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Consiglio di Quartiere Comune di ULSS 16 di 4 sud-est Padova Padova Progetto di prevenzione delle dipendenze 2009 - 2010

2009 - 2010€¦ · Per questo gli adulti faticano a tener dietro ai cambiamenti dei ragazzi, i quali ritengono importanti cose che per gli adulti non lo sono. Cambiano le relazioni

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Consiglio di Quartiere Comune di ULSS 16 di

4 sud-est Padova Padova

Progetto di prevenzione delle dipendenze

2009 - 2010

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Progetto di prevenzione delle dipendenze

percorso formativo per adulti che hanno a che fare con gli adolescenti

2009 - 2010

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Redazione a cura di

Donatella Ambrosi - Vice Presidente dell’Associazione “Centro Iniziative Nuove”

Maria Rita Pian - Collaboratrice dell’Associazione “Centro Iniziative Nuove”

Stampato presso EFFETI s.r.l. – Via T. Minio Padova

Anno 2010

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Presentazione

Il C.I.N. è un’associazione che si occupa di tossicodipendenze, per meglio dire si

occupa di persone che sono incorse nella dipendenza e delle loro famiglie.

La tossicodipendenza è una condizione dolorosa e molto se ne è discusso negli

incontri di formazione organizzati negli anni precedenti.

Ora si è voluto porre l’attenzione in particolare su quel “prima”, su quella

“normalità” che è stata il preludio non riconosciuto del problema. Abbiamo provato

ad entrare in quel territorio in cui gli adolescenti affrontano le molte contraddizioni

implicite nell’imparare a “diventare grandi”, mentre i “grandi” sembra non riescano

a trovare una dimensione adeguata di incontro e di dialogo con i giovani.

Il titolo di questo corso dice che noi crediamo si possa costituire una sorta di

armonia tra due generazioni, accettando le difficoltà del cambiamento, riflettendo

su se stessi, cercando le cose che contano.

Forse così si possono evitare o attenuare altri esiti, altre condizioni che non

vorremmo mai incontrare.

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“Quando l’adolescente “fa muro” l’adulto che fa ?”

Interviene Francesco Vezzù - responsabile Comunità Incontro del Triveneto

L’adolescenza è un periodo di profonde trasformazioni, che segnano il passaggio dalla pubertà

all’età adulta e che investono la sfera fisica, quella sessuale e affettiva, quella cognitiva e morale

della persona.

Questo passaggio viene vissuto più o meno serenamente in relazione alle soluzioni che sono

state offerte al bambino, in età infantile, in rapporto alla stima di sé e alla conquista di piccole, ma

significative autonomie.

L’adolescenza è caratterizzata da aspetti fortemente contrastanti, che riguardano l’incertezza

causata dalla perdita dell’immagine infantile di sé e dalla spinta all’autonomia.

Conseguentemente il compito degli adulti non è facile: anch’essi devono perdere l’immagine di sé

come genitori di un bambino e acquisire nuovi comportamenti nel vortice delle mutazioni del figlio

adolescente.

Le cose si complicano quando, accanto all’adolescenza

fisiologica dei figli, permane una protratta adolescenza

di adulti che faticano a riconoscersi come tali e in tal

modo producono un allarmante vuoto di figure di

riferimento nel mondo dei ragazzi.

L’adolescente “fa muro” quando non vuole che un

adulto entri nel suo mondo, perché vuole rendersi

indipendente, perché teme il confronto, perché sta

cercando una nuova definizione di sé, o una personale

autonomia.

Che fare?

E’ necessario che un genitore abbia un quadro chiaro di quello che è stato il suo rapporto con il

figlio fino dalla nascita e rifletta sul fatto che l’abitudine al dialogo si instaura da piccoli.

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E’ frequente sentire un genitore lamentarsi perché “non riconosco più mio/a figlio/a!”

Ciò accade inevitabilmente: un adolescente è anche il

bambino di prima, ma è soprattutto un individuo in

trasformazione, quindi una persona nuova.

I genitori dovranno riflettere su se stessi e chiedersi se sono,

loro per primi, abituati al dialogo di coppia e quindi se sono

aperti al dialogo con i figli.

Dialogo significa ascolto, osservazione attenta, accettazione

del fatto di non essere più i soli punti di riferimento, restando

tuttavia figure fondamentali, importanti, anche se in un altro

modo.

Se non c’è questa apertura gli adolescenti hanno davanti a sé il vuoto e tendono facilmente ad

occuparlo con le più svariate soluzioni.

Molto spesso gli operatori delle strutture che accolgono persone con problemi di dipendenza

incontrano genitori che chiedono chiarezza da e per i figli (“non capisco che cosa sia successo” ,

“perché ha iniziato?”, “dove ho sbagliato?”…) ma spesso non hanno ancora cominciato a fare

chiarezza in se stessi.

Molto spesso questi adulti disorientati narrano di situazioni famigliari intricate, di famiglie allargate,

in cui i ruoli sono confusi, di un’educazione delegata alla scuola, allo sport, alle parrocchie, ma

scarsamente gestita in casa.

In queste situazioni l’adolescente, già immerso nella propria inevitabile confusione, vede

aumentare il proprio disagio e tende ancor di più a sfuggire al mondo degli adulti.

Questo disagio viene manifestato con chiari segnali, che a volte o non vengono notati, o vengono

sottovalutati: Il ragazzo trascura la propria persona o esaspera aspetto e abbigliamento, mentre

progressivamente il profitto scolastico cala o precipita; lui (o lei) fa quasi esclusivamente

riferimento al gruppo, cambia o nasconde i propri interessi, si isola, non risponde se interpellato,

rientra sempre più tardi, esclude i genitori dal suo mondo e così via.

Nulla avviene per caso: il “muro” indica sempre un disagio, una richiesta criptata che, se non è

raccolta, può provocare emarginazione, fuga, anche attraverso l’uso di sostanze.

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Occorre ripristinare il ruolo dei genitori, che non sono e non possono essere “gli amici” dei figli, non

possono prestarsi ai “giochi” dell’adolescente, né “giocare” a loro volta per sfuggire alle proprie

responsabilità.

Occorre che gli adulti con cui i giovani sono in contatto (quelli che vengono chiamati adulti

significativi, perché significano molto per i ragazzi come punti di riferimento) siano in grado di fare

rete, cioè di fare squadra.

E’ utile che i genitori si confrontino tra di loro, è bene che le istituzioni siano in reciproco

collegamento ( scuola – famiglia – parrocchie – centri sportivi – etc.).

Se non ci sono collaborazione e chiarezza tra gli adulti, gli adolescenti piombano in un personale

burrone, si chiudono in una personalissima interpretazione dei comportamenti dei genitori e degli

adulti in genere (“tanto non gliene importa niente” – “tanto non capiscono”…), vivono una vita

parallela che i grandi neanche immaginano.

Sono importanti le testimonianze, di seguito qui riportate, di genitori e di figli che, ripercorrendo la

propria storia, identificano in essa i “muri” eretti per comportamenti e atteggiamenti non adeguati

da entrambe le parti.

Una madre: ricorda che nella sua famiglia d’origine i componenti sapevano comunicare nella

leggerezza e nello scherzo, ma non nella fatica e nel dolore. Mancava la

capacità di esprimere e condividere la insicurezza inevitabile di alcuni momenti

della vita. Dice che questo forse ha determinato anche il suo comportamento

verso il figlio, che lei ha considerato in grado di farcela da solo anche nei

momenti difficili. Il figlio prima “ha fatto muro”, poi è fuggito, attraverso l’uso di

sostanze. Solo dopo la comunità madre e figlio sono riusciti a spiegare

reciprocamente le loro difficoltà, in breve a comunicare.

Una ragazza: ricorda la separazione dei genitori, avvenuta quando era ancora piccola. Non

capiva questa sofferenza e aspettava chiarezza dagli adulti. La mamma riusciva

a parlarne. Il papà no. Ricorda di essersi sentita molto, troppo, responsabilizzata

tra i dieci e i diciassette anni. A diciotto la devianza, la dipendenza dalle

sostanze. E la costante ricerca del padre. L’ha ritrovato durante il periodo

trascorso in comunità.

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Una donna: parla del marito e del figlio. Tutti e due “facevano muro” tutti e due incapaci di

esprimere alcunché. Il tempo spesso radicalizza le resistenze. Il silenzio spesso

è una muta richiesta che non ha imparato parole per dirsi.

Una madre: ha quattro figli. Rimasta vedova quando l’ultimo era molto piccolo, ricorda di aver

fatto “blocco unico” con i più grandi per affrontare i problemi economici e

mandare avanti un’attività. Una famiglia molto unita, in cui il piccolo era forse

troppo piccolo per restare senza padre, e forse per questo troppo protetto, troppo

giustificato. E poi la droga.

Una madre: parla della figlia, adottata all’età di cinque anni, dopo essere stata respinta più

volte da altre famiglie, dopo aver sperimentato la fuga, la solitudine, la fame.

Purtroppo nell’ultima coppia adottiva ben presto emergono contrasti relativi alla

linea educativa e non solo. Il padre dichiara di non aver accettato a suo tempo

l’adozione. La coppia si separa. Fragilità si somma a fragilità, una ulteriore

lacerazione si somma alle precedenti. Emergono problemi di salute a cui segue

un lungo itinerario tra medici ed esami. Poi tutto precipita: la bambina è cresciuta,

comincia a frequentare un giro di gente che usa “roba”, cerca rapporti con uomini

più grandi di lei, in modo compulsivo sembra cercare sempre individui forti e

violenti. Ricerca del “macho” o ricerca del padre?

Un sacerdote: animatore di gruppi parrocchiali giovanili, osserva che gli adolescenti che

provocano, con il loro comportamento costringono gli adulti a mettersi in

discussione e a cambiare. Tuttavia gli adulti devono riconoscere che da soli non

ce la fanno a reggere l’urto di una adolescenza problematica. Ribadisce che

occorre “fare rete”, occorre imparare a comunicare tra adulti ed è sempre più

necessario strutturare dei percorsi di formazione per chi ha a che fare con

adolescenti.

Aggiungiamo qui che non bisogna dimenticare il compito delle istituzioni e, se necessario,

richiamarle alle responsabilità che sono e che devono essere loro proprie nei confronti delle nuove

generazioni. Anche in questo campo c’è molto, anzi moltissimo da fare.

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“Adolescenti e valori. In che cosa credono, in che cosa non credono,

in che cosa vorrebbero credere?”

Interviene dott. Matteo Paduanello - Psicologo consulente “Contatto Giovani” di Padova

Le osservazioni qui riportate provengono dai colloqui con i ragazzi che arrivano al consultorio

“Contatto Giovani” di Padova da soli, cioè senza la mediazione degli adulti, e dagli incontri con le

classi di diverse scuole in corsi di educazione sessuale e dagli sportelli d’ascolto aperti presso

molti istituti della città.

I ragazzi, prevalentemente adolescenti, sono molto gelosi della loro privacy e molto cauti nel fidarsi

di un adulto per comunicare il proprio disagio e le proprie insicurezze.

Questo atteggiamento è coerente con il momento evolutivo dell’adolescenza, in cui il distacco dagli

adulti è vissuto come una necessità, una conquista e un pericolo insieme.

