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1 Giovanni Tacchini CITTA’- PORTO Armature urbane e paesaggi mediterranei

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Giovanni Tacchini CITTA’- PORTO

Armature urbane e paesaggi mediterranei

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AVVERTENZA Vengono qui raccolti, materiali d studio elaborati in occasione di seminari didattici internazionali, a cui si è partecipato, unitamente al prof. Enrico Mantero, sul tema progettuale delle Città-porto, Delft del 1982, Livorno 1984 e Atene 1988; il tema è stato successivamente approfondito entro una ricerca MURST, condotta nel triennio 91-94 e diretta dall’autore, sui “Mediterranei” visti come bacini in cui si attivano originarie strategie macrourbanisiche, ed è stato alla base di un seminario entro il corso di Geografia umana, tenuto dall’autore nell’A.A. 98-99 vertente sui caratteri originari ( nel testo configurati come il “rumore di fondo” dello spazio mediterraneo).

Politecnico di Milano Dipartimento di Progettazione dell'Architettura Milano, febbraio 2000

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PRIMA PARTE 7

IL “RUMORE DI FONDO” DELLO SPAZIO MEDITERRANEO 7

CAPITOLO I 9

GEOGRAFIE LATENTI 9 Povertà e parsmonia matrici comuni ma destini diversi 9 La geografia dell’osso e della polpa 10 Una geografia regressiva continuamente ritornante 13

CAPITOLO II 19

UNO SPAZIO POLICOLTURALE 19 Parossismi e discontinuità dei popolamenti 19 Una feconda contraddizione: endemismi e colonizzazioni 20 Il contesto della città porto come spazio di acclimatazione 23 Migrazioni inframediterranee: arboricoltori e giardinieri. 24 Civiltà del grano o civiltà dell’albero? 25 La città come tomba ecologica e la montagna come vagina nationum 27

CAPITOLO III 31

LA CITTA’ COME SUPPORTO DEGLI SPAZI DENSI 31 Il paesaggio urbano precede il paesaggio agrario. 31 Riviere di olea e di edes marmoree vestite 34 La huerta dai molti raccolti 36 Tra agrumicoltura e allevamento: la conca e il suo antico ciclo virtuoso. 38 La sola, degna “terra di lavoro” 41 Una osservazione non conclusiva a poposito di irrigazione. 44

CAPITOLO IV 46

I TEMPI E GLI SPAZI 46

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Una prima grande variabile della vita mediterranea. 46 L’alea dei venti, della corsa e del mercato comune dei bacilli 48 Le stagioni e i tempi della sardina e della acciuga. 50 Oltre la pesca 53 La marineria: una prima risposta alla carenza di risorse del mare. 54

CAPITOLO V 56

UNA “UNITA’ VIVENTE” ANCOR PRIMA CHE UNA TIPOLOGIA INSEDIATIVA 56

La citta’ porto: un fossile vivente? 56 Vita domestica e/o vita urbana 58 Catene alimentari , catene di paesaggi solidi e liquidi 61 Civiltà dell’acqua e della pietra 64 Parastrati di koynè 65

SECONDA PARTE 68

VERSO UNA GEOGRAFIA VOLONTARIA: STRATEGIE MACROURBANISTICHE E PARADIGMI FUNZIONALI DELLA CITTA’PORTO 68

CAPITOLO VI 70

FORME DI ANTROPIZZAZIONE DELLE COSTE 70 A proposito di repulsività e attrattività delle coste 70 Uno spazio delle “disponibilità”: le valli, i delta e i porti canale 71 Un primo spazio delle sfide: le coste di ripa 74 Un possibile spazio delle sfide: i litorali di alluvionamento 76 Lo scenario dell’alaggio tra determinismo geografico e fatti culturali 78 Un problema di portuosità favorevole o di armature insediative? 81

CAPITOLO VII 86

“SISTEMI CONNESSI” AL CONTORNO 86 La morsa della continentalità 86 La penetrazione delle anfore : i delta e gli estuari come key gate. 88 Il difficile sforzo di regimentazione delle acque 89 La figura del principe, il Cinquecento come secolo delle belle contrade 90 La crisi di un intervento idrografico puntuale. 93

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Verso una “continentalizzazione” degli spazi irrigui. 96

CAPITOLO XIII

SCENARI E STRATEGIE MACROURBANISTICHE 99 Lo spazio della metropoli e della colonia 99 Empori, reti e direttrici degli scambi 101 Mediterraneo e mediterranei: un primo utile confronto 105 Mediterraneo e mediterranei: un secondo utile confronto 106

CAPITOLO IX 111

ANCORA A PROPOSITO DEL PARADIGMA DI EMPORIO 111 La polis e “colui che viaggia per mare”, 111 Emporio e crematistica 112 Il diverso ruolo del commercio nelle città delle repubbliche marinare 114

CAPITOLO X 117

LA NAVE, LA VELA, IL REMO: A PROPOSITO DI PRODUTTIVITA’ 117

Le limitazioni della navigazione mediterranea, secondo i geografi. 117 Congiuntura e tecnica mediterranea 119 Navi larghe e navi sottili. 120 L’importanza dell’arsenale 122 L’influenza della pesca 123 Costi, produttività e affidabilità: paranze, lancette e bragozzi. 125 Prestito classico e prestito arabo 129

CAPITOLO XI 133

LA LOGICA DI DIRETTRICE 133 Una immagine compatta ma ben articolata 133 I non inutili panegirici della Superba 135 L’acquedotto: civiltà urbana dell’acqua e della pietra. 136 Le spezie e i convogli mediterranei 137 Topografia della fortezza e logistica di uno “stato territoriale”. 140

CAPITOLO XII 145

DAL CHIUSO ALL’APERTO 145 La rappresentazione della forma urbis 145

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L’idea del ricchiuso 146 Livorno e il porto franco 147 L’emporio della trieste settecentesca 151 La fiera ed il porto canale. 152 Aisance du lotissement e bilding cycle 155 L’arrivo a Trieste: una nuova iconografia. 156

CAPITOLO XIII 159

CITTA’-PORTO, CITTA’-CAPITALI 159 Costantinopoli: città ventre o serra calda? 159 Una difficile identita’: Napoli, cicli virtuosi, cicli viziosi. 161 una nuova identità nazionale: l’endiade Atene- Pireo 163

CAPITOLO XIV 170

VERSO SISTEMI PORTUALI 170 Uno scenario in rapida mutazione 170 Una rivoluzione culturale: “produrre servizi”. 171 Il tramonto della figura del commerciante-armatore 172 Il tema della nodalità 174 Il sopravvento del grande porto. 176 La tradizione industrialista del porto mediterraneo 177 dal “fronte a mare” al sistema portuale. 178 Una modesta ipotesi conclusiva 179

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PRIMA PARTE IL “RUMORE DI FONDO” DELLO SPAZIO MEDITERRANEO

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CAPITOLO I GEOGRAFIE LATENTI POVERTÀ E PARSMONIA MATRICI COMUNI MA DESTINI DIVERSI

Si stenta ad associare paesaggi di luce a paesaggi di miseria, paesaggi di terra, di mare e di sole che rivelano una cosmica sintesi a paesaggi di pena fisica1. In realtà, si è detto2, l’uomo mediterraneo sforza, stentatamente, il pane quotidiano: molti sono gli spazi di scarsa utilità3. La terra nutrice è, quasi ovunque nel suo spazio a grano, terra dalla scarsa consistenza pedologica, essa è soggetta a una conduzione biennale che esclude le grosse produttività; terra delle densità disomogenee il Mediterraneo, è nelle basse densità del campo aperto terra delle colture estensive e del pastoralismo4. 1 Di questa percezione colta e letteraria ci ha fornito un bell’esempio Gustave Glotz, nel suo inquadramento geografico della civiltà greca, si veda: G. Glotz: ”La civilisation égéenne” , A. Michel, Parigi, 1952, trad. it. “ La Civiltà egea “ Einaudi Torino, 1953 2 lunga è la fila dei geografi che hanno analiticamente descritto questa condizione, in particolare agraria, i più validi stando però attenti a correlarla ad un sapiente, parsimonioso adattamento colturale e culturale da parte dell’uomo, si veda, tra gli altri, C. Parrain : “La Méditerranée”, Gallimard, Parigi, 1936 3 questa visione “geologica”, di un lavoro tettonico incessantemente in essere ( a tal proposito Braudel ci parla di “geologia ribollente”, si veda F. Braudel: “Il Mediterraneo”, Bompiani, Milano 1987 ) presenta una doppia faccia quella della povertà legata all’incessante “ringiovanimento” dei calcari e quella, per così dire, della resa diacronica delle zone a rocce effusive, molto produttive a distanza di un certo lasso di tempo dall’evento cataclismatico, si veda P. Principi: “I terreni italiani. Caratteristiche geopedologiche delle regioni”, Reda; Roma,1961. 4 In riferimento alle isole egee Birot ci parla dell “ hasards de l'hístoire”- che, più che la natura spiega il destino ineguale delle isole egee: “ Les Turcs s’étaient désíntéressés des petites iles égéennes, ou l'on trouve parfois de véritables fourmilières paysannois, tirant d'un sol ingrat des vins généreux ” o di prodotti orticoli che rifornivano Atene. Lontana da queste rotte Scarpanto, posta all’estremità meridionale del Dodecanneso, è un esempio paradigmatico, quasi un fossile della vita mediterranea, con il suo sistema estensivo di rotazione. “ La culture s'accroche à des pentes relativement douces, modelées dans le flysch ou dans des sables et conglomérats discordants postpliocènes, séparant les montagnes calcaires. Le terroir de chaque village (sauf les potagers irrigués et les olivettes) est partagé en deux soles dont chacune est semée en céréales pendant deux années consécutives, alors que l'autre reste en jachère. Sur cette dernière, le gros bétail pàture sans surveillance jusqu'au mois de mai, le garde-champétre entretenant les clòtures séparant les deux soles et imposant des amendes aux propriétaires des animaux qui les franchissent; l'amende est particulièrement forte s'il s'agit d'un verger. Etant donné la forte concentration de l'habitat permanent (une douzaine de gros víllages éclatant de blancheur) et le caractère extensif de la culture, le paysan citadin doit s'abriter dans des demeures temporaires pendant la période des travaux, demeures qui parfois constituent un véritable village secondaire. A partir du mois de mai, le bétail des villageois entre dans la zone cultivé ou íl est employé pour la dépiquaison et plus tard pour les labour. Les moulins a vent, rangés en bataílle sous les lignes de crete, se mettent a tourner sous l'action des étésiens, Pendant cette période estivale, les chèvres et les ovins appartenant aux bergers, qui auparavant étaient confiné sur les pentes pierreuses, peuvent utiliser la sole de jachére, Ces pasteurs forment une vérítable caste distincte. Il descendent chaque semaine au village pour vendre leur

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“Segno visibile di questa povertà - ci dice Braudel - quella frugalità dei meridionali ha sempre colpito l’uomo del Nord.”1 Prendiamo una immagine quasi abusata quale è quella della parsimonia del soldato turco: il fiammingo Busbecq scriveva nel 1555, trovandosi in Anatolia: “Credo di potervi assicurare, senza tradire la verità, che quel che un Fiammingo spende in un giorno basterebbe a far vivere un Turco per dodici... I Turchi ignorano la cucina e tutto ciò che ne deriva, sono sobri all’eccesso e poco sensuali quanto a cibi; se hanno sale, pane, aglio, o una cipolla con un po’ di latte acido, non chiedono altro, ne fanno un manicaretto... Spesso si contentano di mescolare acqua freddissima con il latte; con ciò soddisfano l’appetito e spengono la sete ardente prodotta dai grandi calori”2. Questa sobrietà è stata spesso indicata come una delle forze del soldato turco in guerra, al quale basta un po’ di riso, un po’ di polvere di carne seccata al sole e di pane cotto grossolanamente sotto la cenere. Il soldato occidentale era più esigente, forse a cagione dell’esempio dei numerosi Tedeschi e Svizzeri3. Ma il contadino, e anche il cittadino, greco, italiano, spagnolo sono stati forse molto più difficili di quei soldati turchi o di quegli altri turchi di cui, un secolo fa, ci dice anche Théophile Gautier, stupendosi che i bei caidijs, muscolosi per il duro mestiere del rematore, potessero passare giornate nutrendosi quasi esclusivamente di cocomeri”4? Consideriamo con attenzione questo tema della “parsimonia mediterranea”. Certe porzioni del mediterraneo soffrono forse della maledizione di un determinismo geografico? Insistiamo su un aspetto: parsimonia non povertà, ossia governo consapevole di risorse limitate e non povertà che ne è invece la marginalizzazione, il collasso, la perdita di centro di questo modo di essere. LA GEOGRAFIA DELL’OSSO E DELLA POLPA

La povertà mediterranea è invece il prodotto di un collasso, di un processo storico che si da come inevitabile prodotto di un fallimentare intervento umano come nel beurre. Au total, cette ìle rocailleuse ne suffit pas à faire vivre sa population pourtant peu dense (21 habitants au kilomètre carré), et du blé doit etre importé. Ce dernier est payé gràce au salaire des emigrants temporaires. Le villagiois est toujours prèt à s’expatríer, jadís vers l'Egypte, au moment où l'on percait le canal de Suez, aujourd'hui vers l'Iran où il va travailler à la construetion des routes. ” in P. Birot, J. Dresch: “La Mèditerranéee et le Moyen-Orient” P.U.F, Parigi, 1956, vol II pagg. 74-75 1 in F. Braudel: “Civiltà e imperi del Mediterraneo al tempo di Filippo II” ( quinta edizione 1982), Einaudi Torino, 1982 , pag. 249. 2 ibid. 3 ibid. 4 ibid. Naturalmente noi sappiamo, come aveva peraltro notato il Busbecq, che nella sua alimentazione vi è una matrice pastorale di latte acido. L’apporto pastorale alla alimentazione urbana dato in particolare nel quadro della insularità intesa in senso lato comprendendovi le porzioni peninsulari ( e non sono molte le zone in cui essa non abbia peso rilevante ) è fondamentale.

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caso dell’impaludamento malarico delle coste, come nel caso degli spazi franosi dell’“osso” e delle fiumare, dove è mancata l’opera civilizzatrice della città nel configurare una bonifica idraulica e un progetto di paesaggi integrati. Si prenda il caso della Basilicata segnata dallo spazio delle sue fiumare, uno spazio inselvatichito dopo che vi era fiorita la civiltà urbana della Magna Grecia. Quando nel 1902 lo Zanardelli compie quel suo memorabile viaggio in Basilicata, in buona parte su di un carro trainato da buoi, i cui esiti saranno la inchiesta parlamentare 1, il suo stupore dinanzi al ruolo sciagurato dell’ambiente meridionale è assai significativo: “al desolato silenzio dei monti nudi e di avvallamenti altrettanto brulli, improduttivi, succede il piano mortifero, dove i fiumi sconfinati scacciano le colture e, straripando, impaludano, e vedi, ad esempio, il letto dell’Agri identificarsi con la valle dell’Agri, e l’acqua vagante non aver quasi corso in quelle sterminate arene“.2 La stessa Basilicata è per Fortunato “ quel povero osso dello stivale, che ... non è tutto se non un altipiano di argille, assai feconde di marruche ne’ saldi e di gramigne ne’ campi, striato in lungo da quattro enormi fiumane ”; mentre “ la punta granitica delle Calabrie ... è un vero sfasciume ”3. Così quando Giustino Fortunato, in polemica con una posizione parlamentare sabauda che, anche per interessati fini fiscali, si rifaceva ai riscontri della letteratura classica ed ai diari dei Viaggiatori stranieri dei Settecento e dell’Ottocento e presentava come oltremodo lussureggianti e potenzialmente floride queste terre (e conseguentemente ne proponeva una perequazione impositiva rispetto alle terre del Nord) mostrava, alla luce di una indagine geologica, climatica e pedologica, l’esistenza di caratteri di intrinseca povertà, oltreché di progressivo impoverimento di gran parte di queste aree,4 egli non si rendeva, o non si poteva rendere conto, che

1 Si veda: (a cura di ) P. Corti: “ Inchiesta Zanardelli sulla Basilicata”, Einaudi, Torino, 1976 2 ibid. 3 si veda a tal proposito la raccolta di scritti di G. Fortunato: “Il Mezzogiorno e lo stato italiano” Vallecchi, Firenze, 1973 4 di ciò ci ha parlato il Coppola: “La morfologia tormentata, i terreni poveri ed instabili, i contrasti pluviometrici del clima mediterraneo avrebbero richiesto ben altra cura ed organizzazione per il vitale controllo delle acque e dei versanti. Invece, il diboscamento insensato, che si era offerto come una risposta alle esigenze di materiale da costruzione sin dall'epoca dei Romani ed alla ricorrente fame di terre comunque utilizzabili dei contadini e delle loro voraci greggi, aveva finito con l'impoverire con gradualità le naturali capacità di difesa dell'ambiente, rendendo sempre più esposte le genti del Sud alle " calamità " dell'acquitrino, delle frane e dell'isterilimento dei suoli. In un'epoca in cui la geografia è essenzialmente determinismo, la desolazione dei paesaggi del Mezzogiorno porta così i meridionalisti della prima ora a ritenere “ naturalmente povero ” il loro paese “ che ragioni fisiche distinguono a prima vista e rendono inferiore al resto della penisola ” (Giustino Fortunato). Non che si ignorino le cause storiche della “ questione ”, ma quelle " naturali vengono in primo piano, non foss'altro per l'acuta reazione alle lodi che della feracítà e delle bellezze delle terre del Sud erano state fatte dai Latini prima e da intere generazioni di viaggiatori poi e che riempiono ancora i discorsi, ricchi solo di reminiscenze letterarie, di molti

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questi elementi di analisi, sorretti da una ‘vis polemica’ tutta interna ad un dibattito politico, avrebbero rischiato di divenire una bandiera di una posizione assistenzialistica “ante litteram”. Ed ancora un poco più tardi il geografo Almagià, durante i suoi lunghi viaggi nel Mezzogiorno al fine di configurare il quadro geografico del movimento franoso in Italia1, tratteggerà della fiumara una immagine quanto mai dinamicamente espressiva del modellamento di superficie che essa attiva, e ciò avverrà su un fronte marittimo per altro diverso, quello calabro-tirrenico: “Le fiumare - che sono torrenti a corso breve, a letto fortemente inclinato, amplissimo, ingombro di masse enormi di detriti, e che per lo più non portano acqua se non nelle piene - debbono queste loro caratteristiche a varie cause: anzitutto la facile erodibilità delle rocce, non solo delle filladi e di altri micascisti, ma anche dei graniti i quali sono ricoperti da una spessa crosta di degradazione dovuta ad alterazioni soprattutto chimiche; inoltre la ripidità dei pendii per la vicinanza dei monti al mare, l’intensità dell’azione erosiva nelle piene allorchè tutta l’acqua di pioggia (tranne quella sottratta immediatamente dalla evaporazione) viene convogliata nel letto, perchè la roccia superficiale impermeabile non ne lascia filtrare nel sottosuolo; e ancora la quantità notevole delle precipitazioni, che è tutta concentrata in brevi periodi. Il tronco superiore delle fiumare si presenta sotto forma di gole a pareti ripide, come fossero incisioni giovanissime; il tronco inferiore presenta invece letti larghissimi, determinati dall’intensità dell’erosione laterale e ricoperta dai detriti trascinati in basso dalle piene, che non possono tuttavia essere convogliati immediatamente fino al mare, per la breve durata delle piene stesse: lo spazzamento del letto avviene perciò a poco a poco.”2 Ma che origine hanno le cause di un tale sfacelo? E’ lo stesso Fortunato a fornirci una traccia interpretativa e questa ci rimanda al modo in cui è stata affrontata la questione demaniale tra Sette e Ottocento.3 Certo non tutto origina dalla questione demaniale, ossia dalla concessione ai privati di terre demaniali ad un tempo pascolive e forestali, ma molto sì. Rileggiamo cosa ci dice la relazione del Sant Just: “Prima d’oggi e, a quello che si dice dagli abitanti, in tempo non molto lontano, una gran parte della Basilicata era ricoperta da bosco; da ciò il nome suo di Lucania da lucus (selva, bosco)”4. Ecco aprirsi la chiave di lettura di un

deputati ed economisti mai scesi a Sud del Volturno o mai usciti dai loro palazzi nobiliari.” In P. Coppola: “Geografia e Mezzogiorno” La Nuova Italia, Firenze, 1977 1 si vedano anche a tal proposito i suoi importanti due volumi, R. Almagià: “L’ Italia”, UTET Torino 1959 2ibid. pag. 344 3 si veda: G. Fortunato: op.cit. 4 ibid.

