazioni. Esse, negli animi più sensibili, hanno determinato espressioni intense. La figurazione è passata da una certa fissità accademica alla dinamicità grazie agli Impressionisti. Il linguaggio pittorico è cambiato per il loro intervento rivoluzionario nella partecipazione alla realtà e nella resurrezione dell’idealismo. Gli Impressionisti rappresentano una borghesia illuminata, avviata a fondare una cultura nuova, più umana, sganciata dalla musealità. Eredi di questa illuminazione sono gli Espressionisti, campioni di una seconda rivoluzione espressiva, meno romantica della prima, che la pittura figurativa sta tuttora vivendo, provando a migliorarla, a renderla più efficace nei confronti dell’interpretazione della realtà e del conseguente intervento su di essa. Qui procederemo a esempi, presunti, di pittori che hanno lavorato sull’immagine

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Blitz nell’arte figurativa

68. Il Novecento (14)

L’arte figurativa tradizionale fu emarginata nel ‘900 perché considerata anacronistica. La considerazione è sicuramente eccessiva. Essa, per ignoranza, si riferisce all’arte accademica, tipica dell’800. Ma quest’ultima ha ben poco a che fare con l’arte figurativa per eccellenza. La questione sta nel fatto che la calligrafia pittorica e scultoria due secoli fa, con la presa del potere da parte della borghesia, s’inaridì, cristallizzandosi intorno a ripetizioni parodistiche esangui. Quando il Dada attacca questo tipo di arte, in realtà attacca l’egemonia borghese, cieca e sorda nei confronti della crescita culturale. Si ha una conservazione che si organizza in corporazioni nelle quali il “diverso” non entra. L’arte è solo un contorno da esibire, qualcosa di prezioso, o reso tale dalla propaganda economicamente interessata. Nulla a che vedere con il concetto artistico originale, ben orientato a coprire le necessità spirituali dell’uomo: un’evoluzione nella rappresentazione dell’immagine per scoprirvi verità assolute. Il fenomeno toccò il culmine durante Umanesimo e Rinascimento, l’uno per razionalizzare la spiritualità (per dare alla spiritualità una logica), l’altro per celebrare sentimentalmente questa razionalizzazione. Le immagini del tempo (siamo nel ‘400 e ‘500) contengono perfezioni mentali più che estetiche. La perfezione consiste nel fatto che il contenuto – ammirevole e profondo – si fa, inevitabilmente, forma esemplare. Dunque, la figura oggettiva, e soggettivamente partecipata, si conferma, con Leonardo, Raffaello e Michelangelo, con Tiziano, il solo autentico e possibile linguaggio delle arti figurative. La soggettività del Novecento è responsabile di un protagonismo fisico generale – prodotto dal sistema – sublimato in modo pseudo-intellettuale. L’arte figurativa tradizionale nel ‘900 è derisa, tuttavia fortunatamente sopravvive. I concetti espressi dal Postmodernismo le hanno ridato dignità, ancora di più la crisi dell’arte moderna, sempre più incolpata di auto-supervalutazione e di superficialità. La crisi delle gallerie si spiega anche così. Resistono i grandi nomi per via di una robusta rete commerciale che sa tramutare una cosa in qualcos’altro. Dunque, l’arte figurativa tradizionale può, tenendo conto della modernità delle visioni e considerazioni, continuare il suo cammino in modo più agevole. Insomma, non si può più dipingere e scolpire come nel ‘500 perché i tempi oggi sono molto diversi di quelli di ieri, le situazioni completamente cambiate, i riferimenti altri a causa di un’evidente emancipazione pratica e intellettuale. Quella pratica è preminente, per via dei benefici portati dalle varie rivoluzioni industriali, quella intellettuale vive quasi a parte, confortata dagli strascichi sentimentali del Romanticismo che tramuta in varie considerazioni morali, sovente incisive e naturalmente moderne. Il relativismo che ha caratterizzato il ‘900 è stato un terreno di coltura per queste considerazioni. Esse, negli animi più sensibili, hanno determinato espressioni intense. La figurazione è passata da una certa fissità accademica alla dinamicità grazie agli Impressionisti. Il linguaggio pittorico è cambiato per il loro intervento rivoluzionario nella partecipazione alla realtà e nella resurrezione dell’idealismo. Gli Impressionisti rappresentano una borghesia illuminata, avviata a fondare una cultura nuova, più umana, sganciata dalla musealità. Eredi di questa illuminazione sono gli Espressionisti, campioni di una seconda rivoluzione espressiva, meno romantica della prima, che la pittura figurativa sta tuttora vivendo, provando a migliorarla, a renderla più efficace nei confronti dell’interpretazione della realtà e del conseguente intervento su di essa. Qui procederemo a esempi, presunti, di pittori che hanno lavorato sull’immagine

