152
Le bighe - 6 -

[20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Embed Size (px)

DESCRIPTION

"Il testo delle lezioni qui pubblicate è stato preparato per la Ishizaka Lecture n. 8 (Tokyo, 15-16 aprile 1986), promossa dalla Fondazione Ishizaka, organizzazione privata non-profit costituita in memoria di Taizo Ishizaka (1886-1975) [...]" L. Scillitani, S. Abbruzzese, 2010.

Citation preview

Page 1: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Le bighe- 6 -

Page 2: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]
Page 3: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Claude Lévi-Strauss

Lezioni giapponesitre riflessioni su antropologia e modernità

introduzione, traduzione e cura

di lorenzo scillitani

prefazione di salvatore abbruzzese

Rubbettino

Page 4: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

© 2010 - Rubbettino Editore88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10

tel (0968) 6664201www.rubbettino.it

Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign

Il testo delle lezioni qui pubblicate è stato preparato per la Ishizaka Lecture n. 8(Tokyo, 15-16 aprile 1986), promossa dalla Fondazione Ishizaka, organizzazioneprivata non-profit costituita in memoria di Taizo Ishizaka (1886-1975), con fon-di messi a disposizione da circa venti società alle quali egli aveva partecipato. LaFondazione sponsorizza conferenze, organizza convegni, distribuisce borse di stu-dio a studenti laureati per ricerche all’estero e a studenti stranieri in Giappone, al-lo scopo di promuovere una migliore comprensione, amicizia e benevolenza tra lenazioni.

Page 5: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

5

PrefazioneLévi-Strauss e il contesto sociologico francese

inserire un autore come Claude Lévi-Strauss nel suocontesto nazionale è un’operazione che implica due so-stanziali riduzioni. La prima consiste nel ritenere lo spaziodella cultura francofona come l’unico contesto territorialenel quale l’autore abbia effettivamente sviluppato il suopensiero, lasciando passare relativamente inosservato ilruolo che i contesti culturali di altre nazioni, come il Bra-sile e gli Stati Unti, possano avere effettivamente esercita-to sullo sviluppo del suo pensiero. La seconda, probabil-mente ancora più densa di conseguenze, consiste nella ri-composizione del contesto nazionale lungo determinatiassi culturali, alla luce dei quali è possibile riunire, ripar-tire e ordinare i singoli autori quanto le diverse scuole, lecorrenti culturali e i paradigmi dominanti. Questa secon-da operazione, si affina nel corso degli anni e conosce unosviluppo accettabile dopo che le singole correnti, svilup-pando fino in fondo le loro specifiche caratteristiche, han-no mostrato ciascuna la loro identità ultima e il loro pro-filo potenzialmente definitivo. Pur tuttavia, resta comun-que evidente il carattere arbitrario esercitato da una qual-siasi ricomposizione fatta alla luce di un principio univo-co, di una polarizzazione posta in modo comunque inter-locutorio. Essa ha un valore puramente esplicativo e valesolo fino a quando non è sostituita da una polarizzazionepiù efficace.

Page 6: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Si tratta allora, e in primo luogo, di riconoscere il ca-rattere in qualche modo arbitrario, ancorché non privo dipresupposti, dell’operazione di contestualizzazione. Situa-re Lévi-Strauss nel contesto della cultura sociologica fran-cese della seconda metà del Novecento vuol dire pertantoriassumere quest’epoca attraverso delle coordinate specifi-che, indicando in qualche modo dei punti di riferimento,quindi degli autori e delle opere, che possono funzionare dasegnali di una polarizzazione intorno alla quale si riunisco-no i diversi cenacoli presenti nello spazio nazionale. Ora,tanto i punti di riferimento concettuali, quanto gli autoriche li rappresentano, sono tanto più visibili e comprensibi-li, quanto più sono collocabili in modo giustapposto l’unoall’altro, operando cioè attraverso polarizzazioni che, pro-prio perché rivelatrici dei due estremi che le compongono,consentono di ripartire in modo sufficientemente visibilecorrenti e autori in realtà più articolati. Si tratta di ricorre-re, in qualche modo, a una ricostruzione ideal-tipica delcontesto culturale francese, operando attraverso la messa apunto di polarità opposte l’una all’altra.

La prima polarizzazione alla quale possiamo qui fare ri-corso è quella instaurata dallo stesso positivismo sociologicoe da questa sede, e almeno in linea di principio, ricaduto nel-lo spazio di lavoro dell’antropologia: si tratta dell’opposizio-ne tra società e individuo, tra fenomeni sociali esterni e coer-citivi al singolo attore che si fanno quadri culturali da un la-to e soggettività, ragioni individuali, azioni dei singoli dall’al-tro. La seconda polarizzazione si sviluppa invece in seno al di-scorso antropologico e riguarda l’opposizione dirompente traprincipi universali e diversità culturali, tra una ragione uni-versale e le irriducibili differenze di ogni singola cultura, inuna parola: tra universalismo e relativismo.

Queste due polarizzazioni non nascono nella stessatemperie culturale ma, al contrario, si sviluppano in duecontesti diversi ed a più di un titolo non conciliabili tra lo-

6

Page 7: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ro. Volendosi mantenere al contesto francese, la polarizza-zione tra società e individuo, matura infatti sul terreno mo-derno della seconda industrializzazione sul piano economi-co, della Terza Repubblica su quello politico e della laiciz-zazione delle istituzioni su quello dei processi culturali. Laseconda si sviluppa invece sul terreno, completamente rin-novato e interamente ricostruito, del secondo dopoguerra;ha alle spalle il degrado umano della Seconda guerra mon-diale, ma anche il crescente protagonismo dei popoli nonoccidentali che, in questi stessi anni di pacificazione mili-tare e di nuovi assetti internazionali, daranno l’avvio ai di-versi percorsi di indipendenza politica e di rivendicazioneidentitaria, gli uni e gli altri fusi nell’obiettivo di reperire edefinire gli elementi specifici che consentono di definireuna cultura propria. Se la polarizzazione società-individuoserve a regolare il campo di conflitti di una società che tran-sita dalla campagna alla città, dall’artigiano all’industria e –per dirla con Primo Levi – sostituisce il movimento mate-matico dell’orologio alle oscillazioni delle greggi e della lu-na1, la seconda si renderà necessaria per gestire gli equilibridi una società mondiale obbligata a ripensare la cornice cul-turale nella quale si definisce.

La prima di queste due polarizzazioni ha per riferimen-to la sociologia e per autore – proprio in virtù di quelle esi-genze di estremizzazione ideal-tipica indicate poc’anzi –può indicare in Emile Durkheim il proprio più efficace rap-presentante. La seconda polarizzazione ha invece per riferi-mento l’antropologia culturale e può indicare un autore co-me Claude Lévi-Strauss. Se queste due personalità nonriassumono lo spirito delle singole discipline alle quali ap-partengono – in realtà più articolate – esse ne esprimonocomunque in modo chiaro le forme dell’opposizione ideal-tipica che qui abbiamo scelto di sviluppare. Se in Emile

7

1. Cfr. p. levi, Tutto il miele è finito, Einaudi, Torino 1964.

Page 8: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Durkheim troviamo l’esaltazione della società come auto-rità morale e il conseguente rinvio dell’individuo allo statu-to di istanza seconda, che riesce a definirsi ed a svilupparsisolo quando si ricollega saldamente alla prima, in Lévi-Strauss possiamo individuare la sottoscrizione del principiomulticulturalista ed il rinvio dell’universalismo all’angolodegli etnocentrismi dell’Occidente.

Entrambe queste polarizzazioni consentono di ripartirelo spazio culturale francese individuando modelli a autori econsentendo di comprendere la portata delle conseguenze ingioco. Metterle l’una accanto all’altra, tuttavia, va ben al dilà del semplice esercizio dei confronti e delle comparazioni.Durkheim, considerato, a ragione, il padre del funzionali-smo, aveva per l’etnologia un interesse particolare: è a par-tire dalle descrizioni degli etnologi che questi deduce aspet-ti fondamentali della sua analisi. Lévi-Strauss, da parte sua,deve molto alla sociologia di Emile Durkheim che, per pri-ma, aveva rivelato tutto il peso delle culture nella costituzio-ne del tessuto di credenze, rappresentazioni e valori a parti-re dalle quali ogni singolo soggetto fa proprio l’intero uni-verso culturale della società di cui è parte, appropriazioneche non mancherà mai di modificare e marcare sensibilmen-te l’intera persona, tanto nei principi, quanto nelle logichedi azione e nei criteri di interpretazione della realtà.

La società produttrice del soggetto

Il contesto nel quale si afferma l’analisi sociologica di Emi-le Durkheim è coestensivo all’affermazione della secondamodernità, quella che si edifica a partire dal successo dellescienze positive nella seconda metà del xix secolo, e som-ma i successi dell’organizzazione industriale sul piano eco-nomico, con quelli della democrazia liberale su quello po-litico. Per Durkheim, come è noto, si tratta di porsi al cro-

8

Page 9: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

cevia di una tensione culturale che deve sovrintendere a dueproblemi specifici: la realizzazione della coesione in una so-cietà che ha perso l’afflato comunitario e la costruzione delconsenso politico in una realtà che ha sperimentato il con-flitto. È con Durkheim che la società è vista come autoritàmorale, la sede nella quale si elaborano valori e principi dal-la cui sequela il soggetto viene riconosciuto o rifiutato dalgruppo del quale aspira a fare parte.

Alla base c’è un’antropologia negativa in virtù dellaquale il soggetto, senza legami sociali e senza una culturanella quale si riconosce ed a partire dalla quale può esserericonosciuto dagli altri significativi, non fa che essere pre-da dei propri desideri illimitati e costantemente riproposti2.La società, in quanto sede di legami significativi ai fini delriconoscimento del soggetto, fa della propria cultura unsegmento decisivo del processo identitario: questa non è so-lo una lettura della realtà, una messa in ordine dell’espe-rienza secondo criteri che la rendono significativa, essa èanche e soprattutto la sede di valori e modelli di comporta-mento che finiscono con il costituire il vocabolario moraledal quale scaturiscono le norme vincolanti ai fini del pro-cesso di socializzazione e di accoglienza societaria.

L’affievolirsi di tale potenzialità, produce non solo laperdita della coesione sociale e il venir meno della solida-rietà, ma provoca anche e soprattutto il progressivo scolo-rirsi della capacità coercitiva delle norme e dei valori prove-nienti da quella che, fino a quel momento, era la culturacondivisa. I legami, diventando meno forti e non vincolan-do più il singolo, con il loro venir meno, sono le norme e imodelli a perdere d’importanza, facendosi puramente for-mali e intimamente superficiali. Ma soprattutto e assieme

9

2 Cfr. a tal proposito, a. giddens, Durkheim, Fontana Press, Gla-sgow 1978; g. poggi, Durkheim, Oxford University Press, Oxford2000, trad. it. Émile Durkheim, il Mulino, Bologna 2003.

Page 10: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

a questi è la cultura stessa che, perdendo la propria funzio-ne di collante sociale, perde di interesse in quanto tale. Siarriva così a poter mettere tra parentesi, dimenticandoseneprogressivamente, non solo le norme e i valori, ma anche illinguaggio simbolico, le narrazioni della propria storia, iprincipi interpretativi. Con la perdita della cultura comu-ne e della coesione sociale, il collettivo comunitario si scio-glie nel mare più vasto di una nuova società, con una nuo-va cultura.

In conclusione è attraverso l’analisi di Durkheim che lacultura non è solo una mera sovrastruttura, funzionale airapporti materiali di riproduzione, ma diventa una compo-nente decisiva per la sopravvivenza della società stessa comecollettività umana autonoma. Attraverso il suo declino è lasocietà stessa, quindi gli esseri umani nella loro consisten-za che, perdendo la loro identità culturale e la loro coesio-ne sociale, diventano parte di una nuova società, dalla qua-le dovranno mutuare norme e lingua, valori e credenze, sti-li di vita e modelli espressivi.

L’analisi sociologica di Durkheim è decisamente tribu-taria alla sua riflessione sui fenomeni religiosi. La religionenon è solamente alla base dei processi di costruzione del le-game sociale dove, attraverso la condivisione degli atti ri-tuali, edifica l’esperienza stessa dell’appartenenza a un’en-tità superiore. Essa è anche all’origine delle categorie inter-pretative della realtà. Non si tratta solo degli a-priori kan-tiani di tempo e di luogo. Per Durkheim l’esperienza ritua-le è a fondamento anche di una serie innumerevole di cate-gorie interpretative con le quali il soggetto definisce se stes-so, la propria esperienza e l’universo circostante3. Tutta l’a-

10

3. Cfr. r. boudon, Émile Durkheim: l’explication des croyances reli-gieuses, in Études sur les sociologues classiques, vol. ii, Presses Universi-taires de France, Paris 2000, trad. it. A lezione dai classici, il Mulino,Bologna 2002.

Page 11: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

nalisi di Durkheim si tiene pertanto intorno alla ricerca de-gli elementi che possano assicurare quel legame sociale che,nel passato e fino alla vigilia del trionfo della secolarizzazio-ne delle istituzioni come di quello del positivismo scienti-fico, era assicurato dalla religione.

La sociologia positivista di Durkheim si iscrive in pienonella prospettiva evoluzionista già tracciata da Comte. PerDurkheim l’evoluzione del progresso in ambito economicosi accompagna all’evoluzione in ambito politico e alle tra-sformazioni sul piano sociale. La stessa transizione delleforme di solidarietà, segnalata dalle trasformazioni nel di-ritto, si iscrive in pieno in una cornice evolutiva che nonpone problemi circa la sua consistenza. Ciò che lo distin-gue da Comte risiede esattamente nella consapevolezza de-gli elementi di criticità che questa stessa evoluzione finiscecon il presentare. Ciò che fino a quel momento e per un’in-tera classe di intellettuali appariva come la transizione a unasocietà dove il progresso tecnologico avrebbe certamenteincrementato quello politico e l’uno e l’altro avrebbero con-tribuito a una migliore qualità della vita sociale, Durkheimvi vede invece una possibilità di degrado e il rischio di unasempre più evidente perdita di solidarietà e di coesione so-ciale. Le trasformazioni dovute alla complessità sociale sfo-ciano inevitabilmente in una differenziazione alla fine del-la quale la capacità coesiva della società viene meno e il sog-getto vive, in qualche modo, disancorato da legami di ognisorta e poco propenso a riconoscere ai valori la capacità diorientare le proprie scelte.

In pratica, è proprio perché il soggetto si ritrova a essereassolutamente segnato dalla perdita dei legami, così come èesposto a tutta una serie di fatti sociali che lo determinano,che la sociologia di Durkheim sfocia nell’interesse verso leculture e la loro capacità di normare la vita del singolo.

In Francia questo tipo di impostazione non ha manca-to di essere alla base di una consistente discendenza. L’asse

11

Page 12: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

durkheimiano si strutturerà pertanto intorno al paradigmadella consistenza e della coercitività dei fatti sociali comeelementi in grado di orientare consistentemente la vita delsingolo, fino a determinarne non solo modelli di compor-tamento e stili di vita, ma anche le stesse scale di valori e lastessa visione complessiva della realtà. Essa conoscerà appa-rentamenti rilevanti con la teoria marxiana dell’ideologia econ la sociologia della conoscenza di K. Mannheim, là do-ve anche quest’ultime prefigurano una dimensione sogget-tiva completamente condizionata dalle condizioni d’esi-stenza. La scuola durkheimiana, come è noto, per quantodecimata fisicamente dalla Prima guerra mondiale, cono-scerà delle evoluzioni nel pensiero di sociologi come Mau-rice Halbwacs e Marcel Mauss, mentre nel dopoguerra ap-proderà alle analisi di autori come Maurice Duverger, Pier-re Bourdieu e Michel Foucault.

All’opposto del paradigma del soggetto condizionatodall’ambiente e dai fatti sociali che lo strutturano prenderàcorpo un paradigma opposto, interamente fondato sul prin-cipio della consapevolezza delle scelte soggettive. Alla coer-citività dei fatti sociali verrà contrapposta la coscienza indi-viduale, a un soggetto passivo un individuo che valuta, adogni momento e pur con i limiti conoscitivi che lo caratte-rizzano, la validità di tutto ciò che gli viene proposto. Di fat-to sia le regole, che gli stili di vita, che le letture della realtànon sono più fatte proprie in modo inconsapevole dai sog-getti. L’individuo valuta, sempre e comunque, le plausibi-lità che gli consentono di sottoscrivere un principio così co-me di fare propria una visione del mondo. Non c’è trattoculturale, tanto nell’ambito degli strumenti materiali quan-to in quello dei principi ideali, che questi sottoscriva in mo-do inconsapevole, non c’è tratto culturale che venga rileva-to dal soggetto, senza la consapevolezza cosciente di questi,che lo trova plausibile e accettabile alle luce delle conoscen-ze che possiede. Si afferma così una prospettiva sociologica

12

Page 13: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

che ai fatti sociali contrappone l’azione sociale, cioè l’azionecosciente e consapevole che il soggetto pone in essere, tenen-do conto della possibile reazione degli altri. Un tale princi-pio, adeguatamente formulato nei classici da autori comeMax Weber, Vilfredo Pareto e Georg Simmel, verrà ripresonel dopoguerra da autori come Talcott Parsons e Paul Lazar-sfeld. In Francia farà il suo ingresso con autori come Ray-mond Aron, François Bourricaud e Michel Crozier. Si do-vrà comunque a Raymond Boudon l’acquisizione del para-digma individualista nella sociologia francese degli anni Ot-tanta. L’opposizione con il paradigma durkheimiano nonpotrebbe essere più netta. Per quanto il soggetto sia espostoa delle letture dominanti della realtà e sia portato a rilevare,mutuandolo dal proprio contesto come dal gruppo di cui èparte, valori, modelli di comportamento, stili di vita e con-cezioni del mondo, un tale processo di socializzazione nonsi produce senza il suo consapevole consenso.

Dentro questo secondo paradigma, totalmente oppostoal precedente, la cultura, ma ancor di più il paradigma cul-turalista, finisce per occupare un posto decisamente secon-dario. Gli imprinting culturali sono di fatto annullati a par-tire dal momento in cui il soggetto sceglie consapevolmen-te e ogni errore è da ascrivere più alla mancanza oggettivadi mezzi di controllo che non a un semplice effetto di so-cializzazione. Di fatto è in opera una razionalità cognitivache agisce e si muove con il supporto del pensiero riflesso enon presenta alcunché di automatico o di puramente com-portamentale. Valori, credenze, valutazioni del mondo econcezioni della vita, tutti i diversi tratti che possono con-traddistinguere tanto la cultura materiale quanto quellaideale, sono il risultato di scelte che il soggetto compie at-traverso il ricorso a ragioni che percepisce come valide. Ilconsenso che quest’ultimo concede non è mai irriflesso, népuramente emozionale: di fatto questi resta sempre e co-munque un attore razionale, di una razionalità che non è

13

Page 14: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

più limitata al solo interesse ma investe anche i valori chequesti fa propri.

È abbastanza chiaro, a questo punto, il peso e il ruoloesercitato dal pensiero dell’antropologo Lévi-Strauss all’in-terno del quadro culturale francese. Nella tipologia primarilevata e che appartiene all’ambito della sociologia, Lévi-Strauss finisce per essere percepito e valutato più dalla tra-dizione durkheimiana che dalla prospettiva individualista.Il motivo è evidente: se nella sociologia dei fatti sociali ilsoggetto è totalmente condizionato dall’ambiente, il fuocodell’analisi non può che interessarsi a quest’ultimo, alle re-gole che lo caratterizzano come ai valori e alle concezionidel mondo che lo attraversano. Nell’analizzare le regole iltestimone arriva all’analisi del conflitto sociale e dei proces-si che lo attraversano, mentre nell’individuare valori e con-cezioni del mondo il punto focale si sposta invece verso lostudio delle culture e degli universi di senso che queste pon-gono in essere. In un caso come nell’altro il soggetto è, difatto, la sede delle diverse dipendenze che lo condizionanoda ogni parte: non ha azioni, ma solo reazioni, comporta-menti irriflessi, stili di vita acquisiti e fatti propri in quan-to esterni e soprattutto coercitivi.

Tutt’altro percorso si produce nella sociologia dell’azio-ne, nella misura in cui è il soggetto a scegliere consapevol-mente. Qualsiasi variabile culturale, economica e politicanon ha che un valore contestuale, non costituisce cioènient’altro che il contesto a partire dal quale il soggetto sce-glie ciò che per lui ha un senso.

Il paradigma culturalista

Prospettiva culturalista e prospettiva sociologica, hanno incomune un interesse in comune per le culture cosiddetteprimitive. Un’opera come Primitive culture di Tylor (1871)

14

Page 15: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

verrà tradotta e riedita a più riprese nella Parigi della TerzaRepubblica, mentre una sorte analoga segnerà il destinodell’opera di McLennan The Primitive Marriage (1865). Inquegli stessi anni il giovane Durkheim si appassionava allelezioni di Fustel de Coulanges che alla Sorbonne trattava deiriti e dei costumi della città antica, cioè della Roma dell’etàclassica. Una vera e propria attrazione viene registrata neiconfronti delle culture primitive, e ciò interessa tanto ilpubblico quanto gli studiosi di scienze sociali. Non si trat-ta solo di reazione romantica all’impero culturale dei Lumi,reazione che, per molti, è all’origine stessa della sociologia.In realtà, per la stessa prospettiva positivista, le culture del-le civiltà più elementari contengono gli elementi fonda-mentali che caratterizzano la società in quanto tale. In altritermini è proprio all’interno della stessa prospettiva evolu-zionista che le «culture primitive», pur presentando speci-ficità proprie, al punto tale da prospettare l’esistenza di unavera e propria logica che nulla aveva a che spartire con quel-la del mondo moderno, non sono tuttavia derive della ra-gione ma, al contrario, contengono in nuce tutti gli ele-menti essenziali e costitutivi della società in quanto tale.Solo nelle società primitive, nelle culture delle popolazionisemitiche come in quelle degli aborigeni dell’Australia o de-gli Esquimesi è possibile osservare in modo più lineare ilfunzionamento della società nelle sue «forme elementari».Le società primitive, in altri termini, funzionano come ar-chetipo della società moderna4. La polarizzazione durkhei-miana funziona così come criterio di collocazione logicadelle culture altre: quest’ultime finiscono così con il costi-tuire il deposito delle forme elementari, mostrandosi comealtrettanti laboratori per osservare e comprendere, veden-

15

4. Cfr. e. durkheim¸ Les formes élémentaires de la vie religieuse[1912] puf, Paris 1968, trad. it. Le forme elementari della vita religiosa,Meltemi, Roma 2005.

Page 16: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

doli ancora all’opera, quegli stessi meccanismi che sono sta-ti a fondamento della società moderna, colti nella loro for-ma essenziale, semplice, elementare.

Quando Lévi-Strauss interviene, cioè quarant’anni do-po la pubblicazione del testo di Emile Durkheim sulle For-me elementari della vita religiosa, il panorama è potente-mente cambiato. Nel 1952 non c’è più nessuna traccia del-l’Europa del 1912: è un intero universo culturale a esserescomparso sotto i colpi della Prima guerra mondiale, del-l’avanzata dei regimi totalitari e dei massacri della popola-zione civile, perpetrati volontariamente come forma espli-citamente ammessa di tattica militare, che resteranno il ve-ro tratto distintivo della Seconda guerra mondiale. Al mo-mento in cui Claude Lévi-Strauss dà alle stampe il suo ma-noscritto su Razza e storia, si è venuta costituendo una so-cietà internazionale della quale l’Europa rappresenta solouna parte5. Di questo costituendo consesso delle NazioniUnite Lévi-Strauss è chiamato a definire il quadro concet-tuale comprensivo, la cornice culturale all’interno dellaquale la nuova entità sovranazionale può pensare se stessa.

Non si tratta solo di combattere il razzismo e di seppel-lire definitivamente qualsiasi teoria della razza, ma è in gio-co invece la necessità di ripensare in positivo alle diversitàculturali, vedendole come altrettante provincie finite di si-gnificato, aventi una logica propria e tutte ugualmente vali-de. Una simile impresa implica lo smantellamento di qual-siasi ipotesi evoluzionista, anche di quelle che vedevano, co-me nel caso della sociologia francese di Durkheim e della suascuola, le società primitive come altrettante formazioni so-ciali in grado di mostrare il funzionamento delle società piùavanzate, colte così nelle loro forme elementari. Occorre

16

5. Cfr. c. levi-strauss, Race et histoire, Unesco, Paris 1952, riedi-to, Denoël, Paris 1987. Da qui in avanti riportato nella forma dall’a-cronimo RH.

Page 17: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

smantellare l’idea di progresso, così come è stata imbastitanel crogiolo culturale della seconda metà del xix secolo, co-sì come è inevitabile passare alla cartina di tornasole lo stes-so concetto di modernità, sul quale si è edificata la societàfrancese a partire dai Lumi e dalla Rivoluzione del 1789.

L’impianto concettuale di Lévi-Strauss è profondamen-te tributario alla riflessione sociologica. L’originalità di ognisingola cultura – cioè la sua «diversità intellettuale, esteticae sociologica» – non risiede in attitudini particolari, accre-ditabili a una presunta diversità fisiologica delle razze, ben-sì deriva dalle diverse circostanze geografiche, storiche e so-ciologiche nelle quali ogni singola cultura si è sviluppata.Ma non basta. Nella concretezza della loro storia le cultureraramente appaiono isolate, il loro sviluppo è molto rara-mente riducibile allo sviluppo interno di ciascuna, moltopiù di frequente queste sono in relazione e quindi in con-fronto tra di loro. «Affianco alle differenze dovute all’isola-mento, ci sono quelle, altrettanto importanti, accreditabi-li alla prossimità: desiderio di opporsi, di distinguersi, di ri-conoscersi […] la diversità delle culture umane è meno infunzione dell’isolamento dei gruppi che delle relazioni cheli uniscono». (RH, 17). Ciò che colpisce è la radicale oppo-sizione che dovunque è rilevabile nei confronti di questaovvia diversità. Raramente le diversità culturali appaionoper quelle che sono, al contrario finiscono per risultare del-le scandalose mostruosità. «Ci si rifiuta di ammettere il fat-to stesso della diversità culturale e si preferisce rigettare aldi fuori della cultura, nella natura, tutto ciò che non siconforma alla norma sotto la quale si vive. […] L’umanitàcessa alle frontiere della tribù, del gruppo linguistico, tal-volta dello stesso villaggio». (RH, 20). Pur tuttavia non èsufficiente riferirsi a un principio di uguaglianza universa-le, come quello presente nel concetto di umanità, le diver-sità non solo permangono, ma costituiscono il primo datoe il più evidente derivante da qualsiasi confronto.

17

Page 18: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Per superare le difficoltà che la necessità di dare contodelle diversità apre alla denuncia delle aberrazioni e dellemostruosità delle altre culture, cioè per arrivare a dare con-to delle differenze «di fatto» senza postulare delle differen-ze «di valore», diviene importante sbarazzarsi del falso evo-luzionismo. Ciò che accade in biologia non si sviluppa in-fatti necessariamente nelle culture. «Dire […] che un’asciasia l’evoluzione di un’altra costituisce una formula metafo-rica che riprende l’espressione applicata ai fenomeni biolo-gici […]. La nozione di evoluzione sociale o culturale, almassimo, costituisce una procedura tanto attraente quantopericolosamente comoda, di presentare i fatti» (RH, 25).Per Lévi-Strauss non esistono popoli allo stadio infantile,ma tutti sono adulti (RH, 32). L’idea di progresso non im-plica affatto quella di regolarità e di continuità delle tappe.In realtà il progresso procede per salti (RH, 38) e le stessepercezioni del mutamento ci appaiono rilevanti o inesisten-ti a seconda della loro prossimità al nostro modello di evo-luzione, ai nostri valori ed ai nostri interessi: «Le culture ciappaiono tanto più attive quanto più si spostano nella stes-sa direzione della nostra, mentre ci risultano stazionariequando si orientano in modo diverso» (RH, 45). Per di piùuna valutazione in termini di mutamento o di stagnazioneimplica l’acquisizione di una serie non indifferente di infor-mazioni. Ancora, lo stesso progresso dell’Occidente, misu-rato in termini di sviluppo dei mezzi meccanici, non indi-ca che una priorità relativa. Cambiando il criterio di misu-ra il primato andrebbe certamente altrove: gli eschimesi ri-sulterebbero certamente il popolo maggiormente capace diadattarsi a situazioni geografiche e climatiche estreme, leculture dell’Oriente e dell’Estremo Oriente rivelerebberouna conoscenza del corpo umano assolutamente superiorerispetto a quella presente in Occidente. L’arte della naviga-zione di alcuni popoli polinesiani risulterebbe sorprenden-te e si scoprirebbe che persino la capacità di armonizzare i

18

Page 19: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

rapporti tra gruppo famigliare e gruppo sociale trova solu-zioni molto più avanzate presso alcune tribù dell’Australiadi quanto non accada in Occidente, a dispetto delle condi-zioni notevolmente arretrate sul piano economico.

Tuttavia il primato dell’Occidente, riconosciuto peraltrodalle stesse popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, costitui-sce un fatto altrettanto incontestabile quanto può esserlo ilprogresso tecnologico. Per Lévi-Strauss un tale primato sispiega innanzitutto come la conseguenza inevitabile di pro-cessi di dipendenza già consolidati, ma esso va anche adde-bitato tanto alla capacità dell’Occidente di accrescere la«quantità di energia disponibile per ogni abitante», quantoa quella di proteggere e prolungare la vita umana. Ora, taliobiettivi non solo sono stati perseguiti anche da altre cultu-re, ma soprattutto è a queste che dobbiamo i progressi piùconsistenti: dall’agricoltura all’allevamento, alla tessitura.Queste scoperte non sono state casuali ma hanno richiestouna lunga serie di sperimentazioni analoghe a quelle regi-strate in ambito scientifico nel caso della scoperta dell’elet-tricità. In nessun caso ciò è dovuto ad un qualsiasi differen-ziale psicologico, ma va invece ascritto ad una concomitan-za fortuita di diversi fattori di natura storica, economica esociologica. Quanto alla rivoluzione industriale, questa, in-comparabilmente inferiore a quella neolitica, costituisce unasorta di universale al quale tutti i popoli fanno prima o poiricorso. Il fatto che sia nata in Occidente prima che in Giap-pone o negli Stati Uniti è praticamente senza importanza:«Possiamo esser certi che se la rivoluzione industriale nonfosse apparsa prima in Europa occidentale e settentrionale,questa si sarebbe comunque manifestata prima o poi, in unaltro punto del pianeta» (RH, 65).

In realtà non esiste nessun primato tra le culture ancheperché nessuna di queste è mai sola e tutti i progressi mag-giormente rilevanti risultano da un intreccio culturale, piùo meno consapevolmente voluto e cercato. Solo la fatalità

19

Page 20: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

di essere isolati costituisce un vero e proprio handicap,mentre è la differenziazione tra le varie culture che si ritro-vano a collaborare, a costituire la loro più grande potenzia-lità: per di più è proprio l’ampiezza del livello di differen-ziazione tra le culture coinvolte che, ad esempio, fa la dif-ferenza tra l’Europa agli inizi del Rinascimento e l’Americapre-colombiana. Finalmente è l’ordinarsi causale di fattoristorici e non la presenza dell’uno o dell’altro tratto cultura-le che si rivela decisivo ai fini dello sviluppo. Quest’ultimofinisce con l’essere il risultato della «coalizione tra culture»,più che il risultato di una genialità presente in luoghi spe-cifici e assente in altri, una coalizione tanto più fruttuosaquanto più è alta la differenza tra le culture che collabora-no. Lo stesso sviluppo della seconda rivoluzione industria-le che tanto ha contribuito nell’esaltazione moderna delnuovo e nel primato dell’Occidente avrebbe avuto una bendiversa velocità di crescita se non avesse potuto avvalersidella presenza dei Paesi colonizzati (RH, 80).

Le conclusioni costituiscono un vero e proprio manife-sto alla collaborazione tra i popoli, mentre il mantenimen-to delle diversità diviene una regola necessaria per evitare unappiattimento culturale che, alla lunga, inciderebbe sul dif-ferenziale stesso tra le culture e precluderebbe ogni ulterio-re sviluppo. «La diversità tra le culture umane è dietro dinoi, intorno a noi e davanti a noi. La sola esigenza che noipossiamo far valere a suo riguardo (creatrice per ogni indi-viduo dei doveri corrispondenti) è che questa si dispieghi informe attraverso le quali ciascuna finisce con essere un con-tributo alla più grande generosità delle altre» (RH, 85).

Autonomia dell’individuo e condizionamento delle culture

L’analisi di Lévi-Strauss, premiando il caso e lodando l’in-terazione – non di rado involontaria – tra le culture come

20

Page 21: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

fattore di progresso, contribuisce a rinforzare l’opposizioneverso qualsiasi forma di razzismo, intollerabile moralmen-te, ma soprattutto assolutamente inaccettabile all’internodell’edificazione delle nuove istituzioni internazionali. Sulpiano della cultura francese essa finisce per essere percepitacome il manifesto delle differenze e della loro incommen-surabilità, la prova provata del relativismo dei percorsi e de-gli approcci, la dimostrazione dell’uguaglianza non solomorale, ma anche tecnico-scientifica, tra i diversi popoli.Non a caso verrà recensita come «una piccola filosofia aduso dei funzionari internazionali»6. La distanza dall’antro-pologia anglosassone della seconda metà del xix secolo nonpoteva essere più consistente: qualsiasi primato della cultu-ra occidentale e del progresso industriale è di fatto annulla-ta. Gli antropologi che avevano consegnato all’impresa co-loniale il mandato della civilizzazione ereditato dalla filoso-fia dei Lumi sono immediatamente messi fuori gioco.

Una tale operazione non è senza conseguenze. Di fatto,per quanto mossa dalle più oneste intenzioni intellettuali,l’operazione produce un esito opposto a quello prospettatodai Lumi e alla base della costituzione delle Nazioni Unite.La distruzione del pregiudizio non si risolve più con l’aper-tura degli altri alla ragione, ma con l’apertura di se stessi alleragioni degli altri7. «Il Male, secondo Condorcet, provenivadalla scissione del genere umano in due classi: quella degliuomini che credono e quella degli uomini che ragionano.Pensiero selvaggio o pensiero colto, logos o saggezza barbara,bricolage o formalizzazione – tutti gli uomini ragionano, re-plica Lévi-Strauss, i più creduli ed i più nefasti sono quelli chesi considerano come i detentori esclusivi della razionalità. Ilbarbaro non è il contrario dell’uomo civilizzato […] e il pen-

21

6. Diogène couché, in «Les Temps modernes», 1955.

7. Cfr. a. finkielkraut, La défaite de la pensée, Gallimard, Paris1987.

Page 22: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

siero dei Lumi è colpevole del radicamento di una tale cre-denza nel cuore dell’Occidente, affidando ai suoi rappresen-tanti l’esorbitante missione di assicurare la promozione intel-lettuale e lo sviluppo morale di tutti i popoli della terra»8.

L’eredità durkheimiana, il polo culturalista della tradizio-ne sociologica francese, farà proprie le acquisizioni di Lévi-Strauss, tanto che, qualche anno più tardi, si potrà leggere inun testo redatto da sociologi tra i più rappresentativi di que-sta tradizione che: «La selezione di significati che definisceoggettivamente la cultura di un gruppo o di una classe comesistema simbolico è arbitraria, in quanto struttura e funzionidi questa cultura non possono essere dedotte da nessun prin-cipio universale, fisico, biologico o spirituale, non essendounite da nessuna specie di relazione interna alla “natura del-le cose” o ad una “natura umana”»9. Il principio universali-sta, battuto in breccia dalla critica di Lévi-Strauss entrerà co-sì a far parte delle acquisizioni dello stesso pensiero sociolo-gico, colto nella sua tradizione positivista.