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simil sfacelo, l’erosione è primariamente di origine antropica e la relazione ci mostra lo svilupparsi di un “grafo di processo”: diboscamento senza costruzione di stabile paesaggio agrario con conseguente erosione a monte, trasporto e deposito caotico a valle1. UNA GEOGRAFIA REGRESSIVA CONTINUAMENTE RITORNANTE

A fianco di un tale quadro, sta quello delle origini antropiche della malaria, il cui scenario anche esso si riporta al dominio di una civiltà pastorale divenuta insicura

1 “Dagli elementi forniti dall'Ispezione Forestale risulterebbe come attualmente si abbiano in provincia ettari II7.128 di boschi vincolati, ettari 62.510 di boschi svincolati, e quindi in totale una superficie boscosa di ettari 179.638. Si dice poi che col disboscamento siano stati distrutti ben 170.000 ettari di bosco, dimezzando cosí all'incirca il capitale boschivo della provincia. Se cosí fosse (ed ho ragione di credere che la cifra non sia lontana dal vero.) la Basilicata avrebbe posseduto in altri tempi circa 350.000 ettari di bosco, od in altri termini, un buon terzo della sua totale superficie sarebbe stato adibito a coltura silvana. L'albero piú comune è però la quercia (farnia, rovere, ischia) sotto la quale non prospera il sottobosco, ma, specialmente se gli alberi son radi, si forma ottimo pascolo. Per conseguenza allorché la coltura silvana era tanto estesa, erano pure estesissimi i pascoli; i quali, dissodati dopo il taglio degli alberi ed abbandonati dopo il primo e rapido sfruttamento del terreno, diventarono terreni brulli ed aridi che, denudati in breve dal manto di terreno vegetale, hanno messo a nudo le argine scagliose, di facile erosione, contribuendo allo spaventoso incremento degli smottamenti e delle frane. Ma l'improvvido disboscamento non ebbe solo questa conseguenza disastrosa. La mancanza di pascolo contribuì alla diminuzione della pastorizia, la quale, cresciute le imposte, diminuiti i prezzi dei prodotti, accresciuti quelli dei pascoli, subí una crisi fatale, talché i capi di bestiame ovino, che si dice ascendessero a 3.000.000 sarebbero oggi ridotti a 600.000 e, se queste cifre non sono esatte, certo esse sono assai prossime al vero. Quindi le due industrie primitive che ancora si adatterebbero alla condizione della regione e che tutt'ora prosperano in regioni consimili, sono state l'una dimezzata e l'altra ridotta ad un quinto. In coltura intensiva, avviene sempre una diminuzione nella superficie dei terreni boschivi od a pascolo stabile, i quali danno luogo a colture intense avvicendate di cereali, leguminose e foraggi, che aumentando la rendita del terreno, aumentano la ricchezza delle regioni, e quindi favoríscono il miglioramento della economia pubblica. Di questa trasformazione la Basilicata ha fatto il primo passo, ma non ha fatto il secondo. Allettati dalla forte rendita ricavata dal dissodamento di terreni vergini, tutti si diedero a dissodare, ma senza un preconcetto esatto della trasformazione economica che essi dovevano intraprendere. Al primo reddito abbondante, la terra sfruttata fece seguire raccolti ognora minori, finché diventarono insufficienti, ed oggi le terre dissodate, come ho detto piú sopra, sono diventate sterili, cosicché alla perduta rendita dei boschi e degli armenti non è sottentrato alcun altro cespite. Non di meno si ha nella regione una certa coltivazione di cereali, grano cioè ed altre civaie, scarsamente fave ed altre leguminose. Però questa coltura è fatta con metodi primitivi; l'aratro è ancora il chiodo romano, foggiato in legno con un piccolo vomere di ferro senza voltaorecchio; la concimazione è o scarsa o affatto trascurata; tutte le altre lavorazioni sono fatte sempre con metodi primitivi ' senza usare le moderne macchine agrarie, che tanto diminuiscono il lavoro; e senza che si possiedano magazzeni regolarmente disposti per la conservazione dei raccolti.” in Zanardelli: op.cit.

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terra di insolenza e insolvenza di fronte a uno stato, o a una mancanza di stato, come in Sardegna.1 Allo stesso modo sono abbandonati alcuni tratti di coste basse e arenose, adiacenti ad aree pantanose e infestate dalla malaria. Al delta del Nilo, intensamente occupato dagli albori della storia, può opporsi l’esempio dell’Ebro, deserto, soggetto ad allagamenti e insalubre fino a un secolo fa, quando vi si sviluppò la coltura del riso, ma ancora oggi area di popolazione rada tra tratti di costa dove l’insediamento è antico e denso. Spazi che restano vuoti fino alla colonizzazione proposta da popolazioni alloctone come quella greca proveniente dall’Asia Minore sul finire della seconda decade del XX sec. in Tessalia, o quella franco-provenzale nella piana della Mitijà nella seconda metà del XIX sec. Un divenire fatto di corsi e ricorsi, di colonizzazioni e abbandoni, come dimostra la storia della piana di Cherchell2, perno di una importante colonizzazione romana e successivamente abbandonata all’impaludamento, o di molti centri e territori fiorenti nel periodo della Magna Grecia e di Roma. Ma è forse nella dimensione paradossalmente introversa di certa insularità che un tale fenomeno può essere al meglio spiegato. Seguiamo quanto ci dice Le Lannou: “Non c’è, in Europa, un paese così gravemente infestato dalla malaria come la Sardegna. Questo male, vinto nei paesi più settentrionali, molto attenuato nei paesi mediterranei continentali, nelle isole più popolate (la Sicilia) o più montuose (la Corsica), è in Sardegna un fatto d’importanza geografica fondamentale.”3

1 Il quadro etnostorico della Sardegna apparirà in tutta la sua resistenza non agli intellettuali romantici come la Corsica, non ai deutsch romer come il Mezzogiorno e la Sicilia, ma ad un nobile militare piemontese come il La Marmora. 2 In P. Birot, op. cit. II vol., che prenderà, seguendo l’indicazione dei romanisti francesi, tale piana ad esempio della tecnica numidica, poi perfezionata dai romani, del dry firming. 3 “Sfortunatamente, si presta male a una definizione e a una descrizione geografiche. In particolare, è difficile esprimerne il ruolo graficamente, in difetto di un criterio sicuro. Le cifre che ci vengono sottoposte e i diagrammi che le illustrano possono avere solo valore di indicazioni relative'. Bastano, tuttavia, a dare un'idea del triste primato dell'isola. Nel 1913, un elenco dei comuni d'Italia con zone malariche assegnava il primo posto alla provincia di Cagliari, presente con tutti i suoi comuni, e il terzo a quella di Sassari, dove il 99 per cento dei comuni figuravano infestati - si salvavano solo La Maddalena e Oliena'. Una statistica del 1924 indica che sugli 84.046 chilometri quadrati di zone malariche esistenti in Italia, 21.982, cioè più d'un quarto, appartengono alla Sardegna. Così, I'89 per cento della superficie dell'isola - contro l'11” in M. Le Lannou: “Le róle geographique de la malaria” in “Annales de Géographie”, 15 marzo 1936. Nel resto dei Regno, solo la provincia siciliana di Caltanissetta aveva tutto il suo territorio infestato. Seguivano, col 90-95 per cento di comuni colpiti, le province di Agrigento e di Palermo (Sicilia), di Foggia e di Lecce . Le cifre si trovano nella pubblicazione della Direzione Generale della Statistica, “Elenco dei Comuni del Regno aventi zone malariche a tutto il 30

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La malaria era in Sardegna una presenza pandemica, colpendo la stragrande maggioranza della popolazione. Le manifestazioni violente del male sono, a quest’epoca, rare e brevi; ci sono, in Sardegna, più malati cronici che malati acuti. Pochi hanno febbri forti. Ma tutti soffrono di disturbi profondi1: “E’ per queste sue fatali conseguenze che la malaria cronica è, in Sardegna, più grave che in qualunque altro posto. Malattia d’una società intera più che dannosa affezione individuale, essa crea veramente, con queste sue conseguenze, un ambiente sociale molto particolare e molto indebolito. C’è, innanzitutto, la diminuzione delle capacità lavorative, che si può tradurre in cifre. Si è valutato tra 20 e 30 il numero delle giornate di lavoro perdute ogni anno da un malarico. Il che significa un ozio forzato da 2.600.000 a 3.500.000 giornate all’anno per tutta la parte attiva della popolazione.”2 Se questo è vero su un piano macroeconomico e quantitativo, su quello soggettivo, ma è una soggettività di massa, le conseguenze sono ancora più gravi: bisogna infatti tener conto anche della diminuzione delle forze del lavoratore e dell’indebolimento della sua volontà. Medici ed economisti sottolineano l’influenza di questo male sulla psicologia degli individui affetti: “La malaria cronica provoca un “decadimento di volontà, diminuito senso di colleganza sociale, minore audacia in ogni opera collettiva e sociale, anzi ostilità decisa a tutto ciò che esce dall’ambito stretto delle tradizioni, della persona, della famiglia per abbracciare la sfera delle più ampie imprese e organizzazioni collettive”3. Ecco dunque come la malaria diventa un fatto essenziale di geografia umana, allo stesso titolo di certe grandi malattie tropicali: “E’ la sola malattia che, in Europa, abbia questo valore geografico: impone un limite rigoroso all’attività dell’uomo e contribuisce così a fissare dei paesaggi.”4 Oggi che questa battaglia è stata vinta ( una battaglia per l’appunto non la guerra ) ripercorriamo il difficile percorso di una profilassi che su una diversa antropizzazione del paesaggio aveva puntato con le opere di prosciugamento, drenaggio e bonifica idraulica. Ci si attendeva molto dalla lotta contro l’agente vettore della malattia, l’anofele e lo si voleva colpire nel suo momento potenziale di massimo sviluppo. Quest’insetto vive dapprima allo stato di larva nelle acque stagnanti o a deflusso molto lento. Se

aprile 1913”, Rorna, 1914.' Direzione Generale della Sanità Pubblica, “La malaria ed i risultati della lotta antimalarica”, Roma, 1924. 1 milze ingrossate, ipertrofia del fegato, gastralgia, crisi viscerali periodiche che dipendono direttamente dall'infezione malarica latente, in M. Le Lannou: “Patres et Paysans de la Sardaigne”, Tours, 1941, trad. it.: “Pastori e contadini in Sardegna”, Ed. della Torre, Cagliari 1979, pag. 75 2 Ibid. 3 Questa drammatica diagnosi traspare anche dalla sensibilità letteraria di un medico inviato al confino, Carlo Levi, nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, Einaudi, Torino 4 M.Le Lasnnou: op.cit.

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ne può impedire lo sviluppo modificando le condizioni fisiche del suo habitat. Sempre Le Lannou al proposito ci ricorda come: “In Sardegna è una tela di Penelope, perché il suo habitat è dappertutto, non soltanto nelle piane basse e acquitrinose, ma anche sulle superfici alte della regione di montagna. L’andamento tabulare del rilievo e l’indecisione delle aree di drenaggio sono favorevoli alla stagnazione delle acque mediocri. La considerevole estensione delle superfici impermeabili è un’altra condizione negativa, e abbiamo visto che la carta geologica non ne rende minimamente conto: gli spazi di calcare miocenico, a parte il fatto che, specie nel Sud, presentano una facies marnosa, sono frequentemente rivestiti da pellicole argillose che ne diminuiscono di molto la permeabilità.”1 Ma è il clima che esercita un’influenza fondamentale. La violenza massiccia delle piogge impedisce lo scorrimento regolare delle acque. E soprattutto le piogge tardive di primavera, sopravvenendo in periodo caldo, creano un ambiente particolarmente favorevole allo sviluppo delle larve d’anofele: è così che si realizza l’umidità calda che è la condizione ottimale di questo sviluppo: “Certe piogge di maggio e di giugno realizzano in Sardegna, da questo punto di vista, situazioni di tipo tropicale. La corrispondenza fra questi capricci del regime pluviometrico e l’esasperazione dell’endemia è perfettamente verificabile: è in seguito alle precipitazioni tardive e sovrabbondanti e ai caldi precoci che si sono constatate, nel 1921, 1924 e 1929, delle recrudescenze della malaria. Il fatto importante è dunque, più che il volume totale delle piogge, la superficie d’acqua stagnante ancora esistente all’inizio dell’estate. Vi si aggiunga l’azione degli uomini, soprattutto dei pastori, che si danno da fare per creare e conservare, sui terreni percorsi dalle greggi, delle pozzanghere-abbeveratoi particolarmente pericolose”2. Una prima soluzione è il prosciugamento delle superfici d’acqua stagnante. Ma questo è possibile soltanto nelle zone comprese nei programmi di bonifica e per di più è ben lontano da dare risultati decisivi.3

1 ibid. 2 ibid. 3 Il drenaggio ha per risultato di sostituire alle paludi una serie di canali in cui le acque scorrono lentamente e talvolta finiscono anche per stagnare in pozze alte pochi millimetri. Ora, le larve dell'Anopheles Maculipennis, la più comune in Sardegna, s'insediano comodamente in questi rigagnoli lenti e intermittenti, e la zona bonificata col solo intervento idraulico resta pericolosa. Ci sono perfino dei casi in cui le opere di bonifica hanno provocato una esasperazione della malattia, allungando il periodo epidemico. Nella piana della Nurra, a una quindicina di chilometri da Sassari, i canali di drenaggio costruiti nel 1934 hanno singolarmente aggravato le condizioni igieniche della zona. Precedentemente, lì c'erano anofeli soltanto in giugno e, al più tardi, in luglio, cioè nell'epoca calda in cui le larve trovavano ancora l'acqua necessaria alla loro trasformazione. Ma dopo luglio, su queste superfici di calcari permeabili, tutta l'acqua spariva, e con essa le anofeli. Oggi, in quei canali privi di un'adeguata manutenzione, c'è sempre dell'acqua, che arriva dalle sorgenti delle colline vicine e che viene conservata dal cemento. E le anofeli restano numerosissime sino al primo abbassamento notevole della temperatura, alla fine d'ottobre. Si veda Le Lannou: op. cit.

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Equilibrio dunque precario, equilibrio instabile quello tra uomo e anofele, in presenza di un paesaggio di deboli densità, in presenza di un paesaggio estensivo, ma equilibrio che si sposta a favore dell’uomo nel momento in cui questo paesaggio diviene intensivo e tutto viene retto dalle pendenze di un sistema irrigatorio di piccolo idraulica con acque continuamente scorrenti su limitatissime pendenze sapientemente tenute al di sotto della soglia di una azione meccanica di erosione del suolo, così come ci mostrano gli insediamenti di alcune colonie della Magna Grecia, in particolare Metaponto, in cui la polis si associa al contesto e ne organizza una serie drenante di canali, tra cui intercluse stanno una serie di “scamnae” che daranno luogo alla formazione di campi stabili. 1 Così è che, ancora una volta, torniamo a constatare la funzione fondamentale della città mediterranea nella costruzione di un progetto di antropizzazione del contesto territoriale.

1 S veda D. Adamesteanu, C. Vatin: “L’arrière pays de Metaponto”, CRAI, 1976 e D. Adamesteanu. “La suddivisione della terra nel metapontino” in M. I. Finley: “ Problèmes de la terre en Grece Ancienne” Metuen, Parigi, 1973

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CAPITOLO II UNO SPAZIO POLICOLTURALE

PAROSSISMI E DISCONTINUITÀ DEI POPOLAMENTI

“Vi sono popoli sui quali il mare non suscitò mai attrazione: le montagne dell’Epiro sono occupate, fin dalla Grecia classica, da pastori e contadini che disdegnano i recessi di un litorale riparato; Ratzel, malgrado la sua concezione determinista della geografia umana, fu il primo a richiamare l’attenzione verso l’esempio paradossale della Corsica, un’isola di pastori e contadini quasi senza vita marittima, Cosí, conformemente alla verità di sottili combinazioni naturali e storiche, esistono, alla periferia dei Mediterraneo, aree di alta e di molto bassa densità, coste deserte o formicai umani, dove la popolazione si eleva a due o trecento abitanti per kmq, superiori alle densità del litorale atlantico del Portogallo, della Galizia, della Bretagna o dell’Olanda, animati tuttavia di intensa vita marittima.”1 Prendiamo con una qualche incertezza la perentorietà di tali affermazioni, non è l’introversione dei contadini dell’interno a volger le spalle al mare2 ma piuttosto l’estroversione delle migrazioni stagionali, con l’uso delle “maremme”, delle “campagne” pastorali, a creare questo scemare del paesaggio umanizzato lungo le coste e che in non rari casi è strettamente legato ad un uso degli approvigionamenti annonari della città capitale: la Roma papale e la campagna romana, l’Algeri ottomana e la Mitijà3. Una congiuntura, quella tra l’uso annonario e la transumanza, una alleanza tra la città capitale e il pastoralismo, che è quasi una congiura a danno del paesaggio agrario Guardiamo una carta delle coste medio tirreniche all’inizio del secolo: stagni e successivi allineamenti di dune rivestite da fitte ed estese pinete separavano, fino al Circeo, le Paludi Pontine che pur portavano impressi i tentativi di ristrutturazione voluti da Pio VI. “Sul mare, Nettuno e Anzio tanto vicini fra loro e già con qualche proiezione balneare, erano i primi centri che si incontravano dopo Civitavecchia. Più a sud, Terracina e Gaeta guardavano le piane di Fondi e del Garigliano che chiudevano il paesaggio umido costiero tosco-laziale per dar luogo a quello tanto diversificato del versante tirrenico meridionale”4. Ad eccezione di queste oasi, uno spazio silvo-pastorale di costa, che richiamava nell’inverno l’attenzione di molti

1 O. Ribeiro. “Mediterraneo. Ambiente e tradicao”, Lisbona 1968, trad. it. O Ribeiro:“ Il mediterraneo. Ambiente e tradizione”, Mursia, Milano, 1972 2 vi è forse una opposizione etnico-antropologica tra contadino e pescatore ? 3 si vedano i lavori di Maurice Aymard e della Ecole francais de Rome. 4 M. Zunica: “Lo spazio costiero italiano” Valerio Levi ed., Roma, 1987

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pittori di paesaggio oltre che delle greggi, era la regola1. A Roma le prime guide del Touring ci descrivono ancora il passaggio periodico delle greggi entro il cuore della nuova capitale, a ricordarci di una continuità storica straordinaria di punto di passaggio, da cui si dipartiva verso la Sabina la via salaria, ad un tempo strada della risalita del sale e della discesa e rimonta delle greggi, in una relazione inscindibile. Più a nord, nel mar ligure, queste direttrici divengono le vie marenche che dal Piemonte scendono alla costa ligure scavalcando l’Appennino, vie che si faranno dei mercanti, ma che furono anche le vie del sale prima e di intensissimi processi di scambio e di acculturazione fondati come sono sui flussi di produzioni agricole e di pratiche alimentari.2 UNA FECONDA CONTRADDIZIONE: ENDEMISMI E COLONIZZAZIONI

Lo abbiamo già visto e detto: non ci ingannino le facies del suo apparente lussureggiamento, quelle care immagini letterarie della terra frugifera e di cui ogni viaggiatore ha serbato memoria, ma non ci tragga in inganno neppure il contrappunto di queste, le descrizioni alla Giustino Fortunato per intenderci, che favoriscono l’idea di un deterministico destino di questi spazi dove i magri suoli vengono dilavati dal ruscellamento superficiale e portati rapidamente al mare da violente fiumare. Il Mediterraneo è stato una dura e severa culla per le sue civiltà, non si è dato come facile spazio di abbondanza, ma proprio la sua sfida ambientale è stata stimolo allo sviluppo di queste3. Infatti il Mediterraneo è da sempre il più straordinario spazio di acclimatazione di vegetali, arborei o erbacei, che si sia mai dato. Braudel parafrasando Febre ci configura il quadro dell’esotismo che ne caratterizza profondamente la facies vegetale.4 Ma era stato, ben prima di loro, Emile Felix

1 andando oltre l’importante realtà dei pittori “di macchia” toscani, andrà notato come dopo i pittori stranieri nella Roma capitale un gruppo di pittori italiani porrà un occhio attento sia in senso naturalistico che antropologico alle campagne romane. 2 Tutto ciò ci hanno illustrato gli storici ma anche scrittori sensibili a leggere in profondo la realtà di una struttura culturale di importanza primaria quale è l’alimentazione come Nico Orenco: “ Il salto dell’acciuga”, Einaudi, Torino, 1998. 3 se guardassimo alle varie ere geologiche e al più recente divenire delle fasi climatiche ci accorgeremmo che una delle massime caratteristiche delle varie facies dei manti forestali mediterranei, per quanto degradati essi siano, come la macchia a lentisco-olivastro, testimoniano questa capacità di resistenza alla azione di fattori limitanti e agenti distruttivi quali la siccità e il fuoco. 4 “Tutto questo perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante. Le credete mediterranee. Ebbene, a eccezione dell'ulivo, della vite e del grano - autoctoni di precocissimo insediamento - sono quasi tutte nate lontano dal mare. Se Erodoto, il padre della storia, vissuto nel V secolo a.C., tornasse e si mescolasse ai turisti di oggi, andrebbe incontro a una sorpresa dopo l'altra. "Lo immagino," ha scritto Lucien Febvre, "rifare oggi il suo periplo del Mediterraneo orientale. Quanti motivi di