convenzionale, puntando sull’espressività nascosta e adeguandola alla modernità della visione della vita e dell’umanità, gli stessi intenti perseguiti dall’arte moderna, ma ovviamente con più chiarezza e maggiore umiltà, vale a dire senza pretese psicologiche e psicanalitiche. L’emarginazione dell’arte classica fu prodotta dall’irruenza delle avanguardie che spazzò via l’accademismo, come pure il concetto d’immagine tradizionale, per quanto rivisitata da Impressionismo ed Espressionismo. Rimase, meno a margine, il Simbolismo da cui le avanguardie trassero maggiore ispirazione, potendo limitarsi a lavorare intorno a simboli segnici e a sottintesi resi cromaticamente. La ripresa della figurazione ortodossa avvenne principalmente in Italia: per quanto ormai culturalmente secondario, il Belpaese reagì, sommessamente ma orgogliosamente, allo strapotere avanguardistico con almeno tre iniziative di rilievo: il movimento detto “Novecento”; il “Chiarismo”, “Corrente”. Seguì poi da vicino l’importantissimo fenomeno denominato “Realismo Magico”, di portata internazionale.

Achille Funi (1890-1972), pittore nato a Ferrara, fu dapprima futurista, seguendo le orme di Boccioni, poi, dopo aver partecipato come volontario alla Grande guerra, si staccò dal movimento e fondò, insieme con altri, “Novecento” con il proposito di riprendere a dipingere tradizionalmente, avvalendosi delle esperienze impressioniste ed espressioniste, nonché dei suggerimenti indiretti delle avanguardie. “Novecento”, cui fecero parte Mario Sironi, Anselmo Bucci,

Leonardo Dudreville e altri, fu una formazione nata nel 1922, coordinata, e sostenuta, da Margherita Sarfatti, musa e rifugio degli artisti del tempo. Funi, fascista della prima ora, fu molto aiutato dal regime di Mussolini che gli commissionò affreschi e mosaici. Nel dopoguerra fu insegnante e direttore a Brera per diversi anni. Nell’ultima parte della sua vita si dedicò all’arte pompeiana e raffaellesca e dipinse paesaggi. L’arte di Funi è eterogenea. Pomposa, pur con qualche moderazione, quella del regime, incerta quella del momento futurista, cezanniana molta parte della successiva, interessante, pur con qualche riserva, quella del breve periodo novecentista. Il pittore ferrarese appare, in tale periodo, diviso fra la tentazione estetica e la volontà espressiva. Difficile è per lui la mescolanza delle due cose, a volte risolta con il ricorso a una poetica remota, modernizzata a fatica, con l’aiuto del colore limpido, per timore di una caduta inerte nel passato. Da considerare questa sua “Maternità”, anno 1925.

L’amore per l’espressione figurativa tradizionale è evidente in questo “Ritratto di marinaio” del 1916, realizzato da Anselmo Bucci (1887-1955) di Fossombrone (provincia di Pesaro e Urbino), per molto tempo residente a Monza, dove morì. Fece parte di “Novecento” ma se ne distaccò presto per realizzarsi anche come scrittore. Studiò a Brera, conobbe Boccioni. Nel 1906 fu a Parigi con Dudreville, amò l’incisione. Fu volontario nella Grande guerra. Si mantenne decorando piroscafi, visse isolato, pur facendo molte mostre. Il suo marinaio è un personaggio dotato di

malinconia emblematica, come avesse tutta l’esperienza della marineria (dell’umanità) sulle spalle. L’opera appare per molti versi datata, ma la cura, l’affetto per il personaggio e per ciò che rappresenta hanno ragione della ripetersi.