Sul fronte opposto, quello dell’autonomia del soggetto,la sociologia di autori come Raymond Boudon sosterrà in-vece la possibilità di un pensiero trasversale alle diverse cul-ture. Infatti nella misura in cui non c’è tratto culturale, sin-gola credenza, concezione del mondo, che non venga fattapropria che a partire da ragioni che il soggetto trova sensa-te, si può parlare di un’evoluzione universale delle creden-ze, di un lento condensarsi di tutti i popoli intorno a deter-minati principi universali che, per tale strada, escono fuoridall’essere propri dell’una o dell’altra cultura, per farsi pa-trimonio indistinto dell’umanità nel suo insieme10. Valori

22

8. Ivi, p. 82.

9. p. bourdieu, j.c. passeron, La reproduction (Éléments pour unethéorie du système d’enseignement), Éditions de Minuit, Paris 1970, p. 22.

10. r. boudon, Le sens des valeurs, Presses Universitaires de France,Paris 1999.

Page 23: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

come il rispetto della donna, l’abolizione della pena di mor-te, il riconoscimento della dignità dell’individuo, ma ancheelementi particolari del sistema di regolazione giuridico-politica come la divisione dei poteri, sono fatti propri da unnumero sempre crescente di nazioni, mentre il manteni-mento delle forme precedenti si imbatte in contestazionisempre più vaste e condivise. Esiste, in altri termini, la pos-sibilità di oltrepassare i limiti delle singole culture, per ri-conoscere valori comuni. Un tale risultato non può prove-nire che dal carattere ragionevole, cioè consapevole e rifles-so, delle adesioni ai valori. Per quanto questi si vestano congli abiti della singola cultura, la loro accettazione è meno laconseguenza di un processo di socializzazione che il risulta-to di una scelta volontaria. Come ogni altra forma di scel-ta consapevole questi finiscono per costituire l’esito di ra-gioni e non sono riducibili a essere, al contrario, la puraadesione irriflessa ai condizionamenti del gruppo.

La critica all’etnocentrismo mossa da Lévi-Strauss restacosì in disparte. Ciò che è in discussione non è la capacitàdella cultura occidentale di contenere principi e valutazio-ni suscettibili di costituire i principi di una morale univer-sale, quanto la possibilità del soggetto, qualunque sia la suacultura di appartenenza, di verificare singolarmente e per-sonalmente la validità di tutto ciò che gli viene proposto. Sitratta di una possibilità che questi può cogliere o meno, mache, di fatto, svuota le culture della loro base coercitiva perfarne degli insiemi che hanno un senso proprio, alla luce delquale sono sottoscritte, o rifiutate.

salvatore abbruzzese

23

Page 24: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Bibliografia

boudon raymond, Le sens des valeurs, Presses Universitaires de Fran-ce, Paris 1999.

boudon raymond, Émile Durkheim: l’explication des croyances reli-gieuses, in Études sur les sociologues classiques, vol. ii, Presses Uni-versitaires de France, Paris 2000.

bourdieu pierre, passeron jean claude, La reproduction (Élé-ments pour une théorie du système d’enseignement), Éditions de Mi-nuit, Paris 1970.

durkheim émile, Les formes élémentaires de la vie religieuse, [1912]puf, Paris 1968.

finkielkraut alain, La défaite de la pensée, Gallimard, Paris 1987.lévi-strauss claude, Race et histoire, unesco, Paris 1952.

24

Page 25: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Che cosa può significare il «confronto fra culture». Elementi per una lettura delle Lezioni giapponesi

di Lévi-Strauss

dalla lettura di queste pagine1 emerge un Lévi-

Strauss in presa diretta con alcuni dei problemi fondamen-tali del nostro tempo – e, tra questi, vi sono problemi bioe-tici e giuridici sui quali Lévi-Strauss non si è mai sofferma-to così a lungo –, esaminati con lo spirito dell’antropologoche sa di essere un uomo di cultura di formazione occiden-tale a confronto con la cultura e la storia di un Oriente geo-graficamente e spiritualmente estremo, come quello nippo-nico. Chi conosce Lévi-Strauss può ravvisarvi l’espressionedi una libertà di opinioni che si ritrova forse solo nelle Ri-flessioni sulla libertà, che l’antropologo espose all’Assemblea

25

Introduzione

1. Il testo delle lezioni pronunciate da Lévi-Strauss a Tokyo fra il 15 eil 16 aprile del 1986 su invito della Fondazione Ishizaka – intitolateL’anthropologie face aux problèmes du monde moderne – non è stato sino-ra pubblicato nell’originale francese, e ha conosciuto, su autorizzazionedell’autore e di Satoshi Tsuzukibashi, una prima versione provvisoria inlingua occidentale, a opera del sottoscritto, nel Quaderno 2000 della ri-vista di scienze umane «Nuovo Sviluppo», diretta dal compianto LuigiPasquazi, per poi registrare una traduzione in giapponese (Heibonsha,Tokyo 2006) a cura di Kawada Junzo (dell’Università di Hiroshima) edi Kozo Watanabe (dell’Università Ritsumeikan di Kyoto).

Page 26: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Nazionale francese nel maggio del 1976, e in qualche rarointervento polemico. Chi non conosce Lévi-Strauss potràrendersi conto della portata complessiva degli esiti principa-li di tutta una vita di ricerche: esiti che qui incontrano la«prova» dell’attualità, oltre che – come nella migliore tradi-zione antropologica – la prova dell’alterità radicale di usi,costumi, credenze, lo sguardo da lontano2 trovando qui diche spaziare da un meridiano culturale all’altro. Chi si in-teressa all’Oriente, e in specie al Giappone, potrà allargareil suo sguardo con l’originale proiezione ottica di Lévi-Strauss, attestata in particolare dalla conferenza di Kyotodel 9 marzo 1988 su La place de la culture japonaise dans lemonde, pubblicata nella «Revue d’Esthétique» (n. 18, 1990).Non mancherà, infine, chi crederà di poter scorgere, in al-cuni passaggi di queste lezioni, l’abbozzo di una «antropo-logia dell’alterità» che, proprio pensando anche al Giappo-ne, un filosofo che vi abitò e vi insegnò da esule tra il 1936e il 19413, Karl Löwith, tentò nel suo scritto di abilitazione(Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, 1928), pub-blicato in traduzione italiana soltanto nel 2007, col titoloL’individuo nel ruolo del co-uomo.

La riproposizione in volume delle pagine seguenti è oc-casionata dalla ricorrenza del primo anniversario dellascomparsa del grande antropologo, anche se non si tratta diun’occasione puramente celebrativa. La rilettura delle Le-zioni giapponesi, infatti, dà modo di cogliere l’estrema at-tualità di un approccio formulato da uno dei più significa-tivi esponenti di quello che Bernard Henri-Lévy ha defini-to, forse non iperbolicamente, come il momento propria-

26

2. Con questa espressione Lévi-Strauss traduce riken no ken, che ingiapponese si adopera per designare lo sguardo dell’attore che guarda sestesso come se fosse il pubblico (cfr. le Lezioni, p. 82).

3. Cfr. k. löwith, Scritti sul Giappone, Rubbettino, Soveria Man-nelli 1995.

Page 27: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

mente francese del pensiero occidentale, dopo i momentipeculiarmente greco e tedesco4.

Il piano di lettura che verrà impiegato per misurare lapregnanza attuale dei contenuti offerti dalle Lezioni vertesulla questione del confronto fra culture: questione oggiquanto mai dibattuta, e tale da richiedere, oltre che un in-quadramento delle sue premesse teoriche, la ricostruzionedi esperienze che rappresentino che cosa ha significato real-mente, che cosa significa, e che cosa potrebbe ancora signi-ficare un confronto inter-culturale (comprensivo o no di unconfronto interetnico). La sostituzione del paradigma filo-sofico-storico delle civiltà – e dei loro relativi rapporti discontro e/o di incontro – al paradigma antropologico delleculture, autorizzata dall’irrompere sulla scena della globaliz-zazione di riscritture macrostoriche che recano la firma diun Huntington e di altri interpreti che tentano di leggere i

27

4. Cfr. b. henri-lévy, Ce que nous devons à Lévi-Strauss, in «LePoint», n. 1888, 2008. Henri-Lévy giunge a identificare in Lévi-Strauss il momento nel quale il pensiero occidentale si annuncerebbepienamente nel suo essere francese (ci si è spinti, con Patrice Manigliere altri, a parlare addirittura di una rivoluzione Lévi-Strauss, nel collet-taneo Le Siècle de Lévi-Strauss, cnrs, Paris 2008). La presente Intro-duzione vorrebbe sviluppare la portata di questa affermazione, tentan-do di verificarne la potenzialità esplicativa in ordine a qualcosa di bencircoscritto, che l’antropologia di Lévi-Strauss autorizza a pensare: os-sia che le relazioni tra le culture oscillano tra avvicinamenti e distanzia-menti, in un costante alternarsi di pulsioni attrattive ovvero repulsive,secondo registri che vanno dall’incontro allo scontro, e che configura-no tali relazioni come un confronto sempre in atto, suscettibile di svol-gersi su più livelli, e comunque in modo da presentare dimensioni diproblematicità che interessano le capacità di integrazione intercultura-le non meno delle possibilità conflittuali. Forse appartiene alle moven-ze speculative più profonde del pensiero di Lévi-Strauss l’attitudine del-l’Occidente a declinarsi in chiave universale, nella duplice valenza, ten-denzialmente oppositiva (in termini di maggiore o minore intolleran-za) o costruttiva (più o meno pacifica e dialogica), che proprio la ma-trice franco-occidentale sembra aver dispiegato, storicamente, conmaggior enfasi.

Page 28: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

fenomeni storico-ideali e storico-sociali in prospettivamondiale, ha offuscato gli elementi che permettono diidentificare i fattori di accomunamento ovvero di differen-ziazione capaci di creare continuità, contatto, ovvero attri-to fra soggetti portatori di usi, costumi, tradizioni, narra-zioni, linguaggi diversi5. La prospettiva che oggi tende a oc-cupare il campo visivo del lettore attento alle trasformazio-ni in corso è centrata su di una forte rilevanza del processostorico, sia pure rielaborata in un senso, più o meno dichia-rato, di filosofia della storia, assecondata da posizioni di so-ciologia della cultura e di filosofia della cultura che rileggo-no il confronto culturale odierno in base a dimensioni fon-damentalmente storico-culturali.

La lezione delle Lezioni di Lévi-Strauss, che si proveràrapidamente a contestualizzare in rapporto ad altri luoghi emomenti significativi dell’opera del grande Maestro del-l’antropologia culturale, procede invece dal riconoscimen-to di una portata relativa dei processi storici, accompagna-to da una costante presa critica di distanze rispetto al con-figurarsi sempre nuovo delle circostanze che sollecitano lariflessione: ne è un esempio lampante il modo in cui Lévi-Strauss tratta questioni di bioetica, affrontate nella prospet-tiva dalla quale può porsi un antropologo, certamente con-dizionato dal tempo in cui vive, ma abbastanza distaccatoper riconoscervi tratti di relativa novità. È in questo sensoche sembra dovere essere letta la raccomandazione di non

28

5. Samuel P. Huntington fa in verità propria una definizione di cul-tura di ascendenza sociologica (i riferimenti espliciti vanno a Durkheime Mauss), indicandovi il tema comune a qualsiasi accezione di civiltà(cfr. il suo Scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000, p. 46). Nellamisura in cui i termini in questione non risultino intercambiabili, qua-si sinonimi, «cultura» e «civiltà» corrisponderanno rispettivamente, nelpresente saggio introduttivo, a una copertura semantica a carattere piùintensamente antropologico (secondo un filone ermeneutico che va daMalinowski a Lévi-Strauss a Geertz) ovvero storico-religioso (che affon-da le radici in Burckhardt, Spengler, Toynbee).

Page 29: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

lasciarsi prendere, e magari sviare, dall’ansia eccessiva di le-giferare in materia, che – come si vedrà – trae alimento dauna insospettata subalternità dell’Occidente a un raziona-lismo di ascendenza teologico-politica. D’altro canto, l’im-postazione di una antropologia strutturale, che si è identi-ficata con Lévi-Strauss, richiede di portare a maturazionegli elementi che permettono un reale confronto fra le cul-ture: che questo possa aver luogo al livello microstorico del-le società senza scrittura dipende dalla ricchezza di informa-zioni che da queste ultime può essere attinta, in ordine al-la produzione della vita materiale, alla conformazione del-le strutture sociali di base della vita umana, così come allastrutturazione mitico-simbolica della rappresentazioneumana del mondo naturale, della cultura, e del sovranna-turale. Fa un certo effetto notare, a riguardo dello studiodelle forme di parentela, che in queste lezioni Lévi-Straussnon accenni affatto alla proibizione dell’incesto, che pureoccupa, nella sua opera, un posto di notevole rilievo: sipensi soltanto alle Strutture elementari della parentela(1947), che è ormai considerato un classico non solo del-l’antropologia ma anche della filosofia sociale6, nella misu-

29

6. «Classico» potrebbe essere un’aggettivazione equivocata come un lar-vato tentativo di archiviare Lévi-Strauss tra i «pezzi da museo» da riesu-mare per le ricorrenze. Al contrario, non esitiamo a fare nostra la seguen-te affermazione di Marcel Hénaff: «tutti coloro che dichiarano obsoletala sua opera non ci insegnano nulla su di essa ma ci dicono molto sullaloro ignoranza» (o. mongin, De la philosophie à l’anthropologie. Com-ment interpréter le don? Entretien avec Marcel Hénaff, in «Esprit», febbraio2002, p. 136). Su di un versante critico che non va trascurato, già un fi-losofo come Althusser, pur palesando tutte le sue perplessità su Lévi-Strauss, relative in particolare a un suo (preteso) misconoscimento diMarx, non poteva non ammettere che «la questione di Lévi-Strauss e del-lo strutturalismo è attualmente, e lo resterà a lungo, della massima im-portanza» (l. althusser, Su Lévi-Strauss, in id., Su Feuerbach, Mime-sis, Milano 2003, p. 95). Sulla portata innovativa delle Strutture elemen-tari della parentela per il pensiero politico e giuridico occidentale postil-

Page 30: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ra in cui propone una tesi esplicita sull’origine della socia-lità umana, caratterizzata, in termini fortemente etico-giu-ridici, dall’incidenza essenziale di una regola che detta lecondizioni fondamentali di qualsiasi società umana7.

L’autore delle Lezioni nipponiche, tuttavia, non omettedi ricordare che qualcosa come l’alliance8 corrisponde allaformula elementare della socialità umana: si tratta, al riguar-do, dell’altra faccia – positiva, obbligante all’esogamia – del-la regola delle regole, quella che interdice l’incesto. Nel fron-teggiare l’uditorio di una cultura geograficamente, antropo-logicamente, storicamente altra, Lévi-Strauss forse non a ca-so ha tralasciato l’aspetto negativo-proibitivo di una formu-la regolativa, privilegiando invece la valenza di apertura cheinvece l’alliance è suscettibile di dispiegare, quasi a voler sug-

30

luministico, in una linea che incrocerebbe l’opera di Lévi-Strauss con al-cune riflessioni di Emmanuel Lévinas e di Martin Buber, piuttosto checon Rousseau, valga la seguente indicazione: «quali che siano le criticheche vi si possono rivolgere, la monumentale opera di Lévi-Strauss è forsel’unica, nel xx secolo, che sia stata capace di fare i conti, in maniera ine-dita e risoluta, con le questioni sollevate dal pensiero politico ereditato daiLumi»(cfr. m. asch, Les structures élémentaires de la parenté et la penséepolitique occidentale, in «Les Temps Modernes», n. 628, 2004, p. 221).Non è d’altronde affatto da trascurare l’apporto, ricavabile da una lettu-ra di tutto Lévi-Strauss, a una antropologia sociale, d’impostazione filoso-fica, quale si può incontrare ne L’anthropologie sociale du Père Gaston Fes-sard, di Frédéric Louzeau (puf, Paris 2009, passim).

7. In proposito mi permetto rinviare al mio volume sulle Dimensionidella giuridicità nell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, Giuffrè,Milano 1994. Più in generale, nella recente bibliografia italiana sul-l’Autore, fra i titoli che meriterebbero di essere citati – e dei quali omet-tiamo la menzione solo per oggettive ragioni di spazio – ci limitiamo aricordare Ragione strutturale e universi di senso, di Sergio Moravia (LeLettere, Firenze 2004), e le Mie memorie ridestate dai cento anni di Lé-vi-Strauss, consegnate da Alberto M. Cirese, curatore della edizione ita-liana delle Strutture elementari della parentela (Feltrinelli, Milano1969), alla rivista «Voci» (a. v, 2008, pp. 9-17).

8. Al riguardo si rinvia alle Lezioni, p. 93.

Page 31: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

gerire, discretamente, un modulo potenzialmente trans-cul-turale – e trans-storico – tale da mettere due, o più, interlo-cutori, in grado di accostarsi reciprocamente, senza conquesto rinunciare alla propria identità. L’incontro con ilGiappone è esemplificativo di un modo realistico di inten-dere, e di praticare, l’esperienza della scoperta dell’altro, chesi riflette in scoperta di sé: le segrete simmetrie con l’Occi-dente, che Lévi-Strauss crede di poter ravvisare nell’elabora-zione di tratti a prima vista incompatibili con la sua culturamadre, rivelano un fondo comune di umanità, che perfino ilpiù radicale dei relativismi non può negare, pena il suo stes-so annunciarsi come programmatico antidogmatismo.

Il garbo col quale Lévi-Strauss si pone di fronte ai suoiinterlocutori è ampiamente documentato dalle pagine cheriproducono le sue Lezioni, le quali recano altresì testimo-nianza di un modo non violento, ma pazientemente e gra-dualmente costruttivo (e ricostruttivo di possibili, semprelatenti lacerazioni), di approssimarsi alla realtà che l’altro of-fre di sé, al suo modo di leggerla, come di leggervisi, nelcontestuale processo di contro-approssimazione che l’altroè invitato, o provocato, a elaborare per suo conto.

Se parliamo di garbo, non vogliamo per questo insiste-re su aspetti puramente formali delle implicazioni derivabi-li dall’approccio antropologico, originalmente levistraus-siano, al tra, ai nessi che consentono, come ai fattori cheostacolano, il rapportarsi delle culture. In proposito, cre-diamo interessante, se non opportuno, riproporre la lettu-ra di altri passaggi dell’opera di Lévi-Strauss, dai qualiemerge una linea di elementi sostanziali che contraddistin-guono il duplice movimento secondo il quale, venendo incontatto con altri soggetti, un soggetto culturale inclina aforme più o meno consapevoli di attrazione ovvero tende,anche qui più o meno consapevolmente, a sottrarsi, fino acontrarsi in ripiegamenti che sconfinano nell’ostilità, nellaxenofobia, nel razzismo.

31

Page 32: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

In tal senso, l’insegnamento di Lévi-Strauss, del qualeè stata trattenuta, a ragione, la valenza di potente antidotoa sempre risorgenti manifestazioni di intolleranza razziale,fornisce d’altra parte un notevole contributo al depotenzia-mento di troppo rapide, e facili, quando non comode, as-similazioni del confronto fra culture, sempre complesso edestremamente articolato, a forme generiche di multicultu-ralismo, melting pot, meticciato, interculturalità. Quest’al-tra versione dell’antropologia di Lévi-Strauss viene general-mente sottaciuta, forse per il suo essere in controtendenzarispetto a certa vulgata scientifico-culturale oggi dominan-te. Essa è invero tale da ridisegnare e risignificare i contor-ni del dibattito attualmente in corso sulle possibilità, comesui limiti, di ciò che va sotto il nome di confronto intercul-turale, oscillante fra gli estremi opposti costituiti dalla con-testazione del «mito» del dialogo delle civiltà9 e da spessoacritici inviti all’accoglienza indiscriminata degli «stranie-ri», magari in nome di una «fratellanza universale» che for-se necessiterebbe di essere rimeditata nell’ambientazionecristiana (postilluministica) di un pensiero della fraternitàumana. La lezione giapponese che Lévi-Strauss crede di po-ter ricavare sta a indicare una sorta di via di mezzo, tra lepossibili vie da esplorare: vale a dire che «ogni cultura par-ticolare, e l’insieme delle culture di cui è fatta tutta l’uma-nità, possono sussistere e prosperare solo secondo un dupli-ce ritmo di apertura e di chiusura, sia sfasate l’una in rap-porto all’altra, sia coesistenti nella durata. Per poter essereoriginale, e per poter mantenere, di fronte alle altre cultu-re, scarti che permettano loro un reciproco arricchimento,ogni cultura deve a se stessa una fedeltà il cui prezzo è unacerta sordità a valori differenti, ai quali essa resterà total-

32

9. Al Dialogo tra le culture di Fred Dallmayr (Marsilio, Venezia 2010)si giustappone Un mythe contemporain: le dialogue des civilisations, diRégis Debray (cnrs, Paris 2007).

Page 33: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

mente o parzialmente insensibile» (si legga la pagina con-clusiva di queste Lezioni).

È evidente, in questa ricezione dell’atteggiamento matu-rato dalla civiltà nipponica, una critica ante litteram del tri-buto da pagare ai processi di globalizzazione, che diventa ec-cessivo nella misura in cui si traduce nella destrutturazione,se non nell’annientamento, del capitale che ogni cultura, peril semplice fatto di esistere, rappresenta. A questo proposi-to, le lezioni di Tokyo, tenute proprio in un Paese nel qualela dialettica di apertura/isolamento pare aver prodotto esitiquanto mai illuminanti, rilanciano non casualmente posi-zioni espresse da Lévi-Strauss in altre sedi: in particolare indue interventi per l’unesco, uno del 1971 e l’altro del1984, che a loro volta per certi versi riecheggiano i due ca-pitoli conclusivi di Tristi tropici (1955), intitolati Taxila10 eVisita al Kyong, i quali meriterebbero di essere riletti ad altavoce, per la diretta pertinenza che essi rivestono a riguardodi alcune delle questioni essenziali che agitano il mondosconvolto dall’evento «apicale»11 dell’11 settembre 2001.

Lévi-Strauss è noto per essere l’autore di lavori che han-no fatto epoca, e scuola, nella storia del pensiero occidenta-le contemporaneo: Il pensiero selvaggio (1962) e le monu-

33

10. Devo lo spunto iniziale delle riflessioni che seguono a un colloquiocon Alessandro Di Caro, autore di un saggio sul Nostro che mantienetutta la sua pregnanza attuale: Lévi-Strauss: teoria della lingua o antro-pologismo?, Spirali, Milano 1981.

11. Preferiamo evitare cenni «epocali», facilmente equivocabili in ter-mini di filosofia della Storia. Il carattere «apicale» evocato dal capitolodi Tristi tropici – come si vedrà – ha piuttosto a che fare con un nodoirrisolto di storia delle civiltà, attinente alla problematica relazione traOriente e Occidente, suscettibile di essere tematizzato in una chiave diantropologia delle culture e delle civiltà storiche che, sulla scorta dellalettura condotta da Lévi-Strauss, potrebbe rivelarsi capace di una spe-cifica filosofia della cultura, nel solco di una tradizione densa di riman-di autorevoli (cfr. m. hénaff, Lévi-Strauss: une anthropologie «bonne àpenser», in «Esprit», gennaio 2004, p. 149).

Page 34: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

mentali Mitologiche (1964-1971) varrebbero da soli a iden-tificare una figura, e a caratterizzarla in base a un’improntainconfondibile, cosa che ne fa l’originalità di un «classico».Tanto basterebbe, però, per consegnare il percorso intellet-tuale di Lévi-Strauss a un segmento «museale», presto o tar-di condannato all’oblìo in quanto «superato» da autori e cor-renti ritenuti, a torto o a ragione, meritevoli di maggior con-siderazione. Il punto, però, è che l’immenso patrimonio diricerche lasciato in eredità da Lévi-Strauss è tutt’altro chescavato in profondità: a tutt’oggi, solo per fare un esempio,all’impresa delle Mitologiche resta da dedicare uno studio ap-propriato e organico. Inoltre, basterebbe solo accennare alfatto che l’antropologia di Lévi-Strauss non è un’antropolo-gia storico-strutturale per rendersi conto del peso di signifi-cati filosofico-culturali dei quali essa è portatrice. Ancora:molto ci sarebbe da studiare, e da pensare, forse in una pro-spettiva oltre-filosofica (mitico-poetica?), a partire dal tenta-tivo, messo in atto da Lévi-Strauss su sentieri non seconda-ri, e poco penetrati, del suo itinerario speculativo, di asse-gnare alla musica12 il compito di sintetizzare le istanze dell’in-telletto razionale e della sensibilità, portate altrimenti a se-guire direzioni fatalmente spesso opposte. Senza per questodover pensare a un ruolo specifico da attribuire all’arte in ge-nerale, in funzione esplicativa o addirittura pedagogica, nonsarebbe fuori tema limitarsi a individuare, tra i possibili fat-tori del dialogo tra le civiltà, un linguaggio trasversale a di-versi modi di pensare e «visioni del mondo», capace even-tualmente di armonizzarne le componenti più suscettibili diprestarsi a una comunicazione autentica fra culture, popoli,

34

12. Nel richiamare la partizione dell’indice de Il crudo e il cotto – pri-mo volume delle Mitologiche – in forma di generi musicali, Hénaff trac-cia un interessante parallelo fra la natura polifonica dei miti studiati daLévi-Strauss e la multidimensionalità alla quale si presterebbe la lettu-ra di una musica «allo stato selvaggio» come quella di Mozart (cfr. ivi,p. 167).

Page 35: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

individui: perché non potrebbe trovarsi nella musica un lin-guaggio capace di parlare al pensiero non meno che ai sensi?

Le forme della creatività artistica, tuttavia, sono possi-bili solo in presenza di determinate condizioni: una di que-ste, paradossalmente, risiede nell’allontanamento, spessoricercato a caro prezzo, da una comunicazione che, mentrefavorisce, al tempo stesso impedisce l’estrinsecarsi dellequalità che permettono a una creazione di essere, per defi-nizione, irriducibilmente tale. Creare, difatti, presupponeuna rete di legami – con una storia, con una comunità cuisi appartiene, con una «fatalità» alla quale in parte non ci sipuò sottrarre – che animano il gesto creatore insieme con lasingolarità di colui che lo pone. Fa parte di questo proces-so la creazione delle condizioni più favorevoli alla creazionestessa13 (ed è l’avvertenza lanciata da Lévi-Strauss all’une-

sco nel 1984), tra le quali rientra, a pieno titolo – anche senaturalmente non in via esclusiva –, la preservazione di unacontinuità di consuetudini che, al limite, potrebbe giunge-re fino al rifiuto o persino alla negazione di stili di vita al-trui, come si legge nel richiamo formulato da Lévi-Straussnella sua relazione all’unesco del ’71 (che già riprendeva ilcontenuto dello «scandaloso» testo, presentato sempre al-l’unesco, nel 1952, su Razza e storia14), per cui «non sipuò simultaneamente sciogliersi nel godimento dell’altro,identificarsi con lui, e restare diversi»15, in quanto «la co-municazione integrale con l’altro, se pienamente riuscita,condanna a breve o lunga scadenza l’originalità della suacreazione e della mia»16. Il padre dell’antropologia struttu-

35

13. Cfr. c. lévi-strauss, L’importance des relations entre les cultures,in «Culture pour tous et pour tous les temps», Paris 1984.

14. Cfr. id., Razza e storia, in Razza e storia e altri studi di antropolo-gia, Einaudi, Torino 1967, pp. 97-144.

15. Ibidem.

16. Ibidem.

Page 36: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

rale, in quell’occasione, ricordava che «le grandi epoche crea-trici furono quelle in cui la comunicazione era diventatasufficiente perché corrispondenti lontani fra loro si stimo-lassero, senza tuttavia essere tanto frequente e rapida da farsì che gli ostacoli, indispensabili fra gli individui come fra igruppi, si riducessero fino al punto che gli scambi troppofacili livellassero e confondessero la loro diversità»17.

Non si può dubitare che una posizione del genere,espressa senza mezze misure, urti la sensibilità contempo-ranea, diffusa quanto meno negli ambienti della media ealta cultura, avvezza e persuasa ad accettare senza riserve leparole d’ordine imposte dalla nuova fraseologia del «cultu-ralmente corretto». L’autorevolezza della posizione di Lé-vi-Strauss è corroborata, però, non soltanto dallo spessorescientifico della sua produzione, ma anche dal fatto, in-controvertibile, che si tratta di un autore che forse più dialtri ha smontato pezzo per pezzo la dottrina razziale, de-stituendola di qualunque pretesa consistenza scientifica.Chi, infatti, più di lui ha restituito i popoli cosiddetti pri-mitivi al rango di forme di umanità che nulla hanno da in-vidiare ai cosiddetti popoli sviluppati quanto a una comu-ne (se non, in certi casi, maggiore) capacità di produrre eriprodurre la vita associata nelle sue condizioni fondamen-tali? Forse nessuno più di Lévi-Strauss ha dimostratoquanto peso abbiano determinate invarianti strutturali nelrappresentarci l’immagine di una umanità di base condi-visa a tutte le latitudini, geografiche e culturali18.

Eppure, proprio perché nessuno ha mai potuto dare le-zioni di antirazzismo a Lévi-Strauss, a maggior ragione van-no presi in seria considerazione i richiami da lui lanciati a

36

17. Ibidem.

18. Magistrali, sotto questo riguardo, restano alcuni saggi raccolti nel-l’Antropologia strutturale, che attendono di essere adeguatamente rifre-quentati e rivisitati.

Page 37: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

più riprese. Lo stesso antropologo ricorda quanto scalporefece la sua presa di posizione contro un certo razzismo uffi-ciale, «di maniera», se non «di convenienza», che squalificacome razzistici atteggiamenti peraltro normali, anzi legitti-mi, e in ogni caso inevitabili19: lungi dal criticare la dovero-sa vigilanza da esercitare contro l’insorgere di sia pur larvateforme di razzismo, Lévi-Strauss faceva rilevare quanto fossecontroproducente, per questa stessa giusta causa, un certomodo «di servire il termine, per così dire, in tutte le salse,confondendo una teoria falsa, ma esplicita, con tendenze edatteggiamenti comuni, di cui sarebbe illusorio sperare chel’umanità possa un giorno liberarsi»20, e dei quali non si po-trebbe escludere per principio la fecondità. È come se Lévi-Strauss volesse indicare una sorta di nucleo razionale, di ra-gione profonda dell’autoaffermazione identitaria, dovuta inbuona parte al desiderio, presente in ogni cultura, «di op-porsi alle altre culture che la circondano, di distinguersene,insomma di essere se stessa»21; ciò non toglie che le cultureabbiano una qualche conoscenza reciproca, fino a scambiar-si prestiti, «ma, per non dissolversi, hanno bisogno che sot-to altri rapporti sussista fra loro una certa impermeabilità»22,tale da consentire loro di effettuare scambi fecondi, e nonpassive importazioni di elementi estranei.

Si può intuire quanto fosse «inattuale», nei primi AnniCinquanta dello scorso secolo, una posizione del genere,assolutamente fuori dagli schemi; si può capire che essa po-tesse essere accolta con una certa sufficienza, o comunquecon distacco, ancora all’inizio degli Anni Settanta; ma, trala metà degli Anni Ottanta e la prima decade del nuovo

37

19. Cfr. id., Prefazione a Lo sguardo da lontano, cit., p. xi.

20. Ivi, pp. xi-xii.

21. Ivi, p. xi.

22. Ibidem.

Page 38: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

millennio, si è prodotta, sulla scena mondiale – e mondia-lizzata – una trasformazione della condizione umana tale dariproporre quelle riflessioni di Lévi-Strauss in una chiaveche le ripresenta in tutta la loro estrema attualità: segno delloro carattere «scandalosamente» non contingente. Difronte alle varie forme che l’ibridazione delle culture ha as-sunto, e sta assumendo, come anche di fronte al riemerge-re (a volte prepotente) di particolarismi etnici, linguistici,religiosi, quanto mai pertinente risulta il monito di Lévi-Strauss, lanciato in tempi non sospetti: «la via su cui l’uma-nità è oggi impegnata accumula tensioni tali che gli odi raz-ziali offrono un’immagine ben riduttiva del regime d’intol-leranza esacerbata che rischia di instaurarsi domani, anchesenza che le differenze etniche gli debbano servire di prete-sto. Per aggirare questi pericoli, quelli d’oggi e quelli anco-ra più temibili dell’avvenire prossimo, ci dobbiamo persua-dere che le loro cause sono assai più profonde di quelle im-putabili semplicemente all’ignoranza e al pergiudizio»23. Inparticolar modo dopo la svolta dell’11 settembre, queste pa-role risuonano come se fossero state dettate all’uomo di og-gi, alle prese con questioni che hanno rimesso a tema il de-stino di un mondo che si riteneva (quasi) definitivamentepacificato dopo il crollo del comunismo di marca sovietica,e comunque incamminato verso una fine della Storia24.Questo mondo è ormai alle nostre spalle, ma non si intra-vede una ridefinizione, per quanto approssimativa, di equi-libri che possano permettere di indicare una direzione.

Stando a quanto Lévi-Strauss ci ha lasciato in eredità,un rischio sembra incombente, se non si è già materializza-to in entità culturali separate, che accentuano in senso lo-

38

23. id., Razza e cultura, in id., Lo sguardo da lontano, Torino 1984,p. 30.

24. Si dà per sottinteso ogni riferimento alla celebre opera di FrancisFukuyama su La fine della Storia e l’ultimo uomo.

Page 39: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

calistico una autopercezione e una autoaffezione che la glo-balizzazione attenua, quando non la mortifica fino a sop-primerla: si tratta del rischio di un appiattimento delle dif-ferenze che, omologando i soggetti collettivi a un modellounico di pensiero, di linguaggio, di stili di vita, finirebbecon l’esasperare un’ansia di riconoscimento suscettibile dierompere in forme di negazione dell’alterità delle quali ipregiudizi razziali non sarebbero che una pallida prefigura-zione. Paradossalmente, il fattore che si ritiene capace dipromuovere per lo meno l’immagine, se non, in parte, larealtà di una umanità senza frontiere – ossia l’intensifica-zione degli scambi, dei contatti, che passa attraverso l’iper-comunicazione teletecnologica e multimediatica – è il me-desimo fattore che sta mettendo l’umanità sulla strada diuna autoespropriazione, col sottrarre alla tolleranza reci-proca due requisiti che Lévi-Strauss considerava imprescin-dibili, per l’esperienza che ne avevano le società senza scrit-tura: una uguaglianza relativa, e una distanza fisica suffi-ciente25. Vale a dire una distanza resa giusta, anche in sensopolitico, da una dialettica di uguaglianza e differenza assun-ta a base della coesistenza delle culture. Il contributo chel’etnologo potrebbe offrire al ripensamento di quel che si-gnifica vivere in una società globale, sempre più influenza-ta da pulsioni di re-identificazione dei gruppi umani, deveessere all’altezza di una forma nuova di umanesimo: unumanesimo antropologico che, come ci ricordano le Lezio-ni del 1986, si attesterebbe quale umanesimo tendenzial-mente democratico, erede dell’umanesimo tradizionale, pri-ma aristocratico e poi borghese ma, diversamente da que-

39

25. Cfr. c. lévi-strauss, Razza e cultura, in id., Lo sguardo da lon-tano, Einaudi, Torino 1984, p. 30. L’antropologo si è mostrato decisa-mente – e contro corrente… – persuaso che «lo sviluppo della comu-nicazione tra gli uomini non li farà vivere in armonia, è vero il contra-rio»(c. clément, Lévi-Strauss, Meltemi, Roma 2004, pp. 110-111).