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Gautier, l’orientalista, a definirci in modo assai problematico tale scenario di acclimatazione. Se il Mediterraneo è uno spazio di compartimentazioni e confini esso è anche uno spazio di discontinuità biogeografica, uno spazio che nel suo manto di copertura vegetale appare segnato da molte forme di insularità e di endemismi. Dove solo una isola climatica, per lungo tempo chiusa e quasi residuale si presenta nella sua condizione di sviluppo ubiquitario e infestante per nuove speci colone. Prendiamo a tal proposito la bella e vivace descrizione che ci ha lasciato Gautier di quell’”isola del Magreb”, che bene riassume. E in modo drammatico, i flussi che hanno investito il Mediterraneo: “ En France, pratiquement, dans ses traits généraux, il n’a pas changé depúis deux mille ans et davantage, depuis la fin du quaternaire, ou du moins: il a évolué lentement sans devenir méconnaissable. Nous pouvons sans grossier anachronisme nous représenter les paysages de Gaule assez semblables aux paysages de France, en ce qui concerne la parure de végétation et la vie animale. Quelle différence avec le Maghreb ! Dans le paysage maugrebin actuel, quels sont les végétaux caractéristiques, ceux qu’un peintre n’aura garde d’omettre ? Assurément les hampes gigantesques des aloès, les cactus pachydermiques aux formes absurdes. Aloès et cactus sont des plantes américaines, importées par les Espagnols depuis trois ou quatre siècles. Ou bien encore les grands vergers d’orangers et de mandariniers, avee la tache d’or de leurs fruits. Ce sont des Chinois venus au Moyen Age. Ou bien encore l’eucalyptus, un australien, importé il y a au moins d’un siècle peut-étre et qui a déja tout envahi. Il faudrait ajouter les splendeurs florales, qui sentent les tropiques d’où elles viennent généralement, couvées artificiellement dans des jardins d’essai, uniquement connues par les noms latins que les botanistes leur ont infligés, et sans lesquelles on ne se représente pas la villa dite mauresque qu’elles tapissent et qu’elles encadrent: les murailles splendides,

stupore! Quei frutti d'oro tra le foglie verde scuro di certi arbusti - arance, limoni, mandarini - non ricorda di averli mai visti nella sua vita. Sfido! Vengono dall'Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti, dallo stelo fiorito, dai nomi astrusi - agavi, aloè, fichi d'India -, anche queste in vita sua non le ha mai viste. Sfido! Vengono dall'America. Quei grandi alberi dal pallido fogliame che pure portano un nome greco, ecucalipto: giammai gli è capitato di vederne di simili. Sfido! Vengono dall'Australia. E i cipressi, a loro volta, sono persiani. Questo per quanto concerne lo scenario. Ma quante sorprese, ancora, al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guyana; il mais, messicano; il riso dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco." Tuttavia, questi elementi sono diventati costitutivi del paesaggio mediterraneo: "Una Riviera senza aranci, una Toscana senza cipressi, il cesto di un ambulante senza peperoncini... che cosa può esservi di più inconcepibile, oggi, per noi?" (Lucien Febvre, in "Annales", XII, 29).” In F. Braudel: op. cit.1987, ma già in F. Braudel: op. cit. 1982

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couleur rouille, des bougainvillea, le jacaranda avec son étonnante toison de fleurs bleues,…. ”1. Ed ancora, quasi a configurare un diverso quadro di nicchie ecologiche, un diverso ecosistema vegetale ed umano : “ Chez nous aussi les fleurs de jardinier ont fait d’énormes progrès depuis deux ou trois siècles. Mais elles restent discrètes, localisées dans les parterres, en jonchée sur les tables de gala, ou dans les vases da salon. C’est au Maghreb seulement qu’elles submergent la maison, toute la ville, avec une exubérance qui fait songer à Londres enfoui sous la végétation martienne dans le roman de Wells : la Guerre des mondes ”.2 Al contrario in questa strana isola del Magreb, chiusa come è da un Oceano, da un mare interno, e da un deserto, discontinuità e rotture, sostituzioni, vicarianze e naturalizzazioni violente vi appaiono : “ Sì on cherche à se représenter le paysage de l’Afrique il faut élaguer les végétaux types, ceux que le seul mot de Maghreb évoque aujourd’hui dans notre imagination. ”3 Una storia continuamente interrotta e ripresa, segnata da fratture, da balzi e rivoluzioni : “ Ces sauts brusques se retrouvent dans l’histoire humaine. Quel abime entre la Carthage punique et la romaine ! Entre l’Afrique romaine et le Maghreb musulman, entre celui et l’Afrique francaise ! Tout change d’un coup, langue, religions concepts politiques et sociaux ”4.E ancora una volta ecco emergere per contrasto il “ continuismo ”, sia pur relativo della storia europeo-occidentale : “ Dans nos pays européens, il y a une évolution progressive, suivant une courbe continue. Au Maghreb, une série de mutations soudaines. ”5 L’insularità nella sua essenza di isolamento, di ambiente altresì privo di servomeccanismi di resistenza, di ecosistema gracile che con i suoi fattori limitanti dà ampie possibilità di sviluppo a colonizzazioni e specializzazioni già in altri spazi adattate a quelle condizioni, vi appare a spiegarci la storia : “ Tout cela se tient. Il y a là un groupe de phénomènes à propos desquels il faut garder présent à l’imagination la formule “ Djezirat-el-Maghreb ”. Maintenues comme en vase clos pendant des siècles, la flore, la d faune, une forme de civilisation, deviennent plus ou rnoins ce que les zoologistes appellent résiduelles; elles tendent à se perpétuer au-delà da terme normal parce que leur isolement les soustrait à la lutte pour l’existenee.

1 E.F. Gautier. “Le Passé de l’Afrique du Nord”, 2 ed. Payot, Parigi 1952 2 Ibid. 3 ibid. dove aggiunge: “On dira longuement … la peine que nous avons à imaginer la faune de l'Afrique romaine, où la place da chameau, tout à fait absent, était tenue par des troupeaux d'éléphants sauvages. ” 4 ibid. 5 ibid.

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lvlais que le vase elos vienne à se féler, le flot de la vie extérieure pénètre et tout croule avec la fragilité coutumière des choses résiduelles. ”1 Certamente l’intera chiave di lettura di Gautier è segnata dal tempo del credo positivista, ma non possiamo in alcun modo non tenerne conto ed ancora più interessante è leggere come a queste condizioni naturali si sovrapponga il processo di domesticazione dei vegetali che sta oltre i confini dell’orto botanico e entra nello spazio produttivo del giardino mediterraneo. IL CONTESTO DELLA CITTÀ PORTO COME SPAZIO DI ACCLIMATAZIONE

E qui veniamo ad una caratteristica precipua della geografia agraria mediterranea. Questa facilità di acclimatazione è stata per altro profondamente educata dall’uomo negli spazi capaci di andar oltre la dimensione degli orti dei semplici, tale civiltà agraria è stata capace di proporre esperienze produttive e sperimentazioni di vegeculture nella selezione varietale, di tipo agamico e gamico. Il parco botanico di quella che fu la reggia bavarese di Atene, il magnifico orto botanico di Algeri, così come le calviniane “stazioni sperimentali” dell’estremo ponente ligure2, riassumono molto bene questa realtà, con la capacità di espansione propria delle loro “pépinières” produttive e ornamentali, le quali però ad eccezione di alcune infestanti richiedono cure assidue di selezione massiva e di tecnica orticola e di tecniche di innesto e di riproduzione agamica nel campo arboreo. Ciò fa si che il mediterraneo si presenti, come un mosaico composto da una complessa testura. Nel campo verde pruinoso del suo cingolo climaxico definito dalle facies delle sue speci autoctone, il leccio, l’alloro, l’olivastro e molte altre ancora, appare la presenza di puntuali, minute piccole tessere, costituite dai numerosi orti dei semplici, e poi quelle più estese ma meno numerose costituite da giardini botanici sperimentali e da ultimo quella incommensurabilmente più estesa che da vita ad immensi “orti botanici”, che sono i giardini produttivi mediterranei. Ora se una immagine della “conca d’oro” di Palermo, o una immagine della riviera ligure-genovese, o una immagine della huerta di Valencia, o della terra di lavoro del golfo di Napoli, non si danno senza la presenza urbana che ne guida i processi di formazione dei paesaggi agrari che li fa epicentro di specializzazioni colturali, di selezione di cultivar3, è altresì vero che queste realtà di spazi di acclimatazione non

1 ibid. 2 una descrizione della attenzione in questi luoghi del sapere del giardiniere e della sua continuamente rinnovantesi capacità di sperimentazione ce la fornisce ( a cura di ) I.Pizzetti: “Libereso il giardiniere di Calvino”, Muzio ed. Padova 1993 3 Selezione e conservazione di un cultivar richiede uno stretto intreccio tra opera del giardiniere sperimentatore e del giardiniere produttore che solo in spazi ad agicoltura intensiva si da

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le si spiega senza riferirci agli attori che hanno dato vita a questa storia di minuti paesaggi del lavoro. E questa storia non è in primis una storia della “seed culture” ma una storia della vegeculture: una storia della selezione orticola, storia della brassica, del cavolo, della “foglia” che si sposa a una storia della selezione, naturalizzazione e educazione dell’albero.1 MIGRAZIONI INFRAMEDITERRANEE: ARBORICOLTORI E GIARDINIERI.

Dunque, straordinari acclimatatori sono questi agricoltori-arboricoltori che hanno domesticato questo cingolo nelle sue aree microclimatiche e nelle sue strutture di popolamento più tipiche e essi sono, prima di tutto, mobili cittadini di questo spazio. Ricerchiamo allora le tracce delle loro migrazioni, della loro mobilità tra costa e costa tra oriente e occidente. Pensiamo, ad esempio, di imbarcarci a Marsiglia seguendo il flusso dei coloni dell’ottocento diretti ad Algeri (oggi potremmo seguire il flusso inverso che spinge sulle coste provenzali e della Linguadoca i fellah magrebini continuano la loro esperienza di arboricoltori). Si parte sul tardo pomeriggio, a meno che una sempre possibile mistralata non abbia cambiato rotta e tempi, verso mezzanotte si vedranno le luci delle Baleari. Ci alzeremo la mattina e già saremo pronti per intraveder i primi segni di terra, alcune nuvole bianche che anticipan la vista della leggera lingua pliocenica con cui il continente africano si getta nel mare e poi, ecco, la baia e poi eccola la ‘dar el bleida’, “l’Alger la bianche” con la discesa dei suo bianco tessuto di case a terrazza che dalla Kasba scende all’Amiroté, giù, giù fino al gruppo di scogli che le hanno dato quel nome di isola: el jezair, ecco il “quai” che fa da balconata alla città più schiettamente coloniale e francofona e poi tutto intorno, oltre essa, un tessuto una volta abitato da provenzali che verso oriente, oltre la falcature della baia, tra la cordonatura della Mitija e la “mutonnière”, avevan sovrapposto i loro orti a quelli di altri arboricoltori e orticoltori che prima dei francesi li vi erano giunti provenienti dalle Baleari, affiancando per altro arboricoltori cabili. Lì i segni primi di un paesaggio di ville e giardini è stato lasciato da uomini che provenivano dalle Baleari, in fondo con una feluca della corsa barbaresca li separava il tempo di un giorno di luce di navigazione, dalla mattina alla sera con tempo buono e libeccio. Questi abitanti delle Baleari avevano molto più tradizioni agricole che marinare. Oppure partiamo dalla sponda settentrionale, la nostra, di questo mare mediterraneo seguendo il percorso di chi lasciato il porto di Livorno si dirigeva verso Tunisi, sulla

1 Napoli è un epicentro di questa storia, come ci ricorda il Sereni, E. Sereni: :“Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i Napoletani da “ Mangiafoglia” a “ mangiamaccheroni” in E. Sereni: “ Terra nuova e buoi rossi “, Einaudi, Torino, 1982

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costa della Ifrikya, troveremo tabarchini provenienti dalla Liguria specializzati raccoglitori - “coltivatori” di quella liquida pianura che è il mediterraneo, troveremo arboricoltori siciliani, vignaioli di Linguadoca, olivicoltori provenzali. Così è per i calabresi che si sono impiantati nei nuovi paesaggi della riviera dei fiori, che diverranno i paesaggi delle serre liguri. Relativa facilità dei percorsi, dunque, relativa facilità dei contatti, perché questi popoli son capaci di riconoscersi, trovan con facilità radici in quella leggera facies climatica che circuita questo mare, si ritrovan nei cingoli delle sue essenze e facies laurifille, si ritrovan nella capacità di introdurvi e di domesticarvi nuove essenze e di selezionarvi nuovi cultivar. Ma ancor più si ritrovan nel comune uso parsimonioso di una certa capacità di lussureggiarnento di queste speci arboree ed ortive, si pensi, come abbiamo già detto, alla parsimonia mediterranea di fronte al consumo del vino o degli agrumi o dello stesso olio. E questo modo di essere è quello che dà sicurezza ai trasferimenti, alle migrazioni di questi uomini, cittadini del mediterraneo, depositari di una cultura materiale, di una dieta, di regole certe di riproduzione della loro società. Vie dunque non solcate solo da commercianti e da merci, ma anche vie caratterizzate da profondi processi di acculturazione. CIVILTÀ DEL GRANO O CIVILTÀ DELL’ALBERO?

Non è questa la sede per addentrarci nelle questioni riguardanti gli ecosistemi mediterranei, siano essi quelli originari o modellati dalle introduzioni di nuove speci, certo è che una complessiva povertà non di risorse ma di grandezze di flusso, quale la biomassa prodotta in un anno, è da lunghissima data l’impronta di questo spazio, cosicché la parsimonia nell’uso delle sue risorse lentamente rinnovabili lo caratterizza1. Malgrado il Mediterraneo sia da sempre lo spazio del deficit del pane e dunque sia lo spazio del commercio del grano, in molti suoi ambiti regionali si da una capacità di autosostentamento senza il commercio del grano. Vi si da una coltivazione policolturale e arboricola che contrasta con gli open-field e i latifondi, che si basa sulla presenza dei cereali in complementarietà e in subordine ad altre colture, ed in particolare essa si basava su varietà auoctone che avevano rapporti di ibridazione coi cereali spontanei come ci ha insegnato Vavilof2, e che davano spazio ai grani minori, quelli che più che alla panificazione erano adatti per i puls1. 1 Le sue facies forestali, non solo nelle loro manifestazioni “degradate” di garriga, di macchia, di forteto, configurano più una straordinaria capacità di resistenza e sopravvivenza che non uno sviluppo da foresta decidua collocata in un rapido e solido processo di conseguimento di optima climaxici. 2 Gli studi di ecologia agraria devono molto a questo studioso di origine ebraica operante in Unione sovietica che ci ha descritto, superando la tradizionale impostazione di De Candolle e

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Così nelle aree rifugio berbere di montagna vi è un contrasto con la dominante cultura della coltivazione da seme praticata dagli stati cittadini o territoriali rivolta alla panificazione che giunge ad essere contrasto tra una centralità del grano, come bene della giustizia redistributiva e una civiltà dell’albero con i suoi spazi dell’oikos, con i suoi luoghi privati di immagazzinamento e conservazione, dove questa seconda realtà segna una porzione molto importante dello spazio-tempo mediterraneo. Prendiamo un palazzo miceneo o una villa del latifondo imperiale romano, questi straordinari luoghi di accumulo dei beni, per l’appunto questi luoghi di definizione di una “merce omogenea”, questi luoghi della giustizia redistributiva sono in realtà luoghi antiurbani, nel senso che a questa tipologia insediativa sarà dato dalla concezione della polis periclea e in generale greca incentrata sul mercato. Guardiamo ora alla attrezzatura dell’immagazzinamento di una casa berbera, con le sue giare, i suoi dolia, le sue anfore. Ecco, proveniendo da una stessa facies di cultura materiale, da uno stesso orizzonte ceramico,2 dall’orizzonte mediterraneo della produzione artigiana del tornio, noi troviamo: da un lato la concezione statale della società micenea, dall’altro la concezione domestica privata della gestione delle risorse, e prima di tutto di quelle provenienti dall’albero, frutti secchi da guscio o polposi debitamente essicati, sicurezza contro alea climatica. Questo ci rimanda alla ambiguità della polis greca: caratteri intrinseci alla città di mare mediterranea esaltano la questione del commercio e dell’immagazzinamento del grano, caratteri dì cultura materiale e di sensibilità la relativizzano. Il grano, bene urbano supremo, “merce omogenea”3 ma altresì bene soggetto all’alea climatica mediterranea e dunque spesso di non facile reperimento locale, il frutto arboreo che accumula nel suo sviluppo la forza zuccherina del calore del sole mediterraneo, e di più facile coltivazione domestica e di più libera conservazione. Diacronia e alea mediterranea dell’acqua (come si spiegherebbe altrimenti lo sforzo annonario delle città nel garantirsi uno spettro territorialmente ampio di fornitori di grano e l’imperativo del controllo di tali prodotti per un periodo di tempo che sappia

su base genetica, gli epicentri di sviluppo delle coltivazioni e i meccanismi di incrocio tra speci domesticate e selvatiche e che ha dato vita ad una importante scuola israeliana di studi. 1 A tal proposito si può consultare M. Sentieri,G.N.Zazzu: “ I semi dell’Eldorado. L’alimentazione in Europa dopo la scoperta dell’America”, Dedalo, Bari, 1992 2 Questa questione dell’industria ceramica o meglio dell’arte figulina che comprenda tutte le produzioni fatte con inerti al tornio e poi cotte, nel mediterraneo per lungo tempo si estende molto al di là dell’ambito degli “oggetti d’uso” per investire la sfera dell’immagazzinamento e del trasporto di certi beni come il vino e l’olio. 3 Usiamo qui questo termine di “merce omogenea” per definire una produzione dotata da molti elementi standardizzabili e metricamente utilizzabili per definire una unità di valore non solo metrico ma in termini di lavoro immagazzinato.

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andar oltre i limiti dell’annata agraria1) contro flusso sicuro dell’energia incidente proveniente dal sole. E tra questi due estremi sta la realtà dei grani minori, che comprendono anche i legumi e che non sono grani, per così dire statalmente spendibili, non sono soggetti di imposta, e sono un elemento fondamentale della tradizione non solo alimentare mediterranea ma anche agronomica.2 LA CITTÀ COME TOMBA ECOLOGICA E LA MONTAGNA COME VAGINA NATIONUM

E allora veniamo a considerare ciò che è un po’ un luogo comune messo come un calco addosso a questa realtà, e domandiamoci: la città mediterranea è una città “senza popolo”, soffocata dal suo “popolino”, dalla sua plebe ? Guardiamo alla tesi braudeliana di un Mediterraneo segnato da città della costa che sono diretto bacino di immissione, quando non ostaggio, dei popolamenti della montagna, che ne garantiscono i rimpiazzi conseguenti alle crisi periodiche prodotte da pandemie e carestie3. Ciò semplifica molto, troppo, rispetto alla complessità culturale dei due poli città-porto e montagna, così come storicamente si sono venuti configurando entro il bacino mediterraneo. Partiamo dalla montagna: “ la montagna è proprio questo una fabbrica d’uomini al servizio altrui “ 4. Ci si dimentica di un elemento di fondo, si da, in tale ricostruzione, troppo peso alla polemica antirurale della letteratura aulica ( cittadina appunto ) e non si considera, o le considera troppo poco, il profondo significato delle montagne rifugio senza cui il mediterraneo non potrebbe vivere le sue esperienze di civilizzazione5.

1 si veda l’immagine dei granai di Pisa nelle buche dell’Abbondanza, o quelli municipali delle buche di Foggia 2 si pensi alla pratica egiziana della farinata con lenticchie ma anche dei vari sovesci delle leguminose i cui bacelli venivano assimilati ai grani minori. 3Forse più pertinente è per certi periodi la visione della città come “tomba ecologica”, come centro che presenta condizioni di densità che sfociano inevitabilmente in condizioni di promiscuità, in deficit alimentari delle classi povere, in “mercato comune dei bacilli”, ma ancor più appare come luogo dei comportamenti malthusiani, oggetto di comportamenti sociali e familiari rivolti alla denatalità: disetaneità ai matrimoni, celibato, baliatico con conseguente tasso elevato della mortalità infantile, etc. Ma per quanto e in quali periodi ciò è vero ? Le generalizzazioni di tempo e di spazio non sono a tal proposito assolutamente utili. 4 Braudel p. 37, questa tesi contrasta con l’indagine degli orientalisti e dei geografi che vedono nelle montagne mediterranee l’affermarsi di identità nazionali, si vedano tra gli altri il Montaigne ed il Berque 5 si veda X. De Planhol: “ Les fondements géographiques de l’histoire de l’Islam”, Flammarion, Parigi, 1968

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Questa dimensione della montagna vista solo come terra di insolvenza, “ bled er siba” e di libertà nel senso un po’ troppo da “ancièn régime”, del privilegio e dell’arbitrio, non regge. Le montagne sono nella realtà mediterranea nuclei di identità culturale, intellettuale e civile ancor prima che etnica, sono quegli spazi definiti come “zone rifugio” in cui si sono ritirati, maroniti, alauiti, greci, drusi, berberi, ogni minoranza sotto le spinte successive dei vari imperi, e stati nazione o delle varie troppo totalizzanti civilizzazioni.1 Un va e vieni di processi di acculturazione e di scambio lega le città-porto a queste regioni, non una giustapposizione assoluta, come ci testimonia il rapporto tra Beirut e in particolare la comunità maronità. Seguiamo a tal proposito la “ lectio ” che ci ha fornito Xavier de Planhol : “C’est dès les premiers temps de la conquéte islamique que commence l’installation dans le Liban, d’abord des Mardaites, puis des Maronites issus des plaines de l’Oronte dans la région de Homs, qui s’établissent à partir de la fin du VI,e siècle dans la vallée de la Kadicha. En 749 l’existence d’une église est attestée à Ehden. Les Maronites absorbent rapidernent des populations autochtones sans doute fort peu nombreuses. En 759-6° se développe une première révolte contre les Abbassides. Au xe siècle, en 377 H (938-39), le patriarcat maronite va se transporter au Liban, tandis que les centres de l’Oronte achèvent de se désagréger. Bientót s’y ajoutera la secte Druze, née dans l’Ouadi Tel au Xe siècle, qui cherchera d’abord un refuge dans l’Hermon, puis, vite à l’étroit, va gagner le Liban, où elle s’infiltre dès le XIe siècle dans le Meten et le Kesrouane. Le paysage de la montagne, encore partielement boisé au XIVe siècle, va peu à peu se dénuder totalement sous l’effet de la mise en culture par une population croissante et de l’utilisation du bois par les paysans, puis de la dégradation du tapis végétal par l’exploitation pastorale. Les communautés maronites, fortement encadrées par leur clergé et solidement groupées en gros villages, vont aménager ces prodigieuses terrasses qui découpent les versants de la montagne en gigantesques escaliers, et où se retrouvent, en pleine montagne humide, les techniques d’utilisation du sol familières à ces originaires des steppes irriguées. ”2 A fronte di questo primo tempo possiamo leggere lo sviluppo di un secondo tempo: “La montagne libanaise, pourtant la plus peuplée et la plus vivante de toutes, a le moins participé à ce vaste mouvement de descente vers les plaines. Aux horizons limités des Alaouites et des Ismaéliens, qui n’avaient pas d’autre perspective que les régions immédiatement voisines, s’est opposé en effet le rayonnement mondial et l’orientation outre-océanique de l’émigration libanaise, qui a en fin de compte fort peu contribuì à la recolonisation du Proche-Orient. Il y avait à cette originalità des raisons humaines évidentes. Les relations culturelles avec les mondes chrétiens d’outre-mer avaient toujours été maintenues. A l’époque contemporaine s’y est

1 ibid. 2 ibid.