L’individuo vive dopo la nascita un periodo di assoluta simbiosi con la madre, funzionale alla sua

stessa sopravvivenza; gradualmente la relazione si apre alla presenza del padre. Le due figure si

affiancano poi nelle funzioni di accoglienza, protezione e insegnamento delle norme.

Nell’adolescenza il ragazzo entra in rapporto con il mondo, contemporaneamente cerca un proprio

spazio di crescita: dipende ancora dagli adulti, ma li respinge, vive nel gruppo, ma cerca una

propria identità.

Per questo gli adulti faticano a tener dietro ai cambiamenti dei ragazzi, i quali ritengono importanti

cose che per gli adulti non lo sono.

Cambiano le relazioni in famiglia e fuori, per esempio nella scuola. Un tempo, fino a 20 anni fa

circa, famiglia e scuola condividevano, più o meno, gli stessi criteri o linee educative simili.

Ora non più: famiglia e scuola appaiono scollegate, se non nettamente divergenti o addirittura in

contrasto su metodi e criteri.

Ciò non è andato certo a vantaggio dei ragazzi: per loro lo scollamento tra le linee guida delle varie

agenzie educative ha creato una notevole sfasatura nei punti di riferimento, con la conseguente

perdita di fiducia nella comunità e la tendenza a rifugiarsi nel proprio piccolo mondo.

Va detto che attualmente il senso della comunità civile va languendo, prevale l’individualità (o

l’individualismo) insieme all’adeguamento esasperato agli stereotipi di massa.

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Non è corretto affermare, come a volte si sente da più parti, che “i giovani non hanno valori”; in

effetti i giovani hanno dei valori, ma ognuno i propri.

I ragazzi che si presentano al consultorio evidenziano stati di ansia generalizzata, insicurezza,

insoddisfazione.

Soprattutto non sono in grado di progettare il futuro; non possiedono il passato né come

riferimento, né come memoria: colpisce sempre più frequentemente il fatto che non c’è un racconto

che leghi le varie generazioni nelle famiglie; prevale il “qui e ora” anche nei genitori e qualche volta

pure nei nonni.

Il futuro è ancora meno ipotizzabile: le informazioni percepite dai ragazzi smentiscono la possibilità

di un futuro praticabile (non c’è lavoro, c’è crisi, non avranno la pensione né la continuità lavorativa

e così via)

Sembra che non abbiano molti obiettivi: gli obiettivi servono non solo e non tanto per essere

compiutamente raggiunti , ma soprattutto per tracciare un percorso verso una meta, servono a

strutturare una progettualità di vita.

I ragazzi sono in difficoltà a rispondere se sono

interpellati sul loro futuro, perché non riescono a

immaginarlo, a ipotizzarlo.

In questo quadro di incertezza diffusa gioca un

ruolo significativo la “adolescentizzazione” dei

genitori.

Diventare adulti costa caro: significa raggiungere

l’autonomia, gestire la propria libertà esercitare il

proprio senso di responsabilità.

Queste mete sembrano essere oscurate per consenso condiviso.

Si crea così un vuoto comunicativo tra “adulti” e “adolescenti”, riempito spesso dalla richiesta,

dalla concessione e dal passaggio di beni materiali.

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Non è infrequente la falsa comunicazione la bugia, che è indicativa di un distacco dalla realtà

quando anche non accada che mentitore e ingannato si scambino i ruoli o siano complici.

Si verifica un passaggio fondamentale dal tempo del desiderio al tempo della speranza. Nella

speranza si cerca il percorso facile: il modello comportamentale non riguarda tanto “ciò che farò”,

ma “come starò”, vissuto al livello più individuale possibile.

Il tempo del desiderio è anche il tempo del progetto, del lavoro per raggiungere una meta, della

capacità di misurarsi con la realtà e questo fa paura.

Queste paure riguardano significativamente anche gli adulti. E gli adulti influenzano

inevitabilmente i ragazzi con il loro comportamento. Se i figli hanno, per esempio, genitori capaci di

vita comunitaria, matureranno comunque una sensibilità sociale, il senso della comunità e della

collaborazione.

Se gli adulti temono il futuro, i figli lo vedranno comunque come una minaccia perché non avranno

acquisito nessun tipo di fiducia.

I ragazzi che si recano agli sportelli di ascolto evidenziano

anche un’altra difficoltà: l’analfabetismo emotivo, cioè

l’incapacità di tradurre in parole e comunicare i propri vissuti

emotivi e i propri sentimenti.

Anche questo si impara in famiglia: non sono molti gli adulti

che sanno comunicare vissuti e sentimenti o che sanno

accogliere quelli degli altri nell’ascolto.

Ciò è frequentemente dovuto ad un eccesso del “fare”, ad

un accumulo di impegni (scuola, lavoro ecc.) o di attività che

diventano impegni (nuoto, palestra, sport ecc.)

Manca il tempo del non fare niente, cioè il tempo in cui si entra in colloquio con se stessi per

ritrovarsi e percepire la propria realtà e la propria interiorità.

Purtroppo l’emotività è considerata a volte un difetto, ma la gestione e la elaborazione delle proprie

emozioni è fondamentale, come è necessario che esse siano prima riconosciute e accolte.

Altro scoglio per gli adolescenti è il raggiungimento di una sana stima di sé: tendono a misurarla su

parametri che per loro sono fondamentali (il vestito, l’aspetto, l’accettazione del gruppo); valori che

un tempo erano socialmente condivisi (la verginità per es.) ora sono decisamente passati al rango

di disvalori.

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Le cose si complicano se a loro volta gli adulti non hanno stima di sé.

Quando i ragazzi lanciano messaggi estremi come “voglio morire perché la vita non ha senso”, gli

adulti restano sbigottiti e senza parole. Evidentemente non esiste una risposta adeguata a simile

affermazione, tuttavia non è importante tanto il contenuto espresso, quanto la forma, il modo

dell’accoglienza, l’apertura a un possibile dialogo, perché no? anche sul senso della vita.

Appare evidente, dall’ascolto delle narrazioni dei ragazzi, la necessità che gli adulti sappiano

spendere del tempo con e per loro. In famiglia e fuori.

Troppa solitudine trova un riempimento illusorio davanti a un televisore acceso o davanti a un

computer, in un mondo di relazioni virtuali.

Nei rapporti reali sono impliciti l’incontro e lo scontro con l’altro, il confronto con dei “no” e dei “sì”,

la modulazione dei ruoli reciproci, la necessità, l’opportunità, la misura delle regole.

Le regole sono necessarie . I ragazzi privi di regole da rispettare non sono liberi, ma soltanto privi

di punti di riferimento. Disorientano di più i genitori ambigui che quelli rigidi.

Gli adolescenti spesso sembrano non credere in niente, in realtà vorrebbero credere in molte cose

come, ad esempio:

che ci sia una possibilità per loro al di là dei valori o degli schemi standardizzati

che gli adulti siano in grado di ascoltarli senza giudicarli

che gli adulti abbiano la forza e la pazienza di ascoltare quello che essi dicono per cogliere

quello che c’è dietro

che gli adulti credano di più nella vita perché anche loro possano crederci.

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“I Progetti di prevenzione nelle scuole. Presentazione di un progetto

realizzato in un biennio superiore. Osservazioni e considerazioni”

Interviene dott.ssa Monica Lazzaretto - responsabile Centro Studi Cooperativa “Olivotti” di Mira

Prevenire i rischi di devianze e di dipendenza in soggetti preadolescenti e adolescenti significa

agire a livello educativo prima che si creino le premesse dei comportamenti a rischio.

Il compito di educare è affidato prioritariamente ai genitori, perciò alla famiglia, quindi a tutte le

strutture che abbiano da interagire con i giovani. Importante è il compito educativo della scuola.

I progetti di prevenzione nella scuola devono avere come obiettivo l’educazione al benessere e la

promozione della salute integralmente intesa, quindi anche libera da sostanze.

A quale età è opportuno lavorare con i ragazzi su questi elementi? Si potrebbe rispondere: da

subito.

Attualmente sappiamo che molti ragazzi usano alcool o sostanze psicoattive già in seconda e terza

media.

A dodici – tredici anni in loro funziona il pensiero lineare, per cui non suppongono che cosa possa

accadere in conseguenza di ciò che fanno.

Spesso frequentano ragazzi più grandi che già fanno uso di sostanze.

Quando sono coinvolti nel gruppo, i più piccoli vengono facilmente incastrati in caso di controlli e

devono poi vedersela da soli con la giustizia e con le famiglie.

Come si lavora con i ragazzi di questa età?

In molti modi: esistono progetti che mirano a far lavorare i ragazzi in gruppo, in attività centrate sul

corpo sulla socialità, sulla fiducia e sull’autostima.

E’ essenziale coinvolgere nei progetti proposti alle scuole insegnanti e genitori; prima di iniziare le

attività nelle classi è opportuno che l’operatore incontri almeno due volte i docenti e almeno una

volta i genitori, sia per presentare il progetto che per coinvolgerli come parte attiva.

I progetti si possono tranquillamente sviluppare attraverso le attività curriculari, cioè senza

interrompere il programma scolastico, ma aprendolo a prospettive di approfondimento.

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Il lavoro inoltre può essere continuato in famiglia, attraverso la discussione e la riflessione comune,

tenendo presente che il dialogo aperto in famiglia è una delle migliori forme di prevenzione.

Appare chiara attualmente la necessità di affrontare il tema dell’uso di sostanze, nei modi dovuti,

sempre più precocemente. Questo perché se in altri tempi e in altre culture le “droghe” erano usate

e gestite in modo elitario, all’interno di un percorso iniziatico, secondo precise esigenze e rituali

prestabiliti, nella realtà odierna, invece, l’uso di sostanze è generalizzato, facilmente accessibile e

prescinde da quel tipo di esigenze.

Il progetto che qui di seguito viene presentato è stato realizzato con classi di studenti del biennio

delle superiori.

E’ stato preparato secondo le modalità sopra indicate (incontri, percorsi concordati con genitori e

docenti etc.) ed ha utilizzato la proiezione di un video in cui quattro ragazzi in fase di “rientro”, cioè

nell’ultimo passaggio del percorso riabilitativo comunitario, parlano della loro esperienza.

Nel video, in una ambientazione fortemente simbolica, su un sentiero in mezzo al verde, quindi in

cammino, i ragazzi alternano, come a rispondere ad una intervista, le loro voci e narrano i momenti

delle loro storie: le premesse e l’avvio all’uso di sostanze, la dipendenza, il buio, la ripresa, le

nuove consapevolezze.

All’inizio portano sul volto una maschera bianca, per tutti uguale, che cade dalle

loro mani nel momento in cui raccontano di quando sono rinati a se stessi.

E’questo il punto che ha colpito molto i ragazzi che hanno assistito alla proiezione

e che hanno colto il significato profondo delle immagini e il senso dell’intero

messaggio.

Dopo la proiezione si apre il dibattito: reazioni, impressioni, domande, emozioni, opinioni

dovrebbero scaturire spontaneamente dal gruppo, invece di solito i ragazzi (di due o tre classi

riunite) non parlano con facilità, anzi, a volte non parlano proprio.