Page 40: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

sto, animato dalla tensione a una possibile riconciliazionedell’uomo con l’ambiente naturale. Non è un caso, proba-bilmente, che questo appello a un umanesimo generalizza-to sia stato rivolto da un Paese, come il Giappone, che del-l’oscillazione tra conservazione per così dire innovativa esviluppo per così dire conservativo ha fatto il segreto dellasua originalità26.

Detto questo per il presente, o meglio per un futuro inqualche modo già presentificato nell’esperienza di una cul-tura che ha reagito all’impatto con la modernità, a vocazio-ne euroamericana, restituendovi la propria inconfondibileimpronta. Ma che cosa dire del passato, se non del passatoremoto e ancestrale, che ritorna impetuosamente sullo sce-nario contemporaneo, in una maniera che ha sorpreso chistava accettando, per entusiasmo o per rassegnazione, ilnuovo ordine (o dis-ordine) emerso dalla fine della Guerrafredda? A quale luogo dell’opera di Lévi-Strauss il lettoredelle tre Lezioni qui pubblicate può all’occorrenza essererinviato – sempre da un peculiare punto di osservazione an-tropologico –, per una riconsiderazione complessiva deifattori culturali rimessi in gioco dall’inattesa eruzione divulcani geostorici, che parevano ormai sopiti? A quale pro-spettiva, inoltre, invita a guardare il nuovo moto magma-tico avviato con riguardo all’argomento che stiamo trattan-do in questa breve nota introduttiva, ovvero il significatoda assegnare al confronto fra culture?

40

26. Catherine Clément ha saputo riprodurre fedelmente la predilezio-ne per il Paese del Sol levante maturata da un Lévi-Strauss già avantinegli anni: nel corso delle sue numerose visite da «non specialista», l’an-tropologo constatò che l’«anima giapponese» è affetta da una «stupefa-cente capacità di passare alternativamente da un’attitudine all’altra: avolte, aperta alle influenze esterne per assorbirle meglio; in altri mo-menti ripiegata su se stessa come per negarsi o per assimilare meglio, inuna sorta di corto circuito, gli apporti esterni» (ead., Le Japon de Clau-de Lévi-Strauss, ivi, p. 49).

Page 41: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Desta stupore che, tra le ricostruzioni tentate dagli ana-listi di geopolitica, e in generale dagli studiosi di scienze so-ciali, sia del tutto assente il riferimento ai capitoli letteral-mente profetici che, sulla base dei resoconti del suo viaggioin Oriente, Lévi-Strauss stese a suggello del suo «romanzo»antropologico Tristi tropici27. In quelle pagine, al di là deipartiti presi dal loro autore, condivisibili o no, vengonoesplicitamente tematizzati sia il successo sia il fallimento diconfronti fra civiltà storiche – o, per usare un’altra «incli-nazione» terminologica, fra culture tradizionali –, le loro ri-spettive premesse, e le loro rispettive implicazioni per laconfigurazione degli attuali rapporti fra ciò che chiamiamo,in via generica e con molta approssimazione, Oriente28 eciò che (con sempre minor chiarezza) intendiamo per Oc-cidente. I contributi preparati da Lévi-Strauss per l’une-

41

27. Su quest’opera pesa tuttora la sentenza senz’appello formulata nel1959 da Emmanuel Lévinas: «l’ateismo moderno non è la negazione diDio, ma l’indifferentismo dei Tristi Tropici, che ritengo il libro più ateoscritto oggi, assolutamente disorientato e disorientante» (e. lévinas,«Fra due mondi» (La via di Franz Rosenzweig), in id., Difficile libertà,Ed. La Scuola, Brescia 1986, p. 118). Lévinas sapeva di parlare da ebreopraticante (si veda lo scritto, dello stesso anno, intitolato Le pharisienest absent, pubblicato nell’edizione originale Difficile liberté, Albin Mi-chel, Paris 1976, pp. 46-49) a ebreo dichiaratamente ateo, attingendoin Lévi-Strauss il bersaglio polemico di un più generale attacco direttoalla visione hegeliana e sociologica della Storia. Un approccio non pre-concetto ad alcuni passaggi dell’opera «incriminata» – come si avrà mo-do di rilevare – potrebbe contribuire quanto meno a sospendere il giu-dizio, in attesa di precisazioni ulteriori intorno a che cosa effettivamen-te corrisponda ai termini «religione» e «ateismo» riferiti alla concezio-ne che se ne ritrae dalla lettura di Lévi-Strauss.

28. A tale riguardo, si deve dare atto al giovane filosofo Frédéric Keck(di cui vale la pena ricordare Lévi-Strauss et la pensée sauvage, puf, Pa-ris 2004, e Claude Lévi-Strauss, une introduction, Pocket-la Découver-te, Paris 2005) di aver ascritto a Lévi-Strauss il merito di aver evitato ilduplice scoglio dell’orientalismo e dell’eurocentrismo (cfr. f. keck,Lévi-Strauss et l’Asie. L’anthropologie structurale «out of America», in«EchoGéo», n. 7, 2009).

Page 42: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

sco, le Lezioni di Tokyo, insieme con la parte finale di Tri-sti tropici, compongono, a nostro modesto avviso, un qua-dro di lettura specificamente antropologico della civilizza-zione umana, attraverso l’esemplificazione, circoscritta adalcune aree particolarmente «sensibili» del globo, di che co-sa accade quando il confronto fra culture «riesce», o vice-versa quando, più spesso, fallisce. È su questo piano cono-scitivo che, d’altronde, Lévi-Strauss sembra mettere allaprova la sua chiave di accesso teorica all’esame delle relazio-ni interumane in quanto tali: una chiave di accesso che,nella formalizzazione epistemologica strutturalistica concui vengono presentate le relazioni di parentela e i miti deipopoli un tempo considerati «selvaggi», privilegia, rispettoai rapporti di produzione materiale – caratterizzati econo-micamente, politicamente, ideologicamente da dominio esubordinazione –, i rapporti di produzione dei significati –contrassegnati da linee di comunicazione, non solo lingui-stica, e di coordinazione, etico-giuridico-familiare.

L’impreparazione dei ricercatori a fronteggiare i feno-meni storico-ideali e storico-culturali in corso dipende for-se da una non adeguata integrazione di un documentatoapproccio fenomenologico – quale sarà tra breve sintetizza-to, nei termini desumibili dalla lettura di Lévi-Strauss – conuno sforzo teoretico condotto in costante parallelo con ri-scontri sul campo. Se, almeno fino al 1989, il confrontodominante su scala internazionale era stato interpretato co-me confronto fra potenze politico-economiche, l’analisiteorica, d’impostazione liberale (vincente) piuttosto chemarxista (perdente), poteva «reggere» un impianto fenome-nologico che, in un modo o nell’altro, rispondeva a deter-minati postulati, più che collaudati da risultanze storico-sociologiche. Il riaffiorare di un Medio Evo che sembravadefinitivamente marginalizzato, ormai «fuori dalla Storia»,anche attraverso canali di espressione mediatici, dunqueipermoderni, ha sconvolto il metro di giudizio che ci si era

42

Page 43: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

abituati ad applicare alla rappresentazione dei processi inatto. È forse giunta l’ora di raccogliere la provocazione apensare che un autore come Lévi-Strauss, misuratosi con i«popoli senza Storia», lanciava, quasi sessant’anni fa, dauna periferia del mondo, allora apparentemente «in son-no», che nel giro di pochi anni sarebbe diventata un poloaccumulatore di energie non più sotterranee, ma destinatead alimentare un conflitto che, a un decennio di distanzadalla sua esplosione, sembra ancora ben lungi dal risolver-si. Taxila, una località che si trova nell’attuale Pakistan set-tentrionale, vicino al confine con l’Afghanistan29, è notaper essere un sito archeologico di grande rilevanza: la visitaa questo centro offrì a Lévi-Strauss lo spunto per rintrac-ciare «linee di faglia» lungo le quali vennero un tempo libe-rate energie creatrici capaci di plasmare forme di civiltà ine-dite e, insieme, di attrarvi controforze che avrebbero cam-biato il volto dell’intera Asia centrale, fino a coagularvi unacircolazione di messaggi e suggestioni che corrispondono agran parte dei fattori, effettivi e potenziali, dell’ipertensio-ne che interessa i centri politicamente, culturalmente, eco-nomicamente nevralgici del mondo contemporaneo.

Nella lente d’ingrandimento archeostorica che Lévi-Strauss vi ha applicato, Taxila nomina l’epicentro di un si-sma prodottosi nelle profondità di un insieme di rapporti fraciviltà, più e meno conflittuali: un complesso gravido di

43

29. Taxila è un sito archeologico della media valle dell’Indo, nei pressidi Rawalpindi. Il nome attuale deriva dalla denominazione dell’antichis-sima lingua indiana pāli Takkasilā, che designava una grande città dellaregione del Gandhara, divisa tra il Pakistan settentrionale e l’Afghani-stan nordorientale. Il testo epico indù Rāmāyana e antichi testi buddi-stici la menzionano come una splendida metropoli e un prestigioso cen-tro di studi. Dal V secolo a.C. la città subì diverse stratificazioni, finoad essere distrutta nel 455 dagli unni efthaliti (cfr. l. colliva, Taxila,in «Enciclopedia archeologica», Istituto della Enciclopedia Italiana Trec-cani, Roma 2005, p. 516 e m. d’onza chiodo, Taxila, in «l’Enciclo-pedia», Istituto Geografico De Agostini, Novara 2003, vol. 19, p. 481).

Page 44: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

conseguenze che sono sotto lo sguardo di tutti, ma cheavrebbe potuto registrare esiti oggi impensabili, ma non perquesto improbabili. L’ordine di interrogativi suscitati dallalettura della ideale «corrispondenza» trans-storica da Taxila,che Lévi-Strauss ci ha consegnato, potrebbe riassumersi, tral’altro, e in maniera significativa, in questo punto: la frattu-ra che ha avuto luogo, che sta avendo luogo, lungo l’estesoconfine, in parte reale in parte simbolico, che – come tuttii confini – separa e ad un tempo unisce Oriente e Occiden-te, origina da fattori contingenti, destinati a venir meno conl’esaurirsi delle spinte centrifughe che li hanno determinati,oppure «pesca» in un fondale ricco di costrutti semantici chechiedono di essere approfonditi, pena il fraintenderli qualiresidui arcaici privi di interesse per la lettura degli avveni-menti odierni? In altre parole – lo si vedrà fra poco –, nelcaos centroasiatico che si è sprigionato a cavallo del Duemi-la, e che conosce sul territorio afghano una concentrazionemilitare senza precedenti, è in gioco soltanto una contesamossa dall’esigenza, da parte di attori «interessati», di assi-curarsi mezzi di controllo geopolitico e geoeconomico diun’area strategica del pianeta, oppure accennano a delinear-si le proporzioni di un mutamento di rapporti di forza cul-turali – dunque, in ultima analisi, di significazione e di mo-tivazione – che nodi problematici non sciolti, e nemmenoconsapevolmente affrontati in un passato prossimo o remo-to, renderebbero tuttora possibile? Taxila sembra concentra-re, sotto lo sguardo di Lévi-Strauss, i motivi essenziali di ciòche agita il mondo per vari aspetti frammentato, invece cheamalgamato e ricomposto, dal motore della globalizzazione,come di ciò che, in una certa direzione, avrebbe potuto (eancora potrebbe?) dare prospettiva e forma a un tentativo disintesi di civiltà imprevisto (non più prevedibile?).

La fonte alla quale attinge Lévi-Strauss è ricca di una ta-le quantità e articolazione di elementi storici, e artistici, dasfidare a una rinnovata presa di coscienza delle condizioni

44

Page 45: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

alle quali un confronto tra culture può essere pensato, sul-la base dell’esperienza, rappresentata a più livelli, della re-ciproca fecondazione delle avanguardie di antiche civiltà,passate da un fronte di contrasti apparentemente insupera-bili a una sorta di felice, benché non duratura, neoforma-zione culturale. Il nome di Taxila, in questo senso, potreb-be indicare lo stadio virtuale di una possibilità ancora daesperire: non tanto una buona, generosa, magari utopisti-ca idea, quanto una vocazione, parzialmente mancata manon perciò meno viva, alla realizzazione di un costruttivoconfronto fra culture assunto come compito. A Taxila, peralcuni secoli, «tre delle più grandi tradizioni spirituali delMondo Antico hanno vissuto vicine: ellenismo, induismo,buddismo»30; ma questo non è il dato di fatto più indica-tivo del particolare valore rivestito da quella miniera cultu-rale a cielo aperto che è la sanscrita Takşaśilā – città dei ta-gliatori di pietra31 –, come anticamente era denominata,«perché anche la Persia di Zoroastro era presente e, con iParti e gli Sciti, si venne a creare una civiltà delle steppe quicombinate con l’ispirazione greca»32.

Gradualmente veniamo introdotti, dalla lettura incro-ciata delle inedite Lezioni giapponesi e delle conosciute, marimosse pagine finali di Tristi tropici, a una più profondaesplorazione di un mondo, e di epoche, donde si potrebberitrarre una complessiva lezione asiatica, che per la verità ten-de a convertirsi, attraverso una serie di passaggi «al limite»tra una antropologia, una storia, una filosofia delle civiltà,in una ancor più ricomprensiva lezione orientale-e-occiden-tale. Questa lezione, per il suo esplicito sottrarsi a paradig-mi comparatistici, offre l’opportunità di pensare intensa-

45

30. c. lévi-strauss, Tristi tropici, il Saggiatore, Milano 1982, p. 385.

31. Cfr. ivi, p. 383.

32. Ivi, p. 385.

Page 46: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

mente, e di elaborare secondo nuove categorie, la civiltàumana nella sua globalità pluridimensionale, non ridotta al-lo schema parauniversalistico di (an)globalizzazioni a senso(quasi) unico, erette a luogo comune di una pseudoretoricainsofferente di apporti critico-riflessivi. Dov’è possibile rin-venire un luogo come Taxila, nel quale, a eccezione di quel-la cristiana, tutte le influenze di cui è penetrata la civiltà delMondo Antico sono rappresentate33? Dove, l’uomo dell’an-tichità – e, potremmo aggiungere, in certo qual modo lostesso uomo contemporaneo, in qualità di erede di quelle ci-viltà, e dei loro incroci, compiuti o incompiuti –, «rianno-dandosi con la sua storia potrebbe interrogarsi meglio che inquesto luogo che gli presenta il suo microcosmo?»34. In que-sto posto, che le invasioni barbariche e poi l’Islam hanno ri-dotto a un cumulo di rovine, «vissero forse gli scultori greciche seguirono Alessandro, creatori dell’arte del Gandhara, eche diedero agli antichi buddhisti l’audacia di raffigurare iloro dèi»35. Si tratta del passaggio che forse più di altri depo-tenzia il termine indoeuropeo delle sue (peraltro problemati-che) connotazioni genetiche e linguistiche36, per riempirlodi un contenuto storico-antropologico ad alta intensità ci-vile-culturale, tale da autorizzare interrogativi sconcertantiche, riascoltati oggi, sembrano inchiodare i contemporaneiad una più consapevole e ardita assunzione di responsabilità:

46

33. Cfr. ibidem.

34. Ibidem.

35. Ibidem. Non è un caso se, nel marzo del 2001, suscitando l’indi-gnazione di una comunità internazionale che avrebbe presto dovuto re-gistrare ben altri e molto più dolorosi traumi, i taliban al potere nell’E-mirato dell’Afghanistan si accanirono contro le due colossali statue diBuddha della città di Bāmiyān, simboli-bersaglio di una intera civiltàda abbattere.

36. Per le valenze squisitamente antropologiche delle simbologie in-doeuropee si rinvia in particolare ai lavori di Georges Dumézil.

Page 47: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

«che sarebbe oggi l’Occidente se il tentativo di unione fra ilmondo mediterraneo e l’India fosse riuscito in forma dure-vole? Il Cristianesimo, l’Islam sarebbero mai esistiti?»37. Sequalcosa come una civiltà indo-mediterranea è potuta maicrescere fino a tramandarci le vestigia di uno splendore cheviaggiatori cinesi ancora ammiravano nel vii secolo, il suolascito risponde a un’occasione mancata piuttosto che a unprogetto realizzato.

Verrebbe da chiedersi, a questo punto: se una possibile,per quanto relativa «globalizzazione» del mondo antico nonha avuto modo di prendere forma, per il precoce venir me-no di una unità strutturata intorno a un centro propulsoredi civiltà risultante da più affluenti, quale immagine di unitàpuò oggi sostituirvisi, atteso che le questioni rimaste alloravirtualmente irrisolte impongono ora di fare i conti con lemedesime difficoltà di intesa, se non con le medesime insa-nate rotture? Il riaccendersi di una nuova, tentata sintesi diciviltà avrebbe potuto guadagnare terreno se, in un secondomomento, al profilarsi del netto contrasto fra il Saggio –personificazione del Buddha – e il Profeta, Maometto, il cri-stianesimo, in quanto religione organizzata (come sembra dicapire), non fosse apparso «troppo presto», per riprendere letestuali parole di Lévi-Strauss: se si fosse cioè prodotto noncome un passaggio dall’uno all’altro estremo – come in ef-fetti è stato – ma come una conciliazione a posteriori di que-sti due estremi38, come una mediazione tra l’istanza pacifi-ca, orientata a una fusione con l’elemento femminile, por-tata avanti dal buddismo, e la spiccata propensione al mes-sianismo virile e bellicoso espressa dall’Islam.

Si potrebbe tranquillamente contestare l’opinabilità del-le asserzioni di Lévi-Strauss, liquidandole come non scien-tifiche divagazioni dello scrittore. Si può certo decidere di

47

37. c. lévi-strauss, Tristi tropici, cit.

38. Cfr. ivi, p. 397.

Page 48: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

passarci sopra, come si può invece lasciarsene sfidare, pren-dendole come lo sfondo sul quale leggere in controluce lestesse Lezioni giapponesi. Il cristianesimo vi viene presentatocome «termine medio di una serie destinata dalla sua logicainterna, dalla geografia e dalla storia, a svilupparsi d’ora inpoi nel senso dell’Islam; poiché quest’ultimo – i Musulma-ni hanno vinto su questo punto – rappresenta la forma piùevoluta del pensiero religioso senza peraltro essere la miglio-re»39, configurandosi anzi come la più inquietante. Ma checosa c’entra tutto questo con Taxila? Se Lévi-Strauss, nel1955, ha potuto constatare che «la Francia è in via di diven-tare musulmana»40, si è sentito legittimato a pronunciarequesta «sentenza» sulla base degli stessi elementi di osserva-zione che, nel 2010, portano molti Europei ad assegnare al-trettale sorte al loro Continente. Si badi che questo punto divista viene enunciato da Lévi-Strauss nel cono d’ombra del-l’ambizione dell’etnografo, che si nutre del tentativo costan-te di risalire alle origini. Come dire che sono l’osservazionedelle rovine di Taxila, la visita ai centri greco-buddisti finoal kyong della frontiera birmana, a suscitare molto più cheimpressioni di viaggio: si è trattato di esperienze tali da farmaturare una percezione acuta, venata di scetticismo – co-me peraltro è nello stile del nostro Autore –, dell’orizzontetemporale di lunga durata sul quale si stagliano i cambia-menti che interessano il mondo contemporaneo.

Troppo impegnati, come naturalmente siamo, dall’ur-genza di confrontarci con circostanze inedite che invocanoapprocci non convenzionali, siamo portati a scambiare lapressione delle circostanze con una sua prossimità: che Taxi-la, e il kyong, c’entrino con l’11 settembre e il terrorismo dimatrice islamista, con la guerra in Afghanistan, con le que-

48

39. Ivi, p. 397.

40. Cfr. ivi, p. 394.

Page 49: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

stioni relative all’immigrazione di massa, con le dimensionietiche, giuridiche, politiche, economiche che vi sono coin-volte, è qualcosa che si deduce dalla vocazione stessa dell’an-tropologo a scrutare, sotto la cresta delle onde, sotto la su-perficie degli eventi, i movimenti, lenti ma inesorabili, del-le forze che generano la Storia, e la resistenza, talora accani-ta (disperata?), che altre forze (strutturali?) oppongono allaStoria medesima. Dallo spirito di osservazione antropologi-co impersonato da Lévi-Strauss apprendiamo, ad esempio,che l’Islam, in quanto Occidente dell’Oriente, è troppo si-mile a ciò che tradizionalmente intendiamo per Occidente– greco, romano, cristiano, illuminista – perché il confron-to fra questi due Occidenti non configuri elementi di con-traddittorietà: come «l’Islam che, nel Vicino Oriente, ful’inventore della tolleranza, non perdona i non-Musulmanidi non abiurare alla loro fede, poiché essa ha su tutte le altrela superiorità schiacciante di rispettarle»41, del pari noi, eu-ro-occidentali, «non possiamo ammettere che dei principi,fecondi per la nostra espansione, non siano ormai apprezza-ti dagli altri e quindi rigettati da loro, tanto dovrebbe esseregrande, a nostro avviso, la loro riconoscenza verso di noi cheli abbiamo immaginati per primi»42. La contraddizioneesplode – si noti che Lévi-Strauss dettava queste riflessionialla vigilia della fase conclusiva della decolonizzazione – nelmomento in cui il rispecchiamento di due «complessi di su-

49

41. c. lévi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 394. Circa l'Islam qualefautore di tolleranza si considerino le riserve espresse dal sociologo del-la religione americano Rodney Stark nel suo Gli eserciti di Dio, Lindau,Torino 2010.

42. Ibidem. «Sessanta anni fa, quando il primo mondo ancora si cul-lava nell’illusione delle magnifiche sorti e progressive, Lévi-Strauss, inalcune visionarie pagine di Tristi tropici, ha intravisto profeticamente ilpericolo dell’integralismo religioso che, partendo dall’Islam, avrebbe fi-nito per contagiare l’Occidente cristiano» (m. niola, Introduzione aLévi-Strauss fuori di sé, Quodlibet, Macerata 2008, p. 24).

Page 50: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

periorità» (forse non del tutto ingiustificati) mascherati dabenevolenza fa venire a galla comportamenti analoghi piut-tosto che differenze supposte come incompatibili: se fosse,almeno in parte, vero che due tradizioni spirituali fanno fa-tica a confrontarsi costruttivamente non per preconcetti le-gati alla diversità, ma perché troppo ricche di storia, ecces-sivamente cariche di un passato che le accomuna, la frizio-ne – con la neutralizzazione reciproca che essa comporta –dipenderebbe probabilmente da una sorta di «effetto cumu-lo» più che da una presunta ignoranza vicendevole.

Le controspinte propulsive che occidentalizzano l’Islamnella (asimmetrica) misura in cui islamizzano l’Occidente –si pensi solamente al progetto di «esportazione della demo-crazia» di marca euroatlantica di contro alla penetrazionedella Rinascita islamica in larghi strati delle masse musulma-ne e non – mostrerebbero una reciproca tendenza ad accu-mulare elementi di somiglianza piuttosto che di differenza.In altre parole, quanto più Occidente europeizzato e Occi-dente islamizzato si assomigliano, tanto più si combattono,per giunta con le stesse armi (della tecnica). Lévi-Straussmette in luce la paradossalità di una situazione che vede re-stringersi le possibilità di intesa in proporzione diretta allaricerca ansiosa di «minimi comuni denominatori» (il cosid-detto monoteismo43, per citare uno fra i tanti): «lo spiritoche ci anima gli uni e gli altri offre troppi tratti in comune

50

43. Per una lucida e penetrante «smitizzazione» filosofica del cosiddet-to monoteismo, e dei connessi, possibili malintesi, si veda r. brague,Il Dio dei cristiani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. In attesadi una verifica filosofico-religiosa da operare con Schelling, e all’occor-renza con Teilhard de Chardin, si potrebbe ad ogni modo dare per ac-quisito, sullo sfondo di cenni abbozzati nell’ultimo Lévi-Strauss, che«tutte le cosmologie sono in fondo monoteiste e probabilmente non so-no concepite per nessun altro fine se non quello di culminare e conver-gere in un punto sintetico, omega inaccessibile all’analisi» (d. dubuis-

son, Mitologie del XX secolo, Dedalo, Bari 1995, pp. 183-184).

Page 51: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

per non metterci in opposizione»44. Lévi-Strauss si chiede-va, in anticipo sui tempi, se, date queste premesse, sarebbemai stata praticabile l’apertura delle frontiere della Francia aun numero consistente di immigrati musulmani, analoga-mente a come oggi la stessa domanda, divenuta drammati-camente pressante in virtù di trasformazioni demograficheimprevedibili mezzo secolo fa, investirebbe la capacità ricet-tiva (in termini culturali, prima che demografici) di Paesicome l’Italia: «può accadere che due forze aggressive, som-mandosi insieme, invertano la loro direzione? Ci salveremo,o piuttosto non determineremo noi stessi la nostra perditase, rafforzando il nostro errore con quello analogo, ci rasse-gneremo a ridurre il patrimonio del Mondo Antico a quei10 o 15 secoli di impoverimento spirituale di cui la sua metàoccidentale è stata il teatro e l’agente?»45.

Il centro problematico che Lévi-Strauss credeva di averescorto, contemplando quel che resta di Taxila, starebbe nel fat-to (a suo tempo rilevato, con ispirazione convergente, daTeilhard de Chardin) che, «interponendosi fra il Buddismo eil Cristianesimo, l’Islam ci ha islamizzati; quando l’Occidentesi è lasciato trascinare dalle crociate ad opporglisi e quindi adassomigliargli, piuttosto che prestarsi – se non fosse mai esisti-to – a quella lenta osmosi col Buddismo che ci avrebbe cristia-nizzati di più e in un senso tanto più cristiano in quanto sa-remmo risaliti al di là dello stesso Cristianesimo»46. Nel sog-

51

44. c. lévi-strauss, Tristi tropici, cit., pp. 394-395.

45. Ivi, p. 395.

46. Ivi, p. 398. In un’intervista televisiva rilasciata nel novembre del1997 a Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, Lévi-Strauss confessava aposteriori quanto segue: «in passato, è vero, mi sono sentito vicino albuddismo, e ancora oggi continuo ad amarlo. Ma oggi più che al bud-dismo mi sento vicino a quello scintoismo che ho conosciuto nei viaggiin Giappone, perché testimonia un rispetto spinto fin quasi alla venera-zione non soltanto per gli esseri umani, ma anche per gli animali, le

Page 52: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

giungere che allora «l’Occidente ha perduto la sua opportunitàdi restare femmina»47, Lévi-Strauss allude a una questione, laquestione (del) femminile, che non a caso interessa trasversal-mente le linee di confronto fra le culture, e in maniera signifi-cativamente drammatica il confronto fra l’Islam e le altre cul-ture in generale. Questo punto meriterebbe una trattazionedettagliata e approfondita: può forse bastare, in questa sede,segnalarlo come decisivo, perché vi si manifesta una delle ra-gioni fondamentali che, a parere di Lévi-Strauss, avrebberoportato l’Islam a tagliare in due un mondo più civile, per cui«quello che gli sembra attuale proviene da un’epoca già com-piuta, esso quindi vive in uno spostamento millenario. Ha sa-puto compiere un’opera rivoluzionaria; ma poiché questa siapplicava a una frazione arretrata dell’umanità, seminando ilreale ha sterilizzato il virtuale: ha determinato un progresso cheè l’inverso di un programma»48. Taxila proietta l’ombra di unascissione non ancora compiuta: la «fugace possibilità che il no-stro Vecchio Mondo ebbe, di restare uno»49. Taxila, con i suoimonasteri buddisti popolati di statue che testimoniano della

52

piante, le pietre stesse» (c. lévi-strauss, Cristi di oscure speranze, not-tetempo, Roma 2008, p. 50), le quali ultime, pure, nel loro sfaldarsisoffrono…, secondo la coscienza dell’umanesimo «interminabile» di Lé-vi-Strauss (cfr. p. maniglier, L’humanisme interminabile de Claude Lé-vi-Strauss, in «Les Temps Modernes», n. 609, 2000, pp. 216-241), cheperò sarebbe frettoloso e fuorviante bollare come una forma di materia-lismo, quando – come giustamente ha sottolineato qualcuno (cfr. s. pe-

trosino, Capovolgimenti, Jaca Book, Milano 2008, pp. 121-122) – èproprio Lévi-Strauss ad aver rinvenuto nell’arte dei popoli senza scrittu-ra elementi di rinvio al soprannaturale che nemmeno uno spiritualistafervente sarebbe mai riuscito a rendere in una guisa, anche grammati-calmente, così icastica (cfr. c. lévi-strauss, Guardare Ascoltare Leg-gere, il Saggiatore, Milano 1994, pp. 135 e ss.).

47. c. lévi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 398.

48. Ibidem.

49. Ivi, p. 395.

Page 53: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

felice influenza della scultura ellenica, addita un altro possibi-le destino, «quello, precisamente, che l’Islam interdice, driz-zando una barriera fra un Occidente e un Oriente che, senzadi esso, non avrebbero forse mai perduto il loro attaccamentoal suolo comune nel quale affondano le loro radici»50. Si è vi-sto, ma forse va meglio precisato, restando fedeli al testo di Lé-vi-Strauss – senza con ciò aderirvi acriticamente –, che il ter-mine «Islam» copre un ambito semantico nel quale rientra unatteggiamento scolastico, uno spirito utopistico, la convinzio-ne ostinata «che basti tracciare un problema sulla carta per es-serne tosto sbarazzati»51: tutti elementi diffusi nel modo dipensare e di vivere altrimenti qualificabile come «occidentale»,in conformità al quale, «sotto l’egida di un razionalismo giuri-dico e formalista, ci costruiamo un’immagine del mondo edella società in cui tutte le difficoltà sono sottoposte a una lo-gica artificiosa e non ci rendiamo conto che l’universo non èpiù formato dagli oggetti di cui parliamo»52. Uno spunto, inparticolare, consente di dilatare a una serie di rimandi signifi-cativi la lettura levistraussiana di un Occidente «islamizzante»:si tratta del passaggio allusivo alle «due specie sociologicamen-te così notevoli come il Musulmano germanofilo e il Tedescoislamizzato»: «se un corpo di guardia potesse essere religioso,l’Islam sarebbe la sua religione ideale: stretta osservanza del re-golamento […]; ispezioni particolareggiate e cure di pulizia[…]; promiscuità maschile nella vita spirituale come nel com-pimento delle funzioni organiche; e niente donne»53. Verreb-be da chiosare: soprattutto, niente donne!...

Torna in mente il richiamo di Carl Gustav Jung al paral-lelo tra la «religione» hitleriana e l’islamismo, che predicano

53

50. Ibidem.

51. Ivi, p. 394.

52. Ibidem.

53. Ivi, p. 392.

Page 54: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

entrambe la virtù della spada54. La corda dei rinvii potrebbevibrare fino alla rilettura del passaggio in cui Nietzsche sichiedeva «come un tedesco abbia mai potuto avere senti-menti cristiani…»55, dal momento che, «se l’Islam ha in di-spregio il cristianesimo, ha in ciò mille volte ragione: l’Islamha per presupposto dei maschi…»56. Ma echeggiano anche

54

54. «La «religione», neopagana, di Hitler è la più vicina all’islamismo,è realistica, terrena, promette la massima ricompensa in questa vita, conWalhalla tipo paradiso maomettano, a cui saranno ammessi i tedeschidegni di questo nome per continuare a gustare i piaceri dell’esistenza»(Jung parla, Interviste e incontri a cura di w. mcguire e r.f.c. hull,Milano 2009, p. 171). Certe assonanze con espressioni ricorrenti oggi,come «fascismo islamico» (autorizzate d’altronde da frasi come questa,attribuita a Mussolini: «come il paradiso dell’Islam, così anche la nostrapace più sicura sarà all’ombra delle nostre spade», citato da Juàn Chabàsne L’Italia fascista (politica e cultura), viennepierre, Milano 2004, p.105), non devono fuorviare. Venature «religioidi» – per usare il lessicodi Georg Simmel – di regimi politici sono sempre osservabili. Ciò chequi è all’attenzione è la misura in cui l’Islam come tale, prima di qualun-que sua declinazione in termini di «islamismo politico», si è reso capacedi influire sul modo in cui l’Occidente, in special modo attraverso alcu-ne sue esperienze storicamente compiute, ha saputo rappresentarsi, inpiù o meno apparente contraddizione con se stesso.

55. f. nietzsche, L ’anticristo, Adelphi, Milano 2004, p. 93.

56. Ivi, p. 92. Con riferimento al «maschilismo» d’impronta islamica si èfatto rilevare, in altra sede, un possibile, singolare parallelismo tra due fe-nomeni altrimenti incommensurabili: l’incremento, registrato in Occiden-te, dei casi di sintomatologia legati al reflusso gastroesofageo infantile, daun canto e, dall’altro, l’insorgere del movimento (per molti aspetti miste-rioso) noto col nome di Al Qaeda. Il fenomeno volgarmente chiamato «ri-gurgito neonatale», almeno in una certa casistica, potrebbe dimostrare cheuna forte repressione inconscia «di quanto chiede semplicemente di torna-re naturalmente a galla determina in queste circostanze un ritorno moltopiù violento di ciò che si era cercato di rimuovere» (a. naouri, Padri emadri, Einaudi, Torino 2005, p. 203). L’impatto, provocato dall’occiden-talizzazione degli stili di vita in particolare sulla sensibilità e sulla mentalitàdi una consistente parte del mondo arabo-musulmano, potrebbe aver get-tato i semi di un risentimento covato fino all’esplosione violenta: individuidi sesso maschile hanno visto messo in pericolo il loro status di privilegiati

Page 55: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

le parole con cui un filosofo tedesco, come Hegel, ha bolla-to inappellabilmente l’astrazione che, nel bene e nel male,divora l’islam nel suo insieme: «l’astrazione dominava iMaomettani: il loro fine era quello di far valere il cultoastratto e a ciò essi hanno aspirato con il massimo entusia-smo. Questo entusiasmo era fanatismo, ossia un entusiasmoper qualcosa di astratto, per un pensiero astratto, che sicomporta in maniera negativa verso l’esistente. L’essenza delfanatismo sta solo nel comportarsi verso l’esistenza concretadevastandola, distruggendola; tuttavia il fanatismo mao-mettano era capace nel medesimo tempo di ogni azione su-blime – una sublimità, libera da ogni interesse meschino,che si accompagna a tutte le virtù della magnanimità e delvalore militare»57, esaltate nella rappresentazione affascinatadel Profeta Maometto che si può trarre dal classico Gli eroidi Thomas Carlyle: «il rischio, l’abnegazione, il martirio, lamorte: ecco le lusinghe che agiscono sul cuore dell’uomo»58

55

rispetto alle donne, e ai figli, «si sono organizzati, hanno nutrito il loro ran-core, hanno coordinato le loro forze e hanno reclutato un numero suffi-ciente di fanatici candidati al suicidio per lanciarsi nella nuova forma diguerra che hanno inaugurato» (ivi, p. 207). È un incoercibile urto (di vo-mito…) che, proprio per la forza (della disperazione?) che lo alimenta, ri-vela forse l’autentica posta in gioco dello «scontro di civiltà» oggi in atto,che sembra vertere sulle modalità costitutive, e regolative, delle relazioni trauomini e donne, come dell’idea che gli uni si fanno delle altre (e vicever-sa), e dell’idea che gli uni e le altre si fanno dei figli (e viceversa).