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ajouté un róle intellectuel régional, lié à la concurrence des diverses communautés religieuses et de groupes linguistiques différents qui a fait de Beyrouth un important centre universitaire et de la Montagne Libanaise une source de diplómés supérieurs, alimentant une émigration de cadres qualifiés. Parallèlement Beyrouth, jusque-là sans hinterland lointain, acquérait, dès la fin du XIXe siècle, un róle capital de plaque tournante commerciale et financière, en liaison avec le renouveau d’activité de la cóte Syro-Libanaise lorsque les routes continentales du Moyen-Orient vers l’Europe abandonnèrent les anciens trajets, longs et difficiles, par Trébizonde et Batoum, ou par Istanbul, pour couper au plus court à travers un désert syrien désormais franchi par routes et chemins de fer. La vocation maritime et commerciale des antiques Phéniciens s’est ainsi réveillée, et la montagne, réservoir d’hommes, a été l’élément décisif dans cette expansion lointaine de l’influence libanaise. D’abord orientée, au début du XIXe siècle, vers les grandes villes du Proche-Orient et notamment vers les villes égyptiennes, l’émigration libanaise prend au tournant du siècle des directions plus lointaines. ”1 Ecco descrittoci in modo esemplare lo sviluppo di un rapporto sinergico tra montagna e città che fa piazza pulita di svariati luoghi comuni.

1 ibid.

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CAPITOLO III LA CITTA’ COME SUPPORTO DEGLI SPAZI DENSI IL PAESAGGIO URBANO PRECEDE IL PAESAGGIO AGRARIO.

Tutto ciò che abbiamo enunciato nei due capitoli precedenti, credo dimostri già di per sé l’importanza e il ruolo svolto dalla città nell’ambito mediterraneo, il suo rapporto dialettico con il contesto, ma ciò che vorrei in qualche modo fortemente evidenziare in questo capitolo è il rapporto quasi ribaltato che si ha tra città e campagna nella realtà mediterranea rispetto a quella europea occidentale, ossia di come qui sia principalmente la città a creare la propria campagna e non viceversa1 . Ed allora, in questa prospettiva, poniamoci una domanda: esiste prima ancora della civiltà della città-porto una civiltà urbana mediterranea ? O meglio in che modo si interscambiano le due culture, quella della città e quella del porto: una rivolta alla definizione di una propria autonoma capacità di sostentamento, l’altra rivolta agli orizzonti più ampi dello scambio? Per dare una risposta a questa domanda vorrei riprendere la affermazione di Matvejevic: “ a proposito delle città del Mediterraneo di cui gli esperti dicono che non si sono formate come altrove dai villaggi, ma che invece hanno creato esse stesse dei villaggi attorno a sé e per sé”2. Questa affermazione, come è nello stile dell’autore, per così dire data in modo criptico-oracolare, e dunque fornita in modo del tutto privo di argomentazioni, è però la riscoperta intuitiva dell’elemento portante della città di epoca classica e che permane molto addentro nella storia mediterranea, questo aspetto, che è dato da un ribaltamento dell’idea occidentale della campagna che crea la propria città e che ci riporta alla funzione prima della città come luogo della sfida, che è luogo del progetto, del telos, che è luogo dei processi di acculturazione. Ed è questa una città spesso sostanzialmente priva di un vasto territorio: si osservi come il modello della polis greca, ci riconduca al suo ideale d’autarchia, di autosufficienza in primo luogo che gli era fornita fin da data antichissima dalla domesticazione della vite, del fico e dell’olivo3 e per cui la crematistica, il commercio, il commercio estero saremmo tentati di dire, era una attività altamente

1 Si veda al proposito G. Tacchini:“ L’urbanesimo dell’Europa Occidentale”, Milano 1996 2 P Matvejevic: “Mediteranski Brevijar” Zagabria 1987, trad. it. “Mediterraneo. Un nuovo breviario”, Garzanti, 1987, p. 21 3 se si guarda all’areale circumediterraneo dell’olivo e alla distribuzione dei suoi paesaggi colturali, si resterà colpiti dalla profonda simbiosi tra i due che è per altro antica simbiosi tra olivastro ed olivo, che è flusso di prestiti e scambio tra l’uno e l’altro: da porta-innesti a reinsilvatichimento a seguito di abbandoni, così pure a segnare una profondissima domesticazione sta la dipendenza antropica del fico, con le sue necessità di impollinamento per tramite dell’uomo.

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centralizzata e non diffusa, tanto che il commercio avveniva nello spazio dell’agorà, sulla spiaggia che faceva endiade con la cittadella dell’acropoli.1 Se questa attraverso la sua attribuzione a divinità poliadiche garantiva identità di genia e riconoscibilità politica alla popolazione, la seconda ne garantiva solidarietà mercantile. Era questo l’insieme che differenziava dalla vita barbarica2. Dualità della polis. Da un lato l’autarchia come modello, con le sue virtù patriarcali, di tradizione, di sostentamento sicuro, di parsimonia e in questo mondo dell’insularità lo spazio di un tale modello é spesso data da piccole enclave di terra

1 Si veda AA.VV.: “Origine e sviluppo della città – Il Medioevo greco”, Milano, Bompiani 1978 2 si veda il primo capitolo di G.Tacchini: op.cit. Uno degli aspetti più rilevanti nel configurare una impronta mediterranea all’insediamento è il fatto del mantenimento anche in rapporto ad un paesaggio agrario dell’insediamento annucleato nel modello della polis-colonia. Strabone nella organizzazione della colonia comprende anche la scelta di alcune coltivazioni. I Greci erano ben consapevoli della necessità di estensione sufficiente alle loro esigenze (Odissea IX,) e conseguentemente delle opere di deduzione a cui si dovevano accingere nel fondare una nuova città. L’Italia meridionale e la Sicilia offrivano terreni e una natura simili alla patria d'origine, in condizioni climatiche non molto diverse, e una certa abbondanza di pianure adatte alla coltivazione dei cereali noti nella madrepatria. Anche buona parte della vegetazione spontanea era simile. Queste circostanze permisero ai Greci di applicare nelle nuove realtà oltre a tecniche già note, di non mutare regime alimentare né usanze. Il sostentamento dei Greci era affidato essenzialmente ai grani tutte le altre componenti del vitto sembrano accessorie o addirittura di lusso (Esiodo, Opere e Giorni 31-32, 300-301); di essi venne calcolato il consumo pro-capite,' la produzione necessaria al sostentamento della colonia e quindi la relativa estensione di terreno (Arístotele, Politica a-b; 1274a; 1326a-1327a). Nel calcolo di quest'ultima andava tenuto presente che ogni singolo campo sarebbe stato seminato secondo il principio della rotazione biennale. Le principali colture mediterranee, cereali, vite e olivo hanno in comune delle caratteristiche importanti messe in rilievo da Jardé ( A. Jardé: “Les céréales dans l’Antiquité greque”, Parigi, 1925 ) cioè “ l'attitudine ad andare a cercare l'umidità in profondità nel suolo e ad elaborare nel corso delle estati calde il glutine nel grano, lo zucchero o le sostanze aromatiche negli alberi “. Con queste considerazioni va anche tenuto presente che le necessità idriche dei cereali erano assicurate, allora come oggi, dal periodo di maggior piovosità, al quale va fatta necessariamente precedere la semina (Esiodo, Opere e giorni 383 ss.; 458 ss.).' Questa organizzazione della produzione primaria condiziona il primitivo assetto della fondazione greca, nella quale il numero dei cittadini deve essere proporzionale al terreno disponibile ed ogni cittadino deve avere la sua parte di terra, oltre alla sua casa in città. Un'altra caratteristica soprattutto nelle città di nuova fondazione, è infatti quella di risiedere in città e non sui campi, che vengono raggiunti solo per essere lavorati e che naturalmente erano provvisti di attrezzature precarie (Odíssea N-XIV 208-210). “Le testimonianze di residenze periferiche- ci dice F. Cordano ( F, Cordano: “Antiche fondazioni greche” Sellerio, Palermo, 1986) mettono in luce la situazione di emarginati: Esiodo sta in un piccolo villaggio, ma coloro “ che contano ” stanno in città, e contro di loro egli si scaglia nelle Opere e giorni; anche Laerte sta in campagna (Odissea XXIII 359-360 e XXIV 205-412) ma le case di Odisseo e dei suoi pari sono in città. I Liparesi, che dal racconto di Diodoro Siculo (V 9) sembrano organizzati in maniera tanto bizzarra, in fondo non si comportano molto diversamente, eccetto che per la proprietà lasciata indivisa. Essi dispongono di terreni coltivabili sulle varie isole ed abitando tutti sull'isola principale, cioè in città, devono raggiungere le altre in barca.”

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lungo un deposito fluviale, o in un breve spazio di baia1, dall’altro il porto semplice spazio di alaggio e di ormeggio, del resto la civiltà ellenica ha nello spazio della insularità mediterranea il suo necessario quadro teleologico-progettuale di tipo macrourbanistico, lo scambio marittimo è il necessario veicolo per attivare quella strategia di extraversione senza cui questa civiltà non può darsi.2 Questa intuizione ci aiuta a andare oltre una interpretazione riduttiva dello spazio della polis come enclave autarchico, ci riporta all’origine stessa della città: che è prima di tutto sfida di sopravvivenza per un addensarsi di uomini superiore alla routine della dimensione della riproduzione semplice della società, è mobilitazione degli uomini, delle risorse e non semplice organizzazione logistica di una distribuzione amministrativa dei beni nata intorno ad una divisione tecnica del lavoro che si da in presenza del pervenire di un sovrappiù primario. Questa capacità di autosostentamento è un modello logico, un modello virtuoso non una realtà, in quanto la città nella realtà mediterranea o saheliana dove appunto essa è nata3, come il prodotto di un insediamento in zone semiaride, è inevitabilmente sempre un luogo di contatto di ampi orizzonti, ed essa è, in primis, contatto tra diversi generi di vita, è inevitabilmente un porto: porto di mare o porto in terra dove attracca anche la nave del deserto, come ci attesta quel “el djezir el Magreb” in cui confluiscono e si dilatano le relazioni tra diverse “navi”4, è questa una città che non ha nulla a che fare con la concezione dei “luoghi centrali” degli stati nazionali territoriali.5 Ma è ancor più nel rapporto con le molte direttrici che la liquida pianura consente, che si percepisce il segno rigeneratore di un così ampio orizzonte. Solo così la sapienza ecistica dei popoli marinari ( fenici, greci ) legata allo sviluppo della città di fondazione come “colonia”6, ossia come processo capace di esportare iniziative e non come sinecismo7, ossia come processo sostanzialmente di

1 nello spazio della compartimentazione, l’articolazione delle coste favorisce la nascita di queste civiltà urbane “in vaso” 2 come dimostra il rapporto tra metropoli e colonie, ma già prima d’esso la necessità di avere un proprio riferimento in santuari federali 3 mi riferisco al fatto che nelle zone semiaride la città in quanto insediamento annucleato preceda la campagna, ossia in quanto luogo della sfida demografica l’insediamento annucleato inventi il proprio paesaggio, e in quanto luogo delle funzioni di vita associata sia tramite tra diversi generi di vita. 4 si veda M. Lombard: “L’Islam dans sa première grandeur” Flammarion, Parigi 1971 5 si veda G. Tacchini: op.cit. 6 la colonia non è un semplice enclave, essa è legata a due fatti fondamentali: una regimentazione e una bonifica idraulica e una ricerca sulla costa europea di vie istmiche 7 colonia più che sinecismo caratterizza la storia mediterranea, ma non si potranno trascurare a tal proposito i casi ( e che casi!) di Atene rispetto ai villaggi dell’Attica e di Roma rispetto allo spazio latino, sinecismo come strategia macrourbanistica già da territorio continentale, di retro-porto potremmo nel loro caso dire non di città-porto. Una tale riflessione mi sembra per altro

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implosione, appare in tutta la sua portata e si configura in modo diverso da quelle fondazioni e “nascite” di città connesse al diverso urbanesimo territoriale proprio degli imperi ( romani, persiani prima, arabo-islamici e ottomani poi )1. Ed allora, con la consapevolezza di un orizzonte problematico così originariamente caratterizzante, veniamo a quei paesaggi agrari intensivi che sono inscindibile endiade di molte città mediterranee. RIVIERE DI OLEA E DI EDES MARMOREE VESTITE

Prendiamo ora brevemente in esame la riviera, e osserviamola nella sua complessità socio-economica: “dal confine politico occidentale, lungo l’arco a sesto piuttosto acuto con vertice a Voltri, che orla il Mar Ligure, fino alle soglie del XX sec. ci si trovava di fronte a un popolamento che, anche per l’isolamento imposto da un entroterra impervio, ha trovato nel mare quasi esclusiva ragione di vita. Basta far riferimento alle statistiche che ascrivevano a quei porti i tre quinti delle navi mercantili italiane mentre oltre il 20% del totale erano gli attivi occupati nelle pratiche con il mare.”2 Se la continuità con la costa francese e i passi piuttosto facili e bassi agevolavano i contatti della Riviera di Ponente con Piemonte e Lombardia, all’inizio del secolo la Riviera di Levante era legata da un primo breve tratto di strada nazionale mentre la ferrovia si snodava a fatica tra gallerie e settori esposti al mare prolungandosi con il suo cordone ombelicale (tratta La Spezia-Parma) nella pianura padana. All’inizio del secolo: “Genova già debordava con i suoi sobborghi sulle due riviere, ma, piuttosto fitta, era anche la localizzazione dei centri da Ventimiglia a La Spezia che si mostravano onerosissimi e si proponevano già, anche per i miti inverni, come validi riferimenti per schiere di viaggiatori e forestieri. Semmai la costante di un’edilizia a case strette e alte e, poi, le barche, le reti, i mille attrezzi che si accalcavano su piazze e “carruggi” attestavano della scarsità degli spazi utili . Così, dovunque, risaltava l’intima simbiosi con il mare e già allora i censimenti davano per alcuni tratti densità di popolazione superiore ai 300 ab./km2 ma valori nettamente più elevati si sarebbero riscontrati se il rapporto fosse stato riferito agli spazi costieri effettivamente vissuti).”3 Spazio complesso, spazio innovativo, ma prima di tutto spazio ancora schiettamente marinaro, così si presenta all’unità d’Italia la Liguria. Esso è lo spazio regionale che da più lunga data, nella intera storia del mediterraneo europeo, mostra un deficit

importante perché molte città di huerta spagnole, Elke, ma anche la stessa Motril e ancor più Valencia sono originariamente non vere città-porto, ma potremmo definirle città di retro-porto. 1 Si veda G. Tacchini: op.cit. 2 M. Zunica op.cit. 3 ibid.

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primario di pane e di grano che, sin dal medioevo, ottiene via mare e via terra, ma che distribuisce attraverso il cabotaggio fino a risalire le valli dove sono i mulini per poi ridiscendere sotto forma di grosse forme di pane e gallette1, ma spazio di giardini domestici e “potagers” ma anche spazio delle specializzazioni orticole prima e poi floreali, spazio di un dialogo stretto tra architettura civile e paesaggio agrario nel modellamento di fasce terrazzate non riconducibili soltanto ad architettura rurale, la quale semmai appare molto più concentrata negli insediamenti annucleati che occupano una seconda fascia rispetto alla linea di costa profondamente permeata da un impianto urbanistico che la incastellava, impronta del iinsediamenti sommitali e di “crete” della civiltà ligure. E è certo che questo dialogo viene da lontano2, se questo spazio delle riviere appare in tutto il suo sorprendente effetto paesistico fin dal trecento, quando Petrarca ci descrive un paesaggio urbano che sta fuori dalla città3: “Infans ego tunc eram et vix velut in somnis visa commemini. Quando sinus ille vestri litoris, qui et solis ortum respicit et occasum, non terrena sed celestis habitatio videbatur et qualem apud Elysios campos memorant poete, íuga collium amenis tramitibus virentesque convalles et in convallibus felices anime. Quis non ex alto turres ac palatia mirabatur atque arte perdomitam naturam, rigidos colles cedro Bromioque atque olea vestitos et sub altis rupibus edes marmoreas, nulli secundas regie, nullis urbibus non optandas? Quis non spectabat attonitus latibula illa letissima, ubi inter scopulos atria auratis trabibus stabant et equoreis sonantia Iluctibus et tempestate rorantia, que specie sua navi . gantium in se ora converterent oblitumque remi nautam spectaculi novitate suspenderent? At si terra iter ageres, quem non stupor animi maximus babebat, augustissimos et plusquam bumanos virorum matronarumque habitus cernentem? Quis non viator medio calle torpebat, nunquam visas in urbibus delíttas inter silvarum latebras et remotissima rura conspiciens?”4 1 nel ponente ogni centro di costa o quasi, ha il pane dei mulini dell’interno: Airolo, mulini di Triora, etc. 2 lo possiamo infatti riportare alla dialettica tra un insediamento ligure dell’interno e delle cime e una urbanizzazione romana delle coste. 3Descrizione di Genova, del novembre 1352. in F. Petrarca: “Le familiari”, a cura di V. Rossi, Firenze, 1933, lib. XIV, 5, 23-27, p. 123. 4 “... Allora ero fanciullo' e appena come in sogno rammento le cose viste, quando quell'insenatura del vostro litorale, che vede il sole sorgere e tramontare', mi sembrava non una terrena, ma una celeste dimora, quale i poeti collocano nei Campi Elisi, come le cime delle colline con ameni sentieri, le vallate lussureggianti e nelle vallate persone felici. Chi non avrebbe guardato dall'alto con stupore torri e palazzi, la natura vinta dall'uomo, le aspre colline ricoperte di cedri, viti e ulivi, gli edifici di marmo alle falde delle colline, non secondi a nessuna reggia ed invidiabili per ogni città? Chi avrebbe ammirato, senza rimanere attonito, quelle deliziose insenature dove tra gli scogli si ergevano atrii dalle travi dorate che riecheggiavano i frutti del mare e venivano bagnati dalle onde, che attiravano per la loro fattura gli occhi dei naviganti e che per la novità dello spettacolo lasciavano attonito il marinaio e gli facevano dimenticare i remi? E se camminavi per terra, quale grandissimo stupore non avrebbe colto chi

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Ed ancora l’Anonimo ci descrive, come vi fossero un cuore direzionale-residenziale e un cuore agricolo-produttivo-residenziale, uno interno e uno esterno alla città di Genova e ai suoi possedimenti, che precede di circa due secoli il palladianesimo delle ville venete, egli ci parla della densità di questo paesaggio: “A questo si aggiunge un gran numero di stupende ville, mai descritte, mai viste altrove. Voi mi siete testimoni, ottimi cittadini, che nessuna altura è tanto sterile, nessun colle tanto erto a diecímila passi dalla città che non rifulga tutto ornato di dimore: quante volte abbiamo visto degli stranieri, non esperti di questa regione, passare davanti a questa costa e ritenere che le ville siano la città, ingannati dalla moltitudine e dalla frequenza delle dimore”1. Già il Giustiniani degli “Annali della Repubblica di Genova”, a cavallo del Quattro e del Cinquecento, di fronte allo spettacolo della costa cosi intensamente costruita ed abitata (“la frequenza e magnificenza delle case ed edifici”) si mette nei panni di chi, dal largo di Genova, vede “cosi bella e splendida veduta che certo i forestieri vi si ingannano, e par loro vedere una città lunga venti o venticinque miglia. Ed io per me non credo che in Europa si trovi un simile aspetto”2. LA HUERTA DAI MOLTI RACCOLTI

Ben diverso è lo spazio delle huerta, spazio di una agricoltura originale ed innovativa che ci è stato consegnato dalla civilizzazione araba.3 I due, tre raccolti per anno che vi si ottengono remunerano quanto richiedono in acqua, concime e cure; luogo di acclimatazione quasi sempre la huerta accoglie nel suo ambiente caldo umido tutte le piante nuove, che il suo microclima artificiale permette di coltivare dando vita a uno scenario settoriale particolarmente innovativo.4 Il rendimento di questo giardino botanico produttivo è sempre elevato: il riso, per esempio, produceva, prima della rivoluzione verde, cinque volte di piú rispetto a quello dell’Asia dei monsoni, sua patria di origine; ciò non stupisce, perché nel terreno a irrigazione controllata l’acqua vi viene regolata conformemente alle necessità della pianta. D’altro lato, il riso e la canna da zucchero, portati dagli Arabi, osservava il portamento degli uomini e delle donne assai maestoso e più che umano? Quale viaggiatore non si sarebbe fermato attonito in mezzo alla via, vedendo tra le campagne più remote e in mezzo ai boschi delizie mai viste in città? “ ibid. 1 in G. Petti Balbi: “ Genova medioevale vista dai contemporanei”, Sagep, Genova, 1978 2 in G. Beniscelli: “ Liguria sul mare” Genova, 1983, p.45 3 per un quadro della tecnologia idraulica della huerta si veda X. De Planhol, P. Rognon: “ Les zones tropicales et subtropicales” Colin, Parigi 1970 4 Cosí, fino all'inizio del secolo xix, la seta (il baco da seta si nutre con la foglia del gelso) figurò tra i prodotti di esportazione della Spagna; l'industria della carta è rifornita oggi in parte con i pioppi irrigati; la coltivazione di fiori e di cotone ha qui il suo luogo d'elezione; gli aranci spagnoli fanno concorrenza a quelli dell'Italia, di Israele, ma altresí della California e del Capo (Repubblica Sudafricana), sui mercati dell'Europa.