Allora si propone loro di inviare degli sms ad un cellulare, quello della terapeuta che funziona da

centro di ascolto.

Spesso in questa forma i ragazzi riescono ad esprimere commenti, dubbi, richieste di informazioni,

sicuri di non esporsi e di avere una risposta.

Si è notato che arrivano alle comunità ragazzi sempre più giovani con problemi di dipendenza; il

lavoro con loro è più difficile di un tempo, perché sono sempre meno strutturati, più immaturi,

anche a livello di ideazione.

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Questi ragazzi, però, dopo il percorso di formazione portano agli operatori informazioni e

indicazioni preziose, che poi vengono utilizzate per impostare le attività di prevenzione.

Non bisogna dimenticare che l’uso di sostanze è una porta di

accesso a spazi profondi della mente: molti di noi hanno dentro

luoghi oscuri, i cui contenuti restano latenti. La droga

paradossalmente apre loro la via, li porta allo scoperto, li

riconsegna alla comprensione, alla elaborazione e alla

comunicazione, una volta che siano ricondotti alla

consapevolezza.

Si è detto che a dodici-tredici anni i ragazzi agiscono secondo gli schemi del pensiero lineare: non

sono in grado cioè di rappresentarsi mentalmente ciò che potrà succedere a seguito delle loro

azioni.

Spesso le sostanze vengono usate per disinibire i comportamenti, con la conseguenza, per

esempio, che il 25% degli adolescenti nel veneto ha rapporti sessuali non protetti, credendo che il

preservativo serva al più ad evitare una gravidanza e non a proteggere dalle malattie.

Le ragazze in genere si rivolgono al consultorio il giorno dopo aver avuto un rapporto non protetto,

i ragazzi si limitano a sperare “che non succeda”, ma non prendono iniziative.

La prevenzione deve mirare, al di là della illusione che gli adolescenti “non lo facciano” a spostare

più avanti le esperienze, almeno fino alla formazione di un pensiero più organico e articolato.

Le storie di Manuel, Lisa, Enrico, Riccardo (i nomi sono ovviamente di fantasia) offrono altri dati

alla comprensione del problema: innanzitutto ci dicono che ogni storia di droga è una storia a sé;

inoltre che all’inizio di queste storie ci sono delle fragilità latenti non riconosciute, delle

contraddizioni che esplodono proprio durante l’adolescenza e con l’uso di sostanze.

Le storie

Manuel: ha 28 anni. A quattordici si lascia prendere dal fascino di amici più grandi, che

frequenta perché anche lui così si sente più grande. Loro usano sostanze. E lui

con loro comincia ad usarle. Dopo il servizio militare passa decisamente a “roba

pesante”. Eroina e discoteche. La discesa è rovinosa. Finché non si arrende alla

propria impotenza e chiede aiuto. Entra in comunità: chiama questa decisione “la

scelta per la mia vita”

Lisa: ha 32 anni. Dice che non le è mai mancato niente. Esce di casa e cambia città

per frequentare le superiori. E’ in classe con ragazzi che si ritengono “fighi”,

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perché si divertono e usano “roba”. Anche lei vuole divertirsi così comincia. E poi

continua. La fine della scuola è un trauma. Frequenta compagnie spericolate, è

sempre più invischiata. Prova a chiedere aiuto a casa, ma intanto passa

dall’eroina alla cocaina, perché “è una droga più rispettabile”. Rotola in altri

ambienti. Passa dalle sostanze all’alcool. Dice: ogni persona ha la sua storia.

Ora è in comunità.

Simone: ha 32 anni. Da bambino era molto timido e frequentava ragazzi più grandi di lui.

Alle medie tenta invano di farsi vedere più disinvolto. Allora ricorre all’alcool per

disinibirsi quando è in compagnia. Dice di sé: “ero tutto immagine”. Comincia a

lavorare e continua a bere , ma si autogiustifica per il suo comportamento.

Dall’alcool passa alla cocaina. Sfrutta gli amici e diventa sempre più aggressivo.

Viene arrestato per maltrattamenti ai familiari. Poi entra in comunità “per trovare

un punto di riferimento.

Enrico: ha 27 anni. In famiglia una situazione difficile da sempre, fatta di aggressività e

violenza. Sta meglio quando è a scuola. Alle superiori trova amici diversi. Dice di

sé: “non sapevo cosa volevo”. Prova con le canne “per non pensare a niente” ed

è convinto di aver trovato la soluzione perché “i casini di casa non pesano più”.

Per non pensare occorre sempre più “roba”: pasticche, eroina, coca. Lascia

famiglia, amici e lavoro. Poi si rende conto che le sua vita è vuota. Entra in

comunità, dove c’è da fare fatica. Come tornare indietro per andare avanti.

Adesso riconosce se stesso in molti ragazzi di quindici/sedici anni. Vorrebbe dire

loro di non fare come lui, di non “raccontarsi balle”

Riccardo: ha 28 anni. Viene da una famiglia che sembra normale, invece la coppia non

funziona. Il padre marcia ad alcool e “canne”, la madre si infuria invano con lui. I

figli assistono a litigi continui. R. preferisce passare il tempo nelle famiglie dei

suoi amici. Poi comincia a frequentare ragazzi più grandi, anche lui, per sentirsi

più grande. Alle superiori la situazione peggiora. Si trova un lavoro, ma fa uso di

sostanze. La notte è discoteca, amici, droga. “La notte mi fa sentire più grande”

vuol dire più forte più sicuro. Viene arrestato per spaccio. Sperimenta la

solitudine e il senso del fallimento. Finalmente riesce a chiedere aiuto. Entra in

comunità.

Si è detto che la maschera usata dai ragazzi nel video ha un valore simbolico e l’abbandono della

stessa colpisce i ragazzi che assistono: è un’immagine che corrisponde alla loro fase di sviluppo,

in cui si esibiscono per nascondersi e si nascondono per insicurezza.

Il tema dell’insicurezza torna costante nel racconto dei quattro giovani che parlano sempre della

loro adolescenza come di un momento cruciale.

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Occorre ricordare che in adolescenza sono attive nell’individuo aree psichiche specifiche: quelle

della sperimentazione, della compensazione, del dolore, della ricerca del piacere, dell’autocura.

Ciò chiarisce come in situazioni di disagio le sostanze vadano a saturare tutte queste aree.

Una volta disintossicati, alcuni soggetti evidenziano problemi psichici; non di rado l’uso di sostanze

maschera una sottostante depressione. In adolescenza questa costituisce una sofferenza

individuale, ma anche sociale.

Gli adulti si lamentano di tutto e presentano agli adolescenti una loro propria

generalizzata visione pessimistica della vita e del futuro. Agli adolescenti non

piace entrare in un mondo adulto così fatto senza prospettiva né fiducia. Da

qui la fuga in un mondo parallelo, individualistico, dove esiste il “qui e ora” ma

non il domani.

Ad un operatore esterno gli adolescenti che usufruiscono di questi progetti di

prevenzione appaiono come persone

- che hanno bisogno di riferimenti ma non lo dicono

- che sono ingolfate di paura e di rabbia ma non riescono ad esprimerle

- che si trovano davanti adulti disinteressati e demotivati

Se riescono a parlare durante questi incontri, a volte dopo un po’ si mettono a piangere, perché

finalmente ascoltano la propria voce e sono ascoltati. Manca loro la relazione, il rapporto reale con

l’altro, soprattutto con l’adulto, e con se stessi.

A volte l’operatore costruisce per i ragazzi più grandi, con la collaborazione degli insegnanti, un

percorso finalizzato ad una visita in comunità. Qui i ragazzi “di fuori” si disorientano, si dislocano,

rispettano la casa d’altri e vivono momenti di silenzio e di relazione con se stessi.

Si è ripetutamente sottolineata la necessità di lavorare con gli insegnanti per realizzare questi

progetti. Purtroppo pochi sono gli insegnanti che partecipano alle iniziative.

E’ urgente riqualificare la professione, selezionando le persone in base alle attitudini e formandole

ad imparare le modalità adeguate di relazione con gli adolescenti.

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“Adulti, adolescenti e scuola”

da un intervento della dott.ssa Monica Lazzaretto - tenutosi presso l’Istituto “Ruzza” di Padova

Ad integrazione dell’esperienza precedentemente illustrata, ci è sembrato opportuno riportare ampi

stralci di un intervento della stessa relatrice rivolto a genitori e insegnanti il 27/05/2010.

Ci è parso particolarmente interessante l’interrogativo di fondo, che sostanzialmente riguardava il

modo di porsi degli adulti nei confronti degli adolescenti in età scolare.

E’ apparso evidente che gli adulti (genitori e insegnanti) sono disorientati e privi di un’alleanza

generazionale forte. Spesso sono invece in antagonismo tra loro. Spesso i genitori non educano

ma “sponsorizzano” i figli.

Gli adolescenti del terzo millennio

vivono in ambienti molto competitivi, con modelli irraggiungibili, per cui

hanno sempre paura di rimanere indietro, di non tenere il passo, di

perdere l’occasione.

Inevitabilmente la frustrazione è alta: a volte manca ai ragazzi la possibilità

di confrontarsi con adulti significativi esercitati a contenerli; spesso hanno

difficoltà ad elaborare senso e significati e rischiano di formarsi una

interpretazione fatalistica ed emotiva della realtà

Hanno bisogno non di oggetti, ma di tempo dedicato.

Vivono nella tecnologia e nel virtuale, perciò hanno esperienza di contatto, ma non di relazioni

(cellulari e internet influenzano vita e comportamenti)

Sono destinatari di un mercato che li pensa come consumatori.

Generalmente vivono una vita piena di occasioni e di agiatezza.

Sono la generazione che ha avuto più opportunità nella storia dell’umanità e del pianeta

vivono, in una logica di consumo, vite di nuovi inizi e fini continui, esperienze e rapporti non

durano e il passato è da eliminare.

Vivono il tempo come eterno presente (life is now) e non come progetto da costruire.

Tendono a non verbalizzare il proprio mondo interiore, agendolo con condotte a rischio.

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Si assiste attualmente ad una crisi generalizzata del codice paterno, che

riguarda la norma, il comportamento, la responsabilizzazione. Il codice

paterno sta nella logica della fatica, della conquista, della ricerca, del

mettersi alla prova, dell’esplorazione, dell’affrontare le sfide della vita. Si

assiste inoltre ad una crisi della dinamica di gruppo: si formano gruppi

informali, non si possiede la mappa della aggregazione.

Lo sviluppo delle identità è funzione dell’IO, dipende dal modo dell’allevamento, delle relazioni

interpersonali, delle caratteristiche socio-culturali.

Per un adolescente le relazioni possibili attraverso le quali formare la propria personalità sono

tante: la famiglia, la scuola, lo sport, la parrocchia, il volontariato, gli enti pubblici, le forze

dell’ordine, la sanità.

Tutte queste “agenzie educative” devono costituire il codice adulto, capace di abitare e contenere

le provocazioni, di promuovere il benessere attraverso una forte identità etico-valoriale e culturale.

Nel periodo dell’adolescenza, l’individuo si trova a giocare la sua maturazione tra:

L’autostima è relativa al livello dei rapporti interpersonali e sociali, al saper fare, al mondo

emozionale, scolastico, familiare, alla percezione corporea.