Più articolata e personale sembra la pittura di Leonardo Dudreville (1895-1975), pittore veneziano. Era attratto dalle opere di Segantini e sulle prime fu divisionista. Nel 1906 fu a Parigi con Anselmo bucci ma, evento eccezionale, dichiarò di esserne stato deluso. Tentò dell’astrattismo. Evitò l’arruolamento nella Grande guerra perché orbo a causa di un incidente giovanile. Studiò musica e divenne violinista e violoncellista, ma compose pure alcuni poemi sinfonici. Dall’astrattismo passò al realismo subito dopo non essere stato accettato da Boccioni nella compagine

futurista. Nel 1921 espose a Berlino, nel 1921, con “Valori Plastici” (Soffici, de Chirico, Savinio, Morandi e altri). l’anno successivo fu fra i fondatori di “Novecento” da cui si distaccò due anni dopo per seguire un proprio programma pittorico. Dudreville riteneva di poter dipingere come i fiamminghi. Intendeva lasciare la ricerca della realtà ultima delle cose – che secondo lui si poteva fare solo con la pittura realistica – per semplicemente contemplarle. La contemplazione prevedeva una spiritualità di tipo scientifico grazie alla quale la comunione con la realtà era maggiormente possibile. Nel 1942 Dudreville fuggì dai bombardamenti su Milano e si rifugiò a Ghiffa sul Lago Maggiore, dove rimase sino alla fine. Nel suo “buen retiro”, l’artista continuò a dipingere, scrisse le sue memorie e s’impegno nella costruzione di barche. La sua produzione è piuttosto eterogenea. Le cose migliori appartengono al primo realismo, quello non fiammingo, peraltro mai raggiunto, né raggiungibile, non per incapacità tecnica quanto per anacronismo concettuale. Interessante, per resa analitica e per una certa empatia con il personaggio, questo “Studio di carattere” del 1921.

Una delle migliori nature morte italiane, una poesia dipinta, fu realizzata nel 1930 da Pietro Marussig (1879-1937), triestino. Fu a Vienna e Monaco nei primi anni del Novecento, dove ammirò la pittura della Secessione Viennese (l’Art Nouveau, il Liberty). Nel 1905 visitò Parigi e ammirò la pittura di Cézanne, Gauguin e Matisse. Fu amico fraterno dello scultore triestino Antonio Camour. Partecipò alla Grande guerra, per nulla volentieri. Divenne

poi uno dei fondatori di “Novecento”, trovando qui la possibilità di sviluppare il suo talento. Marussig non amava la plasticità, il movimento, il virtuosismo forzato, per cui i principi di Novecento lo conquistarono. I suoi ritratti, le sue nature morte, sono immersi in un’atmosfera ideale a fissare la loro consistenza, il loro senso. Marussig creò una scuola di pittura a Milano ispirata ai metodi del ‘400.

Gravato dal problema esistenziale e salvato dalla religione, Ubaldo Oppi (1889-1942), di Bologna, fu forse il maggior pittore di Novecento che contribuì a fondare. Le sue figure hanno qualcosa di metafisico, posseggono una dinamicità interiore, riassunta esteriormente con platealità contenuta e riflessiva. Oppi frequentò Klimt nel 1906, a Parigi Modigliani nel 1911, per la sua avvenenza ebbe Fernande Olivier (amante di Picasso) ai suoi piedi. Divenne un beniamino di Margherita Sarfatti, la quale, pare, s’ispirò alle sue opere nel formulare una frase che divenne poi famosa “Il nuovo è solo una delle infinite modulazioni

dell’eterno”. È una frase sicuramente accattivante che sostiene in pieno il linguaggio figurativo per eccellenza, quello storicizzato. La Sarfatti sottolinea l’importanza di questo linguaggio in quanto impegnativo in senso interiore, intellettuale, e non certo bisognoso d’invenzioni esterne, addirittura contrarie al linguaggio stesso. Oppi fu autore di pale e affreschi di carattere ecclesiastico. La sua pittura è di notevole impatto sentimentale. Qui abbiamo “I pescatori di Santo Spirito”, anno 1924. L’artista fu, infine, un rappresentante del Realismo Magico. Il Realismo Magico, termine coniato da Franz Roh (storico, fotografo e critico d’arte) nel 1925, si riferisce, nelle arti visive, a espressioni precise, classiche, attonite, come se l’autore non ne fosse padrone ma spettatore colpito, ammirato dalla situazione rappresentata. Nel fenomeno entrano varie cause, fra cui la critica di costume e la riflessione sulle problematiche umane in senso esistenziale. Il movimento è internazionale e comprende anche la corrente del Precisionismo americano. Gli artisti più rilevanti, oltre a quelli citati, sono quasi sicuramente: Felice Casorati, Christian Schad, Ivan Albright, Paul Cadmus, Charles Sheeler, Georgia O’Keeffe, Edward Hopper. Pioniere inconsapevole, Vilhelm Hammershøi.