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il mais, oriundo dell’America, e l’arancio, venuto dalla Cina, trovano qui il terreno favorevole alla loro diffusione: “Ancora oggi, la huerta del delta di Motril, una delle piú meridionali della Spagna, conservava, fino a ieri, “nelle enormi piantagioni di canna da zucchero, un aspetto subtropicale”1, nell’oggi sono le colture di mango e avocado a definirne la costanza di questo aspetto. Un’area di esotismo serpeggia in tutte queste città, dove le tracce musulmane sono evidenti. L’irrigazione a Valencia come a Elche corrisponde a un ideale di vita musulmano, all’accumulazione di masse umane nelle città e nei dintorni, mentre vaste aree semidesertiche rimanevano aperte alla vita nomadica e al suo fondamento di pastorizia, il sito in rapporto col mare ma non sul mare ( è recente per Valencia il suo affaccio sul mare ) confermano questo ideale. La densità rurale raggiunge 700 abitanti per kmq, numero impressionante che ha solo un paragone nei formicai umani dell’Asia monsonica o nelle regioni industriali dell’Europa media. Formicaio deltaico, formicaio asiatico? Nulla a che vedere però con gli spazi di compartimentazione del villaggio deltaico orientale, con quello che Pierre Gouru ci ha descritto come l’”acquario cinese”, li distinguono profondamente i processi policolturali e di allevamento minuto e per loro tramite il rapporto con la città. Questo quadro policolturale huertano ha subito trasformazioni recenti: appezzamenti di erba medica per il bestiame si alternano con minuscoli campi di frumento2 ; il frutteto e le verdure sono associati, sovrapposti sugli stessi rettangoli di terra; quando le cupole degli alberi si riempiono di foglie e le verdure non hanno piú sole sufficiente, si semina erba alla loro ombra. L’orto dà impulso all’allevamento del bestiame di piccola taglia, alla produzione di carne, di latte, di concime, indispensabile alle colture irrigate; l’acqua dà impulso altresí all’industria: mulini, segherie, piccole fabbriche, turbine che sfruttano i dislivello delle condotte come

1 Sempre O. Ribeiro, op.cit., ce ne fornisce un quadro di esotismo che risente di una percezione da “orientalista”: “tanto piú strano in quanto gli è da sfondo la cortina brillante delle cime della Sierra Nevada, realmente coperta di neve durante la maggior parte dell'anno. La stessa huerta si specializzò altresí nella coltura di garofani, con cui le meravigliose andaluse, nel passeggio della tarda sera, si ornano i capelli.” Ed ancora: “ Vaga nell'aria una diffusa sensualità di cui Falla colse tutto il mistero e tutta la seduzione in Notti nei giardini di Spagna; Valencia araba, incendiata ma abbandonata dagli eserciti del re castigliano, nel secolo XII alla pena di un vecchio re moro detronizzato, è come una moglie avvilita ma immutabile nella sua bellezza: “ ancora vive il suo formoso corpo: i frondosi giardini, la feconda huerta, fragrante come il muschio e vermiglio come l'oro, il limpido corso d'acqua ”. Alcune città, con le case coperte da terrazzi, sono già interamente africane dall'aspetto, come Elche, nel mezzo di un'oasi formata da un immenso palmeto di ottantamila palme da datteri.” 2 una legge spagnola, emanata tra le due guerre, obbliga a destinare a questa coltura una parte di tutte le aree irrigate

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forza motrice e si dissimulano tra le fronde degli alberi.1 La grande intensità del lavoro esige e alimenta una popolazione numerosa. Dovunque si vede o si sente la presenza e la fatica degli uomini: “Nascosto da una siepe, giunge fino a noi il trafficare di una famiglia che lavora ed anche i bambini trovano qualcosa da fare. Al calare della sera, si animano le vie che conducono agli insediamenti: gente, asini, carrozze, biciclette, camioncini, qua e là un trattore che dà rimorchio... “2 L’insediamento rurale disperso accompagna sempre il terreno irriguo, ma ogni huerta ha altresí la sua città. Alcune paiono la condensazione inevitabile della popolazione sparsa nei dintorni, come Múrcia; altre hanno la loro propria vita nel mondo di relazione, come Valencia, porto e centro industriale. L’huertano è, in certo senso, l’opposto del contadino, “tanto progressista quanto questi è abitudinario”3. La huerta è un luogo di risonanza attento all’appello dei mercati e a tutte le novità della vita rurale. Un esempio: tra la produzione degli alberi da frutto (limoni, melograni, ecc.) l’arancio occupa il primo posto; ma il suo prezzo subisce grandi oscillazioni e il suo consumo varia secondo la moda Negli anni di crisi, gli aranci si riducono ai tronchi e al monconi potati dei rami; poiché le foglie non danno ombra, si coltivano nell’aranceto, per esempio, pomodori e verdure; la crisi si dissolve, gli aranci ritornano a fiorire e a fruttificare. Quasi sempre la huerta lavora per mercati lontani e si specializza in prodotti di qualità. TRA AGRUMICOLTURA E ALLEVAMENTO: LA CONCA E IL SUO ANTICO CICLO VIRTUOSO.

“ Un oceano di verzura scendeva impetuoso l’erta che noi salivamo e si distendeva sulla pianura, fino alle rive lontane, dove Palermo scintillava in un polverio luminoso. Dai boschi presso di noi, venivano fuori dei luccicori smeraldiní e le sfaccettature rilucenti delle foglie scintillavano come pietre preziose. Le arance dorate ed i limoni gialli, residui dell’inverno, rilucevano attraverso il fogliame, tutte le masse verdeggianti formavano sfumature d’una delicatezza infinita, perdendosi poi nello spazio. Le ville sparse nella pianura mettevano dei punti d’una marmorea bellezza in tutto quel verde, e gli aranceti fioriti si svolgevano in lontananza come immense sciarpe ricamate d’argento”4. Cosi appare, luminosa e verde, come una terra incantata per usare una facile ma in questo caso non abusata immagine, la Conca d’Oro palermitana a chi dalla piana sale sui rilievi che la cingono tutta intorno. “Perché tutta la Conca d’Oro. in senso lato, può oggi essere considerata la

1 possiamo parlare di un artigianato huertano molto sviluppato in particolare nella costruzione di ruote, perni, incastri ingranaggi, turbine per mulini. 2 O.Ribeiro: op.cit. 3 ibid. 4 da una nota di viaggio di G. Vuillier, in A. Pecora: “ I giardini degli aranci “, l la Sicilia, Sadea, Milano 1962

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stretta banda di pianura che si snoda a mezzaluna da Mondello e Partanna a nord-ovest fino a Casteldaccia e al fiume Milicia a sud-est, prospettando largamente sul mare dove si arresta ai piedi dei rilievi calcarei del monte Pellegrino che domina da presso Palermo, e del monte Catalfano sulle cui pendici si ergono ancora i resti dell’antica Solunto”1 Dal punto di vista di un inquadramento che dal contestuale sale al regionale e che ci consente di definirne un quadro zonale, si può rilevare come, giunte nell’isola, le propaggini appenniniche sembrino continuare i loro caratteri sulla prima sezione del versante costiero della Sicilia che mostra una diffusa distribuzione dei centri anche se prospettive di marittimità si evidenziavano essenzialmente con Milazzo e Termini Imerese, ma è l’ampio golfo di Palermo2 che tramanda l’antica importanza del sito e ancora, Castellammare del Golfo, Trapani con il suo porto eccellente, Marsala che ricalca l’antica Lilibeo, Mazara del Vallo, tutti questi centri continuano a partecipare il senso di marittimità diffuso in questo tratto costiero, e come sempre questa propensione marina richiede e stimola lo sviluppo di colture per il mercato e una opera di infrastrutturazione particolarmente importante. Ora l’infrastrutturazione della Conca d’Oro ha certamente ricevuto molto dall’apporto della civilizzazione araba, ma essa ha origini precedenti. “ L’irrigation capte une multitude de sources bien alimentées par les pluies hivernales frappant le versant Nord et accumulées dans les réservoirs calcaires ou gréseux du bourrelet montagneux. L’eau dégringole ensuite sur les terrasses marines. Les sources du versant méridional ne sont guère utilisées : la plus importante d’entre elles est captée au profit de Palerme. En outre des puits utilisent la nappe phréatique installée au contact des tufs calcaires et d’argiles marines sous-jacentes. ” ci dice Birot3. Questo scenario di piccola idraulica è un tessuto di reti, maglie e grafi infrastrutturali che è stato capace di fissare un azzonamento agrario. A fronte di ciò il centro urbano di Palermo ha occupato per secoli un’estensione relativamente modesta, pari a quella dell’attuale centro storico (228,3 ha) con alcuni piccoli nuclei e borghi sparsi per la campagna.4 Fino alla fine del XVIII secolo infatti al di fuori del perimetro urbano troviamo fenomeni edilizi limitati alla costruzione di conventi o ville di nobili, con un’unica eccezione di rilievo, il Borgo di Santa Lucia, che conobbe una crescita significativa in connessione con la costruzione del nuovo porto di Palermo, avvenuta tra il 1567 e il 1590. “Il rimanente territorio della Conca d’Oro conservò a lungo una destinazione prevalentemente agricola, agevolata fino alle soglie dell’età contemporanea dalla natura del suolo e 1 ibid. 2 dal greco Panormus: “a tutto porto” 3 Birot e Dresch: op. cit. 4 V. Guerrasi : “ Palermo dalla concentrazione urbana allo sviluppo metropolitano” pp.151-180 in acura di ) A.I. Gigante: “Uno sguardo dall’Isola” Marsilio,Padova1991, p.158

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dall’abbondanza dell’approvvigionamento idrico, oltre che dalla presenza del mercato urbano. Questa vocazione agricola della piana di Palermo non fu negata nemmeno, anzi potenziata, quando con l’espansione settecentesca si articolò attorno al nucleo centrale in un sistema di borgate prevalentemente agricole, la cui funzione essenziale fu quella di assecondare le trasformazioni produttive in campo agricolo (soprattutto l’impianto di giardini e orti).”1 Il sistema delle borgate palermitane si giustifica e si motiva attraverso la necessità di accudire a colture specializzate, che richiedono manodopera numerosa e specializzata e cure continue nel corso dell’anno: “ Cette terre se partage entre de petits propriétaires, en général non autonomes, et des exploitations moyennes d’une vingtaine d’hectares, qui sont dans les mains de la bourgeoisie citadine. Cette dernière emploie des journaliers qui constituent 40 % de la population rurale, mais qui ne connaissent pas les crises de ehómage des pays de culture extensive, étant donné les soins ininterrompus que réclament les cultures ”2. Infatti: “L’insediamento diffuso nell’agro palermitano si accompagna a una delle più significative. trasformazioni fondiarie conosciute dal Mezzogiorno d’Italia, che a sua volta ha trovato un terreno propizio sul piano giuridico-istituzionale: il fatto che la fascia costiera da Alcamo a Termini Imerese rappresentasse terreno demaniale, in parte di Palermo e in parte di Termini, ha reso possibile il realizzarsi di un rapporto città-campagna non di tipo feudale, ma capitalistico a tutti gli effetti”3. Nel corso del secolo scorso alcuni dei villaggi rientranti nel sistema delle borgate palermitane si staccarono dalla capitale e si “collettarono”, costituendosi in comuni indipendenti: è il caso di Bagheria, Aspra, S. Flavia, Casteldaccia, Solanto, Porticello e S. Elia, che con decreto del 21 settembre 1826 costituirono i comuni di Bagheria e Solanto, o più tardi, nel giugno 1857, Villabate che fu separato da Palermo e elevato a comune con il suo territorio.4 Una annotazione che conferma quanto del resto rilevabile anche a Valencia ce la fornisce il Pecora in merito alla sua connotazione policolturale: “A prima vista potrebbe sembrare che colture così intensive abbiano ad escludere in modo perentorio da tutta la Conca d’Oro l’allevamento del bestiame. E’ vero il contrario. E per due motivi: da una parte perché l’allevamento è come stimolato dalle richieste di latte della vicina Palermo; dall’altra perché l’allevamento si sposa abbastanza bene con l’agrumicoltura, come è possibile osservare anche nelle nuove zone agrumarie del Siracusano. L’agrumeto dà il foraggio, come prodotto secondario, che viene più

1 A. Pecora: op.cit. 2 Birot e Dresch: op. cit. 3 Renda: “Le borgate nella storia di Palermo” pp- 5-18 in ( a cura di ) C Airldi: “Le borgate di Palermo”, Palermo,1984, p. 9. 4 V. Guerrasi op. cit.

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volte falciato nel sottobosco; la stalla, posta ora in campagna ora alla periferia dei centri abitati e dei villaggi, dà il letame necessario all’arricchimento del terreno in opportuna miscela con i concimi chimici. Le vacche da latte sono pertanto molto numerose nella Conca d’oro: circa 4000, di cui ben 1300 distribuito in 220 stalle situate entro il perimetro urbano della stessa Palermo. Sicché è possibile vedere, al mattino, nelle borgate di tutta la piana, il passaggio delle mucche da cui si munge il latte fresco.” Una immagine questa quant’altri mai mediterranea del latte a domicilio non attraverso un sistema di distribuzione e una catena di raccolta centralizzata ma dal produttore che con la sua mucca offre direttamente un prodotto non di uso comune ma solo per i bambini, per i convalescienti, per gli anziani e che resistette a lungo entro le grandi città mediterranee.1 LA SOLA, DEGNA “TERRA DI LAVORO”

Dal suburbio di Napoli, ma soprattutto, da quella Terra di Lavoro - così chiamata, scriveva il Foglietta in uno dei suoi Opuscoli dedicati a Roma nel 15742 , perché “ solo quel terreno è degno che vi si spenda l’industria e il lavoro dell’uomo e perché mai vi s’interrompe la coltura ”, giungevano per via di terra e di mare, sul mercato napoletano quelle abbondanti risorse di foglia e di altri ortaggi3, che nelle gravose situazioni dei trasporti del tempo per derrate cosí voluminose non avrebbero potuto fornire territori lontani. E che questo terreno sia degno di spendervi l’ “industria e il lavoro dell’uomo” ce lo mostra la ricchezza dell’architettura arborea e dell’impianto fondiario che una lunga serie iconografica a iniziare da immagini pompeiane ci ha trasmesso4. E la sorpresa del viaggiatore è qui ancora più grande che di fronte al “prato aereo” della coltura promiscua alla folignate: “ En outre, elle est souvent complantée d’arbres fruitiers étagés : d’abord les files de vignes, au-dessus les péehers et les pommiers, les cerisiers dominés par les noyers. ”5 Qui etruschi, italici e greci vennero a contatto, scambiandosi le tecniche di acclimatazione e di coltivazione della vite, qui il modo celtico-etrusco di maritarla all’albero prende nelle zone di piana il sopravvento sulla coltura specializzata a tralcio basso e su nudo terreno di impianto greco, qui prese vita una architettura del verde i cui caratteri

1 testimonianze ci sono date per Valencia, ma si legga la bella descrizione della preparazione “di emergenza” del burro nel “Dottor Antonio” di Giovanni Ruffini 2 in E. Sereni: op.cit., p.87 3 ibid. il Sereni fornisce una fondamentale descrizione degli usi alimentari napoletani e dell’inscindibile rapporto che essi hanno col paesaggio, si veda più oltre 4 mi riferisco ai festoni aerei di pampini che si trovano in moltissime decorazioni con putti, ad esempio a quella che compare nella casa dei Vetti nel Fregio degli Amorini, o alla descrizione analitica di tale alta coltivazione che è presa da Paris Bordon ad esemplificare una delle due fondamentali tipologie di vendemmia, oggi alla Accademia Carraro di Bergamo 5 P.Birot: op.cit.

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originari improntarono di sé una tradizione di paesaggio di cui il Gigante e la scuola di Posillipo ci hanno lasciato le più pregnanti testimonianze, un paesaggio da cui rimbalzò il fulgore di queste civiltà: una fascia costiera splendida per le ville e le tante strutture della romanità e, comunque, per quelle stratificazioni culturali che la storia vi ha lasciato. Facies complesse che intrecciano una progettualità aulica e un saper fare del lavoro, da “terra di lavoro” appunto, in modo molto stretto tra loro. Ma come nel caso palermitano più complesso è anche qui il quadro dei riscontri regionali che superano il semplice rapporto biunivoco di città-campagna, complesso appare infatti il quadro zonale sia fisico che agrario dello spazio dei campi e delle piane campano, sia il quadro dell’armatura urbana. Se osserviamo dal punto di vista che più ci interessa, ossia quello dei paesaggi costieri: “Il golfo di Napoli tramezza questi due paesaggi ( quello delle ripe e delle coste di alluvionamento). Qui un fitto succedersi di centri si svolgeva tra Napoli e Castellammare di Stabia che, tra l’altro, rappresentavano i poli economici di questo settore e dove risiedeva un altro 20% degli addetti alle attività rivolte al mare”1. Il fitto susseguirsi dei centri si prolungava sul versante salernitano dei monti Lattari oltre il quale, lasciata l’impraticabile piana del Sele, le rovine di Paestum ci tramandavano più antichi momenti di prosperità del sito. Con i suoi 500 ab. per km.quadro la piana alluvionale campana è, anche essa, uno degli esempi più importanti di policoltura mediterranea : “ Elle s’oppose de facon éclatante à toutes les autres plaines du Midi, presque désertes, ou du moins désertées pendant long temps. ”2. Quali sono le ragioni di questa situazione eccezionale e privilegiata ? Ci si deve prioritariamente riferire alla presenza di tufi basici ricchi in elementi nutritivi, facili da lavorarsi e capaci di una buona rietnzione idrica, ritornanti effetti positivi di una “ geologia ribollente ” che troviamo puntualmente presentarsi in ambiti a rischio e periodicamente scossi da cataclismi ! Tracciamo una linea per sommi capi. “ Dès le début de l’Empire romain, les systèmes de culture y sont plus intensifs : blé complanté de vigne alternant avec des cultures d’été, chanvre ou millet. Au XVI siècle, l’un des siècles noirs de l’Italie, la densité de population était déjà de 250 habitants au kilomètre carré ”3. Anche qui, come a Palermo, ci si deve riferire ad una particolare condizione dei rapporti fondiari4, ma Birot ci fornisce una traccia di lunga durata, connessa ad un opera di centuriazione : “ les modes d’exploitation ont toujours été sensiblement

1 M. Zunica op.cit. 2 P. Birot: op. cit. p.445 3 ibid. 4 “le terre di Nola erano feudali; mentre attorno a Capua alla Cava, ad Amalfi (che godevano di importanti franchige, a Napoli stessa, prevaleva - con una coltura intensiva - una proprietà libera, della quale disponeva la nobiltà dei Seggi o il contadino stesso.” Ci dice il Sereni: op. cit.