FATTORI DI

Vulnerabilità

Scarsa autostima

Dipendenza

Rigidità

Pessimismo

Autoefficacia

Fiducia in se stessi

Autostima

Consapevolezza

Ottimismo

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L’adolescente impara ad instaurare relazioni nuove con coetanei di entrambe i sessi, ad acquisire

un ruolo sociale femminile o maschile, ad accettare il proprio corpo e ad usarlo in modo efficace,

avendone cura, a diventare indipendente dai genitori, a gestire la propria vita.

Tutto questo costituisce un compito splendido e difficile che merita di essere accompagnato e

sostenuto da adulti attenti e consapevoli.

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“Ansia, depressione etc. e uso di sostanze”

Interviene dott.ssa Miriam Lazzaretto - medico psichiatra – patologie psichiatriche dell’adolescenza

Lo studio del rapporto tra disturbo psichiatrico e tossicodipendenza costituisce un capitolo

particolarmente delicato di questa complessa materia.

Non è infrequente, anzi, sembra accada sempre più spesso, che, una volta compiuto il percorso di

disintossicazione dalle sostanze, in molti soggetti permanga un disturbo psichiatrico anche

importante.

Riandando alla storia del soggetto precedente all’uso di sostanze, non è raro che si possano

individuare segnali indicativi di un disturbo psichiatrico (malattia mentale)

E’ lecito pertanto porsi la domanda: sussisteva in precedenza un disturbo psichiatrico, poi

mascherato dalla tossicodipendenza, oppure la tossicodipendenza ha provocato un disturbo

psichiatrico?

Il problema è diventato più acuto dal momento in cui sono comparse sul mercato le droghe

sintetiche, quindi negli ultimi 15 – 20 anni.

La relazione fra i due fenomeni è significativa. Esistono centinaia di composti chimici formati da

sostanze miste, sintetizzate in laboratori domestici, che circolano liberamente, pur non essendo

ufficialmente né conosciute, né iscritte nell’elenco degli stupefacenti o comunque delle sostanze il

cui uso è illegale.

Molti composti chimici sono stati sperimentalmente studiati allo scopo di curare patologie

psichiatriche e ne sono stati scoperti effetti a loro volta responsabili della genesi (origine) di altre

diverse patologie: ad esempio l’acido lisergico LSD, studiato per curare la schizofrenia, si è rivelato

generatore di allucinazioni; cocaina ed eroina provocano effetti

simili a quelli della schizofrenia; le droghe sintetiche creano

alterazioni nei sistemi regolatori dell’umore (serotonina e

noradrenalina (sostanze che regolano la trasmissione degli impulsi tra le cellule nervose) )

dell’attività, dello slancio vitale, del ciclo biologico, dello stato

termico: i ragazzi muoiono in discoteca per un mix di alcool,

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droghe, movimento frenetico, che producono ipertermia (aumento eccessivo della temperatura cocporea) e crisi

cardiache.

Oggi si tende a cercare di chiarire in che modo queste sostanze siano in grado di scatenare

disturbi preesistenti, o di potenziarne l’intensità o di causare episodi in acuto, oppure in quali casi,

solo dopo poche assunzioni, possa esplodere una malattia psichiatrica.

Comunque sia, l’alterazione delle percezioni sensoriali e dell’ambiente provocata dalle sostanze

crea sempre situazioni di pericolo.

“Droga non è più un termine sufficientemente indicativo”

Esistono vari tipi di “droghe”, ovvero di sostanze distinguibili per i loro effetti prevalenti. In realtà il

catalogo delle sostanze è enorme, tuttavia i gruppi più importanti comprendono:

Eccitanti (cocaina, anfetamine, CAT, pillole dimagranti etc.)

Sedativi (oppiacei, ipnotici, psicofarmaci)

Allucinogeni (funghi)

Psichedelici (LSD, PCP, ecstasy)

Soprattutto per questi ultimi non c’è controllo clinico, l’uso è empirico (regolato dalla pratica) per cui modi e

dosaggi sono via via determinati dagli stessi assuntori.

Un medico inglese ha studiato i siti degli psiconauti (soggetti che cercano e si scambiano notizie sulle sostanze) in

internet, scoprendo che sugli stessi vengono fatte circolare informazioni su composti di sostanze

con relative indicazioni per modularne gli effetti in modo progressivo.

I ragazzi che usano queste sostanze in genere lo fanno per esprimere quello che di solito non

riescono né a dire né a fare.

Altrove, come nei quartieri poveri di grandi città nel mondo e in zone dove

regnano la miseria e la guerra, la fame e l’abbandono, adulti e bambini

ingannano la disperazione inalando colle, benzina, solventi, gas. Le “droghe

dei poveri” appunto”.

Si è visto che esiste quantomeno una concomitanza tra uso di sostanze e danni cerebrali.

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A questo proposito sorgono spontanee molte domande. Riportiamo alcune delle più significative:

Quanto tempo dopo che un soggetto ha smesso di assumere droghe manifesta eventuali danni

cerebrali permanenti?

Per rispondere bisognerebbe sapere in quali condizioni era il soggetto prima di iniziare ad

assumere sostanze, quali sostanze effettivamente abbia assunto, per quanto tempo e con

quali modalità.

Le sostanze sintetiche per esempio causano lesioni ai sistemi regolatori dell’organismo.

Oggi si dice che non sono lesioni stabili, tuttavia la rigenerazione cellulare, anche se è

possibile una volta tolta la sostanza, non avviene secondo lo schema naturale di crescita.

Ci vuole un periodo adeguato di osservazione del soggetto per formulare un quadro

attendibile della situazione. In alcuni casi è abbastanza facile rintracciare le strutture di

personalità pre-morbose (precendenti alla comparsa della malattia) , che non sono state riconosciute

prima dell’uso di sostanze, attraverso uno studio retrospettivo della storia della persona.

Una volta definita la struttura della personalità e l’entità dello scompenso manifestato, si

tratta quest’ultimo con farmaci opportunamente e

correttamente dosati. Per ottenere una stabilizzazione

soddisfacente occorre un tempo adeguato, in genere non

meno di uno o due anni. E’ bene sottolineare, comunque,

che terminato l’uso di sostanze, anche se il soggetto

sembra stare bene, va ugualmente tenuto sotto

osservazione per un tempo adeguato, perché non vi è la

sicurezza che non insorga a posteriori una depressione, e la depressione biologica va

curata.

In un soggetto in fase riabilitativa vanno osservati attentamente i parametri neurovegetativi

indicativi di uno stato depressivo (mangia meno, dorme male, dimostra scarso entusiasmo

per qualsiasi iniziativa). In questo caso va trattato perché spesso tale condizione è uno dei

motivi di abbandono del programma terapeutico, in quanto una persona così depressa

considera la soluzione del suo problema inarrivabile.

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Per quanto riguarda l’accertamento dell’uso di sostanze ci sono vari strumenti diagnostici, tra i

quali anche quelli che si comprano in farmacia e si utilizzano in casa. I risultati sono attendibili?

Lo sono per quanto riguarda la rilevazione della presenza/assenza dell’uso di sostanze,

anche se bisogna tener conto che c’è sempre un margine di incertezza. Non sono utili,

invece, per accertare da quanto tempo il soggetto fa uso di sostanze e in che quantità le

assume.

Quali tipi di disturbi possono manifestarsi dopo la sospensione dell’uso di sostanze?

Molto dipende dalle sostanze usate: se queste sono oppiacei, la sospensione può

slatentizzare (rendere manifesto) un disturbo psicotico. Spesso il soggetto, sospesa la sostanza

principale (l’eroina per es. serve da antipsicotico, essendo un dopaminergico, quindi

contrasta la schizofrenia)passa all’uso di cannabis. Ciò significa che sente di entrare in

scompenso e istintivamente si autocura. Occorre pertanto osservare nel lungo periodo se

in assenza di sostanze permanga o meno il pensiero psicotico.

Gli oppiacei differiscono dai farmaci?

Non per la composizione delle molecole, ma per il diverso modo di legare con i recettori.

L’esame morfofunzionale (esame della forma e delle funzioni) delle aree cerebrali permette di

individuare il meccanismo di rilascio delle endorfine (sostanze prodotte dal cervello dotate di proprietà

analgesiche). Sospendere la droga significa indurre una depressione biologica da privazione di

endorfine. L’azione delle sostanze sulle aree cerebrali muta nel tempo per diversi motivi,

anche ambientali, per esempio dieci anni fa “una canna” non produceva grandi effetti. Oggi

invece le piante di cannabis, per selezione, modo di coltivazione ecc., hanno una diversa e

ben potenziata concentrazione di principio attivo. Ne consegue una più potente azione

sull’organismo e sul s.n.c.(Sistema Nervoso Centrale) in particolare.

Per questi motivi non ha più senso fare distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere.

Quali effetti producono l’uso, e l’abuso, di sostanze sul cervello e sulla psiche degli adolescenti?

Attraverso lo studio dello sviluppo della preadolescenza e della adolescenza si è

constatato che le esperienze psicotiche indotte da sostanze sono destrutturanti. Studi svolti

in Gran Bretagna e ora anche in Italia hanno verificato che alcune sostanze, compreso

l’alcool, sono intenzionalmente assunte per disinibire i sistemi di controllo , in particolare

delle pulsioni sessuali, che, non più gestibili dal soggetto, conducono a vere e proprie

violenze. Per questo vengono chiamate le “droghe dello stupro”. Questo vale anche per gli

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impulsi aggressivi o altro; la situazione è particolarmente complessa e pericolosa perché

risulta quasi impossibile identificare i mix di sostanze (viagra – roipnol – ketamina – alcool –

pasticche varie) in uso tra gli adolescenti.

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E tra gli adulti?

In genere le sostanze come la cocaina sono assunte a scopo ludico, per amplificare le

performances, per esempio. Mentre non sono sufficienti per sostenere lo stress, dato che il

loro effetto è troppo breve. Nel tempo gli assuntori di cocaina sono indotti ad associare

l’uso di alcol o anche di eroina come sedativi per controbilanciare gli effetti eccitanti. Data

l’alternanza sistematica dell’uso di sostanze con effetti tra loro opposti i soggetti prima o

dopo “esplodono”

Dopo la disintossicazione si devono sempre usare farmaci?

Spesso è necessario, come si è visto, trattare con farmaci i soggetti che presentano

sintomi psicotici, per attenuarne la pericolosità. Allo stato attuale delle cose è in

discussione anche la posizione sostenuta da molte comunità terapeutiche, che rifiutano

fermamente il trattamento farmacologico degli assistiti. Alcune comunità ora ricevono

anche soggetti in trattamento psichiatrico, che necessitano di una ben mirata terapia

farmacologica, idonea a riequilibrare gli effetti di danni cerebrali conseguenti all’uso di

sostanze.

Il disturbo depressivo può riguardare anche gli adolescenti? E’ per questo che alcuni usano

sostanze?