57. g.w.f. hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 295. A riguardo dell’attendibilità di questo testo, curatoin edizione italiana da Bonacina e Sichirollo sulla base della versione diKarl Hegel, che si discosta dalla Filosofia della storia universale (Einau-di, Torino 2001) tradotta da Sergio Dellavalle, vanno in ogni caso se-gnalate le riserve mosse da Paolo Becchi (di cui cfr. Karl-Heinz Ilting ele lezioni hegeliane di filosofia della storia, in «Rivista internazionale difilosofia del diritto», n. 2, 2003, pp. 173-192).

58. t. carlyle, Gli eroi e il culto degli eroi e l’eroico nella storia, utet,Torino 1954, p. 127.

Page 56: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

eccitato all’impresa eroica. Si tratta di qualità che lo stessoLévi-Strauss, riferendosi agli arabo-islamici, si trova costret-to ad ammettere: «quegli ansiosi sono anche degli uominid’azione; presi fra sentimenti incompatibili, compensanol’inferiorità di cui risentono con delle forme tradizionali disublimazione che vengono associate da sempre all’animaaraba: generosità, fierezza, altruismo»59.

Forse, però, non c’è bisogno di trovare le affinità più si-gnificative, tra Occidente e Islam, negli aspetti più concla-mati di una certa gamma di quelli che sono diventati, ingran parte, luoghi comuni. Per accertare la «contaminazio-ne» islamofila dell’Occidente basterebbe, per esempio, an-dare al fondo di una mentalità, diffusa nelle democrazie oc-cidentali, che accentua quanto vi è di compulsivo nellosbandieramento tutto ideologico (e ideocratico) del «pri-mato delle regole» in campo etico, economico, politico.Una certa inflessione fondamentalistica del pensiero politi-co islamico sembra riprendere, con il leit motiv de «la reli-gione e il terrore», la nota dominante del giacobinismo laliberté et la terreur60: non si può escludere a priori che unodei fattori del disagio provato da Lévi-Strauss a contattocon l’Islam sia da ricondurre a una convergenza, piuttostoche a una divergenza, di elementi ispiratori di una culturareligiosa, che si vuole nello stesso tempo – e talora non siastiene dall’imporsi – come cultura a pieno titolo politica.Per quanto contiene in sé di elementi «rivoluzionari» il li-beralismo sembra imparentato con le varie «rivoluzioni»islamiche più di quanto forse non ritenga, al di là di postu-

56

59. c. lévi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 393.

60. Cfr. g.w.f. hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 295.Paul Berman, nel suo Terrore e liberalismo (cfr. Einaudi, Torino 2004, p.72), parla del «totalitarismo musulmano» come variante di un’idea euro-pea. Non varrà forse, per lo meno in una certa misura, e stando a ciò chesi può estrarre dalla lettura di Lévi-Strauss, la reciproca?

Page 57: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

lati che sembrerebbero radicalmente antitetici a un credoreligioso che letteralmente si traduce con «sottomissione».Non sembra quindi peregrino, né iperbolico, che Lévi-Strauss abbia ribattezzato il figlio della Rivoluzione france-se, Napoleone Bonaparte, «Maometto dell’Occidente», che«ha fallito là dove l’altro ha vinto»61.

Questa breve introduzione vorrebbe semplicemente darconto del retroterra intellettuale che ha ispirato a Lévi-Straussla sua particolare predilezione per il Giappone: per il Giap-pone buddista, e in quanto buddista. La chance, che l’Occi-dente potrebbe cogliere, di riguadagnare dimensioni che glisono sfuggite – per responsabilità di circostanze storiche chehanno facilitato la «contaminazione» euroislamica – starebbeforse nel lasciar sussistere nella distanza, geografica, antropo-logica e storica, e grazie ad essa, gli elementi che possono as-secondare una rinnovata sintesi di civiltà. Paradossalmente,la ricerca di (perdute) lontananze potrebbe rendere a un co-struttivo confronto fra culture un servigio più efficace diquello che, in maniera un po’ scontata, con sforzi di buonavolontà spesso vani, crediamo di poter prestare con un’erme-neutica interculturale che privilegia la comunicazione, gliscambi, il contatto a tutti i costi, in una parola: l’avvicina-mento incondizionato, programmatico e sistematico.

Si è visto a quali esiti, non sempre e non necessariamen-te fortunati, può portare un’idea di civiltà «islamo-cristia-na»62 che non si lasci in un modo o nell’altro «sedurre» daquel che l’Oriente incarna nel suo Estremo, e che pertantonon si metta nelle condizioni di offrire, quale Estremo Oc-

57

61. c. lévi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 394.

62. Nell’ampio spettro di apporti consultabili, sinora più tentati che riu-sciti, si va da una proposta come quella, dal sapore bizzarramente antisto-rico, se non utopistico, presentata ne La civiltà islamico-cristiana da Ri-chard W. Bulliet (Laterza, Roma-Bari 2005), al serio, meditato e francoconfronto di idee e di esperienze sviluppatosi tra Mohamed Talbi e OlivierClément in Rispetto nel dialogo (San Paolo, Cinisello Balsamo 1994).

Page 58: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

cidente, le risorse di un patrimonio ancora tutto da valuta-re e da esplorare. Un approccio antistoricista, come quellodi Lévi-Strauss, necessita però di essere integrato, proprioallo scopo di ottimizzare le sue potenzialità, da una proie-zione di filosofia della Storia che meriterebbe di essere riat-tualizzata in funzione della «lettura incrociata» con i testi diantropologia qui ricomposti: nel 1959, Karl Jaspers, pensa-tore in attento ascolto delle voci dell’Oriente, sottolineavache l’elemento creatore della struttura dei nuovi grandi im-peri dell’antichità furono i Macedoni e i Romani63, popoliabbastanza «poveri» spiritualmente da «conquistare, gover-nare, organizzare, acquisire e preservare forme di civiltà, sal-vaguardare la continuità della tradizione culturale»64. LaTaxila di Lévi-Strauss fa pensare alla (relativa) «povertà» sto-rico-spirituale del Regno macedone come al fattore di po-larizzazione capace di «inventare» una forma di civiltà tri-butaria della Grecia e insieme dei giacimenti culturali delMediterraneo «profondo»; Roma avrebbe, per altro verso,esercitato il suo potere di «sintetizzatore» di civiltà in pro-porzione inversa alla (relativamente bassa) intensità storico-spirituale della sua forza. Come dire che, a quei tempi, lasalvezza della civiltà umana venne dai suoi margini. Ma daquali margini dovrebbe oggi intravedersi? Da un Giapponeultramodernizzato? Da un buddismo d’importazione bana-lizzato «alla moda» di qualche civetteria esotica? Da un cri-stianesimo finalmente liberato, secondo gli auspici di Lévi-Strauss, da una prematura tirannia del formalismo mutua-ta dall’Islam? Da un Islam «riformato»65 (dall’interno?)?

58

63. Cfr. k. jaspers, Origine e senso della storia, Edizioni di Comu-nità, Milano 1972, p. 81.

64. Ibidem.

65. Domina la scena di un dibattito portato a conoscenza del mondoesterno all’Islam La riforma radicale (Rizzoli, Milano 2009) del contro-verso Tariq Ramadan.

Page 59: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

L’improbabilità delle soluzioni immaginate è pari all’i-spessimento culturale (e ad una certa sclerotizzazione spiri-tuale) degli attori interessati: troppo «ricchi» di retaggiostorico-spirituale – nell’ottica jaspersiana –, troppo appe-santiti – secondo la lettura di Lévi-Strauss – da una prossi-mità che, invece di mantenerli in atteggiamenti di recipro-ca fiducia, li irrigidisce in reazioni di segno oppositivo. Leresistenze, ora dichiarate ora latenti, alla globalizzazione,sono forse la spia di un malessere più profondo, dovuto auna sorta di riflesso condizionato autodifensivo, che portaa interpretare, talvolta, l’autoisolamento come risorsa estre-ma alla quale attingere per preservare la propria identità.Certo, un fenomeno come le migrazioni massicce dalle pe-riferie ai vari «centri» del mondo sembra attualmente irre-sistibile, e irreversibile: ma esso equivale, o è almeno lon-tanamente paragonabile al moto centripeto che generò laciviltà indo-ellenistica simboleggiata da Taxila? In parolepovere: esso, così come la globalizzazione, risulta, almenoin potenza, formatore di civiltà, oppure riduce drastica-mente le opportunità di crescita di una civiltà?

Già tentare di dare una risposta a questi interrogativi sa-rebbe un modo per prendere coscienza di quel che realmen-te è in questione quando si parla, più o meno a proposito,di confronti, scontri, dialoghi tra culture, civiltà, religioni.Le Lezioni giapponesi, ricollocate nel contesto di altri con-tributi dedicati da Lévi-Strauss alla tematica qui sviluppa-ta, rompono lo schema, semplicistico e riduttivo, di ap-procci eccessivamente schiacciati su paradigmi storicistici,smitizzando talune certezze acquisite, calamitando l’atten-zione del lettore su ciò che può voler dire, in spirito genui-namente e audacemente antropologico, risalire alle sorgen-ti: alle sorgenti dalle quali sgorga la pluralità che fa la ric-chezza degli individui e delle collettività umani, e che dasempre ha assunto il significato di un moltiplicatore di di-versità, non di un livellatore di differenze. In questo senso,

59

Page 60: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

tutto ciò che sa di standardizzazione e di omologazione,magari camuffate sotto simulazioni di «avvicinamento»,mina alla radice la capacità delle culture di aiutarsi libera-mente a scoprire, e valorizzare, i rispettivi fattori di origi-nalità. In questo specifico senso, l’Occidente ha un sologrande, temibile nemico: se stesso66.

Sono riconoscente verso mia moglie Nadia, come verso Ni-cola Capurso e Livio Mariani, per avermi aiutato nella pa-ziente opera di revisione delle bozze.

Dedico questa mia iniziativa editoriale alla memoria diClaude Lévi-Strauss, in occasione del primo anniversario del-la morte.

lorenzo scillitani

60

66. In un recente pamphlet redatto contro la tesi della «fine della Sto-ria» ritorna la preoccupazione circa il destino della civiltà, espressa inanticipo sui tempi da un disincantato Lévi-Strauss, anche se qui ac-compagnata dall’indicazione di una possibile via di salvezza, che puòprolungarsi fino a un realistico confronto fra culture: «dire semplice-mente alla gente quanto sia ammirevole la tolleranza, invece di forma-re le persone a comportarsi in maniera tollerante, significa rendere im-possibile la stessa tolleranza. Lo stesso è vero per tutte le sacre astrazio-ni che l’intellettuale ha a cuore, poiché gli uomini non rimangono incomunione meditando sulla virtù di una comunità ma facendo dellecose in comune, così come il valore della cooperazione può essere inse-gnato solo facendo cooperare gli uomini» (cfr. l. harris, La civiltà ei suoi nemici. Il prossimo passo della storia, Rubbettino, Soveria Mannel-li 2009, pp. 216-217).

Page 61: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Lezioni giapponesi

Page 62: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]
Page 63: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

63

le mie prime parole, di ringraziamento, saranno rivol-te alla Fondazione Ishizaka, che mi ha onorato dell’incari-co di tenere, quest’anno, lezioni illustrate, sin dal 1977, daeminenti personalità. La ringrazio, parimenti, di avermiproposto come tema il modo in cui l’antropologia – disci-plina alla quale ho consacrato la mia vita – considera i pro-blemi fondamentali con cui l’umanità di oggi si confronta.

Per cominciare, vi dirò come l’antropologia formulaquesti problemi nella prospettiva sua peculiare. In sèguito,tenterò di definire che cos’è l’antropologia e di mostrare l’o-riginalità della visione che essa proietta sui problemi delmondo contemporaneo, senza la pretesa di risolverli da so-la, ma con la speranza di comprenderli meglio.

Da circa due secoli la civiltà occidentale si è autodefini-ta come la civiltà del progresso. Raccolte attorno al mede-simo ideale, altre civiltà hanno ritenuto di dover prenderlaa modello. Tutte hanno condiviso la persuasione che lascienza e le tecniche progredissero inarrestabilmente, pro-curando agli uomini sempre maggiore potere e felicità; chele istituzioni politiche, le forme di organizzazione socialecomparse alla fine del xviii secolo in Francia e negli StatiUniti, con la filosofia che le ispirava, rendessero i membridi qualunque società più liberi nella loro condotta persona-le e più responsabili nella gestione della vita associata; cheil giudizio morale, la sensibilità estetica – in una parola –

Prima lezione

Page 64: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

l’amore del vero, del buono e del bello si diffondessero ir-resistibilmente fino a coprire l’intera terra abitata.

Gli eventi dei quali il mondo è stato il teatro in questosecolo hanno smentito queste previsioni ottimistiche. Si so-no affermate ideologie totalitarie che, in molte parti delmondo, continuano a dominare. A decine di milioni gliuomini si sono sterminati, abbandonandosi a genocidi spa-ventosi. Anche dopo il ristabilirsi della pace, gli uomininon sembrano più certi che la scienza e la tecnica apporti-no solo benefici, né che i principi filosofici, le istituzionipolitiche e le forme di vita sociale del xviii secolo costitui-scano altrettante soluzioni definitive ai grandi problemi po-sti dalla condizione umana.

Le scienze e le tecniche hanno prodigiosamente amplia-to la nostra conoscenza del mondo fisico e biologico, attri-buendosi un potere sulla natura insospettabile soltanto fi-no a un secolo fa. Si comincia tuttavia a calcolare il prezzopagato per la conquista di un simile potere. Si pone semprepiù il problema degli eventuali effetti deleteri di tali con-quiste: a disposizione degli uomini sono stati messi stru-menti di distruzione di massa che, anche senza essere uti-lizzati, minacciano con la loro semplice esistenza la nostraspecie. In modo più insidioso, ma reale, la nostra soprav-vivenza è minacciata altresì dalla rarefazione o dall’inquina-mento dei beni essenziali: lo spazio, l’aria, l’acqua, la ric-chezza e la diversità delle risorse naturali.

Grazie, in parte, ai progressi della medicina, il numerodegli esseri umani si è accresciuto di continuo, a tal puntoche, in molte parti del mondo, non si riesce più a soddisfa-re i bisogni elementari di popolazioni in preda alla fame. Ciònon impedisce che altrove, in zone capaci di assicurare lasussistenza, si manifesti uno squilibrio dovuto al fatto che,allo scopo di dare lavoro a un numero sempre maggiore diindividui, è necessario aumentare la produzione. Ci si sentepertanto sospinti in una corsa senza fine alla produttività. La

64

Page 65: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

produzione richiede il consumo che, a sua volta, esige unaproduzione ancora maggiore. Settori sempre più ampi dellapopolazione sono come assorbiti dai bisogni diretti o indi-retti dell’industria, e vengono a concentrarsi in enormi ag-glomerati urbani che impongono un’esistenza artificiale edisumanizzata. Il funzionamento delle istituzioni democra-tiche, i bisogni della protezione sociale comportano, dalcanto loro, la creazione di una burocrazia invadente che, pa-rassitariamente, tende a paralizzare il corpo della società. Cisi può domandare se le società moderne, costruite su questomodello, non rischino di diventare presto ingovernabili.

A lungo alimentata, la fede in un progresso materiale emorale destinato a non interrompersi mai subisce dunquela sua crisi più grave. La civiltà occidentale ha perduto ilmodello che si era data da sé, e che non osa più offrire allealtre. Non è allora opportuno guardare altrove, allargare ilnostro tradizionale quadro di riflessione intorno alla condi-zione umana? Non dobbiamo integrarvi esperienze socialipiù diversificate rispetto a quelle nel cui ristretto orizzonteci si era a lungo confinati? Dal momento che non attingepiù dal proprio fondo risorse che la mettano in condizionedi rigenerarsi per un nuovo sviluppo, la civiltà di tipo occi-dentale può apprendere qualcosa sull’uomo in generale, esu se stessa in particolare, da quelle società a lungo disprez-zate che, fino a un’epoca relativamente recente, si eranosottratte alla sua influenza? Sono queste le domande che, daalcuni decenni, sollecitano pensatori, scienziati o uominid’azione a interrogare l’antropologia – dato che le altrescienze sociali, più centrate sul mondo contemporaneo,non offrono loro risposta.

Che cos’è allora questa disciplina rimasta nell’ombra, e chesi ritiene possa avere qualcosa da dire su questi problemi?

Per quanto lontani siano gli esempi da cercare nel tempoe nello spazio, la vita e l’attività dell’uomo si inscrivono incontesti che presentano caratteristiche comuni. Sempre e do-

65

Page 66: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

vunque, l’uomo è un essere dotato di linguaggio articolato, evive in società. La riproduzione della specie non è abbando-nata al caso, ma è sottomessa a regole che escludono un cer-to numero di unioni biologiche. L’uomo fabbrica e adoperautensili che impiega in svariate tecniche. La sua vita sociale sisvolge all’interno di complessi istituzionali il cui contenutopuò cambiare da un gruppo all’altro, ma la cui forma gene-rale resta costante. Attraverso processi differenti, determina-te funzioni – economica, educativa, politica, religiosa – sonogarantite con regolarità.

Intesa in senso lato, l’antropologia è la disciplina che sidedica allo studio del «fenomeno umano». Forse quest’ul-timo fa parte dell’insieme dei fenomeni naturali, e tuttaviapresenta, rispetto alle altre forme della vita animale, carat-teri costanti e specifici che ne giustificano uno studio indi-pendente.

In tal senso si può dire che l’antropologia è antica quan-to l’umanità stessa. Nelle epoche delle quali possediamo te-stimonianze storiche, preoccupazioni di genere per così di-re antropologico sono presenti ai memorialisti che accom-pagnavano Alessandro Magno in Asia, così come a Se-nofonte, Erodoto, Pausania e – in una prospettiva più filo-sofica – ad Aristotele e Lucrezio.

Nel mondo arabo, Ibn Batouta, grande viaggiatore, eIbn Khaldoun, storico e filosofo, testimoniano, nel xiv se-colo, di uno spirito autenticamente antropologico, allostesso modo, molti secoli addietro, dei monaci buddisti ci-nesi che si recarono in India per documentarsi sulla loro re-ligione, e dei monaci giapponesi che visitarono la Cina conla medesima finalità.

In quell’epoca, gli scambi tra il Giappone e la Cina pas-savano soprattutto attraverso la Corea, Paese nel quale lacuriosità antropologica è attestata sin dal secolo vii dellanostra era. Le cronache antiche riferiscono che il fratella-stro del re Munmu accettò di diventare primo ministro so-

66

Page 67: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

lo a patto di poter dapprima viaggiare in incognito attraver-so il regno per osservare la vita del popolo. Si può dar con-to, in tal caso, di una prima ricerca etnografica sebbene, adire il vero, gli etnografi di oggi non ricevano spesso, comequesto dignitario coreano, dall’ospite indigeno che li accol-ga, un’affascinante concubina che condivida il loro letto!Sempre le cronache coreane narrano che il figlio di un cer-to monaco scriveva libri sulle consuetudini popolari dellaCina e di Silla*, e che per questo motivo fu accolto fra i die-ci grandi saggi di questo regno.

Nel Medio Evo l’Europa scopre l’Oriente, inizialmentein occasione delle crociate, poi attraverso i racconti di emis-sari inviati, nel xiii secolo, dal papa e dal re di Francia trai Mongoli e soprattutto, nel xiv secolo, grazie al lungo sog-giorno di Marco Polo in Cina. All’inizio del Rinascimentocominciano a distinguersi le svariate fonti dalle quali attin-gerà la riflessione antropologica: la letteratura nata in segui-to alle invasioni turche in Europa orientale e nel Mediter-raneo; le fantasie del folklore medievale prolungano quelledell’antichità sulle «razze pliniane», che prendono il nomedalle descrizioni fatte nel i secolo della nostra era da Plinioil Vecchio nella sua Storia naturale: si tratta di popoli sel-vaggi, mostruosi per anatomia e per costumi. Il Giapponenon ha ignorato queste fantasie, che sono rimaste più a lun-go nella coscienza popolare probabilmente a causa del vo-lontario isolamento del Giappone dal resto del mondo. Findal mio primo soggiorno in Giappone ricevetti in regaloun’enciclopedia pubblicata nel 1789, intitolata Zōho Kun-mo Zui, nella cui parte geografica si danno per realmenteesistenti popoli esotici di dimensioni gigantesche, conbraccia o con gambe smisuratamente lunghe…

67

* Silla (o Sin-lo) è il nome di un regno che occupò inizialmente laparte orientale della Corea, per poi estendere il suo dominio all’interapenisola asiatica, tra il vi e il x secolo d.C.

Page 68: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Nello stesso periodo, l’Europa, in possesso di un mag-gior numero di informazioni, accumulava le conoscenzepositive che, dal xvi secolo, cominciavano ad affluire daAfrica, America e Oceania in occasione delle grandi scoper-te. Le compilazioni di questi resoconti di viaggio conobbe-ro una rapida e prodigiosa diffusione in Germania, Svizze-ra, Inghilterra e Francia. Questa corposa letteratura ali-menterà la riflessione antropologica che prende avvio, inFrancia, con Rabelais e Montaigne, e che si estende a tuttal’Europa a partire dal xviii secolo.

Di questo fenomeno si ritrova d’altronde l’eco, in Giap-pone, nei viaggi presentati come immaginari, in mancanzadi conoscenza diretta dei paesi lontani. Si pensi al viaggiofittizio di Oe Bunpa nel Paese di Harashirya, termine die-tro il quale si può riconoscere il Brasile, abitato da indige-ni «che ignorano la cerealicoltura, si nutrono di radici sec-che, non hanno re, ritengono nobili solo gli uomini piùbravi nel tiro con l’arco». Si tratta di una descrizione simi-le a quella che Montaigne, due secoli prima, aveva fatto do-po aver conversato con Indiani brasiliani condotti in Fran-cia da un navigatore.

Anche se si fa risalire al xix secolo l’avvio della ricercaantropologica quale si pratica oggi, il suo primo fattore èstato rappresentato da quella che potrebbe definirsi comeuna curiosità da antiquario. Si rilevava che le grandi disci-pline classiche, come storia, archeologia, filosofia – scienzeche godevano di pieno diritto di cittadinanza nei corsi uni-versitari –, dimenticavano ogni sorta di residui, di fram-menti. Un po’ come dei carrettieri, alcuni curiosi comin-ciavano a raccogliere delle briciole di conoscenza, dettagliproblematici, frammenti pittoreschi che le altre scienze get-tavano sdegnosamente nella loro spazzatura intellettuale.

In una prima fase, probabilmente, l’antropologia nonfu nient’altro che una raccolta di fatti singolari e bizzarri. Siscopriva a poco a poco, tuttavia, che questi frammenti,

68

Page 69: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

questi resti erano più importanti di quanto non si fosse cre-duto. È facile comprenderne il perché.

Quel che colpisce l’uomo alla vista degli altri uomini so-no i punti in comune. Storici, archeologi, filosofi, morali-sti, letterati chiedevano innanzitutto, ai popoli da pocoscoperti, una conferma delle proprie credenze circa il pas-sato dell’umanità. Ciò spiega il fatto che, sin dalle grandiscoperte del Rinascimento, i racconti dei primi viaggiatorinon suscitarono scalpore: si riteneva non tanto di scopriremondi nuovi quanto di ritrovare il passato di quello vec-chio. I modi di vivere dei popoli selvaggi dimostravano chela Bibbia, gli scrittori greci e latini avevano ragione a descri-vere il giardino dell’Eden, l’Età dell’oro, la Fontana dell’e-terna giovinezza, l’Atlantide o le Isole Fortunate…

Si trascurava, ci si rifiutava addirittura di prendere inconsiderazione le differenze, che sono comunque fonda-mentali dal momento che si tratta di studiare l’uomo, per-ché, come Jean-Jacques Rousseau doveva dire più tardi,«per scoprire le proprietà bisogna anzitutto osservare le dif-ferenze».

Si procedeva anche a un’altra scoperta: queste singola-rità, queste stravaganze si disponevano tra di loro secondoun ordine molto più coerente che non gli stessi fenomeniritenuti come i soli degni di attenzione. Aspetti trascuratio poco studiati, come il modo nel quale società differentidividono il lavoro tra i sessi – in una determinata società,sono gli uomini o le donne che lavorano il vasellame, i tes-suti o la terra? –, consentono di comparare o di classifica-re le società umane su basi molto più solide che in prece-denza.

Ho menzionato la divisione del lavoro; potrei parlareanche delle regole di residenza. Quando si celebra un ma-trimonio, dove vanno ad abitare i giovani sposi? Con i ge-nitori del marito? Con quelli della moglie? O stabilisconouna residenza indipendente?

69

Page 70: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Altrettanto dicasi delle regole della filiazione e del ma-trimonio, a lungo trascurate per la loro apparente arbitra-rietà e insensatezza. Perché un gran numero di popoli di-stinguono i cugini in due categorie, a seconda che essi pro-vengano da due fratelli o da due sorelle, o da un fratello eda una sorella? Perché, in tal caso, essi condannano il ma-trimonio tra i cugini del primo tipo e lo raccomandano vi-vamente, addirittura fino a imporlo, tra i cugini del secon-do tipo? E perché il mondo arabo fa eccezione, praticamen-te la sola conosciuta, a questa regola?

Altrettanto ancora dicasi delle proibizioni alimentari, lequali attestano che, nel mondo, non vi è popolo che nontenti di affermare la sua originalità col mettere al bandoquesta o quella categoria di alimenti: il latte in Cina, ilmaiale per gli ebrei e per i musulmani, il pesce per alcunetribù americane e la carne di cervo per le altre, e così via.

Tutte queste singolarità costituiscono altrettante diffe-renze tra i popoli. Ad ogni modo, queste differenze sonosuscettibili di comparazione nella misura in cui non esistepopolo presso il quale non si possa osservarle. Donde l’in-teresse che gli antropologi mostrano verso variazioni in ap-parenza superficiali, ma tali da permettere di operare clas-sificazioni relativamente semplici, che introducono nellavarietà delle società umane un ordine paragonabile a quel-lo di cui gli zoologi e i botanici dispongono per classificarele specie naturali.

Al riguardo, le ricerche più valide sono quelle che ver-tono sulle regole della filiazione e del matrimonio. In effet-ti, le società studiate dagli antropologi possono avere unnumero di componenti molto variabile, da qualche decinaa molte centinaia o migliaia di persone. In ogni modo, separagonate alle nostre, queste società presentano dimensio-ni molto ridotte, di modo che le relazioni umane vi sonoconnotate in termini personali. Nulla lo mostra meglio del-la tendenza delle società senza scrittura a concepire le rela-

70

Page 71: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

zioni tra i loro membri in base al modello della parentela:ciascuno è fratello, sorella, cugino, cugina, zio, zia etc. diciascun altro. E, se qualcuno non è parente, è uno stranie-ro, dunque un potenziale nemico. Non c’è nemmeno biso-gno di tracciare genealogie: in molte di queste società rego-le semplici consentono di assegnare ogni individuo, in ba-se alla sua nascita, a questa o a quella categoria, tra le qua-li prevalgono rapporti equivalenti a rapporti di parentela.

Ora, non esistono società, per quanto modesto sia il lo-ro livello tecnico ed economico, e per quanto diverse sianoper i loro costumi sociali e le loro credenze religiose, chenon possiedano una nomenclatura di parentela e regolematrimoniali capaci di distinguere gli individui imparenta-ti in coniugi permessi e coniugi proibiti. Con ciò si acqui-sisce dunque un primo elemento idoneo a distinguere le so-cietà le une dalla altre e a dare a ciascuna il suo posto in unacategoria.

Quali sono quindi queste società predilette dagli antro-pologi, e che siamo abituati da una lunga tradizione a qua-lificare come «primitive», termine, questo, che oggi moltirifiutano e che, in ogni caso, sarebbe necessario definire conprecisione?

In generale, vengono designati come primitivi gruppiumani che si differenziano dai nostri principalmente perl’assenza di scrittura e di strumenti meccanici; ma, a taleproposito, è opportuno ricordare alcune verità di carattereprimario: queste società offrono l’unico modello che per-metta di comprendere il modo in cui gli uomini hanno vis-suto insieme durante un periodo storico corrispondenteprobabilmente al 99 per cento della durata complessiva del-la vita umana e, dal punto di vista geografico, su di un’esten-sione pari ai tre quarti della superficie delle terre abitate.

L’insegnamento che queste società ci apportano non haniente a che fare con l’illustrazione di fasi del nostro passa-to remoto. Esse piuttosto illustrano una situazione genera-

71

Page 72: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

le, un denominatore comune della condizione umana. Inquesta prospettiva, le civiltà superiori dell’Occidente e del-l’Oriente costituiscono altrettante eccezioni.

Difatti, i progressi registrati dalle ricerche etnologicheci persuadono sempre più che queste società consideratecome arretrate, come «scarti» dell’evoluzione, respinte inzone marginali e destinate all’estinzione, costituiscono for-me originali di vita sociale. Esse sono perfettamente vitali,finché non sono minacciate dall’esterno.

Proviamo dunque a tracciare meglio i loro contorni.Al limite, queste società consistono in piccoli gruppi

comprendenti fra qualche decina e qualche centinaio dipersone, e sono lontane fra di loro molti giorni di viaggio apiedi, e con una densità demografica intorno a 0,1 abitan-te per Km2. Il loro coefficiente di accrescimento è moltobasso, nettamente inferiore all’1 per cento, tale che gli in-crementi di popolazione compensano approssimativamen-te le perdite. Di conseguenza, la loro composizione nume-rica non varia di molto. Questa costante demografica è as-sicurata, consapevolmente o no, da diversi processi: i tabùsessuali dopo il parto, e l’allattamento prolungato che, nel-la donna, ritardano il ristabilirsi dei ritmi fisiologici. È danotare che, in tutti i casi osservati, un accrescimento demo-grafico spinge il gruppo a riorganizzarsi su nuove basi. Di-venuto più numeroso, il gruppo si scinde e dà vita a duepiccole società, di un ordine di grandezza pari alla prece-dente.

Questi piccoli gruppi mostrano una attitudine sponta-nea ad eliminare dal loro seno le malattie infettive. Gli epi-demiologi ne hanno fornito la ragione: i virus di queste ma-lattie sopravvivono in ogni individuo solo per un limitatonumero di giorni, e devono dunque circolare costantemen-te per mantenersi nell’insieme della popolazione. Ciò èpossibile solo se il ritmo annuale delle nascite è sufficiente-mente elevato: si tratta di una condizione, questa, realizza-

72

Page 73: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ta soltanto a partire da una base demografica di diverse cen-tinaia di migliaia di persone.

Va aggiunto che le specie vegetali e animali sono moltodiversificate in ecosistemi complessi, come quelli in cui vi-vono popoli le cui credenze e le cui pratiche, che è erratoscambiare per superstizioni, tendono a preservare le risorsenaturali. Sotto i tropici, però, ogni specie conta solo unpiccolo numero di individui per unità di superficie, comeanche nel caso delle specie infettive o parassite: le infezionipossono quindi essere molteplici, pur restando a un livelloclinicamente basso. L’aids offre un esempio attuale. Que-sta malattia virale, localizzata in alcuni focolai dell’Africatropicale dove probabilmente viveva in equilibrio con lepopolazioni indigene da millenni, ha sviluppato un rischiomaggiore quando le fatalità della storia l’hanno introdottain società più ampie.

In generale, malattie non infettive sono invece assentiper molteplici ragioni: attività fisica, dieta alimentare mol-to più variegata di quella dei popoli che praticano l’agricol-tura, tributaria di un centinaio, talvolta di più, di specieanimali e vegetali, povera di grassi, ricca di fibre e di sali mi-nerali, capace di assicurare un apporto sufficiente di protei-ne e calorie. Donde l’assenza di obesità, di ipertensione, didisturbi circolatori.

Non c’è quindi da meravigliarsi se un viaggiatore fran-cese, che visitò gli Indiani del Brasile nel xvi secolo, potes-se stupirsi che questo popolo – cito –, «composto dagli stes-si nostri elementi, non è mai stato colpito da lebbra, para-lisi, letargia, malattie cancerose, né da ulcere o da altri di-fetti corporali che si notano superficialmente e all’esterno»;invece, nel secolo o nel secolo e mezzo che seguì alla sco-perta dell’America, le popolazioni del Messico e del Perùscemarono da un centinaio di milioni a quattro o cinque,sotto i colpi non tanto dei conquistadores quanto delle ma-lattie importate, rese più virulente dalle nuove abitudini di

73

Page 74: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

vita imposte dai colonizzatori: vaiolo, morbillo, scarlattina,tubercolosi, malaria, influenza, orecchioni, febbre gialla,colera, peste, difterite, e così via…

Non avremmo, pertanto, ragione di sottovalutare que-ste società solo perché le abbiamo conosciute in una condi-zione di arretratezza. Il loro valore inestimabile, anche in ta-le condizione, risiede nel fatto che le migliaia di società chesono esistite, centinaia delle quali continuano a esistere sul-la faccia della terra, costituiscono altrettante esperienze bell’efatte: le sole di cui disponiamo poiché, a differenza dei no-stri colleghi delle scienze fisiche e naturali, noi non possia-mo fabbricare i nostri oggetti di studio, quali sono le società,e farli funzionare in laboratorio. Queste esperienze, tratte dasocietà selezionate per il fatto di essere le più differenti dallenostre, ci offrono la possibilità di studiare gli uomini, le lo-ro opere collettive, allo scopo di comprendere il modo in cuilo spirito umano funziona nelle situazioni concrete più di-verse dove la storia e la geografia l’hanno destinato.

Ora, sempre e dappertutto, la spiegazione scientificapoggia su quelle che si potrebbero definire come buonesemplificazioni. Sotto quest’aspetto l’antropologia fa di ne-cessità virtù. Come ho appena detto, una parte importan-te delle società che essa predilige sono di ridotte dimensio-ni, e si concepiscono in funzione della stabilità.

Queste società esotiche sono lontane dall’antropologoche le osserva. A separarli è una distanza non soltanto geo-grafica, ma anche intellettuale e morale. Questa distanza ri-duce la nostra percezione ad alcuni tratti essenziali. Vorreidire che, nel complesso delle scienze sociali e umane, l’an-tropologo occupa un posto paragonabile a quello occupatodall’astronomo nell’insieme delle scienze fisiche e naturali.L’astronomia poté costituirsi come scienza, fin dalla più re-mota antichità, grazie al fatto che, in mancanza di un me-todo scientifico che non esisteva ancora, la distanza dei cor-pi celesti permetteva di avere una veduta semplificata.

74

Page 75: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

I fenomeni che osserviamo sono estremamente lontanida noi. Lontani, come ho detto, anzitutto in senso geogra-fico, poiché, non molto tempo fa, bisognava viaggiare persettimane o mesi prima di raggiungere i nostri oggetti distudio. Ma lontani, questi fenomeni, lo sono soprattutto insenso psicologico, nella misura in cui questi dettagli, que-sti fatti di modesta entità, sui quali fissiamo l’attenzione,poggiano su motivazioni di cui gli individui non sono chia-ramente o del tutto consapevoli. Noi studiamo le lingue,ma gli uomini che le parlano non sono consapevoli delle re-gole che essi applicano per parlare e per poter essere com-presi. Noi non siamo consapevoli delle ragioni per le qualiadottiamo un alimento e ne proibiamo un altro. Noi nonsiamo consapevoli dell’origine e della funzione reale dellenostre regole di cortesia o delle buone maniere da usare atavola. Tutti questi elementi, che affondano le loro radicinell’inconscio più profondo degli individui e dei gruppi,sono proprio quelli che tentiamo di analizzare e di com-prendere malgrado una distanza psichica interna che, su diun altro piano, riproduce la distanza geografica.