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différents, en Campanie, de ceux des autres plaines méridionales, et cela, semble-t-il, depuis une époque très reculée : la colonisation effectuée par Sylla, divisant la terre entre ses vétérans, démarche sans précédent pour cette portion de l’Italie et dont les traces sont eneore visibles dans le plan quadrillé du terroir. Est-il téméraire d’y voir l’acte de naissance de la petite culture intensive campanienne ? Il faudrait pouvoir prouver la continuità, non pas de la petite propriété (qui a été rapidement absorbée par les plus riches) mais de la petite exploitation stable ”.1. Ma le vicende del tempo non tanto intorno alla piccola proprietà contadina costruiranno le alte densità dell’ agro, quanto intorno a contratti di tipo particolare e di lunga durata : “ Or, on constate bien, à plusieurs reprises, au Moyen Age, la prépondérance des tenures à long terme, type de contrat rare dans le Midi. La liquidation du régime féodal a consolidé la propriété des terres complantées sur 38.000 ha, alors que le partage des biens communaux les aumentait do 48 000 ha. Les terres des grands propriétaires eux-mémes ont été divisées en une multitude de parcelles affermées suivant des types de contrat favorisant la culture intensive, contrats traditionnels d’emphytéose et de Onora, conclus pour une longue durée, mais obligeant le concessionnaire à planter ou à améliorer le sol par exemple, la quarta ebolitani d’après la quelle le paysan verse le quart du ralsin à partir du moment ou le vigìioble qu’ii a planté rapporte. On pratique aussi la location contre espèces. Au total, 15 % seulement des travailleurs sont de petits propriétaires, et 50 % des fermiers de toutes catégories. ”2 Malgrado il fatto che una piccola parte della terra appartenga a chi la lavora, i risultati ottenuti attraverso la presenza di una popolazione agricola stabile ha sconfitto il latifondo, ma non ha alterato la concezione insediativa : la molteplicità e la dispersione dei corpi fondiari particelle affittate, in possesso, in proprietà, del contadino spiegano la persistenza dell’abitato annucleato, ma la forte densità e il numero di questi insediamenti riduce l’inconveniente delle lunghe distanze del borgo mediterraneo a latifondo, cosicchè l’insediamento si caratterizza per una specifica tipologia di “ corte ”3. Ma non dimentichiamoci : “ Ces images de richesses s’accordent mal avec le niveau de vie assez bas (habitations misérables, alimentation presque exclusivement végétale) d’une population trop nombreuse (1 000 habitants au kilomètre carré) et exploitée par les intermédiaires ramassant les produits maraichers. ”4, a testimoniarci di una strozzatura tipica della produzione 1 ibid. 2 ibid. 3 sulla corte dell’agro campano si veda: 4Un caractère commun à toute la plaine campanienne est la faible importance des cultures fourragères et de l'élevage. Sans doute, la très grande majorité des terres porte-t-elle des légumineuses d'hiver, mais elles sont enfouies, au printemps, pour servir d'engrais. Les cuitures caraetéristiques sont industrielles ou maraichères. La zone du chanvre correspond surtout à des terrains non irrigués, avec l'assolement type: première année, fourrages d'lìiver, chanvre; deuxième année, blé. Quelquefois, du mais d'été lui suecède, mais en donnant des rendements irréguliers. Sur les terrains irrigables, la double culture annuelle devient la règle dans la zone

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mediterranea che non connette in modo organicamente efficace il rapporto tra agricoltura e industria di trasformazione. UNA OSSERVAZIONE NON CONCLUSIVA A POPOSITO DI IRRIGAZIONE.

Queste concentrazioni umane, di cui Valencia, la Sicilia o la Campania servono da esempio, hanno una base rurale non solo vivace ma con una solida cultura materiale espressione dell’agricoltura irrigua; la facilità delle comunicazioni marittime può aver orientato una parte di questi accurati lavori di orticoltura verso il commercio di esportazione, ma il mare non contribuì in modo diretto alla loro genesi; la stessa accumulazione di gente e di lavoro si trova nelle pianure irrigue dell’interno. Ora come abbiamo visto lo spazio del giardino mediterraneo ha due configurazioni e supporti geografici tipici: la riviera e la huerta, quest’ultima nelle sua forma di huerta in senso classico è legata a una derivazione canalizia, mentre conca e agro, presentano un rapporto diversamente necessario con l’irrigazione, sorgentizia, da pozzo, con invasi e cisterne, così come la riviera e vi attivano tecniche proprie e specifiche di piccola idraulica. Queste possono andare dal sistema acquedottistico che viene dalla tradizione delle cisterne dei terrazzamenti che captano e accumulano da vasi e bacini di ruscellamento le acque piovane, a forme di captazione sorgentizia, quale appare sviluppata in margine a massici calcarei permeabili, a quelle di pozzi di falda freatica o a quelle, già ricordate di captazione fluviale, in particolare definite da modellamenti canalizi di rami deltaici, e che si associano più direttamente alla realtà di città prossime alla costa ma non necessaramente di vere città porto. Ognuna di queste tecniche corrisponde a diverse tipologie insediative, ed ognuna ha diversi rapporti con la città. Inoltre vi sono huertas dove l’acqua è legata al possesso o allo sfruttamento della terra, altre dove si aggiudica alla migliore offerta. L’acqua ha cosí una quotazione, come qualsiasi prodotto, valorizzandosi negli anni piú secchi, in cui è riservata, per questa ragione, alle colture di maggior rendimento. Vi sono corsi d’acqua che appartengono a vari villaggi; la loro utilizzazione obbedisce a norme minuziose, attuate col massimo rigore, che è interesse di tutti rispettare. In certi luoghi si consente ad ogni proprietà di avere cisterne e piscine

de la pomme de terre, a-,@ce comrne assolement type: fourrages d'hiver, pommes de terre d'été, pendant trois ou quatre ans, puis, la dernière année, blé d'hiver, mais d'été. La culture atteint son maximum de productivité dans la zone des cultures maraichères les plus importantes de toute l’Italie, surtout développées dans l'Agro Nocerino, où la méme terre donne trois récoltes par an, de choux, tomates, flageolets, etc. Cependant, méme la plus parfaite des plaines italiennes présente encore, dans sa partie basse, une zone mal drainée, dont la bonification est en cours, Les types les plus extensifs d'élevage, les marécages où se vautrent les buffles, voisinent avec le plus riche jardin méditerranéen. ” in P. Birot : op.cit.

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dove conservare l’acqua che compete ad essa, utilizzata successivamente dagli agricoltori secondo necessità differite; in altri l’acqua a cui uno ha diritto, è legata a una rigida ruota agraria che torna subito, in caso di non uso, a vantaggio della comunità degli irrigatori. “In alcuni luoghi l’acqua è attribuita alla terra, in altri è ripartita proporzionalmente al numero di coppie di buoi con cui ognuno può arare”, ci informa Ribeiro1. Sempre nelle aree irrigate esistono forme di associazione dei beneficiari, dotate di una ben formalizzata disciplina della utilizzazione dell’acqua.2 Quali facies di civilizzazione si son stratificate in queste tecniche irrigue? Resta lecita la perplessità su di un problema che è lontano dall’essere risolto: influenza araba preponderante o al contrario sfruttamento, da parte di questo popolo allo stesso tempo attratto dall’irrigazione e dalla steppa, delle aree già precedentemente coltivate in modo intensivo ed irriguo? Senza negare la forte influenza araba che affiora dal vocabolario dell’irrigazione e delle piante che introdussero e dalle pratiche che migliorarono, in Spagna come in Sicilia, le radici della pratica irrigua paiono certamente piú antiche. “Alcune città di huerta erano già importanti all’epoca di Roma e in tutto il litorale levantino della Penisola Iberica si sente, fin dai primi contatti con i Fenici e i Greci, una prosperità commerciale che solo la irrigazione poteva alimentare. La Tunisia deve alla generalità delle pratiche di irrigazione l’alto grado di civiltà che raggiunse nell’antichità e che l’irruzione del nomadismo, con la conquista araba, definitivamente compromise. Il regime comunitario a cui è assoggettata con frequenza l’utilizzazione dell’acqua di irrigazione fa supporre una remota ascendenza preromana, essendo esso contrario all’individualismo agrario che il diritto romano favoriva.”3

1 O. Ribeiro op.cit. 2 La condotta d'acqua ha la sua amministrazione, i suoi ispettori, i suoi giudici. Le attribuzioni di questi organismi sono molto vaste: sorvegliano perché si osservino le norme nella distribuzione dell'acqua, applicano pene ai trasgressori (generalmente multe o privazioni di acqua per un certo tempo), hanno cura dei lavori e delle riparazioni richieste dall'installazione della pratica irrigua e, negli anni in cui l'acqua scarseggia, possono privare di essa certe colture per curare quelle che, senza irrigazione, correrebbero il rischio di perdersi. Particolarmente noto ed interessante è quanto avviene presso il tribunale delle acque di Valencia, che si riunisce tutti i giovedí all'ombra del portico gotico della cattedrale, è il tipo di queste istituzioni. Lo formano sette sindaci, eletti dagli irrigatori di ciascuna delle condotte principali: semplici uomini del popolo che indossano la blusa azzurra o nera degli huertanos. “ Il processo è orale, sommarissimo, pubblico e gratuito ”, senza alcun intervento di avvocati, scrivani o giudici, i denuncianti sono chiamati per impianto o condotta, i trasgressori sono rapidamente giudicati e sulle decisioni non vi è appello né gravame. Semplicemente, la giurisdizione del tribunale, è volontaria, non obbligatoria; ma è molto raro che un irrigatore non vi si assoggetti e preferisca avviarsi nei lunghi ed onerosi processi della giustizia ufficiale. 3 O. Ribeiro op.cit.

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CAPITOLO IV I TEMPI E GLI SPAZI

UNA PRIMA GRANDE VARIABILE DELLA VITA MEDITERRANEA.

L’alea delle crisi cataclismatiche che sconquassano questo spazio solcato da faglie e da sommovimenti tettonici, legato a vulcanesimo e a terremoti è per altro comune ad altre grandi densità insediative1. Ed ancora, certamente l’alea delle pandemie e delle endemie è un altro aspetto che ha segnato tutta l’era moderna di questo mare, ma, sopra ogni altra, è l’alea climatica a dominare, l’instabilità delle precipitazioni e dunque dei raccolti dell’agricoltura da seme, ne segna in profondo la storia. Instabilità assoluta e relativa. Instabilità prima di tutto rispetto a una soglia limite, ad una condizione critica. Se prendiamo una serie lunga delle produzioni cerealicole, quale quella che ci ha lasciato la colonizzazione francese in Algeria, ci accorgiamo che almeno una stagione su tre non raggiunge un bilancio di evapo-traspirazione capace di garantire attraverso il raccolto il recupero della semente, tutto ciò a causa di precipitazioni sottosoglia, e la soglia minima sono i duecento millimetri di precipitazione annua, al di sotto di questa la carestia appare inevitabile e i vecchi sistemi di conservazione dei granai collettivi e i surplus produttivi delle annate precedenti non sono sufficienti a far fronte a ciò, in presenza di una marcata dipendenza dal grano, come negli spazi urbani, l’approvigionamento da altri luoghi si propone come necessaria soluzione. La siccità è strutturalmente nel Mediterraneo una manifestazione della stagione estiva, essa porta come sua conseguenza un adattamento della coltura da seme fondato sulla rotazione biennale: “ Les cultures du printemps, en effet, ne sont guère possibles. En l’absence d’irrigation, ou de sols assurant une rétention particulièrement importante de l’humidité apportée par les pluies printanières (sols alluviaux profonds notamment), les céréales d’hiver règnent de facon presque esclusive. Dans l’agriculture traditionnelle à jachère, la rotation était donc en principe biennale, céréale + jachère. Ce système a l’avantage d’étre l’expression normale de la technique du dry-farming et de permettre l’accumulation do l’eau dans le sol un an sur deux, ce que ne permet pas la rotation triennale. ”2

1 E’ sorprendentemente sottostimato il fatto che dall’adattamento dell’ominide fino all’ “homo sapiens sapiens” e poi via, via passando per i vari processi di domesticazione, il rapporto con le linee di faglia, questi luoghi di ringiovanimento della terra, sia consustanziale al popolamento umano, proprio in quanto luoghi di “cerniera” e contatto tra varie zonalità e paesaggi e luoghi di “direttrice”. 2 X, De Planhol: op.cit.

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Ora un sistema che sulla maggioranza delle sue terre non fornisce che un raccolto ogni due anni1 e per giunta con basse rese è divoratore di spazio, il Mediterraneo non ha conosciuto la rivoluzione medioevale dell’aratro profondo e della rotazione triennale, né per fatti strutturali legati alle caratteristiche del suolo e a quelle climatiche poteva conoscerla con una qualche utilità cosè che questo ritmo bienale spiega “ en grande partie l’activité incessante des défricheurs dans l’Europe méditerranéenne, la dégradation précoce des foréts et la colonisation active des pentes par les terrasses. ”2. Il contadino, che non sia vincolato alle monocolture del latifondo, è dunque portato a “ ne pas mettre tous ses oeufs dans le meme panier ”, a cercare in una gamma diversificata di colture una garanzia contro l’incertezza del tempo3 : “ A l’agriculture essentiellement céréalière de la zone tempérée s’oppose ici une liste de plantes cultivées beaucoup plus longue. Les cultures arbustives, les plantations, tiennent une place essentielle. L’arbre fruitier est favorisé sous ce climat par la longueur de la période végétative, qui permet une longue période d’accumulation dans les fruits, alors que dans les zones plus nordiques leur durée de maturation est beaucoup plus limitée. L’olivier, qui pousse aisément ses longues racines dans les sols pierreux et légers, notamment dans les calcaires, le figuier, en terres alluviales plus fortes, la vigne, le múrier, plus accessoirement l’amandier et l’abricotier, sont très caractéristiques de cette zone. La chátaigneraie apparait en altitude, dans l’étage méditerranéen montagnard, sur les sols siliceux des massifs anciens. ”4 Così l’estensione dell’arboricoltura non appare soltanto una contropartita al deficit cerealicolo ma una espressione originaria dell’agricoltura mediterranea, un adattamento ambientale profondo. Ciò non toglie che questo sistema agricolo si presenti precario e spesso insufficiente perché la vera strozzatura è data dalla sostanziale impossibilità di ricorrere ai cereali primaverili : “Les famines sont le signe constant de cette précarité. Lorsque la récolte de céréales d’hiver vient à 1 “La rotation triennale n'est cependant pas inconnue. On en connalt des exemples dans le Proche-Orient et dans l'Afrique du Nord I. Au xive siècle, en Provence, on estime qu'elle recouvrait 1/6 des terres 2 contro 2/3 à la rotation biennale. Le support do ces exceptions était normalement constitué par des sols spécialement riches, mais aussi par des techniques particulières, telles que l'incendie do la végétation naturelle, apportant l'engrais exceptionnel des cendres. Inversement, on relève assez fréquemment des rotations beaucoup plus extensives encore que la biennale, avee un an do culture sur trois, parfois un sur quatre ” ibid. 2 Ibid. 3 Per altro discorso non del tutto dissimile, in riferimento alla discontinuità del prodotto, va fatto per l’olivo e per l’olio, con la pianta che conosce anni di produzione e di “riposo”. Inoltre neppure quella altra “coltivazione” che è rilevabile in quella liquida pianura che ne pervade lo spazio può essere presa in gran conto né per la quantità delle sue forniture, né per la sicurezza e affidabilità dei suoi ritmi, purtroppo nell’oggi neppure in quelli della sardina e del tonno che un tempo presentavano una certa affidabilità. 4 ibid.

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manquer, il n’y a pas la compensation possible apportée par les céréales do printemps. Malgré l’appoint plus stable fourni par les produits variés de l’arboriculture ”.1 L’ALEA DEI VENTI, DELLA CORSA E DEL MERCATO COMUNE DEI BACILLI

Ognissanti era il tempo della chiusura delle navigazioni, esso segnava l’avvento delle manifestazioni cicloniche le quali si protraevano fino a San Giuseppe o a San Giorgio per il mediterraneo orientale date queste che invece segnavano la ripresa dei viaggi. Date fluttuanti queste della chiusura e dell’apertura, ma date comunque presenti fino sostanzialmente, all’avvento del vapore. In epoca romana, da ottobre ad aprile, alle navi era impartito l’ordine di svernare. Cosí consigliava la prudenza dei naviganti: “A proposito dei viaggi marittimi dell’apostolo Paolo, sappiamo che il Boniportus di Creta non è atto ad hiemandum’, e che la nave alessandrina su cui viaggiò Paolo aveva svernato a Malta’. Secoli dopo, si ritrovano disposizioni analoghe nei codici marittimi delle città medievali, nel Constitutum usus di Pisa, nel 1160, in cui l’inazione obbligatoria è fissata dalla festa di sant’Andrea alle calende di marzo (tempore hyemali ‘ post festum Sanctí Andreae... ante Kalendas Martii), nello statuto marittimo del 1284 a Venezia’, in quello di Ancona nel 1387 . Il legislatore conservò per secoli la precauzione e il divieto dettati dall’esperienza. I Levantini, sino alla fine del secolo XVIII, navigavano soltanto dal giorno di san Giorgio (5 maggio) a quello di san Demetrio (26 ottobre).”2 E’ una lunga lotta intrapresa dalle marinerie mercantili dell’occidente quella tendente a ridurre il periodo di sosta. Tuttavia, le vittorie riportate, dopo il I450, dalla navigazione sull’ostacolo invernale sono vittorie ancora parziali, sempre gravide di pericoli: “Grossi naufragi continuavano a ricordare ogni anno la potenza dell’inverno: tanto che, nel 1569, Venezia promulgava nuovamente i divieti di un tempo, divieti certamente attenuati, poiché proibivano di navigare soltanto dal 15 novembre al 20 gennaio “sul cuor dell’invernata”’. E’, evidentemente impossibile tornare indietro in simile materia. Le nuove leggi furono cosí male osservate che la Signoria dové reiterarle, nel i598’. Nondimeno, il provvedimento veneziano è di per sé molto sintomatico, in quanto indica il prezzo che, ancora in quel tempo, l’inverno costava alla navigazione ogni anno.”3 Siamo all’inizio dell’Ottocento quando lo Chataubriand, durante il suo viaggio verso Gerusalemme può ancora annotare come i cappuccini francesi abbiano la loro principale residenza a Nauplia in Morea perché lì svernano le galere del bey e vi stanno dal mese di novembre fin a San Giorgio ed

1 ibid. 2 F. Braudel: op.cit. 1982 3 ibid.

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esse sono piene di forzati cristiani bisognosi di istruzione e di conforto. In Occidente le galere sono scomparse, “ ma per quelle che stanno a Malta e in Oriente, il determinismo climatico resta lo stesso che ai tempi di Solimano il Magnifico” Si è detto che il mediterraneo, Braudel a tal proposito ha scritto tra le sue pagine più belle1, non conosce sostanzialmente che gli eccessi di due stagioni: l’estate e l’inverno, una stagione di riposo forzato ed una di intensi, convulsi lavori e commerci, in questo senso il Mediterraneo è uno spazio che non conoscendo le stagioni intermedie, non conosce neppure la medietà delle giuste misure. Tempo delle lunghe soste per altro l’inverno non è solo il tempo delle manutenzioni e dei progetti ma anche quello delle imboscate di corsa. Così è che alle burrasche e alle correnti il Mediterraneo aggiungeva un’altra causa di insicurezza: i pirati. Gli anfratti dei litorali articolati, i rosari di isole davanti alle coste, come in Dalmazia, gli archi insulari del Levante, favorirono lo sviluppo di una vita marittima irregolare, che ebbe come fondamento il coraggio e l’abilità di manovra e come obiettivo la lotta e il saccheggio. La molteplicità dei porti permise che la pirateria si sviluppasse come un modo di vita, in concorrenza con il commercio regolare: rubando qua per vendere là, attaccando le popolazioni rivierasche per rifornire i mercati di schiavi, provvedere gli harem di nuove bellezze e le navi di rematori. La pirateria, alcune volte repressa nei suoi eccessi, altre volte tollerata per i suoi vantaggi, si conservò grazie alla mancanza di unità politica e alle rivalità delle civiltà mediterranee. Ma di quale pirateria parliamo di quella che è una forma di endemismo, dovuta alla presenza di un vastissimo insieme di luoghi che sono brodi di coltura adatti, come le foci paludose della Neretva, o la pirateria organizzata dallo stato come corsa, e che è stato nello stato, o quella inglese o olandese, o ancora quella affiliata agli stati cattolici e in particolare alla camera di commercio marsigliese che impedisce ai paesi mussulmani, in particolare magrebini2, di avere una flotta mercantile per commerciare con l’altra sponda? Le loro stagioni, i loro tempi, i loro spazi di azione sono molteplici e variegati. Certo ciò che più ci impressiona è la corsa che, sotto l’impero turco e l’anarchia latente in tutte le effimere organizzazioni dell’Africa musulmana, arrivò fino al primo quarto del secolo XIX, estinguendosi finalmente con l’avvento della navigazione a vapore e della trasmissione immediata delle notizie a distanza. Forse l’estate è per i mediterranei una stagione di ricchezza? Essa è la stagione dei raccolti come delle guerre, ma oltre a ciò è la stagione delle pestilenze, che vi giungon quasi improvvise seguendo le merci. Perché questa costanza degli scambi e dei contatti tra Oriente e Occidente ha anche voluto dire costituzione di un mercato comune dei bacilli. Uno spazio comune su cui si abbattono cicli biologici di carestie e pestilenze, complessi nelle loro congiunture di

1 mi riferisco ai suoi paragrafi sulle “stagioni” di op.cit. 1982 2 si veda L. Valensi: “Le maghreb avant la prise d’Alger”, Flammarion, Parigi, 1969

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breve, medio e lungo periodo, come quelli economici di Kondriatev, perché non solo vi è il favore climatico ambientale dello sviluppo dei germi ma vi è anche quello delle popolazioni che al diminuire degli anticorpi presenti dovuti alla immunizzazione introdotta dalla passata pandemia, con il rarefarsi di una generazione, ecco che apron le porte a una nuova; tutto ciò in un gioco di tempi complicati segnerà profondamente l’Europa e non solo il Mediterraneo.1 LE STAGIONI E I TEMPI DELLA SARDINA E DELLA ACCIUGA.