C’è da premettere che i ragazzi in quell’età possono stare anche molto male, ma poi si

riprendono rapidamente. Possono avere, cioè, momenti o periodi che chiamiamo di

“depressione”. Bisogna fare attenzione però alla durata dei sintomi. Se il soggetto dorme

male, perde peso, mangia poco, si disinteressa di tutto per un certo tempo è opportuna

l’osservazione dello specialista per reinquadrare la situazione. Ci può essere una

relazione tra uno stato depressivo e l’inizio dell’uso di sostanze. Ciò non significa, però,

che un soggetto depresso diventi automaticamente tossicodipendente.

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“Sostanze psicoattive e disturbi mentali. Approfondimenti”

Interviene dott.ssa Miriam Lazzaretto - medico psichiatra – patologie psichiatriche dell’adolescenza

L’argomento è enormemente vasto, perciò è importante cercare di puntualizzarne alcuni aspetti.

Si è già detto dell’aumento in quantità e qualità delle sostanze circolanti a disposizione degli

assuntori. Si è anche sottolineato che molte sostanze non sono state ancora completamente

identificate dal punto di vista chimico e classificate dal punto di vista clinico, inoltre si è accertato

che esiste una rete di psiconauti che via internet comincia a diffondere informazioni sulle sostanze

presenti sul mercato, sull’uso più opportuno per modularne determinati effetti, sui modi di

rifornimento e di fabbricazione.

Purtroppo la mescolanza incontrollata di sostanze e di eccipienti così ottenuta produce effetti

altrettanto incontrollabili, come crisi di tachicardia e stati di ipertermia, con conseguente morte per

arresto cardiaco: non sono rari gli “incidenti” di questo tipo nelle discoteche o nei “rave party”.

Il danno neurologico e cellulare è prodotto a livello del s.n.c.. Le sostanze producono piacere, i

centri cerebrali della ricompensa vengono continuamente sollecitati e rilasciano sostanze, che

sono mediatori chimici, fino a produrre uno stato di assuefazione, con conseguente aumento della

richiesta della sostanza usata.

In queste condizioni cambia la relazione dell’individuo con gli altri, con il mondo, con se stesso.

Attualmente non ci sono test sufficienti ad individuare tutti i tipi di sostanze assunte in circolazione.

Ciò rende particolarmente complesso il problema della disintossicazione, rispetto ai tempi in cui la

droga prevalente sul mercato era l’eroina.

L’uso del metadone e del subotex è stato pensato e introdotto nelle strutture pubbliche come

funzionale a divezzare dalla sostanza il soggetto dipendente in sistema controllato. Questi farmaci

imitano gli effetti della droga e soddisfano le carenze del sistema nervoso dopo la sospensione

della stessa. Il riequilibrio dei sistemi organici può essere così ottenuto, ma occorre almeno un

anno per il compimento del processo.

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(E’ noto tuttavia il dibattito, non risolto, sull’uso del metadone, sulle modalità e i tempi di

somministrazione e sulla effettiva possibilità di controllare l’utente nei consumi e nella fedeltà alle

prescrizioni.)

Il danno prodotto dall’uso di sostanze, però, non è sempre recuperabile, anche dopo lo

svezzamento dalle stesse. Questo perché:

alcune parti del cervello presiedono a funzioni sottili, per cui un piccolo danno in quei

distretti produce grandi effetti

alle lesioni relative al s.n.c. si aggiungono quelle provocate ad altri organi, come fegato,

sistema cardiovascolare etc.

attraverso l’uso di sostanze si possono configurare situazioni importanti come lo

scompenso paranoico acuto e la depressione maggiore

le sostanze in cronico, cioè usate continuativamente, diventano un sistema di vita che dà

dipendenze di inaudita gravità, soprattutto in soggetti giovani

la cocaina (inalata, fumata, iniettata) attualmente è

disponibile a basso costo, soprattutto per la prima

assunzione: sul cervello in formazione, come quello di

un adolescente, l’impatto è devastante e cronico;

la sostanza disinibisce i centri legati all’aggressività e

nel soggetto bambino-adolescente spariscono del

tutto i confini tra il poter fare e il non poter fare;

molto spesso, come si è detto le sostanze

slatentizzano forme patologiche preesistenti. La

cocaina, in particolare, crea euforia, a cui subentra la depressione; il soggetto si auto-cura

continuando ad assumere la sostanza che ovviamente non cura la depressione ma la

produce;

le sostanze deprimono il sistema immunitario e aprono così la strada ad una serie di

malattie (infezioni etc.) e alla vulnerabilità mentale.

Va detto che ci sono personalità particolarmente a rischio di abuso. Una volta instaurata la

dipendenza, la cura da affrontare è lunga ed è legata alla possibilità di riequilibrare una

personalità che, se prima era border-line (al confine tra normalità e malattia), ora grazie alla sostanza, è

diventata psicotica.

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Ovviamente è opportuno che la cura sia il più precoce possibile, in caso contrario si crea una

automatismo patologico non passibile di modifica (cioè la malattia si cronicizza e non si modifica).

La strada per la cura consiste, per il soggetto, nella possibilità di passare da una risposta

automatica al suo problema (la sostanza, e ancora la sostanza) ad una risposta cosciente ( è la

sostanza la soluzione del mio problema?)

In comunità si creano percorsi evolutivi che perseguono questo obiettivo. Le domande

fondamentali all’inizio di un percorso di cura riguardano la storia dell’individuo, l’educazione che

ha ricevuto, l’ambiente in cui è vissuto. Aiutarlo a raggiungere una diversa consapevolezza della

propria realtà significa permettergli di passare dalla enunciazione “ero depresso quindi ho bevuto

o mi sono drogato” ad accettare la seguente “eri depresso e hai cercato di attenuare la

depressione con l’alcool e la droga”

Vale la pena di osservare che pochi malati mentali sono tossicodipendenti, mentre le dipendenze

creano disturbi mentali.

L’universo delle sostanze è in continua evoluzione e, conseguentemente, lo sono anche i danni

rilevati: aumentano i casi di ricovero per uso di cannabinoidi estratti da piante modificate come

OGM e potenziate nel principio attivo, inoltre, mentre 20 anni fa gli eroinomani disintossicati non

presentavano disturbi psichiatrici ora invece questi ultimi sono in aumento e devono essere curati,

almeno temporaneamente, a seconda del danno cerebrale prodotto.

All’esame della risonanza magnetica, infatti, risultano

compromesse le aree frontali e temporali del cervello.

Questi danni, secondo studi risalenti a 10 anni fa circa

risultavano permanenti; allo stato attuale delle ricerche

si è notato che è possibile una rigenerazione delle parti

lese, che avviene però in modo casuale, per cui alcune

vie funzionali restano inattive.

I danni variano a seconda delle sostanze assunte.

I soggetti dipendenti utilizzano anche psicofarmaci che, nati per curare, entrano nel panorama

delle sostanze come causa di patologie, dati il modo e lo scopo della assunzione: le

benzodiazepine per esempio sono sempre state farmaci di abuso.

Alcuni psicofarmaci sono adatti a riparare le parti lese del cervello a patto che venga eliminato

l’uso delle sostanze.

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Si è visto che l’abuso di sostanze determina danni oggettivi al s.n.c. I soggetti con questo tipo di

lesioni, usciti dalla comunità, hanno bisogno di essere seguiti da uno psichiatra per un tempo

adeguato, anche perché il rientro in famiglia non è indolore e può ripresentare conflitti non risolti, il

che può costituire una spinta alla ricaduta.

Finito il periodo comunitario comincia il lavoro di reinserimento in una dimensione sociale, che

diventerà l’impegno di tutta la vita. Molti sono gli interrogativi che si pongono sia i ragazzi usciti

dalla comunità che i loro famigliari.

Ne raccogliamo alcuni.

Come faccio a far capire a chi mi sta vicino che, anche se ho finito il percorso comunitario, posso

avere ancora momenti di crisi?

L’unica soluzione è fare un discorso molto chiaro con gli altri ed esprimere il proprio

vissuto.

Mi accorgo che, finito il percorso, sono sempre in movimento, mi stanco e mi è impossibile non

stressarmi. Che posso fare per stare meglio?

Se lo stress ha un significato, lo si può gestire. Se non siamo capaci di fermarci e agiamo

compulsivamente, allora è un problema della mente. Normalmente non riusciamo a

fermarci perché non stiamo bene con noi stessi. Dobbiamo riabituarci a fare qualcosa per

noi, per ritrovarci.

Anche questo comportamento può essere una conseguenza di un danno provocato dalle

sostanze usate?

In parte è un aspetto del danno subito, ma è anche l’espressione della paura di guardarsi

dentro, di stare in compagnia di se stessi.

Mio figlio è stato diagnosticato come depresso; facciamo fatica a comunicare tra noi, non

sappiamo come comportarci. E’ meglio che si faccia vedere da uno psichiatra?

Sarebbe opportuno che vedesse lo specialista. Per quanto riguarda la comunicazione in

famiglia, se è vero che imparare a parlare assieme non è facile, è anche vero che ci si può

sempre provare. Un po’ alla volta magari ci si riesce.

Sono ex tossicodipendente. Mi accorgo che lotto tutti i giorni con la tendenza a non accontentarmi

mai di ciò che faccio. E’ così difficile accettare se stessi?

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Io invece mi accorgo che devo sempre avere il controllo sulla mia vita e su ciò che mi sta intorno

perché non l’ho avuto per troppo tempo. Si può attenuare quest’ansia?

Occorre fare attenzione a che il bisogno di controllo e di perfezione non diventi un fatto

ossessivo. Occorre imparare a tornare in armonia con se stessi.

Io sento molto la solitudine, anche perché penso di essere unica e di essere la sola persona in

grado di capirmi. E’ forse sbagliato?

La solitudine è un aspetto della vita, da non confondersi con un isolamento narcisistico,

cioè un ripiegamento su se stessi non privo di auto compatimento.

Mio figlio ha fatto uso di cannabis. Come faccio a capire se è in depressione?

Osservando, come già detto, i cambiamenti nelle abitudini, le modificazioni del

comportamento e la durata di queste manifestazioni. Può essere comunque opportuno

chiedere aiuto ad uno specialista.

E’ bene ricordare che è pur sempre possibile chiedere e ricevere aiuto, sia per noi stessi che per

chi ci è vicino e vive una situazione critica.

E’ necessario tuttavia tener presente che la strada è lunga , difficile, a volte dolorosa. Per

percorrerla occorrono pazienza, costanza, ma anche fiducia.

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“Conseguenze dell’uso di sostanze sull’apparato cardio-vascolare”

Interviene dott. Giorgio Donadel Campbell - cardiochirurgo

Le sostanze psicoattive comunemente denominate

“droghe” agiscono soprattutto sul s.n.c., tuttavia il cuore e

tutto l’apparato cardiovascolare subiscono conseguenze,

che vanno ad allinearsi a quelle prodotte da fumo e da

alcol.

In questo settore se molto si fa per la malattia, poco si fa

per la salute, infatti in termini di prevenzione la situazione non è molto diversa da quella di 20 anni

fa. Ne è un esempio la situazione relativa alla diffusione di HIV e di AIDS: le cifre degli ultimi studi

statistici in proposito non sono incoraggianti.

L’informazione costituisce una parte importante della prevenzione, tuttavia la conoscenza dei

rischi relativi a comportamenti scorretti (e conseguentemente delle indicazioni relative ai

comportamenti adeguati) non basta ad evitare o a ridurre il problema.