Perfino nelle nostre società, dove non esiste questa di-stanza fisica tra l’osservatore e il suo oggetto, sussistono fe-nomeni paragonabili a quelli che indagheremo a grande di-stanza. L’antropologia si riprende i suoi diritti e ritrova lasua funzione dove usi, abitudini di vita, pratiche e tecnichenon sono stati spazzati via dalle trasformazioni storiche edeconomiche, attestando, in tal modo, che essi corrispondo-no a qualcosa di talmente profondo, nel pensiero e nella vi-ta degli uomini, da resistere alle forze della distruzione;ovunque, pertanto, la vita collettiva della gente comune –quella che il vostro illustre antropologo Yanagida Kuniochiamava jōmin – si svolge ancora, in primo luogo, tra con-tatti personali, legami familiari, relazioni di vicinato, sia neivillaggi sia nei quartieri delle città: in una parola, nei pic-coli ambiti in cui si conserva la tradizione orale.

75

Page 76: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Mi pare peraltro caratteristico di questi rapporti di sim-metria, osservabili tra l’Europa occidentale e il Giappone,il fatto che la ricerca antropologica vi prenda avvio nellostesso periodo – il xviii secolo – ma, in Europa occidenta-le, sotto l’impulso dei grandi viaggi che fanno conoscere leculture più diverse, mentre, nel Giappone allora ripiegatosu se stesso, la ricerca antropologica affonda probabilmen-te le sue radici nella scuola Kokugaku, alla corrente dellaquale sembra ancora appartenere, un secolo dopo, l’impre-sa di Yanagida Kunio, monumentale almeno agli occhi del-l’osservatore occidentale. Sempre nel xviii secolo la ricer-ca antropologica muove i suoi primi passi in Corea, con ilavori della scuola di Silhak, che riguardano la vita rurale ei costumi popolari in quello stesso Paese e non, come in Eu-ropa, presso popoli lontani.

Raccogliendo una moltitudine di dettagli che a lungogli storici considereranno indegni della loro attenzione,supplendo alle lacune e alle insufficienze dei documentiscritti con l’osservazione diretta, cercando di conoscere ilmodo in cui le persone ricordano il passato del loro picco-lo gruppo – o il modo in cui esse lo immaginano –, comeanche il modo in cui vivono il presente, riusciamo ad alle-stire archivi originali e a mettere in piedi quella che Yana-gida Kunio, per citarlo ancora, chiamava bunkagaku,«scienza della cultura», cioè, in una parola, l’antropologia.

A questo punto, siamo in grado di comprendere che co-s’è l’antropologia e che cosa la rende originale.

La prima ambizione dell’antropologia è di attingerel’oggettività. Non si tratta soltanto di un’oggettività checonsente, a chi la pratica, di fare astrazione dalle sue cre-denze, dalle sue preferenze e dai suoi pregiudizi. Un’ogget-tività del genere caratterizza tutte le scienze sociali, che al-trimenti non potrebbero aspirare al titolo di scienza. L’og-gettività alla quale l’antropologia aspira è di un genere cheva oltre, perché l’antropologia non si limita a innalzarsi al

76

Page 77: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

77

* In inglese nel testo [N.d.T.].

di sopra dei valori propri alla società o all’ambiente socialedell’osservatore, ma trascende i suoi stessi metodi di pen-siero, fino a elaborare formulazioni non solo per un osser-vatore onesto e obiettivo, ma per qualunque possibile os-servatore. All’antropologo non basta, quindi, mettere a ta-cere i suoi sentimenti, perché egli dà forma a nuove catego-rie mentali, contribuisce a introdurre nozioni di spazio e ditempo, di opposizione e di contraddizione, tanto estraneeal suo modo tradizionale di pensare quanto lo sono quelleche s’incontrano oggi in certi settori delle scienze fisiche enaturali. Questo rapporto, intercorrente fra i modi in cui imedesimi problemi si pongono in discipline molto distan-ti tra loro, è stato mirabilmente colto dal grande fisico NielsBohr che, nel 1939, così scriveva: «The traditional differen-ces of human cultures […] in many way resemble the differentequivalent modes in which physical experience can be descri-bed»*.

La totalità è la seconda ambizione dell’antropologia,che considera la vita sociale come un sistema i cui aspettisono organicamente connessi, e che è ben disposta ad am-mettere, allo scopo di approfondire la conoscenza di un de-terminato genere di fenomeni, l’indispensabile partizionedi un insieme, come accade al giurista, all’economista, aldemografo, allo specialista di scienze politiche. Ma quel chel’antropologo ricerca è la forma comune, le proprietà inva-rianti che si manifestano al di là dei più differenti modi divivere in società.

Per illustrare con un esempio considerazioni che posso-no sembrarvi troppo astratte, esaminiamo la maniera in cuiun antropologo prende contatto con determinati aspettidella cultura giapponese.

Non abbiamo certo bisogno di essere antropologi per ac-corgerci del fatto che il falegname giapponese si serve della

Page 78: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

sega e della pialla al contrario dei suoi colleghi occidentali,perché sega e pialla verso di sé, non spingendo l’utensile al-l’esterno. Questo dettaglio aveva già colpito Basil Chamber-lain alla fine del xix secolo. Questo professore dell’univer-sità di Tokyo, sagace osservatore della vita e della culturagiapponesi, era un eminente filologo. Nel suo famoso libroThings Japanese egli registra, fra molti altri, questo fatto, ru-bricandolo Topsy-turvidom, che traduco approssimativa-mente «dove tutto è sottosopra», come una stravaganza allaquale Chamberlain non connette un significato particolare.Insomma, egli non va oltre Erodoto, il quale notava, più diventiquattro secoli or sono, che, rispetto ai suoi compatrio-ti greci, gli antichi Egizi facevano tutto al contrario.

Dal canto loro, specialisti della lingua giapponese han-no rilevato la curiosità per la quale un giapponese che si as-senti per un momento (per imbucare una lettera, per acqui-stare un giornale o un pacchetto di sigarette) dirà volentie-ri qualcosa come Itte mairimàsu; al che gli si risponde Itteirasshai. L’accento non è dunque posto sulla decisione diuscire, come nelle lingue occidentali in una circostanza delgenere, ma sulla intenzione di un prossimo ritorno.

Analogamente, uno specialista dell’antica letteraturagiapponese sottolineerà che il viaggio è avvertito come unadolorosa esperienza di strappo, ed è dominato dall’ossessio-ne del ritorno in patria.

Analogamente, infine, a un livello più prosaico, la cu-cina giapponese non presenta locuzioni corrispondenti, co-me in Europa, a «calare nella frittura», ma a «sollevare» o«elevare» (ageru) fuori dalla frittura…

L’antropologo si rifiuterà di considerare questi dettaglicome variabili indipendenti, come particolarità isolate,perché, al contrario, sarà colpito da quanto esse hanno incomune. In campi differenti, e con differenti modalità, sitratta sempre di riportare a sé, o di riportare se stesso all’in-terno. Invece di porre inizialmente l’«io» come un’entità

78

Page 79: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

autonoma e già costituita, è come se il giapponese costruis-se il suo io a partire dall’esterno. L’«io» giapponese apparecosì non come un dato originario, ma come un risultato alquale si tende senza essere certi di ottenerlo. Non c’è da stu-pirsi se, come mi si riferisce, la celebre frase di Descartes «Iopenso, dunque sono» è a rigore intraducibile in giappone-se! In campi così diversi, come la lingua parlata, le tecnichedell’artigianato, le preparazioni culinarie, la storia delleidee (si potrebbe aggiungere l’architettura domestica, se sipensa alle numerose accezioni che voi ricollegate al termi-ne uchi), una differenza o, per meglio dire, un sistema didifferenze invarianti si manifesta, a un livello profondo, traquelli che chiamerò, a mo’ di esemplificazione, lo spiritooccidentale e lo spirito giapponese, e che si può sintetizza-re con l’opposizione tra un movimento centripeto e unocentrifugo. Questo schema servirà all’antropologo da ipo-tesi di lavoro, idonea a far meglio comprendere il rapportofra le due civiltà.

Per l’antropologo, in ultima istanza, la ricerca di unaoggettività può attestarsi solo a un livello in cui i fenomeniconservano un significato per una coscienza individuale. Sidà qui una differenza fondamentale fra il genere di oggetti-vità al quale tende l’antropologia e quello che soddisfa le al-tre scienze sociali. Ciò non toglie che le realtà prese in esa-me, ad esempio, dalla scienza economica o dalla demogra-fia siano oggettive, ma non ci si preoccupa di invocarne unsenso nell’esperienza vissuta del soggetto, che non vi incon-tra oggetti quali il valore, la redditività, la produttività mar-ginale o la popolazione massima. Si tratta, in tal caso, dinozioni astratte, collocate fuori dal campo delle relazionipersonali, dai rapporti concreti fra gli individui, che con-notano le società delle quali gli antropologi si occupano.

Nelle società moderne le relazioni con altri non sonopiù fondate, se non in maniera occasionale e frammentaria,su questa esperienza globale, su questa concreta reciproca

79

Page 80: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

comprensione dei soggetti. Queste relazioni dipendono,per lo più, da ricostruzioni indirette, operate per mezzo didocumenti scritti. Siamo ricollegati al nostro passato nonpiù mediante una tradizione orale, che presuppone un con-tatto vissuto con persone, ma per il tramite di libri e altridocumenti accumulati nelle biblioteche, dei cui autori lacritica si sforza di ricostruire il volto. Nel presente, comu-nichiamo con l’immensa maggioranza dei nostri contem-poranei attraverso ogni sorta d’intermediari – documentiscritti o meccanismi amministrativi –, che moltiplicano adismisura i nostri contatti, comunicandovi, però, nel con-tempo, un carattere di inautenticità, che suggella ormai irapporti fra i cittadini e i poteri.

La perdita di autonomia, l’alterazione dell’equilibriointeriore che sono derivate dallo sviluppo delle forme indi-rette di comunicazione (libro, fotografia, stampa, radio, te-levisione), sono in cima alle preoccupazioni dei teorici del-la comunicazione, espresse, sin dal 1948, dal grande mate-matico Norbert Wiener, creatore con von Neumann dellacibernetica e, con Claude Shannon, della teoria dell’infor-mazione.

Riflettendo su basi completamente diverse da quelledell’antropologo, nell’ultimo capitolo del suo fondamenta-le libro Cybernetics-Control and Comunication in the Animaland in the Machine (1948), Wiener rilevava quanto segue:«Thus closely knit communities have a very considerable mea-sure of homeostasis; and this, whether they are highly litteratecommunities in a civilized country, or villages of primitive sa-vages […] It is no wonder, then, that the larger communities,subject to disruptive influence, contain far less communallyavailable information than the smaller communities, to saynothing of the human elements of which all communities arebuilt up» (pp. 187-188).

Certo, le società moderne non sono completamenteinautentiche. Volgendosi oggi allo studio delle società mo-

80

Page 81: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

derne, l’antropologia si applica a rintracciarvi e ad isolarvilivelli di autenticità. Quel che consente all’antropologo diritrovare un terreno familiare, quando studia un villaggio oil quartiere di una grande città, è il fatto che tutti conosco-no tutti, o quasi. Un antropologo si sente a suo agio in unvillaggio di cinquecento abitanti, mentre una città grande,o anche media, gli resiste. Perché? Perché cinquecentomilapersone non costituiscono una società allo stesso modo dicinquecento. Nel primo caso, la comunicazione non si sta-bilisce in via principale tra persone, o secondo il modellodelle comunicazioni interpersonali. La realtà sociale degli«emittenti» e dei «riceventi» (per parlare il linguaggio deiteorici della comunicazione) scompare dietro la complessitàdei «codici» e delle «reti».

Il futuro stabilirà probabilmente che il più importantecontributo teorico dell’antropologia alle scienze sociali pro-viene da questa distinzione capitale fra due modalità di esi-stenza sociale: un modo di vita percepito inizialmente co-me tradizionale e arcaico, tipico delle società autentiche; eforme di vita sociale più recenti, dalle quali il primo tiponon è assente, ma dove gruppi imperfettamente e non deltutto autentici affiorano come isolotti alla superficie di uninsieme più vasto, connotato da inautenticità.

Non si dovrebbe tuttavia ridurre l’antropologia allo stu-dio di sopravvivenze da cercare in luoghi e in tempi moltolontani o molto vicini. Ciò che importa, prima di tutto,non è l’arcaismo di queste forme di vita, ma le differenzeche queste presentano fra di loro o rispetto a quelle che so-no diventate proprie alla nostra forma di vita.

I primi lavori sistematicamente dedicati ai costumi e al-le credenze dei popoli selvaggi non risalgono molto al diqua del 1850, che è il momento storico in cui Darwin get-tava le basi dell’evoluzionismo biologico, al quale corri-spondeva, nella mente dei suoi contemporanei, la fede inun’evoluzione della società e della cultura. È ancora più tar-

81

Page 82: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

di, nel primo quarto del xx secolo, che gli oggetti cosiddet-ti primitivi si sono visti riconoscere un valore estetico.

Sarebbe errato concludere che l’antropologia è unascienza nuova, nata dalla curiosità dell’uomo moderno.Quando tentiamo di metterla in prospettiva, di assegnarleun posto nella storia delle idee, l’antropologia si mostra in-vece come l’espressione più generale, e il punto d’arrivo, diun atteggiamento intellettuale e morale che ha avuto iniziomolti secoli fa, e che indichiamo col termine «umanesimo».

Permettetemi di collocarmi, per un attimo, nella pro-spettiva occidentale, che è la mia. Quando, in Europa, gliuomini del Rinascimento hanno scoperto l’antichità greco-romana, e quando i gesuiti hanno fatto del latino la basedella formazione scolastica e universitaria, non si trattava,già allora, di un atteggiamento antropologico? Si riconosce-va che una civiltà non può pensare se stessa se non disponedi un’altra o di molte altre civiltà suscettibili di fungere datermini di paragone. La conoscenza e la comprensione del-la propria cultura sono possibili a condizione che la si os-servi dal punto di vista di un’altra: un po’ come l’attore diN del quale parla il vostro grande Zeami, che, per valuta-re il suo gioco, deve imparare a vedere se stesso come se fos-se lo spettatore. Invero, quando ho cercato il titolo da darea un libro pubblicato nel 1983, per far cogliere al lettore laduplice natura della riflessione antropologica che consiste,da un lato, nel guardare molto lontano, verso culture mol-to diverse da quella dell’osservatore, ma anche, per l’osser-vatore, nel guardare la sua propria cultura da lontano, co-me se egli appartenesse a una cultura differente, il titolo chefinalmente ho scelto, Lo sguardo da lontano, mi è stato ispi-rato dalla lettura di Zeami. Aiutato dai miei colleghi stu-diosi del Giappone, ho soltanto trasposto in francese la for-mula riken no ken, che Zeami adopera per designare losguardo dell’attore che guarda se stesso come se fosse il pub-blico.

82

Page 83: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

83

* Nel testo originale Lévi-Strauss rende con poignance l’intraducibi-le espressione giapponese mo no aware, lo straziante delle cose (una acu-ta e appassionata lettrice dell’antropologo, Catherine Clément, nel suoLévi-Strauss, Meltemi, Roma 2004, p. 49, coglie tutto il «patetico»contenuto in questa espressione) (N.d.T.).

Analogamente, i pensatori del Rinascimento ci hannoinsegnato a mettere la nostra cultura in prospettiva, a con-frontare i nostri costumi e le nostre credenze con quelli dialtri tempi e di altri luoghi. In una parola, essi hanno ela-borato gli strumenti di quella che si potrebbe indicare co-me una tecnica dello spaesamento.

Non fu così anche in Giappone, quando la cosiddettascuola nativistica di Motoori Norinaga cominciò a delineare itratti da lui indicati come specifici della cultura e della civiltàgiapponesi? Egli intraprese quest’opera impegnandosi in undialogo appassionato con la Cina. Motoori mette a confron-to le due culture, ed è col delineare determinati caratteri, tipi-ci, a suo modo di vedere, della cultura cinese – «pomposa ver-bosità», come egli dice, gusto del taoismo per le affermazioninette e arbitrarie – che egli giunge a definire, per contrasto,l’essenza della cultura giapponese: sobrietà, concisione, di-screzione, economia dei mezzi, sentimento della fugacità edella straziante natura delle cose*, relatività di ogni sapere…

Questo modo di vedere la Cina come pretesto per affer-mare la specificità della cultura giapponese fu divulgato, inmaniera molto suggestiva, nelle stampe a soggetto cinese –illustrazioni del romanzo Suikoden e dei racconti di guerratratti dal Kanjo – prodotte da Kuniyoshi e Kunisada attor-no al 1830, che rivelano un gusto spiccato per l’enfasi, perlo stile colorito, per il barocco esasperato, per la ricchezza ela ricercatezza dei dettagli dell’abbigliamento, molto lonta-ni dalle tradizioni dell’ukiyo-e. Queste stampe riflettonocertamente un’interpretazione tendenziosa della Cina anti-ca, che vorrebbe essere etnografica.

Page 84: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

All’epoca di Motoori, il Giappone aveva una conoscen-za diretta o indiretta solamente della Cina e della Corea.Anche in Europa la differenza tra cultura classica e culturaantropologica riguarda le dimensioni del mondo conosciu-to in queste epoche. All’inizio del Rinascimento l’universoumano è circoscritto ai limiti del bacino del Mediterraneo.Del resto del mondo si sospetta soltanto l’esistenza. Ma si ègià capito che nessuna parte dell’umanità può aspirare acomprendersi se non in riferimento ad altre.

Nel xviii e nel xix secolo l’umanesimo si diffonde pa-rallelamente ai progressi delle esplorazioni. La Cina, l’In-dia, il Giappone si inscrivono progressivamente nella cartageografica. Col portare il suo interesse alle ultime civiltà an-cora poco conosciute o trascurate, l’antropologia fa rag-giungere all’umanesimo la sua terza tappa, che probabil-mente sarà anche l’ultima in quanto, dopo, l’uomo nonavrà più nulla da scoprire su se stesso, almeno in estensio-ne (è in atto, infatti, un’altra ricerca, in profondità, dallameta della quale siamo ben lungi).

Il problema presenta un altro aspetto. I primi due uma-nesimi, quello limitato al mondo mediterraneo e poi quel-lo che ingloba l’Oriente e l’Estremo Oriente, contemplava-no la loro estensione come limitata non solo geografica-mente, ma anche concettualmente. Si poteva entrare incontatto con le civiltà antiche, ormai scomparse, solo attra-verso i testi e i monumenti. Quanto all’Oriente e all’Estre-mo Oriente, dove non si incontrava la stessa difficoltà, l’ap-proccio restava il medesimo, perché si riteneva che civiltàcosì lontane e così diverse fossero degne di interesse solo perle loro produzioni più ricercate e raffinate.

Il campo dell’antropologia comprende civiltà di generediverso, che pongono un altro tipo di problemi per il fattoche, prive come sono di scrittura, non offrono documentiscritti. Inoltre, poiché il loro livello tecnico è generalmen-te molto basso, la maggior parte di queste civiltà non ci

84

Page 85: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

hanno lasciato monumenti figurati. Donde la necessità didotare l’umanesimo di nuovi strumenti di indagine.

I mezzi di cui l’antropologia dispone sono a un tempopiù esterni e più interni (si potrebbe dire più grossolani epiù raffinati) di quelli delle discipline che l’hanno precedu-ta: filologia e storia. Per penetrare lo spazio di società di dif-ficile accesso, l’antropologo deve posizionarsi molto al difuori (come nel caso dell’antropologia fisica, della preisto-ria, della tecnologia) e anche molto al di dentro, attraversol’identificazione dell’etnologo con il gruppo di cui condivi-de l’esistenza, e per l’importanza che egli – in mancanza dialtre fonti d’informazione – deve accordare alle minimesfumature della vita psichica degli indigeni.

Trovandosi sempre al di qua e al di là dell’umanesimotradizionale, l’antropologia ne deborda in tutti i sensi. Ilsuo terreno d’indagine abbraccia la totalità delle terre abi-tate, mentre il suo metodo si avvale di procedimenti che ap-partengono a tutte le forme del sapere: scienze umane escienze naturali.

In successione temporale, i tre umanesimi si integrano,facendo dunque avanzare la conoscenza dell’uomo in tre di-rezioni: in superficie, certo, per l’aspetto anzi più «superfi-ciale» in senso proprio come in senso figurato, quanto a ric-chezza di strumenti di indagine, poiché ci si rende semprepiù conto del fatto che, se l’antropologia è stata costretta aelaborare nuovi modelli conoscitivi in funzione dei caratte-ri peculiari delle società «residuali» che le erano toccate insorte, questi modelli conoscitivi possono essere applicatiproficuamente allo studio di tutte le società, compresa lanostra.

Ma non è tutto qui: l’umanesimo classico era circoscrit-to non solo quanto al suo oggetto, ma anche quanto ai be-neficiari, che formavano la classe privilegiata. L’umanesimoesotico del xix secolo si è legato agli interessi industriali ecommerciali che gli servivano da supporto, e ai quali dove-

85

Page 86: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

va la sua esistenza. Dopo l’umanesimo aristocratico del Ri-nascimento e dopo l’umanesimo borghese del xix secolo,l’antropologia segna dunque l’avvento, per il mondo finitoquale è diventato il nostro pianeta, di un umanesimo dop-piamente universale.

Alla ricerca di ispirazione in seno alle società più mode-ste e a lungo emarginate, l’antropologia proclama che nul-la di umano potrebbe essere estraneo all’uomo, e fonda per-tanto un umanesimo democratico che supera i precedenti,creati per privilegiati, a partire da civiltà privilegiate. Attin-gendo inoltre da tutte le scienze metodi e tecniche da met-tere al servizio della conoscenza dell’uomo, l’antropologiafa appello alla riconciliazione dell’uomo e della natura in unumanesimo generalizzato.

Se ho ben capito il tema che mi avete chiesto di svilup-pare in queste lezioni, per noi si tratterà di sapere se questaterza forma di umanesimo, rappresentata dall’antropolo-gia, si mostrerà più capace, rispetto alle forme precedenti,di dare soluzione ai grandi problemi che si pongono all’u-manità di oggi. Per tre secoli il pensiero umanistico ha ali-mentato e ispirato la riflessione e l’azione dell’uomo occi-dentale. Oggi constatiamo che questo pensiero è stato in-capace di impedire i massacri su scala planetaria che furo-no le guerre mondiali, la miseria e la denutrizione che im-perversano in maniera cronica su gran parte delle terre abi-tate, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, il saccheggiodelle risorse e delle bellezze naturali… L’umanesimo antro-pologico riuscirà, meglio degli altri, a dare risposta agli in-terrogativi che ci tormentano?

Nelle lezioni seguenti tenterò di definire e di esaminarealcune grandi questioni alle quali l’antropologia può, se-condo me, aiutarci a rispondere. Oggi, per concludere,vorrei indicare un contributo dell’antropologia che, per ilfatto di essere modesto, offre almeno il vantaggio di esserecerto. Infatti, uno dei benefici dell’antropologia – in defi-

86

Page 87: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

nitiva, forse, il suo beneficio essenziale – consiste nell’ispi-rare a noi, membri di civiltà ricche e potenti, una certaumiltà, nonché nell’insegnarci una certa saggezza.

Gli antropologi testimoniano che il nostro modo di vi-vere, i valori in cui crediamo, non sono i soli possibili; chealtri modi di vivere, altri sistemi di valori hanno permesso,e continuano a permettere, a comunità umane di trovare lafelicità. L’antropologia ci invita allora a moderare la nostravanagloria, a rispettare altri modi di vivere, a farci rimette-re in discussione dalla conoscenza di altre usanze che ci su-scitano stupore, sconcerto o ripugnanza – un po’ come ca-pitava a Jean-Jacques Rousseau, il quale preferiva credereche i gorilla, da poco descritti dai viaggiatori della sua epo-ca, fossero uomini, piuttosto che correre il rischio di nega-re la qualifica di uomini a esseri che, forse, rivelavano unaspetto ancora sconosciuto della natura umana.

Le società studiate dagli antropologi distribuiscono le-zioni tanto più degne di ascolto quanto più, attraverso ognisorta di regole in cui, come dicevo poc’anzi, sarebbe erratoscorgere soltanto superstizioni, esse hanno saputo realizza-re, tra l’uomo e l’ambiente naturale, un equilibrio che noinon riusciamo più a garantire. Mi soffermerò brevementesu questo punto.

Nella Francia del xix secolo, il filosofo Auguste Com-te ha formulato una legge dell’evoluzione umana che è chia-mata «dei tre stadi»: secondo questa legge, l’umanità sareb-be passata attraverso due fasi successive: una religiosa, poiuna metafisica, e starebbe sul punto di accedere a una ter-za, positiva e scientifica.

L’antropologia non ci rivela un’evoluzione dello stessotipo, nella misura in cui il contenuto e il significato di ognistadio differiscono da quelli che Comte immaginava.

È risaputo, oggi, che popoli cosiddetti primitivi, chenon conoscono l’agricoltura e l’allevamento, o praticanosolo un’agricoltura rudimentale, ignorando in certi casi

87

Page 88: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

l’arte di fabbricare vasellame e tessuti, e che vivono soprat-tutto di caccia e di pesca, e di raccolta di frutti selvatici, nonsono oppressi dalla paura di morire di fame e dall’angosciadi non poter sopravvivere in un ambiente ostile.

La loro scarsa consistenza demografica, la loro prodi-giosa conoscenza delle risorse naturali consentono loro divivere quella che forse noi esiteremmo a chiamare abbon-danza. Tuttavia – come studi dettagliati hanno dimostrato,con riferimento ad Australia, Sudamerica, Melanesia eAfrica –, da due a quattro ore di lavoro al giorno sono piùche sufficienti perché i loro membri attivi assicurino la sus-sistenza di tutte le famiglie, ivi compresi i bambini, che nonpartecipano ancora alla produzione alimentare, e i vecchi,che non vi partecipano più. Nulla a che vedere col tempoche i nostri contemporanei passano in fabbrica o in ufficio!

Sarebbe dunque errato ritenere questi popoli schiavi de-gli imperativi dell’ambiente. Tutt’al contrario, essi godono,di fronte all’ambiente, di una indipendenza maggiore diquella degli agricoltori e degli allevatori, perché dispongo-no di maggior tempo libero, che dà loro modo di fare lar-go spazio all’immaginazione, di interporre tra loro e ilmondo esterno, come cuscinetti ammortizzatori, credenze,fantasticherie, riti, in breve tutte le forme di attività chechiameremo religiose e artistiche.

Supponiamo che l’umanità abbia vissuto in condizionidel genere per centinaia di millenni. Osserveremmo allorache con l’agricoltura, con l’allevamento, e poi con l’indu-strializzazione, l’umanità si è sempre più «innestata», se co-sì si può dire, sul reale. Nel xix secolo e fino a oggi, però,tale innesto ha avuto luogo in maniera indiretta, attraversoconcezioni filosofiche e ideologiche.

Tutt’altro mondo è quello in cui penetriamo attual-mente: un mondo in cui l’umanità si trova bruscamente difronte a determinismi più vincolanti, che risultano dalla suaenorme consistenza demografica, dalla sempre più limitata

88

Page 89: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

quantità di spazio libero, di aria pura, di acqua non conta-minata, di cui l’umanità dispone per soddisfare i suoi biso-gni biologici e psichici.

In questo senso, si può ipotizzare che le esplosioni ideo-logiche susseguitesi da quasi un secolo, e tuttora in atto –quella del comunismo e del marxismo, quella del totalita-rismo, che non hanno perduto la loro forza nel terzo mon-do, quella, più recente, dell’integralismo islamico –, costi-tuiscano altrettante reazioni di rivolta a fronte di condizio-ni di esistenza prodottesi in brutale rottura con quelle delpassato.

Si produce un divorzio, si scava un fossato fra i dati del-la sensibilità, che ormai hanno per noi il significato gene-rale di dati, circoscritti e rudimentali, riguardanti lo statodel nostro organismo, e un pensiero astratto in cui si con-centrano tutti i nostri sforzi di conoscere e di comprenderel’universo. Nulla più di questo ci allontana dai popoli stu-diati dagli antropologi, per i quali ogni colore, ogni intrec-cio, ogni odore, ogni sapore hanno un senso.

Questo divorzio è irrevocabile? Forse il nostro mondo siavvia verso un cataclisma demografico o verso una guerraatomica che sterminerà i tre quarti dell’umanità. In questocaso, i sopravvissuti si ritroveranno in condizioni di esisten-za non tanto diverse da quelle delle società in via di estin-zione, di cui ho parlato. Anche se, però, si scartano ipote-si così terrificanti, ci si può chiedere se società che si svilup-pano impetuosamente ognuna per conto proprio, e chetendono a rassomigliarsi sempre di più, non ricreeranno fa-talmente al loro interno differenze situate su coordinate di-verse da quelle su cui si sviluppano delle somiglianze. For-se esiste un optimum di diversità che, sempre e dovunque,si impone all’umanità per consentirle di restare vitale. Que-sto optimum sarebbe suscettibile di variare in funzione del-la quantità delle società, del loro peso numerico, della lorodistanza geografica e dei mezzi di comunicazione di cui es-

89

Page 90: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

se dispongono. Questo problema della diversità, infatti, sipone non soltanto a proposito delle culture considerate neiloro rapporti reciproci, ma anche in seno a qualunque so-cietà racchiuda al suo interno gruppi e sottogruppi nonomogenei: caste, classi, ambienti professionali o confessio-nali… Questi gruppi sviluppano fra di loro differenze allequali ciascuno annette grande importanza, e questa diver-sificazione probabilmente si accresce quando la società ac-quista dimensioni più ampie e diventa più omogenea sottoaltri aspetti.

È probabile che gli uomini abbiano elaborato culturedifferenti in ragione della distanza geografica, delle caratte-ristiche particolari dell’ambiente in cui si trovano, dell’i-gnoranza, in cui essi erano, di altri tipi di società. Ma, ac-canto alle differenze dovute all’isolamento, vi sono quelle,altrettanto importanti, dovute alla prossimità: desiderio diopporsi, di distinguersi, di essere se stessi. Molti costumisono nati non da necessità interne o da casi propizi, ma dal-la semplice volontà di non essere da meno di fronte a ungruppo vicino, che sottoponeva a norme precise un campodi pensiero o di azione che non si era pensato di regolamen-tare.

Ciò che fondamentalmente identifica il metodo del-l’antropologo è dato dall’attenzione e dal rispetto da luiprestati alle differenze tra le culture così come a quelle in-terne a ciascuna. L’antropologo non cerca dunque di sten-dere un elenco di ricette da cui ogni società andrebbe ad at-tingere secondo il suo capriccio, ogni volta che avvertisse alsuo interno una imperfezione o una lacuna. Le formuleproprie a ciascuna società non sono trasferibili a qualunquealtra. L’antropologo si limita a invitare ogni società a noncredere che le sue istituzioni, i suoi costumi e le sue creden-ze siano i soli possibili; egli dissuade dall’immaginare chetali istituzioni, costumi e credenze siano iscritti nella natu-ra delle cose per il solo fatto di ritenerli validi, e che possa

90

Page 91: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

impunemente esportarli in altre società il cui sistema di va-lori sia incompatibile con il proprio.

Dicevo poc’anzi che la massima ambizione dell’antro-pologia è di ispirare agli individui e ai governi una certa sag-gezza. Non posso darvi, al riguardo, un esempio miglioredella testimonianza di un antropologo americano che fuPublic Affairs Officer del generale Mac Arthur durante l’oc-cupazione del Giappone. Ho letto una sua intervista, dovequesto antropologo racconta come la pubblicazione, nel1946, del famoso libro di Ruth Benedict, Il crisantemo e laspada, avesse dissuaso l’occupante americano dall’imporreal Giappone l’abolizione del regime imperiale, contraria-mente alla sua intenzione originaria. Ruth Benedict, che hoconosciuto bene, non era mai andata in Giappone prima discrivere il suo libro; e, per quanto ne sappia, aveva lavora-to in campi molto diversi. Ma era antropologa, e si puòquindi attribuire allo spirito antropologico, alla sua ispira-zione e ai suoi metodi, anche nell’approccio a grande di-stanza a una cultura, e senza esperienza preliminare, il me-rito di aver saputo penetrare la sua struttura e di aver sapu-to evitarne un crollo le cui conseguenze sarebbero state for-se ancora più tragiche di quelle delle sconfitta militare.

La prima lezione dell’antropologia ci insegna che ognicostume, ogni credenza, ancorché sconcertanti o irraziona-li possano sembrarci quando li paragoniamo ai nostri, par-tecipano di un sistema il cui equilibrio interno si è stabili-to nel corso dei secoli, e che non si può sopprimere un ele-mento di questo insieme senza rischiare di distruggere tut-to il resto. Se pure non fosse portatrice di altri insegnamen-ti, quest’ultimo basterebbe da solo a giustificare il postosempre più importante che l’antropologia occupa tra lescienze dell’uomo e della società.

91

Page 92: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]
Page 93: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

nella mia prima lezione avevo detto che avrei ten -tato di definire e di esaminare alcuni problemi che si pon-gono al l’uomo moderno, e alla soluzione dei quali lo stu-dio delle società senza scrittura può in parte contribuire. Atale scopo dovrò consi derare queste società sotto tre pro-spettive: la loro organizzazione familiare e sociale, la lorovita economica, infine il loro pensiero religioso.

Quando si prendono in considerazione da un punto divi sta molto generale i caratteri comuni alle società studiatedagli antropologi, una constatazione si impone: come hobrevemente accennato ieri, queste società fanno appello al-la parentela in una maniera mol to più sistematica di quan-to non accada oggi tra di noi.

In primo luogo, esse adoperano le relazioni di parente-la e di alliance* per definire l’appartenenza o la non-appar-tenenza al gruppo. Molte di queste società rifiutano ai po -poli stranieri la qualità di esseri umani. E, se termina allefrontie re del gruppo, l’umanità acquista al suo interno unaqualità supplementare: i membri del gruppo non soltanto

93

Seconda lezione

* Alliance è un termine che, nel lessico dell’autore, corrisponde divolta in volta a «matrimonio», «imparentamento», più di rado ad «al-leanza». Ove non suggerito altrimenti dal contesto, si è preferito nontradurre questo vocabolo, in modo da preservarne la dilatazione seman-tica [N.d.T.].

Page 94: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

sono gli unici esseri umani, veri, per eccellenza. Essi nonsono soltanto concittadini, ma parenti di fatto o di diritto.

In secondo luogo, queste società considerano la paren -tela, e le nozioni a essa collegate, come anteriori ed esterio-ri al le relazioni biologiche (come la filiazione di sangue) al-le qua li noi, invece, tendiamo a ridurle. I legami biologiciforniscono il modello secondo il quale concepire le relazio-ni di parentela, ma que ste ultime offrono al pensiero unquadro di classificazione logica. Una volta elaborato, que-sto quadro consente di distribuire gli individui in categorieprestabilite, che assegnano a ciascuno il suo posto in senoalla famiglia e alla società.

Infine, queste relazioni e queste nozioni compenetranointeramente il campo della vita e delle attività sociali. Rea-li, postulate o infinite, esse implicano diritti e doveri bendefiniti, differenziati per ogni tipo di parenti. Più in gene-rale, si può dire che, in queste società, la parentela e l’al-liance costituiscono un linguaggio comune, capace di espri-mere tutti i rapporti sociali – economici, politici, religiosietc. –, e non soltanto quelli familiari.