Vilhelm Hammershøi (1864-1908), pittore danese, ammirato da Renoir, stimato dal grande poeta Rainer Maria Rilke, sostenuto intellettualmente dal critico Théodore Duret, amato da Sergej Diaghilev, forse il maggior coreografo di sempre, era un artista isolato, mite, soggetto, senza esserne vittima, a un forte purismo spirituale. Tutto questo si traduceva in una sorta

di stasi e di estasi per la consapevolezza del problema esistenziale. Hammershøi rappresenta l’estasi con una certa prudenza, preferendo interventi meditativi di carattere razionale. Egli non vuole tanto capire quanto partecipare al mistero generale delle cose nel quale immette figure – quasi sempre la moglie (Ida Ilstad) di spalle - che non vogliono essere secondarie ai fenomeni. Le sue opere sono immerse in un silenzio sospeso, in una specie di attesa remota di una rivelazione. Il sottotono cela il desiderio di una rivelazione spirituale, non materiale. La pittura di Hammershøi è caratterizzata dalla sottrazione, dal vuoto che appare, in verità, un pieno misterioso al quale l’artista si adegua in modo attivo, come potesse divenire un secondo, non secondario, attore di quel pieno. Sensazionale la delicata intensità della sua espressione. Qui vediamo: “Uomo che legge”, anno 1898, e “Interno con raggi di luce sul pavimento”, anno 1901.

Di Felice Casorati (1883-1963) si propongono “Ragazza sul tappeto rosso”, anno 1912 (un piccolo capolavoro di sensibilità e raffinatezza) e “Ritratto di Riccardo Gualino”, anno 1922 (preciso nell’introspezione). Casorati era nato a Novara, da famiglia abbiente, imparentata con matematici e scienziati di fama. Per ragioni familiari si era spostato a Milano, Reggio Emilia, Sassari, Padova. Aveva fatto studi giurisprudenziali, non amati, e si era impegnato contemporaneamente con la musica, ricavandone un esaurimento nervoso. Si

rifece dipingendo (passione anche del padre). A Napoli studiò Bruegel il Vecchio. Più tardi fu affascinato da Klimt e dipinse con stile Art Nouveau, alla maniera di Toorop e di Beardsley. Partecipò involontariamente alla Grande guerra. Nel 1917 alla morte del padre si trasferì a Torino, divenendo amico del compositore Alfredo Casella e di Piero Gobetti (la seconda amicizia gli costò un arresto per antifascismo). Fondò una scuola per giovani pittori, assolutamente non accademica, alla quale partecipò anche Lalla Romano, poi scrittrice e Marisa Mori (pittrice anche lei, che divenne sua segretaria). Casorati ebbe contatti con “Novecento” ma non seguì la linea della Sarfatti. Trovò una propria cifra espressiva nel familiarizzare con l’immagine e nel contemplare il suo spirito. Casorati dà dignità a ogni visione in modo per così dire notarile, con l’aggiunta di aggettivi particolarmente adeguati: l’insieme riceve una vivacità intensa, tutta interiore, senza intellettualismi. Riccardo Gualino fu importante per il Nostro, essendo un industriale capace e un collezionista attento. Negli anni Venti Casorati fu un riferimento per l’arte italiana. Egli s’interessò anche di arte astratta, come novità, pur non praticandola.

Christian Schad (1894-1982), artista tedesco, preferì concentrarsi su una critica di costume degli anni Venti, susseguenti, cioè, ai disastri della Grande guerra, alla quale non partecipò (era riuscito a fuggire in Svizzera, dove vide nascere il Dada). Da qui la sua appartenenza alla “Nuova oggettività” con Otto Dix e George Grosz, ma senza quelle punte di sarcasmo, amaro, che i due proponevano. Schad era fondamentalmente un esteta, grazie agli studi

classici fatti all’Accademia d’Arte di Monaco di Baviera e ai successivi viaggi a Roma, Napoli, Vienna. La sua oggettività è una sorta di poetica osservazione sul dopoguerra, falsamente lanciato, nell’alta borghesia, verso la completa rimozione degli orrori delle trincee – viste come un semplice

episodio – e le fortunate occasioni offerte dalla ricostruzione. Nell’osservazione di Schad si avverte una pietas sia per se stesso che sta a guardare sia per l’indifferenza dei personaggi, negli occhi dei quali pone tuttavia uno sbalordimento remoto e incomprensibile per la storia di soli pochi anni prima, di cui essi non vogliono caricarsi. Schad pesca questi personaggi nei caffè alla moda, ponendoli come esempi del suo ragionamento. È un ragionamento che giunge alla formulazione di teorie responsabili che rilasciano una morale angosciosa. L’artista, pittore e xilografo, s’impegna a evidenziare questa morale, pur dimostrando, sconsolatamente, di non credervi tanto. La scarsa convinzione porta Schad a considerazioni di natura esistenzialistica che gli consentono la possibilità di una sorta di rivalsa attraverso l’identificazione di un orgoglio intellettuale presente nei suoi personaggi, emblematici, da recuperare doverosamente. Con l’avvento del nazismo, Schad si ritirò nella sua Baviera e dalla scena artistica ufficiale per sempre. Qui: “Caffè d’Italia”, anno 1921, e un sereno “Autoritratto” del 1967.