Sarebbe indispensabile coinvolgere in una proficua sinergia le “agenzie educative”, come famiglia,

scuola etc., la classe medica – soprattutto i medici di base – e i media, in un’azione capillare e

innovativa.

Si è visto quale sia l’azione delle varie sostanze sul cervello, a seconda delle caratteristiche

specifiche di ognuna. Si tratta ora di delineare quali siano le conseguenze a livello cardiaco

dell’assunzione di sostanze.

Nicotina e cocaina provocano vasocostrizione, perciò, in caso

di danno cardiaco latente o di predisposizione congenita alle

patologie cardiache, l’uso di queste sostanze crea un forte

rischio: si possono scatenare episodi di tachicardia e aritmie,

così come l’assunzione di ecstasy provoca ipertermia.

In ogni caso il cuore è sottoposto ad uno sforzo eccessivo e i

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danni provocati nel tempo si accumulano, quando non diano, in episodi particolarmente acuti,

esito fatale.

I danni provocati dall’uso di sostanze sono ulteriormente aggravati se associato ad altri importanti

fattori di rischio cardiovascolare quali il fumo (crea vasocostrizione e ipertensione) il sovrappeso e

l’obesità (producono colesterolo che ostruisce i vasi), lo stress, la sedentarietà (favorisce

l’obesità).

Inoltre la vasocostrizione e l’ipertensione agiscono sui reni, ostacolandone il corretto

funzionamento, con ulteriori conseguenze sull’apparato cardiovascolare.

L’abuso di alcool si traduce in un danno diretto sul cuore (agisce sulle fibre) o indiretto (favorisce

l’obesità).

Al contrario l’assunzione di un bicchiere di vino, meglio se rosso, a pasto può costituire un fattore

di protezione per il cuore, data la presenza di sostanze ad azione antinfiammatoria, che

contrastano l’ossidazione e i depositi di colesterolo nei vasi.

Se una persona con problemi di dipendenza viene ricoverata per disturbi cardiaci (è importante

allertare i servizi d’urgenza ai primi sintomi!), vengono avviate le normali procedure a seconda dei

sintomi presentati: prima l’accertamento del danno, poi l’avvio delle procedure di cura,

l’identificazione delle sostanze assunte etc.

Spesso si presentano in ospedale assuntori abituali o occasionali di sostanze con un blocco

cardiaco o fibrillazione atriale. Una volta risolto il problema contingente, se ciò è fattibile, il

paziente viene invitato a cambiare stile di vita ed eventualmente indirizzato ai servizi di

competenza.

In alcuni casi però la crisi può aver esito fatale: un eccesso di cocaina, per esempio, produce una

mancata irrorazione di sangue al cervello da cui possono derivare ictus e coma (morte cerebrale).

Ovviamente ogni situazione clinica costituisce un caso a sé stante e ciò vale forse di più per i

pazienti assuntori di sostanze.

Purtroppo non sempre si riscontra nella classe medica un’adeguata informazione sulla

complessità del problema delle dipendenze: prevale l’informazione farmacologica, mentre la

conoscenza dei trattamenti possibili è piuttosto scarsa, come sono scarse le indicazioni sulle

possibili strade da percorrere per il paziente, se si esclude l’invio al settore delle dipendenze del

distretto di competenza.

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A volte lo stato di tossicodipendenza non viene riconosciuto in tempo neanche dai sanitari oppure

viene sottovalutato.

La complessità del fenomeno, per come si è sviluppato negli ultimi anni, ha rimesso in

discussione anche il concetto stesso di prevenzione: accanto ad una costante ed aggiornata

informazione occorre venga curata una generalizzata educazione o rieducazione al senso di

responsabilità della persona nei confronti della propria salute.

L’informazione resta fondamentale e costituisce il presupposto imprescindibile di ogni educazione

alla salute, tuttavia il fondamento della scelta di adottare comportamenti adeguati e di evitare

comportamenti a rischio sta nella libertà e nella maturità delle persone.

Aggiungiamo, a conforto di quanto sopra esposto, una notizia apparsa sul “Corriere della sera –

salute” del 11/07/2010.

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“Volontariato e tossicodipendenza. Non tutti possono improvvisarsi operatori”

Interviene dott.ssa Monica Lazzaretto - responsabile Centro Studi Cooperativa “Olivotti” di Mira

Si constata che si arriva al volontariato dalle strade più diverse. La relatrice esemplifica la propria:

da studentessa universitaria, chiamata ad insegnare Italiano in carcere come volontaria, diventa

poi insegnante “regolare” e lavora nelle scuole pubbliche giovandosi della memoria della difficile e

intensa esperienza fatta in carcere. Continua a fare volontariato in comunità, mentre compie un

percorso di formazione specifica, in seguito alla quale viene distaccata dal Ministero della

Pubblica istruzione e incaricata della formazione di Dirigenti Scolastici e di Docenti per la

prevenzione del disagio giovanile.

Infatti sembra proprio che l’età del disagio sia quella che comprende la preadolescenza

l’adolescenza, o quanto meno questo sia il periodo in cui l’individuo manifesta in maniera più

evidentemente problematica le proprie difficoltà.

Di solito il problema principale è degli adulti, che sono impreparati ad entrare in contatto con gli

adolescenti. Da varie parti ormai si sottolinea il fatto che ci siano pochi adulti che vogliono fare gli

adulti. Nei fatti si dimostrano confusi, ansiosi, paurosi.

Questo si ripercuote sui giovani: i ragazzi che si presentano alla maturità molto spesso non sono in

grado di ipotizzare un proprio progetto di vita e si vede che non sono stati accompagnati in questo.

La conseguenza è un atteggiamento negativo dei giovani verso questi adulti : “voi non ci piacete”

sembra che dicano. I ragazzi si “innamorano” degli adulti quando questi vivono, agiscono, credono,

si appassionano, testimoniano cioè che vale la pena di viverla, la vita.

Le situazioni cambiano e occorre saper leggere i segni dei tempi per rispondere alle situazioni in

maniera innovativa e creativa, cercando strumenti nuovi.

Anche nel volontariato.

Si è detto che ognuno approda al volontariato per strade diverse. I presenti che partecipano a

questo incontro ne sono un esempio. C’è l’adulto che, da ex tossicodipendente, è diventato

responsabile di comunità, c’è il sacerdote che dall’esperienza pastorale e dal volontariato in

carcere ha imparato un nuovo linguaggio, una nuova sensibilità nell’accostare il prossimo, c’è la

madre che ha avvicinato i volontari cercando una via per aiutare la figlia con problemi di droga, c’è

lo psicologo che dai problemi personali è uscito grazie all’attività di volontariato, c’è la ragazza che

ha appena finito il percorso comunitario e vuole avvicinare realtà nuove, ci sono madri e padri che

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vogliono capire e sapere come si può parlare con i figli, ci sono spose che vogliono capire di più

per amare meglio, ci sono persone incuriosite o spinte da altri.

Si è detto che tutte le motivazioni sono buone, tuttavia fare il volontario non è facile, perché si esce

dal proprio privato mossi da un proprio bisogno, si entra in una realtà tutta da scoprire e si

comincia a scavare per capire quale sia veramente il bisogno; che spesso non è il primo che

appare più evidente e scontato, ma è più complesso, più profondo, più nascosto.

Si entra nel volontariato per bisogno di fare un’esperienza che abbia il colore della novità, per

dimostrare (a se stessi9 di essere in grado di accettare una sfida o semplicemente per avere

amicizia e compagnia.

Un volontario di lunga data, dopo tanti anni, può ancora chiedersi perché seguita a rimanere lì, in

quel mondo di sofferenza e di fatica, che però continua a pro-vocare, a chiamare, a interrogare.

L’interrogativo costante riguarda il problema dell’errore e del come ci si pone davanti ad esso.

Il tossicodipendente entra in comunità dopo una serie di errori e di colpe. Non serve giudicare la

persona, quanto piuttosto porre l’attenzione alla possibilità di andare oltre, di cambiare, di sostituire

le precedenti scelte poco opportune con altre più costruttive.

Operatori e volontari, per accompagnare gli “utenti” in questo cammino, si formano in gruppo, si

confrontano sui propri vissuti emotivi e sui propri giudizi e pregiudizi.

Si può fare un parallelo con un’altra situazione significativa, quella dei rapporti familiari. I figli

vengono al mondo per “mettere al mondo” i genitori (e i nonni e gli zii etc.) perché un genitore è

tale quando viene al mondo un figlio, per cui paternità e maternità diventano la scoperta di un

saper essere padre e madre in un modo che prima un uomo e una donna non conoscevano di se

stessi.

Allo stesso modo in comunità e in associazione i ragazzi vengono “per educare” gli operatori e i

volontari, che hanno bisogno di imparare come rispondere al bisogno, alla paura, alla rabbia, alla

solitudine.

Nel corso di una esperienza protratta si possono cambiare le proprie idee, cioè si lasciano

modalità e convinzioni per assumerne altre, sulla spinta della riflessione indotta da situazioni

nuove.

Il mondo della tossicodipendenza è cambiato, i bisogni di fondo sono gli stessi, ma le modalità

delle risposte devono essere diverse. I tossicodipendenti di ora sono diversi dagli eroinomani di

20/30 anni fa sia perché sono cambiate le sostanze e le modalità di assunzione, sia perché è

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cambiato il mercato, che a sua volta determina di fatto gli assuntori. Ne fa fede l’osservatorio

internazionale che ha il compito di monitorare la situazione. Gli assuntori di sostanze sono sempre

più piccoli, cominciano dalla scuole media, come raggiungerli?

I ragazzini si incontrano per strada li incontrano gli operatori,

ma anche i volontari. I ragazzi comprendono la presenza degli

operatori , in quanto specialisti che fanno il loro lavoro, mentre

si stupiscono della presenza dei volontari, cioè di gente che si

trova lì, a fare un lavoro non pagato.

Gli operatori di strada sono formati in modo specifico per

questa attività, elaborano modalità di approccio adeguato

all’incontro con ragazzi che si riuniscono in gruppi informali, cioè non strutturati come per esempio

i gruppi sportivi o parrocchiali, e che socializzano appunto in strada o in piazza e spesso hanno già

acquisito comportamenti a rischio. Gli operatori li avvicinano per riflettere con loro.

La piazza, la strada erano un tempo luoghi di trasmissione di saperi: per esempio molti mestieri si

esercitavano all’aperto, fuori dalle botteghe e diventavano insegnamento pratico. Se la piazza è

vuota di adulti si riempie di altro, anche di droga.

L’operatore di strada è una figura vicariante (sostitutiva) di adulti significativi che però non hanno tempo

di stare con i loro ragazzi.

La società non tutela direttamente i suoi giovani,

preadolescenti e adolescenti sono una minoranza a rischio. La

situazione è oggi complicata dalla mescolanza di etnie e

mentalità diverse, data la ormai massiccia presenza di

immigrati di seconda generazione a volte non bene integrati e

in difficoltà, che si uniscono a ragazzi locali in difficoltà dando

vita da una rinnovata emarginazione.