L’esigenza primaria che si impone alle società umane èdi riprodursi, ossia di conservarsi nella durata. Ogni societàde ve dunque possedere questi elementi: una regola di filia-zione che consenta di definire l’appartenenza di ogni nuo-vo membro al gruppo; un sistema di parentela che deter-mini il modo in cui si classificheranno i parenti, consangui-nei o acquisiti; infine, regole che definiscano le mo dalitàdell’imparentamento matrimoniale col prevedere chi può ochi non può sposarsi. Ogni società deve anche disporre distrumenti con cui rimediare alla sterilità.

Ora, questo problema dei rimedi alla sterilità è moltosentito nelle società occidentali, dacché queste hanno sco-perto mez zi per assistere la procreazione, o per ottenerla ar-tificialmente. Non so che cosa accade in Giappone. Ma sitratta di una questione che impegna l’opinione pubblica in

94

Page 95: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Europa, negli Stati Uniti, in Austra lia, dove si sono costi-tuite commissioni ufficiali per discuterne. A questi dibatti-ti le assemblee parlamentari, la stampa e la pubbli ca opi-nione fanno larga eco.

Di che cosa esattamente si tratta? Ormai è possibile – o,per certi procedimenti, lo diventerà presto – procurare figlia una coppia, di cui uno dei membri, o ambedue, siano ste-rili, con diversi metodi: inseminazione artificiale, donodell’ovulo, prestito o affitto d’utero, congelamento di em-brione, fecondazione in vitro con sperma tozoi provenientidal marito o da un altro uomo, o con un ovulo pro -veniente dalla moglie o da un’altra donna. I figli nati da ta-li mani polazioni potranno dunque, a seconda dei casi, ave-re un padre e una madre normali, una madre e due padri,due madri e un padre, due madri e due padri, tre madri eun padre e persino tre madri e due padri nel caso in cui ilgenitore non sia anche il padre, e nel caso in cui interven-gano tre donne – quella che dona un ovulo, quella che pre-sta il suo utero, e quella che sarà la madre legittima delbambino.

Non è tutto qui, perché ci si trova di fronte a situazio-ni in cui una donna chiede di essere inseminata con lo sper-ma congelato del marito defunto, oppure due donne omo-sessuali reclamano la possibili tà di avere insieme un figlioproveniente dall’ovulo dell’una, fecondato artificialmenteda un donatore anonimo, e subito impiantato nel l’uterodell’altra. Non si capisce nemmeno perché lo sperma con-gela to di un bisnonno non potrebbe essere impiegato, unsecolo dopo, per fecondare una pronipote; il figlio sarebbeallora fratello del bisnonno di sua madre e fratello del pro-prio nonno.

I problemi così posti sono di due ordini: uno di naturagiuridica, l’altro di natura psicologica e morale.

Quanto al primo ordine di problemi, i diritti dei Paesieuropei si contraddicono. Per il diritto inglese, la paternità

95

Page 96: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

sociale non esiste, neppure come finzione giuridica, e il do-natore di sperma sarebbe quindi legittimato a rivendicare ilfiglio, oppure sarebbe tenuto a provvedere ai suoi bisogni.In Francia, al contrario, il Codi ce Napoleone, fedele al vec-chio adagio Pater is est quem nuptiae demonstrant, stabilisceche il marito della madre è il padre legittimo del bambino.Ma il diritto francese si contraddice, perché una legge del1972 autorizza le azioni di ricerca della paternità. Non si sadunque neanche quale dei rapporti, il sociale o il biologi-co, prevalga sull’altro. Di fatto, nelle società contempora-nee l’idea che la filiazio ne derivi da un legame biologicotende a prevalere sull’idea che vede nella filiazione un lega-me sociale. Ma, allora, come risolvere i problemi sollevatidalla procreazione assistita, in cui, per la precisione, il pa-dre legittimo non sia nemmeno il genitore del bambino, ein cui la madre, intesa nel senso sociale e morale del termi-ne, non ab bia fornito l’ovulo, né probabilmente l’utero nelquale si svolge la gestazione?

D’altra parte, quali saranno i diritti e i doveri ri spettivi deigenitori sociali e biologici, ormai dissociati? Quale de cisionedovrà prendere un tribunale se la prestatrice d’utero abban -dona un figlio malformato e se la coppia, che si è rivolta aisuoi servigi, lo rifiuta? O, al contrario, se una donna fecon-data cambia idea e pretende di tenere il figlio per sé?

In ultima analisi, una qualunque di queste pratiche, dalmomento che è possibile, può essere liberamente attuata, ola legge deve autorizzarne alcune e vietarne altre? In Inghil-terra, la cosid detta commissione Warnock (che prende ilnome dal suo presidente) ha raccomandato di proibire ilprestito dell’utero fondandosi su di una distinzione fra lamaternità genetica, la maternità fisiologica e la maternitàsociale, e considerando che, delle tre, è la maternità fisio-logica a creare il legame più stretto fra la madre e il figlio.Pur accettando la procreazione assistita per consentire a unacop pia sposata di risolvere un problema di sterilità, la mag-

96

Page 97: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

gioranza del l’opinione pubblica francese si mostra incertanel caso di una unio ne libera, come nel caso di una donnache desideri essere fecondata con lo sperma congelato delmarito defunto. L’opinione diventa deci samente negativa sesi tratta di una coppia che desideri avere un figlio dopo lamenopausa della donna, o se si tratta, ancora, di una don -na sola oppure di una coppia omosessuale che desideri ave-re un figlio.

Da un punto di osservazione psicologico e morale, laquestione fondamentale sembra essere rappresentata dallatrasparenza. Il do no dello sperma o dell’ovulo, così come ilprestito dell’utero, devono essere anonimi, o i genitori so-ciali, ed eventualmente il figlio stesso, possono conoscerel’identità dei donatori? La Svezia ha rinunciato all’anoni-mato, la tendenza inglese sembra andare nella stessa dire-zione, mentre in Francia l’opinione e la legge vanno nelsenso opposto. Ma anche i Paesi che ammettono la traspa-renza sembra no concordare con gli altri nel dissociare laprocreazione dalla sessualità, si potrebbe dire addirittura:dalla sensualità. Infatti, se ci si vuol limitare al caso piùsemplice, ovvero al dono di sperma, l’opinione pubblica loritiene ammissibile solo se esso ha luogo in laboratorio econ l’intervento di un medico: si tratta di un me todo arti-ficiale che esclude fra il donatore e la ricevente ogni contat-to personale, ogni condivisione emotiva ed erotica. Ora,per quan to riguarda il dono sia di sperma sia di ovulo, lapreoccupazione che tut to si svolga nell’anonimato sembracontraria a dati universali che, anche nelle nostre società,ma senza che lo si dica, fanno sì che questo tipo di serviziovenga reso in famiglia più spesso di quanto non si creda. Atitolo di esempio, citerò un romanzo incompiuto di Balzaccomincia to nel 1843, in un’epoca in cui i pregiudizi socialierano molto più forti che nella Francia odierna. Questo ro-manzo, dal titolo significativo I pic coli borghesi, che è unautentico documento d’epoca, narra in che modo due cop-

97

Page 98: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

pie di amici, una feconda, l’altra sterile, si misero d’accor-do: la donna feconda si incaricò di fare un figlio con il ma-rito della donna sterile. La bambina nata da questa unionefu circondata di pari tenerezza dalle due coppie, che allog-giavano nello stesso palazzo, e tutti intorno a loro conosce-vano la situazione.

Le nuove tecniche di procreazione assistita, rese pos -sibili dal progresso della biologia, hanno disorientato ilpensie ro contemporaneo. In un campo essenziale alla con-servazione dell’or dine sociale, le nostre idee giuridiche, lenostre credenze mo rali e filosofiche si rivelano incapaci ditrovare risposte a situazioni nuove. Come definire il rap-porto fra la parentela bio logica e la filiazione sociale, diven-tate ormai due cose diverse? Quali saranno le conseguenzemorali e sociali della disso ciazione tra la sessualità e la pro-creazione? Occorre riconoscere, oppure no, il diritto del-l’individuo a procreare, per così dire, «da solo»? Un figlioha il diritto di procurarsi le informazioni essenziali che ri-guardano l’origine etnica e la sa lute genetica di chi lo haprocreato? Fino a che punto, ed entro quali limiti, possonoessere trasgredite le regole biologiche che i credenti dellamaggior parte delle religioni continuano a ritenere di isti-tuzione divina?

Su tutti questi problemi gli antropologi hanno mol to dadire, perché le società da loro studiate hanno affrontatoquesti problemi, e hanno proposto delle soluzioni. Tali so -cietà certamente ignorano le tecniche moderne di feconda-zione in vitro, di prelievo di ovuli o di embrioni, di «tran-sfert», di impianto e di congelamento, ma hanno immagi-nato e messo in atto formule equivalenti, almeno sui pianigiuridico e psicologico.

Se ne darà qualche esempio. L’inseminazione con do-natore ha il suo equivalente in Africa, tra i Samo del Burki-na Faso studiati dalla mia collega Françoise Héritier-Augé,che ha preso il mio posto al Collège de France. In questa

98

Page 99: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

società, ogni ragazzina si sposa molto pre sto ma, prima diandare a vivere con lo sposo, deve scegliersi, al massimo pertre anni, un amante riconosciuto ufficialmente come tale.La moglie dà al marito, come primo figlio, quello avutodall’amante, ma che sarà considerato come primogenitodell’unione legittima. Da parte sua, un uomo può avere piùspose legittime ma, se queste lo lasciano, egli resterà di di-ritto il padre di tutti i bambini avuti da queste donne. Pres-so altre po polazioni africane, il marito vanta un diritto an-che su tutti i figli che nasceranno, un diritto riconosciuto-gli, però, ad ogni nascita seguita dal primo rapporto sessua-le post partum. Questo rapporto designa l’uomo che sarà didiritto il padre del bambino successivo. Un uomo la cuimoglie sia sterile può quindi, dietro pagamento, intender-si con una donna feconda allo scopo di essere designato pa-dre di diritto. In tal caso, il ma rito legittimo è donatore diseme, e la moglie affitta il suo grembo a un altro uomo o aduna coppia senza figli. Non si po ne dunque il dilemma,scottante in Francia, fra la gratuità e l’onerosità del presti-to dell’utero.

Tra gli indiani Tupi-Kawahib del Brasile, che ho vi -sitato nel 1938, un uomo può sposare, simultaneamente oin successione, più di una sorella, oppure una madre, e ladi lei figlia, avuta da una precedente unione. Mi è parso chequeste mogli crescano in comune i loro figli senza darsimolto pensiero se il figlio del quale l’una o l’altra donna sioccupa è il suo oppure quello di un’altra sposa del marito.Simmetricamente, in Tibet si dà il caso che molti fratelliabbiano in comune una sola sposa. Tutti i figli sono attri-buiti al primogenito, che viene chiamato «padre», mentregli altri mariti sono chiamati «zio». In situazioni del gene-re la paternità o la materni tà individuali sono ignorate, oquanto meno trascurate.

Ritorniamo all’Africa, dove i Nuer del Sudan assimi -lano la donna sterile a un uomo. In quanto «zio paterno»,

99

Page 100: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

questa donna riceve il bestiame che rappresenta il «prezzodella fidanzata» (bride price in inglese), pagato per il matri-monio dei suoi nipoti, e se ne serve per comprare una spo-sa che le darà dei figli grazie alle prestazioni retribuite di unuomo, sovente straniero. Tra gli Yoruba della Nigeria don-ne ricche possono anch’esse acquistare spose da spingere adavere rapporti con un uomo. Alla nascita di figli, la donna,«sposa» di diritto, li rivendica, e coloro che li hanno effet-tivamente procreati, se vogliono tenerseli, devono corri-sponderle un lauto prezzo.

In tutti questi casi, coppie formate da due donne, chenoi definiremmo, alla lettera, omosessuali, praticano lapro creazione assistita per avere figli dei quali una donna sa -rà il padre legittimo, l’altra la madre biologica.

Le società senza scrittura conoscono anche equivalentidell’inseminazione post mortem, che i tribunali francesiproibiscono, mentre in Inghilterra la commissione War-nock chiede che una legge escluda dalla successione e dal-l’eredità paterna il figlio che non si trovi concepito nel -l’utero della madre al momento del decesso del marito. Tut-tavia, un’istituzione attestata da millenni (perché esistevagià tra gli antichi ebrei), come il levirato, consentiva, e ta-lora impo neva, che il fratello cadetto generasse in nome delfratello morto. Tra i Nuer sudanesi, ai quali ho accennato,se un uomo mo riva celibe o senza discendenza, un parenteprossimo poteva pre levare dal bestiame del defunto il ne-cessario con cui acqui stare una sposa. Questo «matrimoniofantasma», come lo chiamano i Nuer, l’autorizzava a gene-rare in nome del defunto, poiché quest’ultimo aveva forni-to il compenso matrimoniale capace di creare la filiazione.

Per quanto tutti gli esempi descritti indichino che lostatuto familiare e sociale del figlio si determina in funzio-ne del padre legittimo (anche quando questi sia una don-na), ciò non toglie che questo figlio conosca l’identità di chilo ha generato, nonché i legami affettivi che uniscono l’u-

100

Page 101: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

no all’altro. Contrariamente a quel che possiamo temere, latrasparenza non suscita, nel figlio, un conflitto derivantedal fatto che padre biologico e padre sociale sono individuidifferenti.

Queste società non provano neppure un timore si milea quello, tra noi diffuso, dell’inseminazione con lo spermacongelato del marito defunto o, al limite, di un lontanoprogenitore: in molte società si ritiene che i figli siano lareincarnazione di un antenato che decide di rivivere in unneonato. Il «matrimonio fantasma» dei Nuer ammette unritocco supplementare nel caso in cui il fratello, sostitutodel defunto, non abbia generato per conto suo. Il figlio ge-nerato in no me del defunto (e che il padre biologico consi-dera quindi come suo nipote) potrà rendere al padre biolo-gico lo stesso favore. Poiché questo genitore è pertanto ilfratello del padre legittimo, i figli da lui messi al mondo sa-ranno suoi cugini legit timi.

Tutte queste formule offrono altrettante immagini me-taforiche anticipate delle tecniche moderne. Si può consta-tare, allora, che il conflitto, così inquietante, fra la procrea -zione biologica e la paternità sociale non esiste nelle societàstudiate dagli antropologi. Queste ultime attribuiscono,senza esitazione, il primato al sociale, in modo tale che i dueaspetti non entrino in contrasto nell’ideologia del gruppo onell’animo degli in dividui.

Mi sono dilungato su questi problemi perché mo stranomolto bene, come sembra, quale tipo di contributo la so -cietà contemporanea può aspettarsi dalle ricerche antropo-logiche. L’antropologo non propone ai suoi contemporaneidi adottare le idee e i costumi di questa o di quella popola-zione esotica. Il nostro contributo è molto più modesto, esi volge in due direzioni. In primo luogo, l’antropologia ri-vela che quanto consi deriamo come «naturale», fondatosull’ordine delle cose, si riduce a vincoli e abitudini menta-li propri della nostra cultura. Essa ci aiuta quindi a liberar-

101

Page 102: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ci dei nostri paraocchi, a capire come e perché altre societàpossono ritenere semplici e scontati usi che a noi sembranoinconcepibili o persino scanda losi. In secondo luogo, i fat-ti di cui ci occupiamo abbracciano un’esperienza umanamolto vasta, poiché provengono da migliaia di società chesi sono succedute nel corso dei secoli, a volte di millenni, eche si distribuiscono su tutta l’estensione delle terre abita-te. Il nostro contributo consiste, così, nel mostrare quelliche possono essere considerati come «uni versali» della na-tura umana, e nel poter suggerire in quali con testi si svilup-peranno processi ancora incerti, che sarebbe errato denun-ciare affrettatamente come deviazioni o per versioni.

Il grande dibattito attualmente in corso a propo sito del-la procreazione assistita è dominato dall’esigenza di saperese, su che cosa, e in quale senso conviene legiferare. Allecommissioni e ad altri organismi istituiti dai poteri pub -blici di molti Paesi partecipano rappresentanti dell’opinio-ne pubblica, giuristi, medici, sociologi, in qualche caso an-tropologi. È da sottolineare che questi ultimi operano do-vunque nella me desima direzione: contro un’ansia eccessi-va di legiferare, di permettere questo e di proibire quello. Agiuristi e a moralisti troppo impazienti gli antropologi of-frono suggerimenti di prudenza e di tolleranza, facendo no-tare che anche le pratiche e le aspirazioni che sconcertanomaggiormente – procreazione assistita a beneficio di vergi-ni, nubili, vedove, o di coppie omosessuali – presentano unloro equivalente in altre società, che non se la passano peg-gio delle nostre. Gli antropologi propongono pertanto chesi lasci fare, e che ci si attenda dalla logica interna di ognisocietà la creazione delle strutture familiari e sociali che siriveleranno durature, oppure l’eliminazione di quelle chedaranno luogo a contraddizioni la cui espressione soltantopuò dimostrarne l’insuperabilità.

Passo ora al secondo capitolo: la vita economica. Anchein questo settore l’interesse delle ricerche antropologiche è

102

Page 103: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

di rivelarci modelli molto diversi dai nostri, dunque diesortarci a riflettervi, eventualmente persino a rimetterli indiscussione. In questi ultimi anni, alle frontiere dell’antro-pologia e del la scienza economica si è sviluppato un inten-so dibattito: le grandi leggi della scienza economica sonoapplicabili a tutte le società, o soltanto a quelle, come le no-stre, che funzionano in un’economia di mercato?

Nelle società antiche, nelle società contadine recenti ocontemporanee, e anche in quelle studiate dagli antropolo-gi, è impossibile, il più delle volte, separare i cosiddettiaspetti economici da tutti gli altri. Non si può ridurre l’at-tività economica praticata dai membri di queste società a uncalcolo razionale il cui uni co oggetto consisterebbe nel mas-simizzare i profitti e nel minimizzare le perdite. In questesocietà, il lavoro non serve soltanto a realizzare un profitto,ma anche – si potrebbe dire: soprattutto – ad acqui stareprestigio e a contribuire al bene della comunità. Atti che,per noi, avrebbero un carattere puramente economico tra-ducono preoccu pazioni al tempo stesso tecniche, culturali,sociali e religiose.

In misura minore, non avviene qualcosa di analogopresso di noi? Se l’intera attività delle società mercantili di-pendesse dal le leggi economiche, la scienza economica sa-rebbe una scienza esatta, tale da consentire di prevedere edi agire di conseguenza, il che è da escludere. Si può vede-re in questo la prova che anche in compor tamenti che cisembrano meramente economici intervengono altri fattori,che smentiscono la scienza economica. Ma questi fattori re-stano velati per noi dietro uno schermo di pretesa raziona-lità, e lo studio di so cietà differenti, che vi accordano mag-gior importanza, ci aiuta a evidenziarli.

Che cosa ci rivelano allora queste società? Innanzitutto,e contraria mente a quel che si potrebbe ritenere, una stu-pefacente capacità di risolvere problemi di produzione. Per-sino nei tempi remoti della prei storia gli uomini hanno sa-

103

Page 104: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

puto dedicarsi ad attività industriali su larga scala. In Fran-cia, Belgio, Olanda, Inghilterra si conoscono siti di moltedecine di ettari di estensione, punteggiati da pozzi minera-ri per l’estrazione della selce, e in cui lavoravano a centinaiaoperai probabilmente organizzati in gruppi. I noduli di sel-ce pas savano attraverso laboratori specializzati, di un tiposimile agli anelli di una moderna catena industriale. In al-cune officine si sgrossava la materia prima, in altre si taglia-vano schegge, in altre ancora si abbozzavano schizzi in mo-do da darvi una forma definitiva: picconi da minatore,martelli, asce etc. Questi centri minerari e industria liesportavano i loro prodotti nel raggio di diverse centinaiadi chilometri, la qual cosa presupponeva una potente orga-nizzazione com merciale.

L’antropologia fornisce indicazioni dello stesso genere.Ci si è a lungo interrogati come popolazioni numerose, ilcui lavoro era richiesto per la fondazione delle città e deimonumenti maya del Messico e dell’America centrale, po-tessero vivere sul posto traendo mezzi di sussistenza da unapiccola agricoltura diradata, come quella praticata al gior-no d’oggi dai contadini maya.

Grazie alle fotografie aeree e satellitari, si è appreso dapoco che nei territori maya e in diverse regioni del Sudame-rica (Venezuela, Colombia, Bolivia) esistevano sistemi agri-coli molto sofisticati. Uno di questi, in Colombia, risale aun’epoca che va dall’i nizio dell’era cristiana al vii secolo.Alla fine di questo periodo, tale sistema si estendeva su diun’area di 200.000 ettari di terre sog gette a inondazione,prosciugate da migliaia di canali tra i quali si coltivava laterra su pendii sopraelevati artificialmente. Associata allapesca nei canali, questa agricoltura intensiva poteva ali -mentare più di mille abitanti per chilometro quadrato.

L’antropologia, comunque, mostra un paradosso. In-fatti, a lato di queste grandi realizzazioni che documentanouna mentalità definibile, nel nostro linguaggio, come pro-

104

Page 105: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

duttivista, ce ne sono altre che la smentiscono. Questi stes-si popoli, o altri, sanno limitare la produttività con proce-dimenti inibitori. In Africa, in Australia, in Polinesia, inAmerica, capi o sacerdoti esperti, oppure corpi di poli ziaorganizzati a questo scopo detengono poteri assoluti perstabilire l’inizio e la durata della caccia, della pesca e dellaraccolta dei prodotti selvatici. La credenza, molto diffusa,in «padroni» sopranna turali di ogni specie animale o vege-tale, che puniscono i colpevoli di eccessi, contribuisce a li-mitare questi ultimi. Analogamente, ogni sorta di prescri-zioni rituali e di tabù fanno della caccia, della pesca e dellaraccolta altrettante attività gravide di conseguenze, che esi-gono da chi vi si dedica un atteggiamento prudente e rifles-sivo.

A livelli e in campi svariati, le società umane os servanoquindi, in materia economica, comportamenti eterogenei.Non esiste un modello unico di attività economica, ma piùdi uno. I modi di produzione studiati dagli antropologi –raccolta, caccia e raccolta, orticoltura, agricoltura, artigia-nato etc. – ne rappresentano tipi altrettanto diversi. È dif-ficile ridurli, come al riguardo in passato si riteneva, a fasisuccessive dello sviluppo di un modello unico capace di sin-tetizzarle allo stadio più evoluto, che poi sarebbe quello danoi proposto a modello.

Nulla lo indica meglio delle discussioni in corso sull’o-rigine, sul ruolo e sugli effetti dell’agricoltura. Sotto moltiaspetti, l’agricoltura ha rappresentato un progresso, perchéfornisce più cibo su di uno spazio e in un tempo determi-nati, permette una più rapida espansione demografica, unpopolamento più denso, una mag giore estensione e am-piezza delle società. Ma l’agricoltura, per altri aspetti, co-stituisce un regresso, poiché, come ho notato nella mia pri-ma lezione, degrada il regime alimentare, limitato ormai apochi prodotti ricchi di calorie ma relativamente poveri diprincipi nutritivi. I suoi risultati sono meno sicuri, perché

105

Page 106: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

basta un cattivo raccolto a diffondere la carestia. L’agricol-tura richiede an che maggiore fatica. Potrebbe anche esseresua la responsabilità del la propagazione delle malattie infet-tive, come lo suggerisce, in Africa, la coincidenza notevo-le, nel tempo come nello spazio, della diffu sione dell’agri-coltura e della malaria.

La prima lezione dell’antropologia in materia economi-ca consiste pertanto nell’indicare che non si dà una sola for-ma di attività economica ma se ne danno diverse, e che ta-li forme non possono essere ordinate su di una scala comu-ne, perché rappresentano, piuttosto, altrettante scelte frapossibili soluzioni. Ognuna presenta vantaggi, dei qualiperò bisogna pagare il prezzo.

Non è facile mettersi in questa prospettiva perché, nelconsiderare le cosiddette società arretrate o sottosviluppatequa li sono apparse nei contatti sviluppatisi nel xix secolo,trascuriamo un dato di fatto evidente: queste società eranosoltanto sopravvivenze, vestigia mutilate a seguito di scon-volgimenti che noi stessi abbiamo direttamente o indiretta-mente provocato. Infatti, fu l’avido sfruttamento delle con-trade esotiche e delle loro popolazioni, determinatosi tra ilxvi e il xix secolo, ad aprire al mondo occidentale la viadello sviluppo. Il rapporto di estraneità fra le cosiddette so-cietà sottosviluppate e la civiltà industriale consiste so -prattutto nel fatto che questa civiltà ritrova in quel le societàil proprio prodotto, ma sotto un aspetto negativo che essanon sa riconoscere.

La semplicità, la passività apparenti di queste societànon sono loro intrinseche. Questi caratteri sono, anzi, il ri-sultato del nostro sviluppo al suo stadio iniziale, prima chevenga a imporsi dall’esterno a società preliminarmente sac-cheggiate affinché lo sviluppo stesso possa prendere avvìosulle loro rovine.

Nell’affrontare i problemi dell’industrializzazione deipaesi sottosviluppati, la civiltà industriale vi incontra l’im-

106

Page 107: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

magine deformata, e come fissata dai secoli, delle distruzio-ni che ha avuto bisogno di operare per poter esistere. Ma-lattie introdotte dall’uomo bianco fra popolazioni assoluta-mente non immunizzate hanno cancellato intere societàdalla carta geografica. Persino nelle zone più remote delpianeta, dove si potrebbe immaginare che resistessero so-cietà incontaminate, i germi patogeni, che viaggiano a unavelocità sorprendente, hanno portato devastazioni, taloramolti decenni prima che il contatto vero e proprio avesseluogo.

Altrettanto si può dire delle materie prime e delle tec-niche. In Australia esistono società per le quali l’introdu-zione delle asce di ferro, mentre ha facilitato e semplificatoil lavoro e l’attività economica, ha comportato la rovinadella cultura tradizionale. Per motivi complessi, nel detta-glio dei quali forse ci si dilungherebbe troppo, l’adozione diutensili metallici ha comportato il crollo delle isti tuzionieconomiche, sociali e religiose che erano legate al possessoe alla trasmissione delle asce di pietra. Ora, sotto forma distru menti utilizzati o danneggiati, a volte perfino di inde-scrivibili rovine, il ferro viaggia più rapidamente e più lon-tano degli uomini a favore delle guerre, dei matrimoni, de-gli scambi commerciali.

Una volta definiti i contesti storici all’interno dei qualisi manifestano le discontinuità culturali, si può tentare, conuna certa approssimazione, di cogliere le cause profondedella resistenza che queste società spesso oppongono allosviluppo. Tra queste cause figura, in primo luogo, la ten-denza della maggior parte delle cosid dette società primitivea preferire l’unità ai conflitti interni; in secondo luogo, ilrispetto che esse mostrano verso le forze della natura; infi-ne, il loro rifiuto di impegnarsi in un divenire storico.

Si è più volte invocato il carattere di non competitivitàdi alcune fra queste società, allo scopo di spiegarne la resi-sten za allo sviluppo e alla industrializzazione. Non va esclu-

107

Page 108: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

so, ad ogni modo, che la passività e l’indifferenza che ven-gono loro impu tate possano essere una conseguenza deltrauma dovuto al contatto, e non una condizione origina-ria. Inoltre, quanto a noi appare come un difetto e come unamancanza può corrispondere a una maniera origi nale diconcepire i rapporti degli uomini tra di loro e con il mon-do. Lo si capirà con un esempio. Quando alcuni popoli del-l’interno della Nuova Guinea impararono dai missionari agiocare a calcio, adottarono questo gioco con entusiasmo.Invece, però, di cercare la vittoria di uno dei due campi, es-si moltiplicavano le partite finché le vittorie e le sconfitte dauna parte e dall’altra non fossero tornate in equilibrio.

Il gioco finisce non, come per noi, quando c’è un vin-citore, ma quan do ci si è assicurati che non ci sarà unosconfitto.

Osservazioni condotte presso altre società sembrano de -porre in senso contrario, tale comunque da escludere, ana-logamente, un vero e proprio spirito di competizione, co-me nel caso dei giochi tra dizionali che si svolgono tra duecampi rappresentanti rispettivamente i vivi e i morti, e chedevono quindi concludersi necessaria mente con la vittoriadei primi.

È infine degno di nota il fatto che a tutte le co siddettesocietà primitive è estranea l’idea di un voto espresso a mag-gioranza. Queste società ritengono che la coesione sociale el’armonia all’interno del gruppo siano preferibili a qualun-que innovazione. La soluzione di una controversia è pertan-to rinviata, ogni volta che sia necessario, al momento in cuisi prenda una decisione unanime. Talora le deliberazionisono precedute da combattimenti simulati. In questo mo-do si compongono vecchie liti, e si passa al voto solo quan-do il gruppo, così rigenerato, ha realizzato al suo interno lecondizioni di un’indispensabile unanimità.

Che le società in questione resistano allo sviluppo di -pende anche dall’idea che esse si fanno del rapporto fra na-

108

Page 109: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

tura e cultura. Lo sviluppo presuppone, infatti, che si fac-cia passare la cultura davanti alla natura, e questa prioritàaccordata alla cultura non è quasi mai ammessa sotto que-sta forma, se non dalle civiltà industriali. Probabilmentetutte le società riconoscono che tra i due regni esiste una se-parazione. Nessuna società, per quanto modesta, rifiuta diattribuire un valore elevato alle arti della civiltà – cotturadegli alimenti, fabbricazione di terracotta, di tessuti – at-traverso le quali la condizione umana si distacca dalla con-dizione animale.

In ogni modo, tra i cosiddetti popoli primitivi, la no-zione di natura presenta sempre un carattere di ambiguità:la natura è precultura, ed è anche sottocultura; eppure, es-sa costituisce l’ambito nel quale l’uomo spera di incontraregli antenati, gli spiriti, gli dèi. La nozione di natura inclu-de quindi una componente «soprannaturale», e questa so-pranatura è al di sopra della cultura così come la natura stes-sa ne è al di sotto.

Non ci si deve dunque stupire se le tecniche, i manufat -ti sono svalutati dal pensiero indigeno ogni volta che si trat-ta dell’essenziale, cioè dei rapporti fra l’uomo e il mondosoprannaturale. Nell’antichità classica come in quella del-l’Oriente e dell’E stremo Oriente, nel folklore europeo co-me nelle società indigene contemporanee, si può incontra-re in molti casi la proibizione dell’impiego di oggetti di fab-bricazione locale o di importazione per tutti gli atti della vi-ta cerimoniale, e in momenti diversi del rituale. Sono con-sentiti soltanto oggetti naturali lasciati allo stato grezzo, outensili arcaici. Come nel caso della proscrizione del presti-to a interesse da parte dei Padri della Chiesa e da parte del-l’Islam, l’uso delle cose, si tratti di denaro o di altri stru-menti, deve conservare una purezza primitiva.

Analogamente va interpretato il rifiuto delle transa -zioni immobiliari. Se povere comunità indigene del Nor-damerica e dell’Australia hanno a lungo rifiutato – e tutto-

109

Page 110: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ra, in certi casi, ri fiutano – di cedere territori in cambio diindennità a volte considerevoli, è perché, per diretta am-missione degli interessati, essi vedono nella terra ancestraleuna «madre». Portiamo ancora oltre questo ragionamento:gli Indiani Menomini della regione nordamericana deiGrandi Laghi, ancorché perfettamente informati delle tec-niche agricole dei loro vicini Irochesi, si rifiutavano di ap-plicarle alla produzione del riso selvatico – che costituiscela base della loro alimentazione, ed è comunque moltoadatto alla coltivazione – perché non poteva no «ferire la lo-ro madre terra».

La stessa opposizione fra natura e cultura si ritrova spes -so a fondamento della divisione sessuale del lavoro. Perquanto va riabili appaiano le sue regole quando si compara-no società differenti, esse comportano elementi costantiche sono interpretati in maniera diversa, e le cui applicazio-ni soltanto divergono. Molte società con siderano comeomologhe l’opposizione natura/cultura e l’opposizio ne don-na/uomo. Esse riservano dunque alle donne le forme di at-tività concepite come dipendenti dall’ordine della natura,come il giardinaggio, o tali da mettere l’artigiano a contat-to diretto con la materia, come la vasaia che modella a ma-no, mentre l’uomo si assume i medesi mi compiti quando sitratta di eseguirli mediante strumenti o mac chine la cuifabbricazione implica un certo grado di complessità, peral-tro variabile a seconda delle società.

In questa duplice prospettiva, si capisce come non ab-bia senso parlare di «popoli senza storia». Le società da noichiamate pri mitive hanno una storia come tutte le altre ma,a differenza di quan to accade per noi, esse si sottraggono al-la storia, e si sforzano di sterilizzare al loro interno tutto ciòche potrebbe costituire l’ac cenno di un divenire storico. Lenostre società sono fatte per cambiare: è il principio dellaloro struttura e del loro funzionamento. Le cosiddette so-cietà primitive ci appaiono tali, soprattutto, perché sono

110

Page 111: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

concepite dai loro membri come capaci di durare. La loroapertu ra all’esterno è molto limitata, dominate come sonoda una sorta di «campanilismo». In compenso, la loro strut-tura sociale interna presenta un’articolazione più fitta dirapporti, uno scenario più ricco che nelle civiltà comples-se. Perciò, società di infimo livello tecnico ed economicopossono fare esperienza di un sentimento di benessere e dipienezza: ognuna di esse ritiene di poter offrire ai suoi com-po nenti la sola vita che merita di essere vissuta.

Una trentina d’anni fa ho illustrato la differenza tra lecosiddette società primitive e le nostre servendomi di unaimma gine che ha suscitato molte critiche, perché, secondome, non era stata ben compresa.

Suggerivo di paragonare le società a delle macchine, chesi dividono, come è noto, in due tipi: le macchine mecca-niche e le macchine termodinamiche.

Le prime sfruttano l’energia che è loro fornita in par-tenza. Se fossero costruite a regola d’arte, in mancanza diattriti e di surriscaldamenti, in teoria potrebbero funziona-re per un tempo indefinito. Al contrario, le macchine ter-modinamiche, come le macchine a vapore, funzionano inbase a uno scarto di temperatura fra la caldaia e il conden-satore, producendo molto più lavoro delle altre, ma consu -mando nel contempo la loro energia e distruggendola pro-gressivamente.

Dicevo quindi che le società studiate dagli antropologi,se paragonate alle nostre moderne società, più imponenti epiù articolate, sono assimilabili a società «fredde», contrap-poste a società «calde»: come orologi paragonati a macchi-ne a vapore. Si tratta di so cietà che generano poco disordi-ne – «entropia», nel linguaggio dei fisici – e che tendono aconservarsi indefinitamente nella loro con dizione iniziale(o in quella che esse immaginano come iniziale); ciò spiegail fatto che, viste dall’esterno, esse sembrano società senzastoria.

111

Page 112: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Le nostre società non si limitano a fare largo uso di mac-chine termodinamiche. Per la loro struttura interna, essesomiglia no a macchine a vapore. In società come le nostredevono prodursi antagonismi paragonabili a quelli che èdato osservare, in una macchina a vapore, tra la fonte di ca-lore e l’organo di raffreddamento. Le nostre società funzio-nano in base a una differenza di potenziale che si dà sottoforma di gerarchia sociale e che, attraverso la storia, è co-nosciuta col nome di schiavitù, di servitù, di divisione inclassi, etc. Società del genere producono e mantengono alloro interno squilibri che servono a produrre, nello stessotempo, molto più ordine – corrispondente alla civiltà indu-striale – ma molto maggiore entropia sul piano delle rela-zioni interpersonali.