Abbiamo detto come il Mediterraneo sia, in confronto con l’Atlantico, un mare povero di pesce e di pescato. La brusca caduta del rilievo non favorisce lo sviluppo della piattaforma continentale, dove la vegetazione sottomarina e il plancton superficiale costituiscono il suo alimento; d’altro lato, le acque del Mediterraneo, racchiuse dall’arco montuoso che si apre solo nello stretto passaggio di Gibilterra, hanno poca comunicazione con l’Atlantico e divengono, a causa della posizione nel mezzo delle terre e dell’influenza dei climi continentali, molto piú calde e salate delle acque oceaniche che si trovano alla stessa latitudine. Le grandi zone di pesca del globo si trovano all’incontro delle acque fredde e tiepide o nelle zone di afflusso di acque fresche profonde, dove il sommovimento del plancton attira enormi branchi di pesci. A proposito della pesca mediterranea, abbiamo già detto delle sue caratteristiche di raccolta, di “caccia”, sia di passo che vagante, più che di vera pesca così come la conoscono alcune coste atlantiche e che è tout-court: pesca d’altura2, nel

1 si veda E.A. Wrigley: “Population and History”, Londra 1969, ed. it. “Demografia e Storia”, Il Saggiatore, Milano 1969 2 la pesca di altura più tipica è quella del merluzzo: “La mer du Nord se trouve sur les limites méridionales du domaine d'un poisson de grande valeur, la morue. Elle n'apparalt pas, comme le hareng, entre deux eaux, mais sur le fond ; on la capture à l'aide de lignes munies de hamecons. Tandis que l'on connait depuis longtemps les parages fréquentés par le hareng, c'est de proche en proche, souvent au hasard, qu'on a découvert les fonds riches en morue. Les premiers et les plus célèbres terrains de péehe pour la morue occupent le centre de la partie meridionale de la mer du Nord (le Dogger Bank) ; mais, en sortant de la mer du Nord, on en rencontra d'autres ; la péche de la morue devint une école de grande navigation et elle éveilla l'esprit d'sventure ; on gagna les Oreades, les Shetlands, les Faer-CEer, l'Islande. De mars à septembre, toute une flottille internationale, se trouve rassemblée dans les eaux de l'Islande. Dès le xvie siècle, les morutiers de Bristol, de France, et de Portugal fréquentaient, de juin à oetobre, les banes de Terre-Neuve. Plus tard, au milieu du xjxe siècle, des Shetlanders exploitaient le détroit de Davis. Plus tard eneore, en 1861, un capitaine, revenant du Groenland, jetait ses lignes sur le bane de Rockall d'où il retirait d'énormes morues ; malgré le danger de ces parages tumultueux et l'étroìtesse des fonds de péche, il y vient toujours des bateaux d'scosse et de Grimsby. Ainsi le champ d'opérations des pécheurs de morue s'étend jusqu'en Amérique et jusqu'au seuil des régions aretiques. On peut dire que les marins de la mer du Nord ont abordé tous les terrains de péche de l'Atlantique Nord. ” Si veda: A. Demangeon: “ Pècheries et port de péche de la Mer du Nord” in op.cit., pag.373

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Mediterraneo si ha normalmente una pesca circoscritta che ha difficoltà a costituire una vera catena tecnica di distribuzione e penetrazione di mercati. E tutto ciò è confermato dal fatto che della diffusione del consumo del pesce, dovuta alla pratica dei digiuni e delle astinenze imposta dal Cristianesimo, a cui si deve per l’appunto l’importanza che tale alimento ha oggi nell’alimentazione “continentale”, non ne han tanto beneficiato i pescatori mediterranei quanto quelli atlantici e ciò non solo per un loro più facile accesso al mercato continentale ma per gli stessi mercati mediterranei. Così è che tutti noi conosciamo quel patrimonio simbolico che intorno alla aringa salata si è presentato nelle prime immagini pittoriche del pauperismo, o quelle che nelle forme del canto popolare si è consolidato intorno alle varie forme di conservazione del merluzzo, e quest’ultima immagine vi appare molto più positiva dove il baccalà si è diffuso nell’immaginario collettivo, con il suo invece apporto proteicamente più solido e a buon mercato che apre orizzonti insperati di sazietà1. Ed allora, “febrianamente” domandiamoci da dove vengano questi prodotti? Prendiamo un dato degli anni Sessanta prima della rivoluzione dei surgelati. L’Italia è l’unico paese mediterraneo che figura nelle statistiche mondiali in un posto di modesto rilievo; ciò nonostante e malgrado il suo grande sviluppo costiero, ha un pescato che corrisponde a 2/3 di quello del Portogallo, della Danimarca e dell’Olanda, sicché deve ricorrere alla importazione, per l’alimentazione, di grandi 1 Si dice, e con ragione, che in Europa sono i popoli del Nord che pescano il merluzzo e quelli del Sud lo mangiano; il consumo in grande scala di questo pesce, secco e salato, è in molti luoghi il principale fornitore di proteine di origine animale; per contro considerato come indice di basso tenore di vita, entra scarsamente nella dieta dei pescatori norvegesi o bretoni, che lo pescano ai limiti delle acque fredde dell'Artico, ma mangiano la carne di vacche allevate nei pascoli dei loro litorali sempre umidi. “Solo il Portogallo fa eccezione: con la sua flotta di una settantina di pescherecci da merluzzo, è l'unico paese di latitudine subtropicale che invia navi nei mari freddi di Terranova e della Groenlandia. La tradizione di questa pesca risale al tempo delle grandi navigazioni a vela; la vela è ancora, per la maggioranza delle imbarcazioni di legno, il mezzo principale di propulsione (anche se tutte possiedono un motore ausiliario). Alla fine di maggio, tutta la flotta del paese si riunisce per la partenza di fronte al Monastero dei Geronimi, eretto vicino alla spiaggia dove si imbarcò Vasco De Gama e in memoria del successo della sua impresa (a Belém, alla periferia di Lisbona); nell'animazione dei velieri e nell'emozione dell'addio dei pescatori alle loro umili famiglie il Tago rivive l'ambiente di speranze e di inquietudini della sua eroica storia. Nessun porto del Mediterraneo conosce simile spettacolo. Ciò nonostante, le 80.000 tonnellate di merluzzo sbarcato (in media, ogni anno), salato a bordo e seccato al sole intermittente dell'autunno, nei porti dove partono le navi, non arrivano a rappresentare un quinto del consumo nazionale. Per i contadini dell'area piú popolosa del paese, come per la gente umile delle città, il merluzzo è il “ fedele amico ”, che si mangia, sia semplicemente bollito con le patate e condito con un filo di olio, cosí come si presta ai piú ingegnosi e saporosi piatti, che la tavola piú ricca non disdegna. Se questo carattere dell'alimentazione portoghese si inquadra nella povertà delle diete mediterranee, la sua originalità consiste nel suscitare una pesca di grande stile che solo i popoli dei confini estremi della Europa atlantica impararono a praticare. Questo, come tante cose descritte in questo libro, appartiene al passato, poiché il progresso e l'organizzazione fecero sparire completamente il merluzzo dalla tavola del povero, rendendolo un lusso, raro e caro.” in O. Ribeiro: op.cit.

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quantità dall’Atlantico. Il tonnellaggio totale della pesca nel Mediterraneo, equivale ad un terzo di quello della Norvegia. Così è che i paesi europei del mediterraneo ricevono grandi quantità di pesce proveniente da fuori, così l’interno della Spagna riceve dai porti dell’Oceano la maggior quantità del pescato: metà dello sviluppo costiero di questo paese appartiene al mare interno ma contribuisce solo con un quarto della pesca. Per altro con l’avvento dell’industria conserviera dello scatolato, si è assistito al rilancio del sottolio, anche in assenza di salamoie, per cui possiamo parlare di una modesta rivincita della sardina classico pescato spagnolo, e della acciuga, classico pescato ligure e tirrenico, oltrechè del tonno, classico pescato tunisino ed insulare, per cui però va fatto un discorso particolare in termini di tecniche di pesca che si ricollegano al fatto che: I tonni durante la loro riproduzione ricercano “ des eaux aux qualités bien déflnies, chaudes et salées, mais ne dépassant cependant pas 38,5, ce qui les exclut du bassin sud-oriental. Après la ponte, ils sont beaucoup plus tolérants, et se dispersent dans toutes les directions pour chercher leur nourriture. ”1. Ma sono appunto la sardina e l’acciuga che han dato vita, prima della surgelazione, anche in questo spazio allo sviluppo di flottiglie pescherecce di una certa importanza. La sardina, in particolare, fornisce alla pesca mediterranea il suo più grande contributo, essa non si allontana dalla costa, presenta migrazioni di medio raggio cosicchè definisce quadri di popolazioni distinte ( nel mediterraneo occidentale ne sono state individuate due ben distinte ) : “ Elle supporte d’assez grandes variations de salinité mais non de temperature oplimum (entre 14 et 16 dégré). La ponte s’effectue en surface au large ; les jeunes et les reprodueteurs viennent ensuite se développer près de la cóte pendant l’été, les jeunes recherchant de préférence les eaux des cótes plates. Puis en hiver les bancs gagnent le fond. ”2 L’ acciuga è l’altro elemento importante della pesca mediterranea : “ La ponte et la péche ont lieu en été dans les eaux chaudes mais relativement peu salées. Les jeunes envahissent mème les étangs ”3. Questa sua disponibilità a invader gli stagni ne spiega l’importanza che essa ha avuto nell’area occitanico-catalana e, più in basso, in quella andalusa e come a partir da questa area si sia sviluppato in rapporto alle saline e all’olio le sue forme di conservazione, di adattamento culinario e di penetrazione dei mercati.4

1 P. Birot: op. cit. 2 ibid 3 ibid., per comprenderne l’importanza è buona testimone la cucina: dal garum dei romani proveniente dalla Spagna al Piemonte della bagnacauda 4 si veda N. Orengo: op.cit.

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OLTRE LA PESCA

Ciò spiega in una certa misura come nel mediterraneo le grandi attività tradizionali della pesca, capaci di suscitare un commercio di un certo rilievo, non si destinassero all’alimentazione, ma all’igiene o alla sontuosità: spugne, coralli, murici, cioè molluschi dai quali si estraeva la porpora che, nelle civiltà dell’Oriente (e anche per i dignitari della Chiesa), è un simbolo di grandezza tra gli uomini. E come, a fianco di questa, l’altra grande attività fosse quella dell’estrazione del sale. Altra forma di attività, che il mare stimola ma è esercitata in terra, è l’estrazione del sale. Le condizioni naturali sono ottime: salinità elevata, evaporazione intensa durante una lunga estate. Ora la ripartizione del sale marino dipende dalle condizioni climatiche e idrologiche attuali ossia dalle condizioni di salinità e evaporazione. Da questo punto di vista non vi è dubbio che il Mediterraneo si trovi in condizioni ottimali: alle alte latidudini la fusione dei ghiacci, le piogge l’apporto delle acque fluviali, abbassano la salinità al 3, 4 parti millesimali, alla basse latitudini e in zone subtropicali le scarse precipitazioni e la forte evaporazione elevano il tasso di salinità a 45 parti millesimali. E’ nel Mediterraneo che da questo punto di vista l’habitat appare ottimale: la scarsità delle precipitazioni, il debole apporto fluviale unito alla strutturazione montagnosa delle coste favorisce uno sviluppo paludoso dello sbocco a mare e conseguentemente uno spazio di sfruttamento d’acque il cui titolo di salinità è prossimo al 38 parti millesimali, tutto ciò spiega la matrice originaria del successo di Comacchio prima e di Venezia poi. Così possiamo parlare di un dominio del commercio del sale mediterraneo con le sue saline deltaiche fino al definirsi delle rotte atlantiche. Ma come all’alimentazione umana il sale è ancor più indispensabile a quella animale, a titolo esemplificativo converrà ricordare che una vacca da latte necessita di 90 g. di sale pro die, e ciò spiega come in un mare nel cui intorno si articolano i moti delle transumanze le vie marenche si avvicinino a questi punti di origine che sono le saline ed i porti per divenire anche strade del sale.1 Il prodotto costituí, con l’olio, fino alla scoperta della conservazione degli alimenti con il freddo, uno degli articoli di commercio piú diffusi nel mondo per la conservazione degli alimenti. Grazie a questa sua condizione di bene necessario2, con esso si compravano nell’Africa nera, schiavi, oro, avorio: perciò costituí parte del bagaglio delle carovane e del carico delle navi. Ma il sale, sebbene indispensabile, è a buon mercato e non è un carico che remuneri i lunghi viaggi via terra, così le produzioni mediterranee qualitativamente

1 Questa geografia è complicata dalla presenza nell’interno delle miniere di salgemma, molto meno a sud dagli spazi delle sebka 2 il concetto di salario e di soldo sono non casualmente a questa necessità legata nel determinare un metro del valore di scambio

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probabilmente le migliori, anche per metodi di produzione1, lasciarono interi mercati di approvigionamento alle produzioni atlantiche iberiche, con i loro prodotti impuri ma a buon mercato che servivano i pescatori di aringhe del baltico e del mare del Nord che senza questo prodotto non avrebbero potuto approvigionare i numerosi giorni di astinenza imposti dalla cristianità. Perciò, quando le navigazioni dell’epoca delle scoperte provocarono un aumento nella domanda, si svilupparono le saline della costa portoghese, al riparo degli estuari e delle lagune, o del sud-ovest della Francia, sulla via delle rotte transoceaniche, e le saline del Mediterraneo non trassero dal fatto alcun profitto. Il Portogallo arrivò ad avere il monopolio dei rifornimenti alla flotta britannica. Per la stessa ragione di vicinanza fu anche il sale atlantico che riforní le grandi flotte pescherecce della parte settentrionale di questo mare. Abbiamo con il corallo, la porpora, le spugne ed il sale in qualche modo un rapporto ribaltato rispetto a quello proprio dello spazio atlantico europeo: non la pesca ma la raccolta dei prodotti non eduli del mare da una impronta importante a varie marinerie del Mediterraneo. LA MARINERIA: UNA PRIMA RISPOSTA ALLA CARENZA DI RISORSE DEL MARE.

Riprendiamo le fila di una correlazione ( pescosità, popolamento, marineria ), e seguendo la lezione di Demangeon di un contrasto, quello tra coste poste tra Atlantico e Mare del Nord : “ Dans tous les pays qui regardent la mer du Nord, on voit des foyers, de pécheurs se fixer très tót devant les eaux les plus poissonneuses : d’abord dans l’Est Anglie, puis dans l’Ecosse orientale, puis dans les PaysBas aux bouches du Rhin et de la Meuse ; enfin, en Norvège, dans les fjords qui font face à l’Ecosse. Par contre, dès qu’on s’éloigne de ce vivier plantureux, on les voit s’éteindre ou languir. Ainsi la péninsule danoise tourne vers la mer du Nord une facade inhospitalière; ses pécheries se trouvent du cóté oriental parmi les détroits, les chenaux et les lles de l’archipel baltique. De méme, il existe un contrasto remarquable entre les cótes occidentales des Iles britanniques, exposées aux tempétes de l’Atlantique, baignées par des eaux profondes, pauvres en vie animale, et les eótes orientales si prop,,,es à la vie maritime ; tandis que les Irlandais, les Gallois et les Highlanders d’scosse restent des terriens, il n’est point de firth, de baie, d’estuaire ou de crique de la eóte orientale qui n’abrite sa colonie d’hommes de la mer. Sur presque tout le littoral atlantique, en Irlande comme en Ecosse, sauf dans l’extréme Nord, l’établissement des péeheurs rencontre peu de conditions favorables ; les violentes tempétes de I’Océan battent le rivage ; les bancs de poissons apparaissent irrégulièrement ; le pays se trouve isolé, loin des marchés. Les habitants, hostiles à la mer, ne s’y livrent que pendant les intervalles des travaux champétres. L’Irlandais 1 si veda M. Mollat: “ Gèographie du sel” in AAVV: “Geographie generale”, Gallimard, Parigi, 1966

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de I’Ouest, paysan attaché à la terre, craint les aventures maritimes il aborde la mer, non en marin, mais ‘en batelier ; il ne frequente que les eaux intérieures qui appartiennent encore à la terre ; ” 1 E’ un simile quadro applicabile al mediterraneo ? Non è forse che in esso operi un diverso rumore di fondo ? Non è stata proprio questa povertà complessiva delle sue coste ad indurre a una accresciuta mobilità la sua gente, a spostare comunità da un lato all’altro di esso? E tutto ciò non ha forse costruito una rete di relazioni che è andata oltre ogni determinismo geografico? Ciò l’abbiamo già visto nel caso ligure, ma eccovene un altro esempio assai chiaro al proposito: i pescatori del porto di Bari eran noti per la loro perizia; era abbastanza normale, fino all’ottocento, vederli giungere a. pescare fin davanti al golfo di. Napoli. Tutto ciò non comportava solo coraggio e capacità marinara, richiedeva strutture di commercializzazione, tecniche di conservazione e trasformazione del pescato, rapporti di scambio coi porti tirrenici e jonici, richiedeva quella cultura che ben interpreta l’agiografia del loro santo protettore Nicola2. Così non è detto che repulsività e povertà corrispondano. La non repulsività di quel tratto di mare che si estende da Monopoli a Barletta ....... aveva portato ad una antica struttura di popolamento ma la povertà delle coste pugliesi li aveva fatti marinai d’altura. E ciò da vita ad una armatura insediativa particolare. Da Monopoli a Barletta la costa si animava al punto da rappresentare l’esempio più rimarchevole di addensamento lineare di popolazione di tutto l’Adriatico. Un susseguirsi di città marinare ricche di attività cui corrisponde, a una decina di chilometri all’interno, un secondo allineamento di altrettanti centri agricoli, ed ecco che qui le specializzazioni colturali sono fatte tutte per una esitazione commerciale, il paesaggio agrario che si va via, via specializzando è il prodotto di una stretta integrazione alle economie esterne del porto e dello scalo-stazione, fino quasi a formare un schietto paesaggio agrario di retroporto.

1 D. Demangeon: op.cit. 2 si veda G.B. Bronzini: “ La cultura del mare tra passato e presente”, in AAVV: “ La Puglia e il mare”, Electa, Milano, 1984

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CAPITOLO V UNA “UNITA’ VIVENTE” ANCOR PRIMA CHE UNA TIPOLOGIA INSEDIATIVA LA CITTA’ PORTO: UN FOSSILE VIVENTE?

Abbiamo finora sentito quale sia il rumore di fondo di questo mare, è tempo di vedere come esso pervada il nostro principale oggetto di studio: la città-porto. Quando nel loro sforzo di costruzione statale i Savoia, che da svariati secoli contendono alla Francia la città ed il porto di Nizza, cercheranno di dare definizione urbanistica al Lympia, il porto delle “acque pure”, la città vecchia continuerà, quasi indifferente all’evento, la sua vita di sempre.1 Eppure Amedeo II aveva messo in comunicazione la capitale con il “porto franco”, fondato nel 1748, attraverso, un opera, ammirata e studiati da tutta Europa; con la strada del colle di Tenda2, egli aveva aperto le porte a una “geografia volontaria” e configurato una armatura da stato territoriale.3 Quale resistenza e vischiosità culturale può allora spiegare la mancanza di un interesse per una apertura imprenditoriale e per un nuovo ruolo della città da parte dei nizzardi? A tal proposito è interessante cercare di indagare il quadro delle relazioni commerciali e sociali su cui la città si basava a quest’epoca. Prima di tutto emergerà la scarsa facilità alle relazioni e mobilità di contesto: un notabile che viene dai grossi centri vicini, scende a Nizza solo due o tre volte in un anno, stante le condizioni dei collegamenti che richiedono spostamenti più lunghi di un giorno, la rete insediativa verso l’interno è relativamente a maglie larghe, la viabilità intercomunale è lì ancora

1 Si veda P. Raybaut: Les sources regionales du Pays de Nice, Fayard, Parigi 1979 2 La monarchia di Torino, istituendo un porto franco a Nizza aveva tentato di attirare a suo profitto il traffico mediterraneo attraverso il passo del col di Tenda, benchè questo itinerario fosse, per Torino, più lungo di uno o due giorni rispetto al collegamento con Genova. Vi era la preoccupazione politica di saldare allo Stato una provincia molto decentrata. Per superare l'ostacolo si provò senza successo, nel 1614, 1624 e 1672, di praticare, sotto al passo, una galleria, una brutta strada era stata costruita verso il 1626 e migliorata nel 1672. Nel 1780 Vittorio Amedeo investì due milioni di lire nella costruzione, con una numerosa manod’opera di civili, militari e forzati, di una nuova strada che riprendeva il tradizionale itinerario attraverso l'Escarène, Sospel, Saorge e Limone. Questa restava fedele all’antica tecnica di sovrapposizione di strette curve e il suo ruolo economico rispose scarsamente alle speranze dei suoi promotori. Si veda G.Guichonnet: “Storia e civiltà delle Alpi” Milano 1986. 3 Questa idea di stato territoriale modificherà profondamente le stesse concezioni della organizzazione infrastrutturale degli “stati di passo” per cui si presenterà come fondamentale non solo il controllo dei transiti alpini, ma quello dell’intero “grafo di processo” che lega i valichi, attraverso le armature regionali al mare, ossia ai vari sistemi delle città-porto

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tutta saldamente in funzione dei lavori agrari e forestali, così anche le relazioni intercomunali seguono questo orizzonte antico di usi primari del suolo1. Poi vi è il quadro di uno scenario mercantile, quale la descrizione del negoziante di olio nizzardo ottocentesco, configura ed è uno scenario solido ma assai poco dinamico; questi, sia pur con le sue grandi virtù2, è fondamentalmente un commerciante che opera non alla ricerca di nuovi mercati ma come tramite di garanzia tra una offerta e una domanda sostanzialmente stabili, egli è collocato entro un gioco di grandezze che non tendono minimamente a spostare i confini degli areali di distribuzione delle materie grasse nella alimentazione3 o in altre industrie come la chimica o la farmaceutica, in altro modo detto, egli non pare affatto interessato a ricercare nuovi mercati e nuove politiche settoriali. Questa realtà, non ha, verso mare, al contrario di Marsiglia e dei centri liguri, una solida marineria, verso monte, essa ha si un solido paesaggio, quale quello che ci ha descritto per la Liguria a cavaliere tra Ottocento e Novecento il Boine4, ma è un paesaggio che non ha grande rapporto con l’esistenza di una meccanizzazione, né con quella di una dinamica architettura rurale sul fondo ( come invece avviene per l’altro paesaggio a più ampio raggio perimediterraneo: quello viticolo5 ), è un paesaggio consuetudinario, chiuso nei grandi quadri degli azzonamenti comunali; questi aspetti si legano e contribuiscono a spiegare questo principio della permanenza e del dominio dell’insediamento annucleato mediterraneo che non è solo dell’altura ligure-provenzale ma anche, di questo lembo litoraneo della costa-riviera.6 Ma su tutto è la vita stessa della città porto mediterranea ad apparire particolarmente resistente. Prendiamo al proposito in considerazione una

1 solo sulla fine del XIX sec. si assiste alla costruzione di una nuova rete di strade che abbandoneranno i tracciati di crinale per conquistare relazioni di fondovalle, si veda P. Raybaut op. cit. 2 sono virtù nella composizione dei dosaggi dei diversi tipi di olio per venir incontro alle conosciute esigenze del cliente, sono virtù di onestà, di ripudio di ogni pratica di sofisticazione in P. Raybaut op. cit. 3 diversamente i mercanti imperiesi daranno vita, sia pur molto più tardi, ad una vera costruzione di industria di trasformazione alimentare con nuove reti di commercializzazione poste a monte e a valle della produzione olivicola. 4 G. Boine: “ La crisi degli olivi in Liguria” in “ La Voce “ 6 luglio 1911, ora in G. Boine: “ Il peccato, Plausi e botte, Frantumi, Altri scritti” Garzanti, Milano 1983 5 il paesaggio della viticoltura specializzata collinare nel passaggio tra Otto e Novecento anche a seguito della crisi della fillossera e di quelle che l’hanno preceduta come quella dell’oidio, ha prodotto nuove tecnologie di coltivazione che hanno rivitalizzato lo scenario di “colonizzazione” che fu di questa coltivazione in epoca medioevale, profondamente rinnovando i suoi paesaggi, i suoi quadri infrastrutturali, le sue catene tecniche di trasformazione viti-vinicole. Mentre il paesaggio dei terrazzi e ciglioni degli insediamenti liguri anche a specializzazione viticola resta sostanzialmente lo stesso, anche se si hanno begli esempi ottocenteschi di sviluppi aziendali individualisti che abbandonanp il quadro degli azzonamenti collettivi. 6 P. Raybaut op. cit.