Piuttosto particolare è la pittura di Ivan Albright (1897-1983), pittore statunitense di Chicago, ammiratore di El Greco e di Rembrandt. Anche suo padre dipingeva, specialmente paesaggi, mentre lui si dedicò a un’analisi spietata, e commossa, della realtà. La sua analisi è fatta quasi esclusivamente sul passare del tempo, sul divenire che distrugge l’individuo e sembra travolgere ogni cosa. La distruzione è testimoniata dalle rughe del viso di un uomo che invecchia. Numerosi i suoi autoritratti (questo è del 1981, stupefacente),

struggenti ma dignitosi. Albright vi appare sorpreso e deluso di ciò che gli sta capitando (la vecchiaia, il preludio alla morte) ma non smette di sognare, accettando una sotterranea e misteriosa illusione. Si guarda e si perde nel suo sguardo fatto di tutto con la promessa di niente. Sta in tutto questo la magia del suo realismo.

Ottimo disegnatore (e infatti illustratore commerciale come prima attività, come sua madre) Paul Cadmus (1904-1999), statunitense di New York, è noto per i suoi nudi maschili, da cui traspare un erotismo ingovernabile, ma mai volgare (si direbbe un inno alla vita che sfugge di mano). L’artista affinò il proprio stile in Europa, dove rimase per due anni, dal 1931 al 1933. Tornato negli Stati Uniti, fece parte del New Deal dipingendo murales e altro per lo Stato. Studiò con Bridget Bate Tichenor, nata a Parigi da una famiglia

aristocratica e ricca di origine britannica, poi pittrice di stampo surrealista con venature romantiche (qui un suo “Autoritratto” senza data), donna molto in vista per la sua bellezza e intelligenza (fu amata alla perdizione da Anaïs Nin, estroversa, e brava, scrittrice statunitense). La Tichenor scelse di vivere in Messico. Cadmus seguitò la sua ricerca realistica ammantandola di note nostalgiche, malinconiche, in parte angosciate per la discrasia fra energia vitale – nella quale si smarrisce volentieri – e sua decadenza misteriosa. Si riporta: “Artista e modello”, anno 1973.

Campione di “Precisionismo” è Charles Sheeler (1883-1965), di cui qui si vede un “Panorama” del 1931. Statunitense di Filadelfia, Sheeler fu pittore e fotografo (nel secondo ruolo, fra i maggiori del XX secolo, pur operando con una macchina fotografica molto a buon mercato, tanto che fu assunto dalla Ford per fotografare i propri stabilimenti). Fu dapprima pittore grazie a un viaggio in Italia nel 1908, dove scoprì Paolo Uccello. Non accettò, invece, il

cubismo parigino visto l’anno dopo. Viene da questo rifiuto dell’arte moderna, la sua scelta di fare principalmente il fotografo. La sua pittura è inevitabilmente fotografica, ma gode di ritocchi che la

rendono meditativa. La sua opera è quasi sempre priva di figure umane, come se la perfezione materiale aspettasse anche la perfezione morale dell’uomo.

Sicuramente Georgia O’Keeffe (1887-1986), pittrice statunitense, divenne nota grazie al futuro marito Alfred Stieglitz, fotografo e gallerista di New York. Presso la sua galleria la O’Keeffe incontrò l’opera di Rodin e ne fu colpita. Passò a un astrattismo lirico, linee e colori armoniosi che ricordavano, forse i sentimenti provati di fronte ai disegni e alle sculture del

grande artista francese. Realizzò acquerelli. Passò alla pittura a olio. Stieglitz la introdusse nel mondo artistico che conta e la O’Keeffe divenne, negli anni Venti, una sorta di punto di riferimento dell’arte americana. Morto il marito, nel 1946, tre anni dopo si ritirò nel Nuovo Messico, dove già era stata in precedenza, e prese a disegnare ciò che vi trovava nelle lande sperdute, come questa “Testa d’ariete e fiore blu” anno 1938. L’accostamento fra due estremi (morte e vita) avverrà spesso nelle sue opere che di fatto rappresentano riflessioni profonde di ordine sentimentale, certamente intriganti e accattivanti.