Le società studiate dagli antropologi possono pertantoessere considerate come sistemi a debole entropia, prossimiallo ze ro assoluto di temperatura storica: è questo che in-tendiamo quando definiamo tali società come «senza sto-ria».

Le società «storiche», come le nostre, conoscono, fra leloro temperature interne, scarti più grandi, che sono dovu-ti alle diseguaglianze economiche e sociali.

Invero, ogni società presenta sempre l’uno e l’altro aspet-to, che sono come lo yin e lo yang della filosofia cinese: que-sti due principi si oppongono e si integrano, ma si dà sempreyin nello yang, e viceversa. Una società è una macchina e, in-sieme, è il la voro compiuto da questa macchina: come mac-china a vapore, genera entropia; come motore, produce or-dine. Questi due aspetti – ordine e di sordine – corrispondo-no ai due modi nei quali una civiltà può essere considerata:da un lato la cultura, dall’altro la società.

La cultura consiste nell’insieme dei rapporti che gli uo-mini di una determinata civiltà intrattengono col mondo;più in particolare, la società consiste nei rapporti che que-sti stessi uomini intrattengono fra di loro.

112

Page 113: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

La cultura fabbrica ordine: noi coltiviamo la terra, co-struiamo case, produciamo manufatti. In compenso, le no-stre società ge nerano molta entropia, perché dissipano le lo-ro risorse e si sfibrano nei conflitti sociali, nelle lotte politi-che, nelle tensio ni psichiche che suscitano negli individui. Ei valori, sui quali esse inizialmente poggiano, subiscono uninesorabile logoramento. Si potrebbe quasi dire che le nostresocietà perdono progressivamente la loro ossatura e tendo-no a polverizzarsi, a ridurre gli individui che le com -pongono allo stato di atomi intercambiabili e anonimi.

La cultura di quelli che chiamiamo «primitivi», o popo -li senza scrittura, costruisce molto meno ordine; per questaragione li qualifichiamo come popoli sottosviluppati. Incompenso, la loro società produce entropia in misura mol-to minore. In linea di massima, queste società sono egali-tarie, di tipo meccanico, disciplinate dalla regola di unani-mità che ho sopra descritta.

Per contro, la cultura dei civilizzati, o presunti tali, co-struisce ordine in grado elevato, come attestato dal macchi-nismo e dalle innumerevoli applicazioni scientifiche, ma laloro società pro duce anche molta entropia.

Forse l’ideale starebbe in una terza via: una via capacedi portare la cultura a produrre un ordine sempre maggio-re, senza pa rallelo accrescimento di entropia nella società.In altri termini, come il conte di Saint-Simon raccoman-dava in Francia all’inizio del xix secolo, bisognerebbe saperpassare – cito – «dal governo degli uomini all’amministra-zione delle cose». Nel formulare questo programma, Saint-Simon precorreva la distinzione antropologica fra cultura esocietà e, nello stesso tempo, la rivoluzione che si realizzaattual mente sotto i nostri occhi col progresso dell’elettroni-ca. Questa rivoluzione ci fa probabilmente intravedere lafutura possibilità di passare da una civiltà che un tempoinaugurò il divenire storico, riducendo però gli uomini al-lo stato di macchine, a una civiltà più saggia, capace – co-

113

Page 114: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

me si comincia a fare con i robot – di trasformare le mac-chine in uomini. Con l’integrale assegnazione alla culturadel compito di fabbricare il progresso, la società sarebbe al-lora li berata da una maledizione millenaria, che la costrin-geva ad asservire buona parte degli uomini al progresso. Lastoria, ormai, si farebbe tutta da sé, e la società, posta al difuori e al di sopra della storia, potrebbe nuovamente fruiredi quella trasparenza e di quell’in terno equilibrio la cui nonincompatibilità è attestata dalle meno degradate fra le co-siddette società primitive.

In questa prospettiva, evidentemente utopistica, l’an-tropologia attingerebbe la sua giustificazione più alta, poi-ché le forme di vita e di pensiero delle quali essa si occupanon rivestirebbero più soltanto un interesse storico e com-parativo: tali forme ci rap presenterebbero, piuttosto, unachance permanente dell’uomo, che l’antropologia, con lesue osservazioni e le sue analisi, ha la missione di salvaguar-dare.

Dal paragone, appena tracciato, fra due tipi di socie tàderivano anche suggerimenti di portata più immediata epratica.

Se ne può trarre una prima conseguenza: modelli di at-tività economica che, nell’ottica industriale e finanziariamoderna, costituiscono altrettante vestigia arcaiche, altret-tanti ostacoli allo sviluppo, meritano di essere consideraticon rispetto e di es sere trattati con molto riguardo.

Ci si preoccupa oggi di allestire banche genetiche in cuisi preservi quel che ancora resta di specie vegetali originali,create nel corso dei millenni da modi di produzione del tut-to diversi dai nostri. Si spera in tal modo di limitare i dan-ni di un’agricol tura ridotta a poche specie a resa intensiva,ma tributarie di fertilizzanti chimici, e sempre più vulnera-bili agli agenti patogeni.

Ci si potrebbe appagare di preservare i risultati di que-sti modi arcaici di produzione, ma non sarebbe opportuno

114

Page 115: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

assicurarci che i savoir-faire (in inglese: know-how) insosti-tuibili, grazie ai quali questi risultati furono ottenuti, nonscompariranno in maniera irreversibile?

Ci si può altresì interrogare se il nostro futuro eco -nomico non richieda, da parte nostra, la preservazione o larestaurazione, nel processo produttivo, dei fattori psicolo-gici, sociali e morali. Gli specialisti di sociologia industria-le denunciano una contraddizione fra la produttività ogget-tiva, che impone la parcellizzazione e l’impoverimento deicompiti, la perdita di iniziativa nel lavoro, l’allontanamen-to del produttore dal suo prodotto, e la produttività sogget-tiva, che permette al lavoratore di esprimere la sua persona-li tà e il suo desiderio creativo. Mi limiterò a un esempio: unmelanesiano, che sia obbligato dalle regole sociali a mante-nere con ostentazio ne la famiglia della sorella, o che, invirtù della dimensione degli ignami prodotti nel suo giar-dino, cerchi di dimostrare di avere buo ni rapporti con le di-vinità agricole, è animato da urgenze al tempo stesso tecni-che, culturali, sociali e religiose.

Ciò che l’antropologo ricorda all’economista, qualoraquesti lo dimentichi, è che l’uomo non è puramente e sem-plicemente spinto a produrre sempre di più. Nel lavoro,l’uomo tenta pure di sod disfare aspirazioni che sono radi-cate nella sua natura profonda: compiersi come individuo,lasciare nella materia la sua impronta, dare, con le sue ope-re, un’espressione oggettiva alla sua soggettività.

Sotto tutti questi aspetti, l’esempio delle cosiddette so -cietà primitive può ammaestrarci, perché esse si fondano suprincipi che permettono di convertire la quantità delle ric-chezze prodot te in valori morali e sociali: realizzazione per-sonale nel lavoro, considerazione da parte dei parenti e deivicini, prestigio morale e sociale, accordo riuscito fra l’uo-mo e i mondi naturale e soprannaturale. Le ricerche antro-pologiche contribuiscono a comprendere meglio la neces -sità di un’armonia tra questi diversi elementi della natura

115

Page 116: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

umana. Dovunque la civiltà industriale tenda a distrugge-re tale armonia, l’antropologia può metterci in guardia epuò indicarci alcune delle vie da percor rere per riconqui-starla.

Il tempo si fa breve; sarò quindi più sintetico nell’e -sporre il terzo capitolo inserito nel mio programma, che èdedica to agli insegnamenti che si possono trarre dalle con-cezioni religio se più diffuse tra i popoli studiati dagli antro-pologi.

Per l’antropologo, le religioni costituiscono un vasto re -pertorio di rappresentazioni che, sotto forma di miti e di ri-ti, si combinano in guise diversificate. Queste combinazio-ni, salvo che agli occhi dei credenti, sembrano a prima vi-sta irrazionali e arbitrarie. Si pone allora la questione di sa-pere se sia opportuno fermarsi a de scrivere quel che non sipuò spiegare, oppure se, dietro l’apparente disordine dellecredenze, delle pratiche e dei costumi, sia possibile scopri-re una coerenza.

Considerando come punto di partenza i miti delle po-polazioni indigene del Brasile centrale, che ho conosciutodi persona, mi sono reso conto del fatto che, se ogni mitopresenta l’aspetto di un racconto bizzarro, privo di qualsia-si logica, tra questi miti esistono rapporti più semplici emeglio intelligibili delle storie che ogni mito in particolareracconta.

Mentre, però, il pensiero filosofico o scientifico ragio-na formulando e concatenando concetti, il pensiero miticofunzio na adoperando immagini prese a prestito dal mondosensibile. Invece di stabilire rapporti fra idee, il pensieromitico oppone il cielo e la terra, la terra e l’acqua, la luce el’oscurità, l’uomo e la donna, il crudo e il cotto, il fresco eil putrido..., elaborando così una logica delle qualità sensi-bili: colori, intrecci, sapori, odori, rumori e suoni. Il pen-siero mitico seleziona, dispone o oppone queste qualità pertrasmettere un messaggio in qualche modo codificato.

116

Page 117: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Eccone un esempio, fra centinaia di altri che ho ten -tato di analizzare nei quattro grossi volumi intitolati Mito-logiche, apparsi tra il 1964 e il 1971.

Che due amanti incestuosi, o proibiti l’uno all’altro dal-le convenzioni sociali, riescano a unirsi solo al momento dimorire, quando diverranno un corpo solo, è una storia cheaccettiamo facilmente, perché le nostre tradizioni letterariece l’hanno resa familiare. In Occidente abbiamo il roman-zo medievale di Tristano e Isot ta, e l’opera di Wagner. E mipare che anche la tradizione giapponese conosca questo ge-nere di racconto.

A lasciarci sconcertati sarebbe invece un’altra storia,quella nella quale una nonna appiccica l’uno all’altra un fra-tello e una sorella neonati per farne un solo bambino. Que-sto bambino cresce, un giorno tira verticalmente una frec-cia che, nel ricadere, lo taglia a metà, separando in tal mo-do il fratello e la sorella, che si affrettano a diventare aman-ti ince stuosi. Questa seconda storia ci sembra assurda e in-coerente. Ora, questa stessa storia coesiste con la prima sto-ria fra gli Indiani del Nordamerica, e basta paragonarle epi-sodio per episodio perché ci si convinca che la seconda sto-ria riproduce esattamente la prima, semplicemente raccon-tandola a parti rovesciate. Non avremmo qui e lì, pertanto,che un solo mito, illustrato da popolazioni vicine con rac -conti simmetrici e capovolti?

Non se ne potrebbe dubitare qualora, a voler fare unpasso avanti, si osservasse che, in Nordamerica, il primoracconto pretende di spiegare l’origine di una costellazionenella quale, dopo la morte, si trasformano gli amanti ince-stuosi (analogamente al Bovaro e alla Tessitrice della tradi-zione cinese, celebrati in Giappone dalla festa di Tanaba-ta), mentre il secondo racconto pretende di spie gare l’ori-gine dei compiti del sole. Ciò equivale a dire che, in un ca-so, si hanno punti luminosi che si stagliano su di uno sfon-do scuro e, nell’altro, punti oscuri che si stagliano su di uno

117

Page 118: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

sfondo luminoso. Allo scopo di illustrare figure celesti ca-povolte si racconta quindi la stessa storia, ma in due sensiopposti, come se si proiettasse una pellicola cinema -tografica dall’inizio o dalla fine e come se, nel secondo ca-so, si mostrasse la corsa di una locomotiva a marcia indie-tro, col fumo che rientra nel fumaiolo, condensandosi pro-gressivamente in acqua.

Il risultato di quest’analisi è che, invece di due miti dif-ferenti, non ve n’è che uno solo. Si procede quindi per gra-di, e una moltitudine di racconti insignificanti fa posto aog getti sempre meno numerosi, ma tali da chiarirsi gli uniper mezzo degli altri. Il senso dei miti non appartiene a cia-scuno di essi pre si in sé, ma si appalesa solo quando i mitisono posti in rapporto l’uno con l’altro.

Chi mi ascolta forse mi chiederà in che cosa ricer che delgenere possano contribuire a gettare luce su problemi attua-li. Le nostre società non hanno più miti. Per risolvere i pro-blemi posti dalla condizione umana e dai fenomeni natu-rali, esse si rivolgono alla scienza o, per meglio dire, per cia-scun tipo di problema si ri volgono a una disciplina scienti-fica specializzata.

È sempre così? Ciò che i popoli senza scrittura invo -cano dai miti, ciò che l’intera umanità ne ha invocato, nelcorso del le centinaia di migliaia di anni, forse dei milioni dianni della sua lunghissima storia, è la spiegazione dell’ordi-ne del mondo che ci cir conda e della struttura della societàin cui si è nati, la dimostra zione della loro legittimità, la co-municazione della certezza fidu ciosa che il mondo nel suocomplesso, e la società particolare cui si appartiene, reste-ranno tali quali furono creati all’inizio dei tempi.

Tuttavia, quando ci interroghiamo circa il nostro stessosistema sociale, noi pure ci appelliamo alla storia per spie-garlo, giustificarlo o criticarlo. Questo modo di interpreta-re il passato va ria in funzione dell’ambiente al quale appar-teniamo, delle nostre con vinzioni politiche, dei nostri at-

118

Page 119: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

teggiamenti morali. Per un cittadino francese, la Rivoluzio-ne del 1789 spiega la forma della società attuale. Così, a se-conda che riteniamo questa forma giusta o sbagliata, nonrappresentiamo a noi stessi la Rivoluzione del 1789 allastessa maniera, e aspiriamo a scenari futuri differenti. In al-tre parole, l’immagine che ci facciamo del nostro passato,prossimo o remoto, è di natura fondamentalmente mitica.

Sarebbe azzardato, da parte mia, estendere queste ri -flessioni al Giappone. Ma, per quel poco che conosco del-la storia del vostro Paese, mi è facile immaginare che qual-cosa del genere potesse ac cadere alla vigilia dell’era Meiji,per i sostenitori del potere de gli shôgun e per coloro che pro-pugnavano la restaurazione del re gime imperiale. All’epocadi un congresso organizzato dalla Fondazio ne Shôgun nel1980 a Osaka, mi è sembrato proprio che i partecipantigiapponesi continuassero a proporre, circa la restaurazioneMeiji, interpretazioni divergenti: alcuni vi scorgevano unavolontà di aprir si alla vita internazionale e auspicavano unaspinta sempre più forte in questa direzione, senza secondifini, senza nostalgia né rammarico; altri, invece, coglieva-no in questa apertura l’occasione di pren dere a prestito dal-l’Occidente le sue armi per poter eventualmente resistergli,conservando i tratti specifici della cultura giapponese.

Ci si può allora domandare se sia possibile una storiaobiettiva e scientifica o se, nelle nostre moderne società, lastoria non svolga un ruolo paragonabile a quello dei miti.Il compito che i miti svolgono per le società senza scrittura– legittimare un siste ma sociale e una concezione del mon-do, spiegare come sono oggi le cose attraverso la lettura diciò che esse furono, trovare la giustificazione della loro con-dizione attuale in una passata, e concepire il futuro in fun -zione sia di questo presente sia di questo passato – è assimi-labile al compito che le nostre civiltà assegnano alla storia.

Si dà però una differenza: come ho tentato di mostrarecon un esempio, ogni mito sembra raccontare una storia

119

Page 120: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

diversa, e poi si scopre che si tratta spesso della medesimastoria con gli episo di disposti in altra maniera. Noi, inve-ce, vogliamo credere all’esi stenza di una sola storia, mentrein realtà ogni partito politico, ogni ambiente sociale, talo-ra ogni singolo individuo parla di una storia diversa e, con-trariamente al mito, l’adopera per darsi ragioni per sperare,non che il presente riproduca il passato e che il futuro con -tinui il presente, ma che il futuro sia diverso dal presente al-lo stesso modo in cui il presente stesso è stato diverso dalpassato.

Il rapido raffronto, che ho appena tracciato, fra le cre-denze dei cosiddetti popoli primitivi e le nostre ci porta acapire che la storia, quale è adoperata dalle nostre civiltà,esprime non tanto verità oggettive quanto pregiudizi e aspi-razioni. Anche in questo caso l’antropologia ci impartisceuna lezione di spirito critico, perché ci fa comprendere me-glio che il passato della nostra società, come quello di so-cietà differenti dalla nostra, non hanno un solo possibile si-gnificato. Non si dà un’interpretazione assoluta del passatostorico, ma si danno interpretazioni tutte relative.

Per concludere questa lezione, mi concederò una ri -flessione ancora più audace. Anche per quanto concernel’ordine del mondo, la scienza oggi passa da una prospetti-va intemporale a una storica. Il cosmo non ci appare più,come all’epoca di Newton, governato da leggi eterne, comela gravitazione. Per l’astrofisica moderna, il cosmo ha unastoria: ha avuto inizio 15 o 20 miliardi di anni or sono conun evento unico (in inglese: big bang), si è dilatato, ségui-ta a espandersi e, stando alle ipotesi, continuerà all’infinitonella stessa direzione o alternerà cicli di espansione e di con-trazione.

Mentre avanza, però, la scienza ci persuade a diven taresempre meno capaci di dominare col pensiero fenomeniche, per i loro ordini di grandezza spaziale e temporale,sfuggono alle possibilità della nostra mente. In tal senso, la

120

Page 121: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

storia del cosmo diviene, per il co mune mortale, una sortadi grande mito, poiché consiste nello svolgi mento di acca-dimenti unici, la realtà dei quali non potrà mai essere pro-vata, essendosi prodotti una volta sola.

Se allora, a partire dal xvii secolo, si poteva ritenere cheil pensiero scientifico si opponesse radicalmente al pensie-ro mitico, fino a doverlo eliminare in breve tempo, ci si puòchiedere se non sia osservabile l’inizio di un movimento in-verso. Il pensiero scienti fico non è forse spinto proprio dalsuo progresso verso la storia? Qualcosa di analogo accaddegià nel xix secolo in biologia con la teoria dell’evoluzione,e anche la moderna cosmologia si orienta in que sto senso.Ho tentato di mostrare che anche presso di noi la conoscen -za storica conserva affinità con i miti. E se, come sembra,proprio la scienza tende a diventare una storia della vita euna storia del mondo, non si può escludere che, dopo avera lungo seguito strade divergenti, il pensiero scientifico e ilpensiero mitico in futuro si ricongiungano. In quest’ipote-si, l’interesse che l’antropologo porta al pensiero mitico ri-sulterebbe ancora più fondato, per il contribu to che taleforma di pensiero reca alla conoscenza di vincoli sem pre at-tuali, inerenti al funzionamento dello spirito.

121

Page 122: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]
Page 123: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

tutto quanto esposto nelle mie prime due lezioni in -vita a ridurre la distanza che si è tentati di allargare tra le so-cie tà senza scrittura – in considerazione del loro basso livel-lo tecnico ed economico – e le nostre.

A giustificare questo scarto sono valsi nel passato – e ognitanto vi si ricorre ancor oggi – due tipi di argomento. Secon-do alcuni, questo scarto sarebbe insormontabile, perché di-penderebbe dal fatto che i gruppi umani si differenziano in ba-se al loro patrimonio genetico. Tra i loro patrimoni esistereb-be una ineguaglianza che si ri flette sulle capacità intellettuali esulle tendenze morali: è la te si dei razzisti. Invece, secondo lateoria evoluzionistica, l’ineguaglianza delle culture avrebbeun’origine non biologica, ma storica: sull’unica strada che tut-te le società devono necessariamente percorrere, alcune sareb-bero andate avanti, altre avrebbero segnato il passo, altre forseavrebbero fatto marcia indietro. Il problema con sisterebbe sol-tanto nel comprendere i motivi contingenti del ritardo accu-mulato da alcune società, in modo da aiutarle a recuperarlo.

Ci troviamo allora di fronte ai due ultimi problemi allasoluzione dei quali l’antropologia spera di poter contribui-re: uno è il problema delle razze, l’altro riguarda il senso daattri buire alla nozione di progresso.

Durante tutto il xix secolo e nella prima metà del xx,ci si è interrogati se, e in quale modo, la razza influenzassela cultura.

123

Terza lezione

Page 124: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

La constatazione che popoli di apparenza somatica di -versa presentano abitudini di vita e credenze differenti por-ta a concludere che le differenze fisiche sono legate alle dif-ferenze culturali. Come è ammesso con buon senso nelpreambolo della seconda di chiarazione dell’unesco sulproblema delle razze, quel che persuade l’uomo della stra-da a riguardo dell’esistenza delle razze «è l’evi denza imme-diata dei suoi sensi – cito –, con cui distingue insieme unafricano, un europeo, un asiatico e un amerindio».

Contro questo preteso legame fra razza e cultura l’an -tropologia ha da tempo fatto valere due argomenti. In pri-mo luogo, le culture attualmente esistenti, e soprattuttoquelle che esistevano fino a due o tre secoli fa sulla superfi-cie terrestre, sono di gran lunga più numerose delle razzeche i ricercatori più meticolosi si sono affannati a cataloga-re: svariate migliaia contro una o due dozzine. Ora, dueculture elaborate da uomini considerati come apparte -nenti alla medesima «razza» possono differenziarsi tra loroin ma niera simile o più spiccata, rispetto a due culture cheprocedono da gruppi razzialmente diversi.

In secondo luogo, i patrimoni culturali si sviluppa nomolto più rapidamente che non i patrimoni genetici. Tra lacultu ra conosciuta dai nostri bisnonni e la nostra c’è dimezzo un mondo. Si è giunti a sostenere che è registrabile,fra le abitudini di vita degli antichi Greci e Romani e quel-le dei nostri antenati del xviii secolo, una differenza mi-nore rispetto a quella che si dà fra le abi tudini di questi ul-timi e le nostre. Tuttavia, noi raccogliamo pressappoco laloro eredità.

Queste due ragioni spiegano come da circa un secolo sisia prodotto un divorzio tra i cosiddetti antropologi «cultu-rali» o «sociali», che studiano le tecniche, i costumi, le isti-tuzioni e le credenze, da un lato e, dall’altro, gli antropolo-gi fisici della vec chia scuola, che si ostinano a fare misura-zioni e verifiche su crani, scheletri, o su esseri viventi. Non

124

Page 125: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

si poteva stabilire alcuna correlazione fra i due tipi di inven-tario. Se mi è lecito proporre un’immagine, il setaccio de-gli antropologi fisici non era abbastanza capace di trattene-re le differenze tra le culture, alle quali invece noi, antropo-logi culturali o sociali, attribuiamo un significato. In com-penso, ma solo da trenta o quarant’anni, si è instaurato unrapporto di collaborazione fra l’antropologia e quella nuo-va disciplina biologica che si chiama genetica delle popola-zioni, la quale, con argomenti biologici, ha confortato latradizionale dif fidenza degli antropologi verso ogni tentati-vo diretto a stabili re una connessione, o addirittura un rap-porto causa-effetto, tra le differenze razziali e le differenzeculturali.

Il concetto tradizionale di razza poggiava per intero sucaratteri esteriori e ben visibili: statura, colore della pelle edegli occhi, conformazione cranica, tipo di capigliatura,etc. Anche a voler ammettere che le variazioni osservabili inquesti differenti cam pi siano concordanti, cosa che sembramolto improbabile, nulla prova che tali variazioni concor-dino anche con differenze sulle quali i genetisti hanno fat-to luce e delle quali hanno mostrato l’importanza, quan-tunque non siano immediatamente percepibili dai sensi:gruppi sanguigni, proteine del siero del sangue, fattori im-munitari, etc. Alcune variazioni non sono comunque me-no reali di altre, e si potrebbe imma ginare – in certi casi losi è anche accertato – che le seconde ab biano una distribu-zione geografica completamente diversa dalle prime. A se-conda dei caratteri conservati, razze «invisibili» farannoquindi la loro apparizione in seno a razze tradizionali, op-pure segmenteranno i già incerti confini che a queste veni-vano assegnati.

Nel concordare con le posizioni degli antropologi, i ge-netisti hanno dunque sostituito la nozione di razza conquella di stock genetico. Anziché presentare caratteri ritenu-ti immutabili, e frontiere ben tracciate, uno stock genetico

125

Page 126: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

è fatto di dosaggi rela tivi a questo o a quel luogo, e che han-no continuato a variare nel corso delle epoche. I limiti chesi assegnano a questi dosaggi sono arbitrari. Ancora: talidosaggi aumentano o diminuiscono attraverso gradazioniimpercettibili, e le soglie che qua e là si fissano dipen donodal tipo di fenomeno del quale il ricercatore si occupa, e cheegli circoscrive per le sue classificazioni.

Questa «nuova alleanza» – per usare un’espressione allamoda – fra gli antropologi e i genetisti ha comportato uncambia mento notevole nell’atteggiamento verso i cosiddet-ti popoli primitivi. Con altri argomenti, questo mutato at-teggiamento va nel senso in cui, fino ad allora, gli antropo-logi erano stati i soli a impegnarsi. Per secoli sono apparsiassurdi e scandalosi costumi consistenti in strane regole ma-trimoniali, in interdizioni arbitrarie – come quella che im-pedisce i rapporti sessuali fra gli sposi finché la madre allat-ta il neonato –, in privilegi poligamici di cui i capi o gli an-ziani beneficiano, in usanze che ci ripugnano, come l’in-fanticidio. La genetica delle popolazioni ha dovuto prende-re forma intorno agli anni Cinquanta perché ci si rendesseconto delle ragioni di que sti costumi.

Tendiamo inoltre a considerare le razze più lontane dal-la nostra come le più omogenee: agli occhi di un biancotutti i gialli si rassomigliano, e le rappresentazioni stereoti-pate dei bian chi nella cosiddetta arte namban suggerisconoche è altrettanto ve ra la reciproca. Ora, sono state scoperteconsiderevoli differenze fra tribù primitive che vivono nel-la stessa area geografica, e queste differenze sono quasi al-trettanto significative fra villaggi di una mede sima tribù chefra tribù distinte per lingua e per cultura. Pertanto, neppu-re una tribù isolata costituisce una unità biologica. Ciò sispiega con la maniera in cui si formano nuovi villaggi: ungruppo familiare si separa dal suo lignaggio genealogico e sista bilisce in disparte. Più tardi, gruppi di individui tra diloro imparentati lo raggiungono, e vanno a condividere il

126

Page 127: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

nuovo ambiente. Gli stock genetici, che quindi ne risulta-no, si differenziano tra di loro molto più che se non fosse-ro l’effetto di raggruppamenti prodottisi casualmente.

Ne deriva una conseguenza: se i villaggi di una mede -sima tribù comprendono formazioni genetiche differenzia-te all’inizio, ognuna delle quali vive in un relativo isola-mento, e in compe tizione le une con le altre a causa di ine-guali coefficienti di accrescimento, tali formazioni ricosti-tuiscono un insieme di condizioni, note ai biologi, comeparticolarmente capaci di favorire un’evoluzio ne incompa-rabilmente più rapida di quella in generale osservabile tra lespecie animali. Ora, è risaputo che l’evoluzione che ha por-tato ominidi fossili fino all’uomo attuale si è prodotta, intermini relativi, molto rapidamente.

Se si ammette che le condizioni attualmente osser -vabili fra alcune remote popolazioni offrono, almeno sottocerti aspetti, un’immagine approssimativa di quelle vissutedall’umanità in un lontano passato, si dovrà riconoscereche tali condizioni, da noi ritenute sfortunate, erano le piùidonee a fare di noi quel che siamo divenuti, e che esse re-stano le più adatte a mantenere la medesima direzione,conservandone il ritmo, dell’evoluzione umana, mentre leimpo nenti società contemporanee, in cui gli scambi gene-tici si producono in un’altra maniera, tendono a frenare l’e-voluzione o ad alterarne l’o rientamento.

Il nostro sapere doveva evolvere fino al punto che noi sidiventasse coscienti di questi nuovi problemi, per ricono-scere una valenza oggettiva e un significato morale a modidi vivere, usi e credenze ai quali in precedenza si riservava-no solo motteggi o, nel mi gliore dei casi, una curiosità didegnazione. Tuttavia, con l’ingresso della genetica delle po-polazioni sulla scena dell’antropologia, si è prodotta un’al-tra svolta, dalle implicazioni teoriche forse ancora più signi-ficative. Ho ricordato elementi che dipendono dalla cultu-ra: le cosiddette società primitive mantengono un basso

127

Page 128: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

coefficiente di crescita demografica, prolungando fino a treo quattro anni la du rata dell’allattamento, osservando di-verse proibizioni sessuali, praticando, in caso di necessità,l’aborto e l’infanticidio. Il tasso di riproduzione degli uo-mini, che varia sensibilmente, a seconda che essi abbia nouna o più mogli, favorisce determinate forme di selezionenaturale. Tutto ciò riguarda il modo in cui i gruppi umanisi suddividono e si ricostituiscono, le consuetudini impo-ste agli individui dei due sessi per l’unione e per la riprodu-zione, le indicazioni concernenti l’accoglimento o il rifiutodei bambini, e la maniera di allevarli, il diritto, la magia, lareligione e la cosmologia. Direttamente o indirettamente,questi fattori modellano la selezione naturale, orientando-ne il corso.

A partire da questi dati, i termini del problema re lativoai rapporti fra le nozioni di razza e di cultura registrano unradicale mutamento. Per tutto il xix secolo e nella primametà del xx, ci si è interrogati se, e in quale modo, la raz-za influenzasse la cultura. Rilevata l’insolubilità del proble-ma, ci si è resi conto, adesso, della necessità di invertire leposizioni. Sono le forme culturali qua e là adottate dagliuomini, le loro abitudini di vita passate e presenti, a deter-minare in larga misura il ritmo e l’orientamento della loroevoluzione biologica. Lungi dal dover domandarci se la cul -tura sia o no in funzione della razza, scopriamo che la raz-za – o quel che in genere si intende impropriamente cometale – è una delle tante funzioni della cultura.

Come potrebbe essere altrimenti? È la cultura di ungruppo a fissare i limiti geografici del territorio da esso oc-cupato, i suoi rapporti di amicizia o di ostilità con i popo-li vicini e, di conseguenza, la relativa importanza degliscambi genetici che, grazie agli intermatrimoni permessi,favoriti o vietati, potranno pro dursi tra di loro.

È noto, peraltro, che persino nelle nostre società i ma-trimoni non sono affidati completamente al caso. Vi inter-

128

Page 129: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

vengono, infatti, fattori consci o inconsci: distanza fra leabitazioni fami liari dei futuri sposi, origine etnica, religio-ne, livello di educazione, risorse familiari... Se è lecito farededuzioni a partire da usi e costumi che, fino a poco tem-po fa, erano largamente diffusi, si ammetterà che, fin daiprimi momenti della vita in società, i nostri antena ti han-no dovuto conoscere e applicare regole matrimoniali tali dapermettere o proibire un determinato tipo di imparenta-mento. Ne ho il lustrato qualche esempio nelle lezioni pre-cedenti. Regole del genere, applicate per generazioni, nonpotrebbero influire in maniera differenziale sulla trasmis-sione dei patrimoni genetici?

Non basta; difatti, regole di igiene praticate da ogni so-cietà, l’importanza e l’efficacia relative delle cure dispensa-te a questo o a quel tipo di malattia o di deficit mentale,consentono o prevengono, a gradi diversi, la sopravvivenzadi determinati indi vidui e la disseminazione di un materia-le genetico che, in mancanza di tali regole, avrebbe registra-to una più rapida scomparsa. Altrettanto dicasi degli atteg-giamenti culturali mostrati nei confronti di certe anomalieereditarie, e delle pratiche che colpiscono indiscriminata-mente i due sessi in certe congiunture – cosiddette nasciteanormali, gemelli etc. – o che, come nel caso dell’infanti-cidio, riguardano in modo particolare le bambine. Infine,l’età relativa degli sposi, la fertilità e la fecondità differen-ziali, a seconda del teno re di vita e delle funzioni sociali, al-meno in parte sono direttamente o indirettamente sottopo-ste a regole la cui origine, in definitiva, è sociale, non bio-logica.

L’evoluzione umana non è dunque un sottoprodottodel l’evoluzione biologica, benché non ne sia neppure com-pletamente distinta. La sintesi tra queste due posizioni di-venta possibile a patto che i biologi e gli antropologi si ren-dano conto dell’aiuto reci proco che possono prestarsi, edelle loro rispettive limitazioni.

129

Page 130: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

È probabile che, all’origine dell’umanità, l’evoluzionebiologica abbia selezionato caratteristiche preculturali, co-me la posizione eretta, l’abilità manuale, la socievolezza, ilpensiero simbolico, l’attitudine a vocalizzare e a comunica-re. È compito della cultura, invece, dal momento in cui co-mincia ad esistere, consolidare e diffondere que sti elemen-ti. Nel loro diversificarsi, le culture consolidano e favori-scono l’insorgere di altre caratteristiche, come la resistenzaal freddo, o al caldo, in società che, per amore o per forza,hanno dovuto adattar si a climi estremi, o come la resisten-za a una quantità rarefatta di ossigeno nell’aria, in societàche vivono ad alta quota, etc. E chi può escludere che gliatteggiamenti aggressivi o contemplativi, l’a bilità tecnica,etc. siano parzialmente legati a fattori genetici? Nessuno diquesti tratti, quali è dato registrare a livello culturale, puòessere collegato direttamente a una base genetica, ma nonsi po trebbe escluderne a priori l’effetto ultimo di nessi in-termedi. In tal caso, si potrebbe a ragione sostenere cheogni cultura selezio na attitudini genetiche che retroagisco-no sulla cultura, consolidandone l’orientamento.

Entrambi gli approcci sono in parte analoghi, e in par -te complementari. Analoghi perché, in più di un senso, leculture so no paragonabili a dosaggi irregolari di tratti gene-tici che, non mol to tempo fa, si designavano col termine«razza». Una cultura consiste in una molteplicità di carat-teristiche, alcune delle quali, a livel li diversi, sono comunia culture vicine o lontane, mentre altre separano le culturein maniera più o meno marcata. Queste caratteristiche siequilibrano all’interno di un sistema che, nell’una comenel l’altra ipotesi, deve essere vitale, pena la sua progressivaelimina zione da parte di altri sistemi, più adatti a propagar-si o a riprodursi. Ai fini dello sviluppo delle differenze, inmodo che diventino sufficientemente nette le soglie capacidi distinguere una cultura da altre confinanti, le condizio-ni sono, a grandi linee, simili a quelle che rendono possi-

130

Page 131: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

bili le differenze biologiche tra le popolazioni: relativo iso-lamento protratto nel tempo, scambi limitati, siano essi diordine culturale o genetico. A prescindere dall’ordine digrandezza, le barriere culturali svolgono la stessa funzionedelle barriere genetiche, prefigurandole tanto meglio inquanto tutte le culture lasciano nel corpo la loro impronta:con stili di abbigliamento, di ac conciatura e di ornamento,con mutilazioni corporali e con comporta menti gestuali, leculture imitano differenze paragonabili a quelle che posso-no darsi tra le razze. Col preferire certi modelli fisi ci ad al-tri, le culture li stabilizzano ed eventualmente li diffon -dono.