La figura dell’operatore di strada andrà scomparendo, perché i finanziamenti per questa ed altre

iniziative sociali stanno scomparendo. Occorre che la società si faccia carico della responsabilità di

queste nuove situazioni, rinforzando i ruoli educativi.

Il volontario sta sul campo perché sente di essere pro-vocato (chiamato) da altre storie, che lo

distraggano dalla propria storia o da quella che si racconta da solo ogni giorno e lo relega nel

chiuso di un mondo ristretto e scontato.

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Essere volontario vuol dire “disincrostare” in noi un sacco di cose trite e ritrite, per imparare o

reimparare a parlare con l’anima ad altre anime anime.

Bisogna temere il volontario “che sa”. Cioè che crede di sapere e di capire tutto e subito.

Il volontario “bravo” ascolta più che parlare. Sa stare in silenzio. Niente è più importante di una

comunicazione nel silenzio; se mentre si ascolta la mente è protesa a formulate una proposta, una

risposta, un consiglio, questo non è ascolto, anche se in tutta buona fede.

Occorre saper stare nelle cose che vengono dette, sentire risuonare dentro di sé quello che l’altro

dice.

L’ascolto inoltre è prima di tutto osservazione. Comunichiamo con le parole, ma soprattutto con il

tono di voce, l’espressione del viso e del corpo, lo sguardo. Per ascoltare una persona occorre

saperla “vedere”, con pazienza per il tempo che serve.

Tutto ciò non si improvvisa, ma si apprende con l’esperienza, la formazione, la riflessione su di sé,

il confronto con gli altri.

Qualcosa di simile avviene in ogni processo educativo, in cui l’adulto impara ad accogliere ed

ascoltare (funzione materna), ma nel contempo sa indicare delle regole, accompagnare nella

formulazione e nell’avviamento di un progetto (funzione paterna).

E’ fondamentale che gli adulti imparino a costituire solide alleanze

educative, mentre purtroppo i mondi adulti sono in conflitto tra loro,

spesso in competizione per spartire gli spazi degli adolescenti come

spazi di potere, quando non confondano lo stato di adulto con una

adolescenza mai risolta.

Nelle associazioni e nelle comunità, come nelle famiglie, il compito di

chi opera è appartenere al mondo degli adulti.

Se i volontari e i responsabili dei servizi invece di collaborare si screditano reciprocamente,

falliscono. Occorre fare comunità tra i volontari, allenarsi a credere che è possibile mettersi

assieme per stare meglio, in modo che anche altri stiano meglio, almeno un po’.

Il pericolo per il volontario è che il suo desiderio di essere riconosciuto, di essere nella mente e nel

cuore degli altri, prevalga sulla capacità di stare assieme agli altri.

E’ bene che nell’incontrare le persone in associazione nessuno si esponga più del dovuto; chi

viene a chiedere aiuto ha bisogno di risolvere un suo problema, è necessario che chi lo accoglie

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sia cauto, sappia dire una parola di meno piuttosto che una di più, ma inopportuna, sappia

confrontarsi con gli altri e chieda il confronto prima di parlare.

Chi accoglie e ascolta riceve la comunicazione del segreto dell’altro, che va condiviso solo con il

gruppo di confronto, anche se va rispettato il rapporto di referenza con la persona.

In un’associazione chi entra porta con sé un’emergenza, una richiesta, se riteniamo di sapere già

la risposta abbiamo già chiusa la possibilità di instaurare una relazione reale. Bisogna “saper stare

sulla domanda che viene posta”, bisogna saper restituire la domanda alla persona che la pone

perché essa provi a trovare in sé delle risposte possibili.

Questo passaggio è particolarmente delicato: non si tratta, infatti, di indirizzare una persona a fare

una scelta predeterminata dall’operatore, ma di essere presenti per facilitare alla persona

l’approdo alla consapevolezza di una decisione propria.

Non bisogna dimenticare che in comunità o in qualsiasi struttura che lavori con le dipendenze è

sempre in agguato la paura della ricaduta del tossicodipendente.

Di fatto cadere è possibile, come è possibile ricadere. L’importante è credere che non

necessariamente la ricaduta è definitiva e che un altro passo in avanti è possibile.

Il compito del volontario non è quello di dare risposte o giudizi, ma di “essere là”, di saper vivere

con l’altro un reciproco farsi compagnia.

La sfida è quella di costruire la relazione, in una reciprocità in cui ci si scambia a vicenda qualcosa

di significativo, in una alleanza che non si rompe, perché fa gruppo, gruppo di adulti.

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“Lo Statuto dell’associazione e l’applicazione della legge sulla privacy”

Interviene l’avv. Daniela Clapiz - avvocato civilista

Una associazione si costituisce sulla base di un contratto:

l’atto costitutivo è un contratto consensuale in cui è espressa la volontà di costituire l’associazione,

è un contratto aperto attesa la possibilità di adesione successiva.

lo statuto è l’insieme delle regole di amministrazione dell’ente, contiene

l’enumerazione dei diritti e dei doveri degli associati, la denominazione

dell’ente, indica quale sia lo scopo perseguito, il patrimonio (quota dei

soci, beni mobili e immobili, contributi vari, convenzioni etc.), dove sia

situata la sede (legale – operativa), quali siano i requisiti per diventare

soci, quale sia l’organo amministrativo e quali siano i suoi compiti

I soci possono essere fondatori,ordinari, benemeriti, sostenitori; i soci sostenitori partecipano alle

assemblee senza diritto di voto; l’ammissione di un socio è deliberata dal consiglio direttivo; la

condizione di socio non è un diritto e diventa effettiva dopo l’accettazione del consiglio direttivo.

Possono contribuire alla vita dell’associazione sia finanziandola che prestando il proprio impegno

nelle attività; sono inoltre obbligati a versare la quota associativa, ad osservare lo statuto, a

diffondere gli scopi dell’associazione.

Possono recedere dalla condizione di socio liberamente con preavviso di tre

mesi secondo il C.C..

Il consiglio direttivo può escludere un socio per gravi motivi ( violazione dello

statuto, degli scopi dell’associazione, condotta offensiva etc.).

L’esclusione con delibera del consiglio direttivo va notificata e il socio può ricorrere entro sei mesi

davanti al giudice.

Organi costitutivi l’associazione

Il Consiglio Direttivo è l’organo amministrativo ed esecutivo ed è investito dei più ampi poteri per la

gestione ordinaria e straordinaria

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Il Presidente ha la rappresentanza legale nei confronti dei terzi ed in giudizio ed il potere di

compiere le operazioni di ordinaria amministrazione

L’assemblea dei soci, presieduta dal Presidente, delibera sul bilancio, sulle direttive

dell’associazione, su

nomine e revoche, su

modifiche dello Statuto,

sull’esclusione dei soci.

N.B.: Le delibere sono

approvate a

maggioranza dei voti e

con la presenza di

almeno la metà dei soci

in prima convocazione;

con qualsiasi numero di

intervenuti in seconda convocazione. Nelle delibere di approvazione del bilancio gli amministratori

non votano. Per modificare lo statuto invece è necessaria la presenza di ¾ degli associati ed il

voto favorevole della maggioranza dei presenti; per deliberare lo scioglimento dell’associazione

occorre il voto favorevole di almeno ¾ dei soci.

Gli amministratori sono tenuti alla diligenza del buon padre di famiglia nello svolgimento del

mandato ricevuto. In caso di danni non ne risponde l’amministratore che non ha partecipato all’atto

che ha causato il danno, salvo il caso in cui essendo a conoscenza che l’atto si stava per

compiere egli non abbia fatto constatare il proprio dissenso. Le delibere dell’assemblea sono

annullabili o sono nulle quando disattendono le norme dello statuto, dell’atto costitutivo o le leggi

vigenti.

Tutti i componenti di una associazione sono tenuti a rispettare la legge sulla privacy nei confronti di

ogni persona che venga in contatto con l’associazione medesima per qualsivoglia motivo.

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“Il trattamento dei dati sensibili e l’obbligo della privacy per le associazioni”

Interviene l’avv. Daniela Clapiz - avvocato civilista

La legge sulla privacy (legge 31 dicembre 1996, n. 675 abrogata -

Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196 entrato in vigore il

01/01/2004) mira a tutelare la persona per quanto concerne l’uso e la

diffusione dei dati che la riguardano e che sono:

1)- "dati comuni", i dati personali che permettono l'identificazione

diretta dell'interessato;

2)- "dati sensibili", i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni

religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati,

associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché' i dati

personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale;

3)- "dati giudiziari", i dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 3, comma 1,

lettere da a) a o) e da r) a u), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, in materia di casellario

giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi

pendenti, o la qualità di imputato o di indagato ai sensi degli articoli 60 e 61 del codice di

procedura penale;

Le associazioni sono soggette a tutti gli obblighi civili, penali, amministrativi e relative sanzioni.

Pertanto il trattamento dei dati relativi alle persone che pervengono a conoscenza delle

associazioni deve garantire il rispetto dell’interessato ed evitare la comunicazione e la diffusione

impropria dei dati medesimi.

Generalmente nelle associazioni pervengono i dati dei soci, dei beneficiari, dei consulenti e

collaboratori esterni, degli eventuali dipendenti di enti pubblici, di altre associazioni e delle persone

a cui sono dirette le campagne di sensibilizzazione.

La conservazione dei dati deve essere fatta per scopi leciti e determinati e

per il tempo sufficiente al conseguimento degli scopi.

Gli scopi dell’associazione sono quelli indicati nello statuto e devono

essere comunicati all’interessato. N.B.: l’indicazione delle finalità è oggetto

di delibera del Consiglio Direttivo.

Ogni associazione deve stilare un documento programmatico di sicurezza,

in cui siano indicate le misure minime di sicurezza per la conservazione dei

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dati affinché non siano accessibili a terzi. Il documento deve essere redatto e aggiornato entro il 31

marzo di ogni anno.

Ogni associazione è tenuta a stilare una nota informativa obbligatoria, da sottoscrivere con firma

per presa visione da parte di tutti coloro che entrano in contatto con l’associazione.

L’art. 13 del D.Lgs. 196/2003 indica l’obbligo principale;: nel modulo informativo da far firmare

obbligatoriamente all’interessato vanno indicate finalità, modalità di trattamento, titolarità e identità

di chi è incaricato di conservare i dati i soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati.

Vanno altresì indicati i diritti (art. 7) dell’interessato firmatario (conferma dell’esistenza dei dati,

della loro correttezza nominativo del soggetto responsabile, finalità e modalità del trattamento etc.

etc.).

L’interessato può comunque chiedere di modificare i dati e/o di bloccarli e/o di opporsi all’utilizzo

dei medesimi.

Nel caso di specie il titolare autorizzato a trattare i dati è l’associazione, gli incaricati sono le

persone fisiche autorizzate dal titolare a compiere attività di trattamento, il responsabile è il

soggetto preposto dal titolare al trattamento ed è facoltativo.

L’informativa va comunicata a tutti i soci, ai volontari ai beneficiari, ai collaboratori esterni, ai

dipendenti e a chiunque venga in qualunque modo a contatto dell’associazione.

E’ obbligatoria l’identificazione degli incaricati. Per i minorenni agiscono i genitori.