Edward Hopper (1882-1967), pittore e incisore americano, nacque in un villaggio (Nyack, dal nome della tribù indigena che aveva occupato anticamente l’area) non lontano da New York, città nella quale visse per parecchio tempo. Da giovane aveva viaggiato in Europa, fermandosi per lo più a Parigi (non amò le avanguardie, preferì soffermarsi sugli Impressionisti e si appassionò alle poesie simboliste,

soprattutto quelle di Rimbaud). Seguì le indicazioni dei suoi due maestri: William Merritt Chase, titolare di una scuola d’arte, al quale dovette i primi rudimenti dell’Impressionismo e Robert Henri, un suo docente realista. Da Degas imparò il segno essenziale e la capacità di descrivere gli interni, Henri gli fu utile per raggiungere un realismo essenziale. Il tutto fu esaltato dalle elucubrazioni che Hopper faceva durante le sue lunghe passeggiate, utilissime per l’affinamento della sua capacità naturale d’osservazione e della sua sensibilità. Hopper trovò una propria cifra espressiva nel rappresentare la solitudine della gente americana, denunciando in modo implicito un vero proprio fallimento sociale, causato da un’ossessione per le “cose”. La denuncia va poi a comprendere la tesi (appena accennata per la verità) della solitudine esistenziale, come se l’uomo avvertisse nel suo intimo la propria collocazione in un mondo che lo esclude. Il pittore non intende arrivare a una trattazione del fenomeno umano in modo filosofico, bensì in modo problematico, partendo da un materialismo inequivocabile per terminare (ma il suo non è un autentico terminare, bensì un arrestarsi di fronte a un muro) con atteggiamenti inspiegabili che mettono a repentaglio qualunque sicurezza. Qui “I nottambuli”, anno 1942 e “Donna nel sole” anno 1961. Il “Chiarismo” fu guidato dal critico Edoardo Persico. Le maggiori personalità del movimento possono essere ravvisate nei tre nomi che seguono. Il Chiarismo aveva come fine il ripristino di una pittura semplice e immediata, ispirata dai moti più intimi dell’animo. Gli artisti del movimento intendono dimostrare, con naturalezza, che la sensibilità e il sentimento, possono avere un fascino molto superiore al materialismo.

Angelo Del Bon (1898-1952), pittore milanese, attivo soprattutto a Desio, fu fra i fondatori di “Chiarismo” nel 1929. Aveva studiato A Brera (di cui diverrà direttore artistico) con Antonio Ambrogio Alciati, ritrattista, successore del celebre Cesare Tallone e aveva poi eletto il Lago di Garda (Sirmione, Bardolino) scenario delle sue opere. Del Bon è una specie di naif, come tutti i Chiaristi, portato a una sommessa poesia sulle cose e le persone, quasi un idillio con l’immagine. Negli ultimi tempi si

concentrò esclusivamente su ritratti, figure e nature morte. Qui un ritratto volutamente sfuggente (di “Maria”) del 1935. Il Chiarismo fu concepito anche come una forma d’arte opposta alle richieste del regime fascista.

Anche Umberto Lilloni (1898-1980), milanese (ma la famiglia era del Mantovano), seguì i corsi di Tallone e Alciati a Brera, dopo essere stato cacciato di casa dal padre che lo voleva direttore del suo laboratorio di ebanisteria. Rispetto a Del Bon, la sua pittura, chiarita dal 1930, è meno labile, a metà fra naif ed espressionismo (il secondo appreso dal suo pittore preferito, Emilio Gola, e da una simpatia nei confronti del post-impressionismo), come si vede in

questo “Tramonto sul mare” del 1934. Pure Lilloni divenne un insegnante a Brera. Era amico di Carlo Cardazzo, editore e collezionista d’arte di notevole competenza, di cui apprezzava i consigli. Negli ultimi tempi si dilettò di stilizzazioni, probabilmente ricavate da stampe giapponesi trattate da Edoardo Persico.