Trentaquattro anni fa, in un opuscolo intitolato Razzae storia, scritto su richiesta dell’unesco, invocavo il con-cetto di coali zione per spiegare che culture isolate non pos-sono creare da sole le condizioni di una storia autentica-mente cumulativa. Dicevo che, per questo, culture tra lo-ro differenti devono cambiare, volenti o nolenti, i loro ri-spettivi stili di vita, concedendosi pertanto la chance di rea-lizzare, nel grande gioco della storia, le serie lunghe che per-met tono a quest’ultima di avanzare.

Attualmente i genetisti formulano prospettive abba-stan za simili circa l’evoluzione biologica, come quandomostrano che un genoma costituisce in realtà un sistemanel quale alcuni geni giocano un ruolo di regolazione, altriinfluenzano insieme un solo carattere, o viceversa, nel casoin cui più caratteri si trovino a dipendere da un solo gene.Quel che è valido per il genoma individuale lo è anche peruna popolazione che debba essere sempre in condizioni ta-li (per la combinazione tra diversi patrimoni genetici, chesi realizza al suo interno) da permettere di stabilire un equi-librio ottimale, capace di migliorare le sue possibilità di so-pravvivenza. Si può dire, in que sto senso, che la ricombi-nazione genetica svolge, nella storia delle popolazioni, unruolo paragonabile a quello esercitato dalla ricombinazione

131

Page 132: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

culturale nell’evoluzione delle abitudini di vita, delle tecni-che, delle conoscenze, dei costumi e delle credenze. Infat-ti, individui predestinati dal loro patrimonio genetico adacquisire sol tanto una cultura particolare avrebbero discen-denti particolarmente svantaggiati: le variazioni culturali,cui questi ultimi sarebbero esposti, sopraggiungerebberopiù rapidamente dell’evoluzione del loro patrimonio gene-tico, e della sua diversificazione, prodotta in rispo sta alleesigenze generate da queste nuove situazioni.

Antropologi e biologi concordano dunque, oggi, nell’am-mettere che la vita in generale, e in particolare quella umana,non può conoscere uno sviluppo uniforme perché, sempre edappertutto, presuppone e genera la diversità. Questa diver-sità, intellettuale, sociale, estetica, filosofica, non è legata daalcun rapporto di causa ed effetto a quella che, sul piano bio-logico, esiste fra le grandi famiglie umane. Tra i due ordini didifferenze si dà un parallelismo solo su di un altro piano.

Ma in che cosa consiste, per la precisione, questa diver-sità? Invano si sarebbe ottenuta dall’uomo della strada la ri-nuncia ad attribuire un significato intellettuale o morale alfatto di ave re la pelle nera o bianca, i capelli lisci o crespi,perché egli tacesse di fronte a un’altra questione, nella qua-le questo stesso uomo della strada si impegna senza esita-zioni: se non esistono disposizioni razziali innate, come darconto del fatto che la civil tà occidentale ha registrato bennoti, immensi progressi, mentre le civiltà di popoli di altrocolore sono rimaste indietro, alcune a metà strada, altre conun ritardo accumulato nell’ordine di millenni o decine dimillenni? Non si potrebbe pretendere di aver risolto conuna risposta negativa il problema dell’ineguaglianza dellerazze umane, se non si riflettesse anche sul problema dell’i-neguaglianza – o della diversità – delle culture umane che,nella mentalità comune, è strettamente connesso al primo.

Ora, la diversità delle culture raramente è apparsa agliuomini quale essa è in realtà: fenomeno naturale che risul-

132

Page 133: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ta dai rapporti diretti o indiretti fra le società. Gli uomini,piuttosto, vi hanno scorto qualcosa di mostruoso o di scan-daloso. Dai tempi più remoti, una tendenza che si potreb-be ritenere istintiva, a giudicare da come è saldamente an-corata, spinge gli uomini a ripudiare pura mente e sempli-cemente i costumi, le credenze, gli usi e i valori più lonta-ni da quelli in vigore nella propria società. Gli antichi Gre-ci e gli antichi Cinesi denominavano i popoli estranei allaloro cultura adoperando termini traducibili con «barbari»,che, etimologicamente, sembrano evocare il cinguettìo de-gli uccelli. Si trattava di respingere i barbari tra gli anima-li; e anche il termine «selvaggio», da noi a lungo impiega-to, e che significa «della foresta», richiama un modo di vi-vere animalesco, in contrapposizione alla cultura umana.Tutto ciò attesta il rifiuto di ammettere il fatto stesso delladiversità culturale; si preferisce rigettare fuori della cultu-ra, nella natura – come mostra il vocabolo tedesco Na-turvölker –, tutto ciò che si allontana dalle norme sotto lequali si vive.

Invero, i grandi sistemi religiosi e filosofici – si tratti delbuddismo, del cristianesimo o dell’islam, delle dottrinestoica, kantiana o marxista, o infine delle diverse dichiara-zioni dei diritti dell’uomo – si sono costantemente pronun-ciati contro questo atteggiamento. Tuttavia, questi sistemidimenticano che l’uomo realizza la sua natura non in unaumanità astratta, ma in seno a culture tradizionali che sidifferenziano tra di loro a se conda dei luoghi e dei tempi.Stretti fra la duplice tentazione di con dannare esperienzeche li urtano moralmente, e di negare differenze da loronon comprese intellettualmente, i moderni hanno tentatocom promessi che li mettessero in grado sia di tener contodella diver sità delle culture sia di sopprimere quanto discandaloso e di sconvolgente essa conserva.

L’evoluzionismo, che a lungo ha dominato il pensierooccidentale, costituisce dunque un tentativo diretto a ri-

133

Page 134: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

durre la diversità delle culture, proprio mentre finge di ri-conoscerla in pieno. Infatti, se si considerano le differenticondizioni in cui versano le società umane, sia remote neltempo che lontane nello spazio, come altrettanti stadi otappe di uno sviluppo unico che le spinge tutte nella mede-sima direzione, la diversità che è dato osservare fra di lororisulta ormai solo apparente. L’umanità diventa unica e i -dentica a se stessa. Si dà il caso che questa umanità e que-sta iden tità si realizzino solo progressivamente, e non dap-pertutto allo stes so ritmo.

La soluzione evoluzionistica è seducente, ma sempli -fica abusivamente i fatti. Nella sua ottica peculiare ogni so-cietà può ripartire le altre società in due categorie: quelle aessa contemporanee, ma geograficamente lontane; e quellevicine nello spazio, ma a essa preesistenti.

Quando si considerano le società del primo tipo, si ètentati di stabilire tra di loro rapporti equivalenti a un ordi -ne di successione temporale. Come potrebbero società con-temporanee, che continuano a ignorare l’elettricità e lamacchina a vapore, non richiamare fasi arcaiche della civiltàoccidentale? Come non parago nare le tribù indigene senzascrittura e senza metallurgia, ma che disegnano figure sullepareti rocciose e fabbricano utensili di pietra, con i popolisconosciuti che, quindici o ventimila anni fa, produsseroun’attività analoga in Francia e in Spagna? Quanto «MedioEvo» viaggiatori occidentali non hanno ritrovato in Orien-te, quanta parte del «secolo di Luigi xiv» nella Pechino diprima della Grande guerra, quanta «età della pietra» fra gliindigeni dell’Australia o della Nuova Guinea?

Questo pseudoevoluzionismo mi sembra estremamen-te pericoloso. Delle civiltà scomparse conosciamo solo cer-ti aspetti, che sono tanto meno numerosi quanto più anti-ca è la civiltà considerata, poiché gli aspetti noti sono sol-tanto quelli che hanno potuto resiste re all’oltraggio deltempo.

134

Page 135: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Il procedimento consiste quindi nel prendere la parteper il tutto, nel desumere, dalla somiglianza fra certi aspet-ti di due civiltà (una attuale, l’altra scomparsa), l’identità ditutti gli aspetti. Ora, non soltanto questo modo di ragio-nare è logicamente in sostenibile ma, nella maggior partedei casi, è contraddetto dai fatti.

A titolo di esempio, ricordiamo le idee a lungo predo -minanti in Occidente circa il Giappone. In quasi tutti i la-vori redatti su codesto Paese fino alla Seconda guerra mon-diale, si poteva leg gere che, in pieno xix secolo, il Giappo-ne era rimasto sotto un regime feudale simile a quello co-nosciuto dall’Europa nel Medio Evo; e che solamente nel-la seconda metà del xix secolo, cioè con due o tre secoli diritardo, il Giappone era entrato nell’età capitalistica e si eraaperto all’industrializzazione. Tutto ciò ci risulta oggi esse-re falso. In primo luogo perché il presunto «feudalesimo»giapponese, di spirito militare, impregnato di dinamismo edi pragmatismo, non presenta che somiglianze superficialicol feudalesimo europeo. Questo «feudalesimo» rappresen-ta una forma perfettamente originale di organizzazione so-ciale. In secondo luogo, esistono altri motivi, ancora piùimportanti: già nel xvi secolo, il Giappone era una nazio-ne indu striale che costruiva, esportandole in Cina, decinedi migliaia di armature, di sciabole e, un po’ più tardi, diarchibugi e di cannoni. In quello stesso periodo, il Giappo-ne contava più abitanti di qualunque altro Paese europeo,un maggior numero di università, un più elevato tasso dialfabetizzazione; infine, un capitalismo mercantile e finan-ziario, che non doveva nulla all’Occidente, registrava unforte svilup po molto prima della restaurazione Meiji.

Lungi dunque dall’inscriversi, l’una dietro l’altra, inuna medesima linea di sviluppo, le due società hanno piut-tosto segui to vie parallele, adottando, però, in ogni mo-mento della storia, scelte che non necessariamente coinci-devano; un po’ come se, con le stesse car te in mano, ciascu-

135

Page 136: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

na avesse deciso di giocarle in un turno differente. Come amolti altri possibili paragoni, a quello tra Europa e Giap -pone è estranea la nozione di un progresso a senso unico.

Se tutto ciò è vero per società che sono coesistite neltempo, anche se molto lontane le une dalle altre, lo è altret-tan to per le società del secondo tipo, che poc’anzi ho di-stinto – ossia quelle che, in un luogo determinato, hannopreceduto storicamente la società attuale? L’ipotesi di un’e-voluzione unilineare, così fragile quando viene invocata al-lo scopo di collocare su di una medesima scala società geo-graficamente lontane, sembra in tal caso difficil mente elu-dibile. Le testimonianze della paleontologia, della preisto -ria e dell’archeologia concordano nell’indicare che i territo-ri oc cupati dalle grandi civiltà attuali furono inizialmenteabitati da specie diversificate del genere Homo, che taglia-vano grossolanamente la selce. Col trascorrere del tempo,questa attrezzatura viene affinata e perfezionata; la pietratagliata lascia il posto alla pietra levigata, all’osso e all’avo-rio; è quindi la volta della fabbrica zione del vasellame, del-la tessitura, dell’agricoltura, progressivamente associati allametallurgia, nella quale pure è possibile distingue re delletappe. Non si può parlare, in questo caso, di una vera e pro-pria evoluzione?

Tuttavia, non è così facile credere di poter disporre que-sti inconfutabili progressi in una serie regolare e continua.Per lungo tempo sono state distinte tappe successive: etàdella pietra tagliata, età della pietra levigata, età del rame,poi del bronzo, poi ancora del ferro... Era troppo sempli-ce. Sappiamo oggi che la levigatura e il taglio della pietratalora si sono affiancati l’una all’altro; e, quando prevale lalevigatura, si tratta non di un progresso tecnico – la mate-ria prima della levigatura, infatti, è più costosa del taglio –,ma di un tentativo di copiare su pietra le armi e gli uten -sili di rame o di bronzo in possesso di civiltà certamente più«avanzate», ma contemporanee e vicine a quelle dei loro

136

Page 137: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

imitatori. A secon da delle zone del mondo considerate, ilvasellame compare sia contestualmente alla pietra levigata,sia in una fase anteriore.

Sino a non molto tempo fa si riteneva che le tecnichedella pietra tagliata – industrie «a nuclei», «a schegge», «alamine» – corrispondessero a un progresso storico articola-to in tre fasi: paleolitico inferiore, paleolitico medio, paleo-litico superiore. Oggi si ammette comunemente che questetre forme hanno potuto coesistere, rappresentando non al-trettante tappe di un progresso a senso unico, ma aspetti o,come si dice, «facies», di una realtà molto complessa. Cen-tinaia di millenni, forse più di un milione di anni fa, indu-strie litiche furono opera di un antenato di Homo sapiens:Homo erectus. Ora, queste industrie attestano una comples-sificazione e un affinamento che sono stati superati solo al-la fine del neolitico.

Non si tratta di negare la realtà dei progressi compiutidall’umanità. Se ne deve avere semplicemente una pro -spettiva più sfumata. Lo sviluppo delle nostre conoscenzespinge a di stendere nello spazio forme di civiltà che si eraportati a scaglionare nel tempo. Il progresso non è necessa-rio, né continuo, perché si svolge per salti, per scatti o, perdirla con i biologi, per mutazioni. Questi salti e questi scat-ti non vanno ogni volta più lontano e nella stessa direzione,perché si accompagnano a mutamenti di rotta, un po’ comeil cavaliere del gioco degli scacchi, che ha sempre a di -sposizione più di un movimento, ma in direzioni diverse.L’umanità in progresso non somiglia ad un personaggio che,gradino dopo gradino, sale su per una scala, ma fa piuttostopensare a un giocatore la cui chance è distribuita su tanti da-di e che, ogni volta che li getti, li vede dispersi sul tavolo.Quel che si vince con una giocata si rischia sempre di per-derlo con l’altra, ed è solo per un colpo di fortuna che la sto-ria diventa cumulativa, vale a dire che i conti tornano in mo-do da formare una combinazione favorevole.

137

Page 138: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Ma come ci comporteremmo di fronte a una civiltà ca-pace di realizzare combinazioni favorevoli dal suo punto divista, ma prive di interesse per la civiltà cui appartiene l’os-servatore? Questi non sarebbe forse incline a definire que-sta civiltà come stazionaria? In altre parole, la distinzionefra storia stazionaria e storia cumulativa (una che accumu-la le scoperte e le invenzioni, e l’altra forse anche attiva, mache assisterebbe al dissolversi di ogni innova zione in unasorta di flusso e riflusso tale da non sottrarsi mai stabil-mente alla direzione originaria) non dipende forse dallapro spettiva etnocentrica che insistiamo ad assumere pervalutare una cultura diversa? Saremmo quindi portati aconsiderare come cumulativa qualsiasi cultura capace disvilupparsi in un senso analogo al nostro, mentre le altreculture ci sembrerebbero stazionarie, non necessariamen-te perché in effetti lo sono, ma perché la loro linea di svi-luppo non ha per noi alcun significato, non essendo mi-surabile nei termini del sistema di riferimenti da noi im-piegato.

Per far meglio comprendere questo punto, che ritengofondamentale, in passato ho fatto ricorso a molti paragoni,che adesso mi permetto di riprendere.

In primo luogo, l’atteggiamento da me denunciato so-miglia, sotto molti aspetti, a quello osservabile nelle nostrestesse società, dove gli anziani e i giovani non reagisconoagli avvenimenti nel la medesima maniera. Le persone an-ziane in genere considerano come stazionaria la storia chesi svolge durante la loro vecchiaia, in op posizione alla sto-ria cumulativa della quale sono stati testimoni in gioventù.Un’epoca in cui, da anziani, non si ha più un impegno, oin cui non si esercita più un ruolo, cessa di avere un senso.Non vi accade nulla, o ciò che accade si presenta, agli oc-chi degli anziani, sotto un aspet to negativo. Al contrario, iloro nipoti vivono questo pe riodo con tutto il fervore che iloro progenitori hanno perduto.

138

Page 139: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Nelle nostre società, gli avversari di un regime poli ticonon ne riconoscono mai volentieri l’evoluzione, ma lo con-dannano in blocco, lo rigettano fuori dalla storia, come unasorta d’inter vallo dopo del quale, finalmente, la vita nor-male riprenderà il suo corso. Del tutto diversa è la conce-zione dei militanti, e va notato che tan to più è diversaquanto più è importante il posto da loro occupato nell’ap-parato del partito al potere.

L’antitesi tra culture progressiste e culture conser vatricisembra allora dipendere da quella che si potrebbe definireuna differenza di messa a fuoco. Per chi osserva al microsco-pio, che si è «messo a fuoco» su di un corpuscolo piazzato auna certa di stanza dall’obiettivo, i corpuscoli che si trovanoal di là o al di qua, anche di uno scarto minimo, appaionoconfusi e offuscati, oppure non compaiono affatto.

Analogamente, per chi viaggia in treno, la velocità e lalunghezza apparenti di altri treni scorti dal finestrino varia-no a seconda che essi circolino nella medesima direzione oin quella opposta. Ora, ogni membro di una cultura vi èstrettamente legato, così come questo ideale viaggiatore lo èal suo treno. Sin da quando nasciamo, l’entourage familiaree sociale ci comunica un complesso sistema di riferimenti,composti da giudizi di valore, motivazioni, centri di interes-se, comprese le idee che ci inculcano a riguardo del passatoe dell’avvenire della nostra civiltà. Nel corso della nostra vi-ta, noi ci spostiamo letteralmente portandoci dietro questosistema di riferimenti, e i sistemi di altre culture, di altre so-cietà, sono accostati solo attraverso le deformazioni alle qua-li il nostro stesso sistema li sottopone, quando addiritturanon ci rende incapaci di vederne alcunché.

Ogni volta che siamo portati a definire una cultura co-me inerte o stazionaria, dobbiamo allora chiederci se questoapparente immobilismo non provenga dal fatto che non co-nosciamo i suoi veri interessi, e se, adoperando i suoi crite-ri, che sono diversi dai nostri, questa cultura non sia vittima

139

Page 140: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

della medesima illusione nei nostri confronti. Per dirla altri-menti, queste culture non porterebbero alcun interesse l’u-na all’altra semplicemente perché non si rassomigliano.

Negli ultimi due o tre secoli, la civiltà occidentale hapreferito dedicarsi alla conoscenza scientifica e alle sue ap-plicazioni. Se si adotta questo criterio, la quantità di ener-gia disponi bile per ciascun abitante della terra diventeràl’indicatore del gra do di sviluppo delle società umane. Se ilcriterio fosse stato rap presentato dalla capacità di vincereambienti geografici particolar mente ostili, gli eschimesi e ibeduini porterebbero la palma della vittoria. Più di qualun-que altra civiltà, l’India ha saputo elaborare un sistema fi-losofico e religioso capace di contenere i rischi psicologiciimplicati da squilibri demografici. L’Islam ha formulatouna teoria della solidarietà di tutte le forme di attività uma-na – tecnica, economica, sociale e spirituale –, ed è notoche questa visio ne dell’uomo e del mondo ha consentitoagli arabi di occupare un po sto preminente nella vita intel-lettuale del Medio Evo. Rispetto all’Occidente, l’Oriente el’Estremo Oriente possiedono un vantaggio di molti mil-lenni in ordine a tutto ciò che riguarda i rapporti fra il fisi-co e il morale, e l’utilizzazione delle risorse di questa mac-china superiore che è il corpo umano. Arretrati sui pianitecnico ed economico, gli Australiani hanno elaborato si-stemi sociali e familia ri così complessi che, per poter com-prenderli, c’è bisogno di fare appello a certe forme dellamatematica moderna. È possibile riconoscere negli abori-geni dell’Australia i primi teorici della parentela.

Il contributo dell’Africa è più complesso ma anche piùoscuro, perché cominciamo appena adesso a comprendereil ruolo di melting pot che questo continente ha esercitatonel Vecchio Mondo. La civiltà egizia è intelligibile solo co-me l’opera comune dell’Asia e dell’Africa. I grandi sistemipolitici dell’Africa antica, i suoi contributi al diritto, il suopensiero filosofico a lungo ignoto agli occidentali, le sue ar-

140

Page 141: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ti plastiche e la sua musica sono altrettanti aspetti di un pas-sato molto fecondo. Si pensi infine ai molteplici contribu-ti dell’America precolombiana alla cultura materiale delVecchio Mondo: innanzitutto, la patata, il caucciù, il ta-bacco e la coca (base dell’a nestesia moderna) che, a diversititoli, costituiscono quattro pilastri della civiltà occidenta-le; il mais e l’arachide, che rivoluzionarono l’economia afri-cana prima ancora di essere conosciuti in Europa e, comenel caso del mais, di diffondervisi; e poi ancora il cacao, lavaniglia, il pomodoro, l’ananas, il peperone, svariate speciedi fagioli, di cotone e di cucurbitacee. Infine lo zero, basedell’aritmetica e, indirettamente, della matematica moder-na, era conosciuto e utilizzato dai maya almeno cinque se-coli prima della sua scoperta da parte degli indiani, che locomunicarono all’Europa tramite gli Arabi. È forse que stala ragione per cui, alla stessa data, il calendario maya risul-ta va essere più preciso di quello del Vecchio Mondo.

Torniamo per un momento sul caso dell’Europa e delGiappone. A metà del xix secolo l’Europa e gli Stati Unitierano sicura mente all’avanguardia in materia di industria-lizzazione e di macchinismo. L’Occidente aveva saputo svi-luppare meglio la conoscenza scientifica per trarne ognisorta di applicazioni, capaci di permettere un notevole ac-crescimento del potere dell’uomo sulla natura. Ma ciò nonè vero allo stesso modo in tutti i campi, come quello dellametallur gia dell’acciaio e quello della chimica organica,tanto che i giappo nesi erano esperti nelle tecniche dellatempera e in quelle delle fermentazioni, il che spiega forsecome essi oggi siano all’avanguar dia in biotecnologia.Guardiamo ora alla letteratura. Solo nel xviii se colo assi-stiamo in Europa all’apparizione di opere paragonabili, persottigliezza e profondità psicologiche, al Genji monogatari;e, per ritro vare in un memorialista i voli lirici e la strazian-te melanconia dei vostri cronisti del xiii secolo, bisognaaspettare Chateaubriand.

141

Page 142: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Nella mia prima lezione, ricordavo che l’interesse per lecosiddette arti «primitive» risale, in Europa, a meno di unsecolo fa. In Giappone, un interesse del genere risale al xvi

secolo, con la passione manifestata dai vostri esteti per il va-sellame rustico, opera di umili contadini coreani. È a quel-l’epoca che, presso di voi, si affer ma il gusto per le materielasciate allo stato grezzo, per le tessi ture ruvide, per i difet-ti di fabbricazione, per le forme irregolari o asimmetriche,in una parola per ciò che Yanagi Sōetsu, il grande teorico diquesti stili arcaici, chiamò «l’arte dell’imperfetto». Questa«arte dell’imperfetto», prodotta al di là delle intenzioni daisuoi primi autori, andava a ispirare in Giappone la cerami-ca raku, le ardite semplificazioni di un maestro ceramistacome Kôetsu, e, sul piano grafico e plastico, l’opera di pit-tori e decoratori qua li Sōtatsu e Kōrin.

Ora – e si tratta del punto dove voglio arrivare –, que -sto aspetto dell’arte giapponese, illustrato dalla scuola Rim-pa, è pro prio quello che, nella seconda metà del xix seco-lo, affascinò l’Euro pa e fece evolvere la sua sensibilità este-tica. Ciò ha determinato una progressiva dilatazione dellacuriosità europea, che è giunta a integrare le cosiddette ar-ti primitive. Ma non lasciamoci trarre in inganno: a questainfatuazione l’arte giapponese aveva preparato l’Oc cidentesenza che questo lo sospettasse, perché ad arti simili per illoro arcaismo gli artisti giapponesi, che ho citato, si eranoispirati molti secoli prima, assimilandone la lezione.

L’esempio è poco rilevante, ma mi pare indicativo. Noicrediamo che le idee e i gusti progrediscano quando spesso,invece, si limitano a gi rare intorno. Si scambia così per unprogresso ardito il loro ritorno al punto di partenza.

Peraltro, non sono i contributi frammentati a dover at-tirare maggiormente l’attenzione. Per troppo tempo si è te-nuto conto di tutte le priorità: fenicia per la scrittura, inOccidente; cinese per la carta, la polvere da sparo, la bus-sola, indiana per il vetro e l’acciaio... Questi elementi non

142

Page 143: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

sono di importanza pari al modo in cui ogni cultura li as-socia, li conserva o li esclude. Quel che rende originale unacultura risiede, piuttosto, nella ma niera sua peculiare di ri-solvere problemi, di mettere in prospetti va valori che sonogrosso modo gli stessi per tutti gli uomini: tutti gli uomi-ni, senza eccezioni, possiedono infatti una lingua, tecniche,un’arte, conoscenze positive, credenze religiose, una orga-nizzazione sociale e politica. Ma il loro dosaggio non è maiprecisamente lo stes so per ogni cultura, e l’antropologia siapplica a comprendere le se grete ragioni di queste scelte an-ziché redigere inventari di fatti separati.

La dottrina alla quale ho appena accennato a grandi li-nee è nota col nome di relativismo culturale. Questa teorianon nega la realtà del progresso, né che si possano disporrecerte culture le une in rapporto alle altre, a condizione dilimitarsi a questo o a quel l’aspetto particolare. Il relativismoculturale afferma comunque che, per quanto ristretta, que-sta possibilità incontra tre limiti.

In primo luogo, se la realtà del progresso è inconte -stabile quando si consideri l’umanità in una prospettiva avolo d’uccello, il progresso tuttavia si manifesta in settoriparticolari, e anche qui in modo discontinuo, non esenteda stagnazioni e regressi locali.

In secondo luogo, quando l’antropologo esamina e con-fronta in dettaglio le società preindustriali, che costituisconoil suo principale tema di ricerca, è incapace di ricavare crite-ri che permettano di ordinarle tutte su di una scala comune.

Infine, l’antropologo si dichiara impotente a emettereun giudizio di natura intellettuale o morale sui rispettivi va-lori di questo o di quel sistema di credenze o di questa oquella forma di organizzazione sociale. Effettivamente, perl’antropologo i criteri di moralità sono, in ipotesi, una fun-zione della società particolare che li ha adottati.

È per rispetto verso i popoli da loro studiati che gli an-tropologi si vietano di formulare giudizi sul valore compa-

143

Page 144: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

ra to della cultura degli uni e degli altri. Essi sostengono chenessuna cul tura è essenzialmente capace di emettere un giu-dizio vero su di un’al tra cultura, poiché una cultura nonpuò evadere da se stessa, e quindi il suo apprezzamento re-sta prigioniero di un relativismo al quale non v’è rimedio.

Ora – e si tratta di uno dei problemi che si pongono al-l’antropologia odierna –, non è forse vero che, da un seco-lo circa, tutte le società hanno riconosciuto una dopo l’al-tra la superiorità del modello occidentale? Non vediamoche il mondo intero ne prende a prestito gradualmente letecniche, gli stili di vita, il modo di abbigliarsi e perfino ledistrazioni? Dalle masse asiatiche sino alle sperdute tribùdella giungla sudamericana o melanesiana, uno schiera-mento unanime, e senza precedenti nella storia, ha procla-mato, fino a un’epoca recente, la superiorità di una formadi civiltà su tutte le altre. Nel momento in cui la civiltà ditipo occidentale comincia a dubitare di se stessa, i popoliche hanno ottenuto l’indipendenza nel corso degli ultimicinquant’anni continuano a esaltarla almeno per bocca deiloro dirigenti, i quali si spingono ad accusare talvolta gli an-tropologi di prolungare pericolosamente la dominazio necoloniale, contribuendo, per l’attenzione esclusiva che viprestano, a perpetuare pratiche cadute in disuso, che costi-tuiscono un ostacolo allo sviluppo. Se mi è lecito evocareun ricordo personale, quando, nel 1981, percorrevo la Co-rea del Sud in compagnia di colleghi e studenti, questi ul-timi, come mi è stato riferito, dicevano tra di loro in tonobeffardo: «Questo Lévi-Strauss, si interessa solo a cose chenon esistono più». Il dogma del relativismo culturale è dun-que messo in discussione proprio da coloro a beneficio mo-rale dei quali gli an tropologi avevano creduto di dover for-mularlo.

Questa situazione pone all’antropologia, e all’umanitànel suo insieme, un grave problema. In queste tre lezioni,ho sot tolineato a più riprese che la progressiva fusione di

144

Page 145: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

popolazioni fi no a poco tempo prima separate dalla distan-za geografica, e da barriere linguistiche e culturali, segnavala fine di un mondo, che era stato il mondo in cui gli uo-mini, per centinaia di millenni, forse per uno o due milio-ni di anni, avevano vissuto in gruppi stabilmente divisi fradi loro e capaci di svilupparsi ciascuno in maniera differen-te, sul piano sia biologico sia culturale. Gli sconvolgimen-ti scatenati dalla espansione della civiltà industriale, conl’accresciuta rapidità dei mezzi di trasporto e di comunica-zione, hanno abbattuto queste barriere. Nel contempo so-no venute meno le opportunità offerte da queste barriere,per l’elaborazione e per il collaudo di nuove combinazionigenetiche e di nuove esperienze culturali.

Probabilmente ci culliamo nel sogno per cui l’egua -glianza e la fraternità regneranno un giorno fra gli uomini,senza che sia compromessa la loro diversità. Non bisognatuttavia farsi illusioni. Le grandi epoche creatrici furonoquelle in cui la comunicazione era diventata sufficiente perstimoli reciproci tra partners lontani, senza tuttavia essereabbastanza frequente e rapida perché gli ostacoli, indispen-sabili tra gli individui come tra i gruppi, si assottigliasseroal punto che una estrema facilità di scambi uniformasse econfondesse questa diversità.

Difatti, se è vero che, per progredire, gli uomini devo-no collaborare, nel corso di questa collaborazione s’identi-ficano gra dualmente gli apporti la cui diversità iniziale eraproprio ciò che rendeva feconda e necessaria la collabora-zione. Il gioco in comune, dal quale risulta ogni progresso,deve comportare, a più o meno breve scadenza, una omo-geneizzazione delle risorse di ciascun giocatore. Se la diver-sità è una condizione iniziale, va riconosciuto che le chan-ces di vittoria diventano tanto più deboli quanto più a lun-go deve durare la partita.

È questo il dilemma dinanzi al quale oggi, secondo l’an-tropologia, l’umanità moderna si trova. Tutto sembra ac-

145

Page 146: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

creditare la prospettiva di una civiltà mondiale. Ma proprioquesta espressio ne non è contraddittoria se, come ho ten-tato di dimostrare, l’idea di civiltà comporta e richiede lacoesistenza di culture il più possibile diverse tra di loro?

Il fascino che il Giappone esercita oggi sull’animo di tan-te persone, sia in Europa sia negli Stati Uniti, non riguardasol tanto i suoi progressi tecnici e i suoi successi economici,ma si spiega in gran parte con la confusa sensazione che, fratutte le na zioni moderne, la vostra si è mostrata la più adat-ta a navigare tra questi due scogli, la più capace di elaborareformule di vita e di pensiero idonee a superare le contraddi-zioni tra le quali l’umanità del xx secolo si dibatte.

Il Giappone è entrato con determinazione in una civiltàmondiale, senza tuttavia rinunciare, finora, ai suoi caratte-ri specifici. Quando, all’epoca della restaurazione Meiji, ilGiappone si è deciso ad aprirsi, si è convinto a dover egua-gliare l’Occidente sul piano tec nico per poter salvaguarda-re i propri valori. A differenza di tanti popoli, cosiddettisottosviluppati, il Giappone non si è consegnato, mani epiedi legati, a un modello straniero, ma si è temporanea-mente al lontanato dal suo centro di gravità spirituale soloper poter meglio tutelarlo proteggendo la sua orbita. È dasecoli che il Giappone si tiene in equilibrio fra due atteg-giamenti: da un lato è aperto alle influenze esterne, prontoad assorbirle; d’altro lato è ripiegato su di sé, come per con-cedersi il tempo di assimilare questi apporti esterni in mo-do da lasciarvi impressa la sua traccia. Questa stupefacentecapacità, mostrata dal Giappone, di alternare due atteggia-menti, di essere fedele sia a divinità nazionali sia a quelli chevoi stessi chiamate «dèi invitati», vi è probabilmente fami-liare, e io non pretendo di insegnarvi nulla. Vorrei soltan-to, con qualche esempio, avvicinarvi di più al modo in cuil’osservatore occidentale reagisce a queste idee.

Nella mia seconda lezione rilevavo con quale urgenza sipone il problema della salvaguardia delle abilità tradiziona-

146

Page 147: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

li. Voi avete risposto a questo problema con l’istituire il si-stema dei «tesori nazionali viventi», ningen Kokuhō. Nonpenso di violare un segreto di Stato se vi informo che i pub-blici poteri nel mio Paese preparano attualmente provvedi-menti rivolti a stabilire in Francia un sistema direttamenteispirato al vostro.

Un altro aspetto della vostra storia che, per noi Francesi,è particolarmente istruttivo pertiene alle modalità differenti– se non addirittura opposte – con le quali i nostri due Pae-si so no entrati nell’era industriale. In Francia, una borghesiacomposta da avvocati e burocrati, alleata a contadini avidi dipiccola proprietà, ha fatto una rivoluzione che, contestual-mente, ha soppresso antichi privilegi e ha soffocato un capi-talismo nascente. Il Giappone, da parte sua, ha proceduto auna restaurazione che, risalendo alle origini, mirava anche aintegrare il popolo nella comunità nazionale, ma capitaliz-zando il passato, invece di distruggerlo. Il Giappone ha cosìpo tuto mettere al servizio del nuovo ordine risorse umanepienamente disponibili, perché lo spirito critico non avevaavuto il tempo di provocare i suoi guasti e perché tutto un si-stema di rappresentazioni simboliche, risalente all’epoca pre-cedente la produzione del riso e già da questa integrato, eraancora abbastanza solido da dare una legittimazione ideolo-gica al potere imperiale, e poi alla società in dustriale...

In conclusione, lo sguardo che noialtri occidentali vol-giamo al Giappone ci conferma nella persuasione che ognicultura particolare, e l’insieme delle culture di cui è fattatutta l’umanità, possono sussistere e prosperare solo secon-do un duplice ritmo di aper tura e di chiusura, sia sfasate l’u-na in rapporto all’altra, sia coesistenti nella durata. Per po-ter essere originale, e per poter mantenere, di fronte alle al-tre culture, scarti che permettano loro un reciproco arric-chimento, ogni cultura deve a se stessa una fedeltà il cuiprez zo è una certa sordità a valori differenti, ai quali essa re-sterà to talmente o parzialmente insensibile.

147

Page 148: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Voi mi avete concesso l’onore di tenere queste lezioni,persuasi forse che l’antropologia possa insegnare qualcosa alGiappone. Se però, ed è la quarta volta, mi reco nel vostroPaese con una curiosità, una simpatia, un interesse semprepiù vivi, la ragione – ogni soggiorno mi rafforza nella miapersuasione – è che, per il suo modo originale di affronta-re i problemi dell’uomo moderno e per le soluzioni sugge-rite, il Giappone può insegnare molto all’antropologia.

148

Page 149: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Prefazione pag. 5di Salvatore AbbruzzeseIntroduzione 25di Lorenzo ScillitaniPrima lezione 63Seconda lezione 93Terza lezione 123

Indice

Page 150: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Finito di stampare nel mese di novembre 2010da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali

per conto di Rubbettino Editore Srl88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)

Page 151: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]

Le bighe

1. Manuele ii Paleologo, Dialoghi con un Persiano

2. Victor E. Frankl, Lettere di un sopravvissuto

3. Ralph Waldo Emerson, Condotta di vita

4. Gilbert Keith Chesterton, L’uomo eterno

5. Michael Ende, Storie infinite

6. Claude Lévi-Strauss, Lezioni giapponesi

Page 152: [20120912] C. Levi-Strauss - Lezioni Giapponesi [1986]