N.B.: Il trattamento dei dati comuni (anagrafici) è possibile con consenso espresso verbale o scritto

dell’interessato – il trattamento dei dati sensibili (origine etnica, religione, ideologie, opinione

politica, salute, indirizzo sessuale) è possibile solo previo consenso scritto.

Il consenso deve essere libero, espresso, con riferimento alle finalità specifiche, informato

(preceduto dall’informativa ex art. 13).

La violazione della legge implica (a) sanzione penale, nel caso di

trattamento illecito dei dati (ovvero senza il consenso dell’interessato

anche se senza danno) e in caso di falsità delle dichiarazioni; (b)

sanzione amministrativa (da € 3000 a € 18000) nel caso in cui non

venga trasmessa l’informativa o sia mancante di parti specifiche; (c)

responsabilità civile , che presuppone che l’associazione abbia con

dolo e colpa, svolto un trattamento in violazione delle norme dettate a tutela della privacy e questo

trattamento abbia causato un danno..

L’associazione ne risponde se non dimostra di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il

danno (art. 2050 c.c.)

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Se l’associazione viene a conoscenza dei dati sanitari di un beneficiario, di un operatore, etc. è

obbligata a non divulgarli, rispettando il criterio del segreto professionale e le norme a tutela della

privacy.

Si è detto che il trattamento dei dati viene effettuato con il consenso verbale o scritto

dell’interessato, tuttavia ci sono casi in cui il consenso va associato alla autorizzazione del garante

della privacy.

In una associazione che si occupa di persone con problemi di dipendenza si pongono molto

spesso questioni delicate in relazione alla tutela della privacy. Per esempio:

Caso A

La famiglia di un tossicodipendente maggiorenne non può, senza il consenso dell’interessato,

conoscere le reali condizioni di salute del proprio congiunto. Questo crea non pochi problemi e non

poche situazioni delicate, relative alla responsabilità e alla convivenza, di difficile soluzione

Caso B

Una persona con passato di dipendenza risolta in un percorso riabilitativo comunitario spesso si

trova in difficoltà nella ricerca di un lavoro, oppure, ottenuto il lavoro, nei rapporti con il datore di

lavoro in merito all’eventuale conoscenza della condizione pregressa.

Caso C

A volte l’obbligo di tutela della privacy espone i terzi al rischio di contrarre malattie tossico-correlate

(epatite C, AIDS etc.) se l’interessato non le dichiara.

La problematica è aperta su molti fronti e forse sarebbero necessari dei correttivi alla legge o alle

norme applicative della stessa.

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“Contro la droga non basta sapere , bisogna fare e soprattutto essere”” Riflessioni alla fine di un anno di lavoro insieme

Interviene Francesco Vezzù - responsabile Comunità Incontro del Triveneto

Per una cultura libera dalla droga, per una “lotta alla droga” intesa come lotta alla superficialità,

all’assenza di valori e di obiettivi, alla mancanza di rispetto per la vita propria e altrui è necessario:

acquisire conoscenza, intesa come un sapere conquistato attraverso lo studio e l’esperienza

quotidiana,

saper agire, in un “fare” che non si struttura di parole inutili, ma che si esprime attraverso

l’impegno, cioè l’intenzionalità dell’agire e la fedeltà ai propri obiettivi, fondata su un profondo

senso di responsabilità.

Questa prospettiva di vita suscita molte paure: la paura di perdere la propria libertà, la paura della

dipendenza reciproca o del rischio della confusione e della fretta nell’agire.

Per operare in questo settore (come in altri del resto) occorre combattere con il coraggio di

mantenere nel tempo l’impegno preso e anche, se occorre, saper dire di no quando non si è in

grado di sostenerlo.

Occorre saper perseverare quotidianamente nella scelta fatta, conservando l’indispensabile fiducia

nelle risorse dell’essere umano.

Sicuramente c’è il rischio di finalizzare tutto questo lavoro a se stessi,

alla propria gratificazione personale, mentre non bisogna dimenticare

che il fine sono gli altri.

Per questo il conoscere e il fare non possono essere separati dal saper

essere, cioè dal saper strutturare nel nostro io più profondo le radici del

nostro agire.

Ciò che facciamo è il risultato di ciò che siamo. Occorre saper agire come ciò che vogliamo

essere, che non vuol dire dimostrare (far vedere che…), né imporre se stessi come un valore agli

altri, bensì proporre, vivendola, una ipotesi in cui credere.

Essere significa anche saper essere umili (cioè riconoscere i propri limiti) e tolleranti (cioè lasciare

che gli altri siano come sono) sinceri (cioè capaci di perdonare e di trasmettere serenità, forza e

simpatia).

In questo lavoro inoltre è essenziale essere onesti (soprattutto nell’esprimere ciò che si pensa)

leali e giusti nel senso di equanimi.

Essere tutto ciò non è né facile né immediato, ma va conquistato, per quanto è possibile, con

costanza e esercizio. Questo paziente lavoro su se stessi è la premessa fondamentale per ogni

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attività di aiuto agli altri: se si vuole che le persone che hanno smarrito la dimensione della propria

dignità la ritrovino, spetta a chi le avvicina coltivare prioritariamente in sé le qualità umane più

significative, che si riassumono nel saper amare.

Amare se stessi e gli altri significa prendersi cura, aver comprensione, intuire in ogni persona la

scintilla della dignità che le è propria.

Riportare queste riflessioni al quotidiano, finalizzato alla costruzione, o ricostruzione, di un’idea di

uomo libero da sostanze, significa sottolineare l’importanza della conoscenza reciproca, della

pazienza, della capacità di costruire linee d’azione mantenendo viva e attiva la comunicazione.

Chi arriva in una struttura di aiuto spesso è solo, vuoto di affetti,

magari ancora all’inizio di un percorso incerto, col bagaglio di una

vita “fuori” non lineare.

Anche in questi casi è importante mantenere un contatto,

un’occasione di confronto continuo, di riflessione, che può aprirsi

alla maturazione e ai mutamenti.

Tenere aperta la comunicazione significa anche accettare i momenti di confusione e di conflitto

come stimoli alla conoscenza di se stessi e degli altri.

Gli incontri di gruppo, con il dialogo che vi si apre, sono funzionali a questa maturazione, il

confronto tra generazioni è un faticoso e positivo esercizio di comprensione reciproca, il confronto

di pari età è fonte di scambio di esperienze e scoperte, la presenza di altre voci, provenienti da

realtà diverse, è un buon motivo per evitare la chiusura in un piccolo mondo ristretto e

autoreferenziale e per imparare a sentirsi parte di una realtà complessa e articolata, complicata e

faticosa, ma anche viva e ricca di stimoli.

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Là dove i preadolescenti e gli adolescenti si ritrovano quotidianamente nella normale attività di

studio, che è educazione alla conoscenza e alla responsabilità, gli operatori del CIN sono stati

chiamati da insegnanti attenti e sensibili a incontrare i ragazzi.

Nelle classi sono state portate le testimonianze di persone che lavorano sul campo e di persone

che hanno conosciuto lo sbandamento, lo smarrimento, hanno sfiorato l’annullamento di sé e poi

hanno ritrovato la strada della propria dignità.

In seguito alle classi sono state poste alcune semplici domande sulle attività svolte. Nei grafici che

è rappresentata la sintesi delle risposte.

Rilevazione dati questionari distribuiti dopo gli incontri di prevenzione presso:

Istituto Comprensivo Don Milani di Vigonza

76

Scuole media di Vigonza

38

Istituto Comprensivo Giovanni XXIII Cazzago di P.

79

I.T.C.S. DE AMICIS Rovigo

50

Patronato di Vigodarzere

31

Scuole Rogazionisti di Padova

28

S.M.S. "Woityla" Montemerlo /Cervarese S.Croce

30

Istituto "Rogazionisti" - Padova Classe III A - B

50

totale alunni

382

domanda n. 1 si no

380 2

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domanda n . 2 sì no

nessuna risposta

367 13 2

Domanda n. 3 sì no

Nessuna risposta

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Domanda n. 4

avresti qualche nuova idea da proporre? (riportiamo di seguito le risposte più frequenti)

1 poter parlare con un ragazzo ancora in situazione di dipendenza 2 parlare della coltivazione delle droghe in casa

3 visitare le comunità 4 far vedere concretamente le sostanze 5 approfondire le cause e le situazioni che hanno indotto alla dipendenza

6 sentire la testimonianza delle famiglie dei tossicodipendenti 7 considerare la presenza della droga nella scuola perché anche se non si dice molti studenti si drogano

8 insegnare un metodo per smettere di fumare 9 sviluppare gli argomenti in gruppi di discussione 10 costituire dei circoli come gli alcolisti anonimi 11 parlare dei problemi dell'adolescenza e della sessualità

12 le droghe nella musica e nello spettacolo 13 educare ad affrontare la vita 14 spiegare quanto è bella la vita 15 per queste attività serve più tempo

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Anche gli insegnanti che hanno promosso gli incontri nelle scuole hanno espresso le loro

osservazioni, qui sotto riportate

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Come componenti dell’associazione riteniamo che questa attività sia essenziale, perché ci preme

di parlare di vita e di benessere, di responsabilità e di cura di sé prima che queste vengano meno,

travolte da un momento di crisi o di incoscienza, da una smania di imitazione o dalla fragilità del

carattere.

Per gli operatori le esperienze di dialogo con i giovani sono sempre state gratificanti e

costituiscono un ulteriore motivo di speranza e di fiducia nelle risorse e nelle capacità dei ragazzi.

Ma forniscono anche una potente e ineludibile indicazione: i ragazzi hanno un assoluto bisogno di

adulti veri, che sappiano ascoltare e comunicare con loro.

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“Generazioni a … quattro mani”

Percorso formativo per adulti che hanno a che fare con gli adolescenti

“Quando l’adolescente “fa muro” l’adulto che fa ? Francesco Vezzù

Pag. 4

“Adolescenti e valori. In che cosa credono, in che cosa non credono, in che cosa vorrebbero credere?” Matteo Paduanello

Pag. 8

“I Progetti di prevenzione nelle scuole. Presentazione di un progetto realizzato in un biennio superiore. Osservazioni e considerazioni” Monica Lazzaretto

Pag. 12

“Adulti, adolescenti e scuola” Monica Lazzaretto

Pag. 17

“Ansia, depressione etc. e uso di sostanze” Miriam Lazzaretto -

Pag. 20

“Sostanze psicoattive e disturbi mentali. Approfondimenti” Miriam Lazzaretto -

Pag. 26

“Conseguenze dell’uso di sostanze sull’apparato cardio-vascolare” Giorgio Donadel Campbell

Pag. 31

“Volontariato e tossicodipendenza. Non tutti possono improvvisarsi operatori” Monica Lazzaretto

Pag. 34

“Lo Statuto dell’associazione e l’applicazione della legge sulla privacy” Daniela Clapiz

Pag. 39

“Il trattamento dei dati sensibili e l’obbligo della privacy per le associazioni” Daniela Clapiz

Pag. 41

“Contro la droga non basta sapere , bisogna fare e soprattutto essere”” Riflessioni alla fine di un anno di lavoro insieme Francesco Vezzù

Pag. 44

Il progetto “Generazioni a … quattro mani” entra nelle scuole Pag. 46