Quasi sicuramente, il miglior chiarista è Pio Semeghini (1878-1964), pittore di Quistello in provincia di Mantova. Aveva studiato a Brera, senza giungere al diploma. Era poi stato a Parigi, dove era entrato in relazione con Filippo de Pisis e Modigliani. La sua è una pittura delicata, intima, meditativa, con punte d’intensità e di esplorazione psicologica dei volti, come in questo “Ritratto di Gianna” del 1938. La delicatezza si espande nell’atmosfera intorno alla figura, creando una visione come

trasognata, quasi irreale, sfumata, discretamente quanto magnificamente, immersa in una narrazione quasi fiabesca, mentale e sentimentale allo stesso tempo. Novecento e Chiarismo, sostanzialmente in opposizione (uno portato all’evidenziazione delle cose umane, l’altro al dialogo con esse), contribuirono a suggestionare la fantasia di sperimentatori puri, avidi di nuove esperienze. Sul piano strettamente intellettuale, i due fenomeni furono poi affiancati da “Corrente” una rivista che predicava l’arte per l’arte, vale a dire slegata da ogni costrizione, specie politica, e che aveva propositi di svecchiamento dell’arte stessa. “Corrente”, prima “Vita giovanile” e “Corrente di vita giovanile”, ebbe i natali nel gennaio 1938 e alla fine nel 1940 la sua pubblicazione fu proibita dal Fascismo.

Ernesto Treccani (1920-2009), di Milano, incoraggiato dal padre fu l’anima di Corrente. Come pittore, realizzò acqueforti, litografie, acquerelli, più che quadri a olio. Il disegno, con rapidi tratti, è il suo vero linguaggio artistico, ricavato dal Simbolismo che apprese nel corso di un suo viaggio a Parigi. Qui un suo volto degli anni ’70. Ammirevole ed efficace l’essenzialità. Renato Birolli (1905-1959) di Verona, sperimentatore incessante, spaziò nelle avanguardie (provò l’Astrattismo, il Cubismo, l’Action painting e la figurazione espressiva: qui “Nudo dal velo nero”, anno 1941), senza grandi convinzioni, bensì seguendo un proprio estro guidato dalla curiosità e dal desiderio di annullamento del tradizionale. Le sue opere non destano particolari impressioni,

sembra manchino di qualcosa e questo perché a Birolli non importava dare una testimonianza intellettuale precisa con la sua pittura, bensì voleva contestare il linguaggio storico dell’arte. Più

importante, il nostro personaggio, è nelle vesti di organizzatore di mostre e nelle esposizioni teoriche riguardanti il tentativo di sprovincializzazione dell’arte italiana.

Di Ennio Morlotti (1910-1992), di Lecco, si propone “Due gessi su arancio” del 1945, dove si vede quanto il pittore abbia appreso dalla sua visita a Parigi nel 1937, osservando soprattutto Picasso. Morlotti aveva studiato a Brera, poi all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, sotto Felice Carena che lo avviò all’apprendimento della pittura a partire da Masaccio. Carena era tuttavia un

seguace di Cézanne e Matisse e sicuramente trasmise questa passione all’allievo. Morlotti fece parte di Corrente, ma in veste quasi eretica. La sua pittura è piuttosto eterogenea, vicina a un’idea di ricomposizione dell’immagine a partire dalle sue basi che, nel suo caso, sono caratterizzate da segni veloci e nervosi e da colori appena accennati, come uno pre-sbocciare verso chissà quali visioni.

Anche Bruno Cassinari (1912-1992) di Gropparello, in provincia di Piacenza, ebbe Picasso come riferimento (che pure conobbe e frequentò) e specialmente “Guernica”. L’appartenenza a Corrente fu sollecitata dallo spirito libero che questo movimento prometteva. Cassinari fu sostanzialmente uno sperimentatore convinto del proprio gesto grazie al clima di rinnovamento artistico (in ritardo) che l’Italia conobbe nel secondo dopoguerra. Il rischio era l’imitazione di Astrattismo e Cubismo che Cassinari cercò di evitare lavorando all’esterno della figura, ovvero adattandola

al proprio modo di vedere (più che di sentire), quasi imponendoselo. L’artista espose parecchio in Lombardia (dove lavorò anche per diverse Chiese) e specialmente a Milano. Memorabile una sua esposizione alla Galleria l’Annunciata di Milano nel 1953 presentata dal poeta e pittore (innovativo in entrambi i campi, anche se forse dispersivo) Toti Scialoja. “Due figure”, anno 1963, l’esempio proposto.

Arnaldo Badodi (1913-1943) di Milano, studiò con Aldo Carpi a Brera, dove divenne insegnante. Appartenne a Corrente con entusiasmo. Era un antifascista convinto. Dipinse soprattutto interni, con notevole spirito d’osservazione e con un certa ironia fatta di benevolenza nei confronti dei personaggi ritratti. Badodi attua una pittura frammentata: piccole illuminazioni messe insieme con lo scopo di formare un discorso, di iniziare una specie di narrazione in sostegno di

una teoria critica nei confronti dell conservatorismo, della paura del nuovo fatto di responsabilità personale piena, di cui il Fascismo ne era solo un’espressione casuale. Badodi morì molto giovane, di tifo, nel corso della funesta Campagna Russa italiana. Qui “Caffè”, anno 1940. L’impegno e la serietà di “Corrente” furono un invito decisivo a uscire dal provincialismo. L’arte italiana, antifascista, trovò lo slancio per raggiungere l’espressività di quella europea avanzata, agganciandosi a certe avanguardie. Essa tuttavia ripescò con vigore anche gli stilemi del passato, quelli classici caratteristici della Penisola, talvolta opportunamente aggiornati, con effetti culturali veramente notevoli, benefici soprattutto per la scultura. Tre i nomi che si propongono: Francesco Messina, Giacomo Manzù, Aligi Sassu (anche pittore).

Francesco Messina (1900-1995) proveniva da una famiglia molto povera siciliana. Era nato a Linguaglossa in provincia di Catania, ma studiò a Genova, dove rimase per trentadue anni. Fu poi a Milano, dove il suo stile ebbe una vera e propria impennata grazie a Novecento e a Corrente. La libertà d’espressione della seconda unitamente ai richiami del primo, tendenti alla rivalutazione della scrittura artistica tipicamente italiana, quella classica, fecero di Messina un artista elegante e incisivo, portandolo fuori dalle ristrettezze mentali del regime fascista. Messina ha grandissime capacità manuali e possiede nello stesso

tempo una creatività che si richiama alla classicità greca rivista con gli occhi della romanità devoti ad Atene. L’artista espose nelle più importanti città del mondo, riscuotendo successi, talvolta oceanici, di critica e di pubblico. Suo il “Cavallo della Rai” del 1966 qui proposto.

Anche Giacomo Manzù (Giacomo Manzoni, 1908-1991), di Bergamo e di famiglia povera, fu un virtuoso della manualità scultorea, ma la sua creatività si discostò dai canoni tradizionali, andando a riparare in qualcosa che avrebbe voluto essere molto emblematico. La sua serie dei “Cardinali” (oltre 300 opere, oltre al molto altro: qui “Cardinale seduto” anno 1974-75) forma un corpus di figure ieratiche cristallizzate nella posa carismatica. Il carisma è di tipo esteriore. Il personaggio nasconde un significato che pare più intellettuale, o intellettualizzato, che morale e

spirituale. L’operazione (difficoltosa) si sofferma sul valore presunto della figura espressa formalmente con una convenzionalità riscattata, in buona parte dalla sua vivezza, come dettata da uno scatto interiore. Manzù, con esperienza d’intagliatura del legno, avviato alla scultura durante il servizio militare, fu molto aiutato ad affermarsi dall’architetto Novecentista Giovanni Muzio, praticamente opposto al razionalismo. Numerose le sue opere in giro per il mondo, l’ultima una grande realizzazione in bronzo di sei metri posta, nel 1989, di fronte alla sede dell’ONU a New York.

Aligi Sassu (1912-2000), di Milano, deve molto al padre, fra i fondatori del Partito Socialista sardo nel 1894 a Sassari, che gli fece conoscere i Futuristi e, amico di Carrà, parecchi altri protagonisti dell’arte del tempo. Sassu fu anche a Parigi, nel 1934, dove studiò a fondo le opere di Matisse e Delacroix. Accusato di complotto, fu imprigionato dal regime fascista, poi graziato ma vigilato speciale. Nel 1941 espose con Corrente, ma preferì presto fare mostre personali. Conobbe e frequentò Picasso. Realizzò più dipinti che sculture. Il suo soggetto preferito fu il

cavallo (qui ne vediamo uno dei suoi migliori, in bronzo). Sassu non si legò a nessuna avanguardia. Fu attratto dal Surrealismo (e da de Chirico), che praticò a modo suo, dando cioè spazio alla fantasia più che all’introspezione. Le sue opere hanno carattere sperimentale, come base sulla quale l’artista costruisce liberamente, attuando una sorta di “flusso di coscienza” dominato da un rigore nell’impostazione di natura accademica. La forma è staccata dal contenuto. Il secondo è condizionato da un estetismo compiaciuto per sicurezza esecutiva: il fenomeno si apprezza maggiormente nelle sculture. La sua pittura appare meno sicura.