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descrizione di fine settecento di Nizza: “Tutto rivela, perfino in questo magro tempo di guerra, il temperamento allegro del popolo e basta che ci sia un giorno di festa, perché si vedano grandi assembramento di compari e di comari, cosa facile in un paese dove si usa vivere e trattare ogni cosa a porte aperte che nemmeno l’inverno chiude. Ma il punto più interessante della città, dove si può ammirare la vita italica del basso ceto, specie delle donne, è il piccolo mercato del pesce allo sbocco del Corso, venendo dal porto. Tutto vi è come ho detto a proposito di Firenze e il clima rivela il suo influsso dominatore e la sua sfrontatezza. Dai suoi vicoli angusti, dalle misere stanzette senza sole, tutto il povero popolino minuto si reca colà con i suoi arnesi e il suo lavoro quotidiano. Si fila, si innaspa, si rammenda e ci si fa rattoppare le scarpe e le calze, sedendo lì accanto scalzi; ci si spidocchia l’un l’altro da buoni cristiani, tenendosi accosto i bimbi in ceste su cuscini, e si soddisfano all’aria aperta tante piccole necessità umane, come solo l’abitudine e il clima possono giustificare.”1 A fronte di ciò vi è la sicurezza di una più o meno solida, ma comunque garantita, autosussistenza, quasi a riprendere quel principio di autarchia caro alla letteratura greca anche ben dentro l’epoca della polis: Tutto quello che è necessario alle nostre esigenze fisiche è lì in giro, non mancano mai al mercato i pesciolini, che puoi far friggere sui due piedi, mai si, dirada il fumo delle pentole, nelle quali vengono cotti a fuoco lento pasticcini e pezzetti di carne: e non si chiudono mai le baracche dei venditori, dove puoi comprare un pezzetto di cacio, un uomo o una manciata di fave”2. Perché tutto, in fondo, vi può essere comprato e venduto, anche il lavoro, anche l’essere umano, qualsiasi quantità per quanto minima, qualsiasi caratura può essere applicata, come avviene ancor oggi nella Kasba di Algeri, qualsiasi prodotto può essere “sciolto”, esser frazionato in microscopiche unità di misura e entrare nel circuito commerciale o affidarsi al baratto, alle leggi di reciprocità del dono e del controdono, dell’anticipazione, etc.3.

VITA DOMESTICA E/O VITA URBANA

Una accusa settecentesca ai ‘mediterranei’ é quella che essi non sappiano vivere nelle proprie case le gioie private, siano queste le gioie familiari del focolare o la capacità di emancipazione di un individuo che si può inscrivere nella separatezza e nella privicy di un interno e che siano invece oberati e quasi soffocati dalla presenza

1 in E.M. Arndt, Reisen durch eitien Tlieil Tetitschlaiids Italieiis utid Fra.,ikreichs, in den Jalzren 1793 und 1799, Leipzig 1801,1803, in "I Popoli romanzi" di F. Krúger in "Popoli e Razze", vol.I, Francoforte 1954, Milano 1954 (a cura di G. De Caria). 2 Ibid. 3 questa economia sostantiva con i suoi circuiti si intreccia con una urbanistica del sottoscala, del sovraffollamento e recupera e mantiene in vita antichi e resistenti arcaismi

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di una vita coatta ancor prima che pubblica, esterna: la solidarietà del basso napoletano, la vita delle alleanze interfamiliari, una società del face to face.1 E’ lo stesso mondo che sotto una linea di governo collettivo della parsimonia veniva descritto come “diverso” e turbava l’idea di organizzazione civile della città che poteva, per l’appunto avere un cittadino berlinese sul finire del Settecento.2 E’ un mondo che mantiene le sue solide direttrici di catene tecniche e alimentari che vanno dall’orto al fuoco e alla tavola e che sono tra loro integrate in modo molto contenuto e ben calibrato da quelle che provengono dal mercato. E’ un paesaggio intensivo, denso e compatto che lega giardino mediterraneo, mercato, strada corridoio e focolare.3 Ma il mercato si lega a una attività di “cucina all’aperto”4. Così a Nizza o San Remo la farinata dalla mattina fino al mezzogiorno continua ad accompagnare i passi degli indaffarati abitanti, laddove la sera la cucina raccoglie la famiglia.5 Non potrebbero essere meglio riassunti la permanenza nel lungo periodo dei caratteri della polis: tutto ruota intorno a un principio: la parsimonia che resta nei comportamenti come prisca virtù e ne organizza in modo originario la vita, tutto ruota intorno ad un luogo, il mercato-agora6 che fu cuore pulsante della città, quel cuore antico dove, secondo la testimonianza socratica, venivan portate le questioni sociali e/o metafisiche, dove ancor prima che nel buleuterion si sviluppava quella suprema forma civile del confronto politico che era l’agone dialettico; quello che in molti casi nell’oggi lascia sempre più spesso il campo a circuiti di segregazione, era stato il luogo di una

1 si è molto discusso a tal proposito sul familismo amorale sui caratteri di società embedded che ciò produce, oggi si tende a rivalutare tutto ciò nella dimensione dell’orizzonte di solidarietà produttive. 2 J.G. Sulzer, "Tagebuch von Berlin nach den mittáglichen Lándem von Europa in den Jahren 1775 und 1776 gethanen Reise und Rúchreise" che sfoga la sua irritazione contro il carnevale Nizzardo, per collocare un simile contrasto tra modi di vita non è inutile ricorrere alla caustica descrizione dell’Heine dell’architettura e della vita domestica pre-biedermeyer e ur-biedermeyer berlinese. 3 Del significato vitale di tutto ciò non in termini di colore e di genere ma in un più pieno senso antropologico si sono resi conto a volte molto profondamente i deutsch romer che ci hanno lasciato bei disegni di rilievo culturale nei loro album di viaggio. 4 E questo non è solo tipico delle città porto mediterranee, come ben sappiamo nell’attrezzatura che stava intorno al bracere a carbonella del rivendugliolo urbano e portuale, o al piccolo forno pubblico per cotture relativamente veloci di prodotti da asporto che è in grande auge ( rivincite culturali delle civilizzazioni mediterranee!) entro areali continentali che lo ignoravano in buona misura. 5 P. Raybaut op. cit. 6 un luogo diverso dal foro romano, un luogo più giuridicamente e amministrativamente strutturato quest’ultimo con il suo corteggio commerciale organizzato da un impianto urbano preciso, più libero e organizzato su incroci, su strade corridoio il primo, come dimostra il contrasto tra una cittadina piemontese e una del ponente ligure.

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società che in esso riconosceva una delle sue massime istituzioni civili1. L’aspetto della promiscuità di Nizza criticata da Arndt é in fondo una continuazione sia pur ormai priva di quelle tensioni civili che fu della polis che fu del periodo in cui Socrate parlava della necessità di portare al mercato le grandi questioni, i grandi dibattiti metafisici. Una recente letteratura meridionalista sta rivalutando in profondo proprio queste manifestazioni di vita societaria.2 Spostiamoci allora nella città vecchia di Bari, in una odierna giornata verso il mezzogiorno, oltre la patina del colore locale, scopriamo ragioni profonde che ne improntano le relazioni sociali, così nel passaggio dal crudo al cotto della cucina la non disponibilità ad una acquisizione familiare del legno ha, da sempre, favorito una redistribuzione della carbonella e quel trasferimento di braceri, ossia di focolari mobili ( che contrastano così profondamente con quel senso di fissità del focolare ) che anima quell’ora e che avviene lungo le vie, di casa in casa, ci parla di un solidarietà, di una promiscuità, di una vita interfamiliare che regge i rapporti sociali. Qui il fritto domina su tutto: dal primo al dolce. Vi manca il segno della separatezza che il focolare organizza in profondità, mentre qui le catene alimentari alimentano sequenze esponenziali di relazioni interpersonali. Cosi la non grande disponibilità del legno da ardere e del bracere con il commercio minuto della carbonella, costituiva elemento di catene alimentari interfamiliari (aspetti che sono ancora della contemporaneità mediterranea basta fare un giro nella città vecchia di Bari, nella Pigna rimediterraneízzata di San Remo e ne potete capire tutto lo spirito. La parsimonia in queste città era uno degli elementi della vita di relazione, come ben ci ha insegnato la storia della cucina, che riesce ad essere un fatto pubblico trasferendo a un piccolo forno e alla vendita espressioni alimentari antichissime e massimamente sobrie quali la farinata e la pizza3.

1 Si veda ( a cura di ) K. Polanyi : “Trade and Marked in the Early Empires”, The Free Press, New York, 1957, trad. it. “Traffici e mercati negli antichi imperi”, Einaudi, Torino,1978 2 3 tipologie alimentari così profondamente diverse nelle loro origini come quelle dei puls e degli impasti a levitazione ma che trovano un pattern urbano e non rurale come era nelle loro origini. Si veda la descrizione della cucina nizzarda in P. Raybaut op. cit. e P. Scheuermeier: “ Bauemwerk in Italien der italienischen und rátoromanischen Schweiz. Eine sprach- und sachkundliche Darstellung háuslichen Lebens und lándlicher Geráte” Berna 1956 oggi in P. Scheuermeier: “Il lavoro dei contadini” Longanesi & C., 1980, Milano, si veda inoltre M. Sentieri e G.N. Zazzu: op.cit.

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CATENE ALIMENTARI , CATENE DI PAESAGGI SOLIDI E LIQUIDI

Spostiamoci ad osservare una immagine di Lipari, ricerchiamone l’odierna ecologia dei suoi luoghi di scambio: da un lato gli slarghi e le vie che divengono “strada”1, che sono così simili alle rambla spagnole, nel loro coprire il lavoro di modellamento di piccoli alvei torrentizi, e poi osserviamo i luoghi dei suoi rivenduglioli, in particolare del pesce, quasi a ricordarci che nella Lipari della Magna Grecia i cuochi avevano una funzione pubblica e si cucinava e si pranzava, per l’appunto, collettivamente all’aperto.2 Ma intorno a un denominatore comune non possono non apparire i diversi caratteri originari degli spazi, le diverse risorse. Così è che vi è il contrasto tra il pescato ligure e quello basso tirrenico e quello adriatico: gli uni con i loro poveri pesci da scoglio, gli altri con i loro pesci da “mandrague”, da avvistamento e da trancio, gli altri ancora con i loro pesci da sabbia. Carattere molto importante questo delle diverse matrici della pesca, se la pesca nel Mediterraneo non è, in genere, una pesca d’alto mare. Si deve credere che essa sia iniziata nelle acque salmastre e riparate, nei delta e lagune litoranee, ancora oggi i luoghi piú ricchi di pesce e di frutti di mare, raccolti spesso dai contadini tra un lavoro agricolo e l’altro. I processi di cattura piú antichi erano basati su apparecchi fissi, destinati a intercettare il pesce nelle sue migrazioni spontanee tra il mare e i corsi d’acqua o le lagune3: solo acque tranquille e poco profonde si prestavano a ciò. Solo in questi luoghi si possono manovrare imbarcazioni piccole e dal fondo piatto, che richiedono. poco pescaggio. Ancora nell’Ottocento l’importanza di questi spazi lagunari era molto rilevante, essa si è andata riducendo con i vari progetti di popolamento e bonifiche degli stati nazionali. Con la colonizzazione recente, la bonifica integrale delle terre paludose, principalmente l’ampliamento delle aree a risaia in Spagna e cerealicole in Italia, ridussero molto l’area di queste acque interne e il pescatore cedette il terreno all’agricoltore4. Eppure questi erano da sempre veri spazi di acquacoltura1, con un 1 strada da “strata”, ossia lastricata, e dunque come manufatto lapideo, materiale che giunge via acqua e fa si che le città.porto ricevano facilmente l’impronta “statale” attraverso la presenza di una pietra da cava come sarà per Venezia nell’uso del bianco calcare istriano, come sarà nel regno delle due Sicilie per l’uso di neri basalti, ora di queste “strade” nel tessuto della città se ne danno di due tipi: o quello di strada nuova che per esempio troviamo nelle “città di fondazione” o nei rimodellamenti urbani come un asse di incardamento delle funzioni di vita associata, si vedano i casi dei “rifabbrico” veneziani di Candia o quello dei riempimenti e correlata deviazione dei corsi torrentizi, di cultura spagnola e più recentemente anche di sola copertura, le rambla che aprono nuove possibilità di disegno urbano e di nuova normativa edilizia. 2 Si veda: L. Bernabò-Brea: “ La cucina, i cuochi, i conviti nelle Eolie di età greca” in “La cucina eoliana”, ed Novecento Palermo 1998 3 si veda: ( a cura di) G.F. Dogliani: “ La pesca nella laguna di Venezia” Venezia 1982, si veda altresì G. Zompini: “ Le artiche van per via nella città di Venezia”, Venezia 1785 4 la Albufera di Valencia è un buon esempio di questa evoluzione, che accosta la marina all'orticoltura, provocando il declino di un modo di vita tradizionale, ma esercitato da pochi, per

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importante bagaglio normativo e culturale di controllo del riprodursi del pesce, e con sviluppate tecniche di conservazione come quelle di affumicatura e di salatura comacchiesi 2 Il mondo cittadino alto adriatico, è profondamente permeato da tutto ciò, esso è anche mondo dei rivenduglioli, in cui entrano particolari categorie con peso specifico importante: ostricari a Trieste, venditori di caragoi o bogoete a Venezia, mondo e costume della vita portuale per eccellenza e non solo mediterranea dei canali, dei margini tra acqua e terra non lineari, ma a maglie, a pettine, ad albero, si pensi a quell’orizzonte denso di relazioni dell’haven che da vita al fisch and chips sotto cui possiamo annoverare le impronte di un gran numero di città-porto del mare del Nord3. Mondo diverso da quello degli spazi pubblici del molo, della banchina, del caricamento, dei carrugi, che ai viaggiatori piaceva immortalare nella fotografia, “colore locale”, che ritraeva il mangiapasta napoletano (che aveva sostituito il mangiafoglie che l’aveva preceduto)4. Mondo dei campi e delle calli che da sfogo a una iconografia di genere, , parente a quella dei pittori attratti dalla densità degli eventi, delle relazioni, delle cose che invadon la strada che si fa riva, squero, scivolo, alaggio, si pensi, tra gli altri al Favretto nelle sue pitture veneziane5. Guardiamo con attenzione a tutto ciò: vi è qualche cosa che va oltre il riproporsi di soggetti di genere, vi è la densità della vita di contatto e di margine. Per contrasto, spostiamoci a scrutare gli effetti alimentari del pescato adriatico prodotto di una tecnica a strascico. E’ questo lo spazio dei ricchi brodetti fatto di pesce, crostacei, celenterati e molluschi da sabbia, che vede coinvolti gli scalanti, “il loro era un lavoro ingrato e poco remunerativo: quale paga per il loro lavoro avevano solo lo scarto del pescato, la cosiddetta marmàja o fragaja o rumicàja, composta di granchi, pannocchie (chiamate altrove conocchie) e pesci schiacciati e spezzati, dei quali lo scalante vendeva, a prezzo bassissimo, quel che poteva, tenendo per sé il

aumentare le aree di occupazione intensiva del suolo e le risorse della popolazione sulla base dello sfruttamento della terra. E qualcosa di simile è avvenuto in Italia, con la bonifica delle “ valli ” ferraresi e la parziale colmata delle “ valli di Comacchio ”. 1 le “valli” ferraresi, venete, gradesi, etc. erano “valli da pesca” dove il termine connotava la presenza di uno spazio di reti fisse e di regimentazione della pesca, come esplicitato anche più avanti. 2 si veda il contributo a questa conoscenza fornitoci per queste acque interne: dall’ “Atlante Linguistico dei Laghi Italiani.” 3 Si veda C. Wilson: “La repubblica olandese”, Il Saggiatore, Milano 1968 e S. Schama: “ The embarassament of riches“, Kopf, New York, 1987, trad it. “La cultura olandese dell’epoca d’oro” Il Saggiatore, Milano, 1988 4 si veda E. Sereni: op.cit. 5 in una fase immediatamente postunitaria questa pittura, Favretto, De Pisis, Filippini, etc., saprà sostituirsi alla veduta per penetrare più obliquamente col suo sguardo entro gli elementi minuti di questo anfibio paesaggio.

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resto e cuocendo tutto insieme in una specie di brodetto”1. Varata la lancetta, lo scalante, se aveva una barchetta tutta sua, andava a pescare sgombri nella stagione adatta od altri pesci con la retella o con piccoli carpesfòje o seppie con le nasse, a poca distanza dalla riva. Ma vi era grande difficoltà a organizzare uno scambio, a penetrare in uno spazio quello della collina e della cultura promiscua, uno spazio autarchico e di autosussistenza che al pesce guardava solo per il precetto del Venerdì. Mondo fino a data recente, quello del medio Adriatico, privo di mercato urbano, mondo del contrasto tra contadino e pescatore, così è che il piccolo pescatore da costa, lo scalante, deve essere anche contadino-pescatore, o comunque è costretto a mantenersi in un ambito molto ristretto e interfamiliare dello scambio-baratto. Spostiamoci ancora, uscendo dall’Adriatico e andiam verso oriente. Fuori da esso l’esiguità del declivio sottomarino limita l’uso di reti da strascico, tipo di pesca importante, appunto nell’Adriatico. E in alto mare, la pesca è ridotta: “In Turchia, per esempio,- ci dice Ribeiro - la tradizione vieta l’uso di reti da strascico e i pesci sono catturati negli stretti, quando gli sciami di animali migrano tra i mari e, stretti tra i bordi, costituiscono facile preda.”2 Ed allora le pesche presentano una organizzazione che potremmo definire “da caccia”. Dove la metis , l’astuzia del pescatore diviene tecnica di cattura. Così è che un processo di cattura comune nel Mediterraneo consiste nella pesca alla lampara, fatta in altri tempi con torce e oggi con potenti lampade ad acetilene e con luci elettriche, installate sulla prua delle imbarcazioni e destinate ad attrarre il pesce, durante la notte, alle acque superficiali. Ma ancor più una specie di caccia, di abilità è quella condotta nello stretto di Messina dove si cattura il pesce spada: una vedetta appostata sull’alto di un albero maestro indica la posizione dei pesci, che sono arpionati e raccolti dalle imbarcazioni. Una specie di “caccia di passata” potremmo definire la pesca del tonno: questo si dirige, in migrazioni regolari, dall’Atlantico verso il Mediterraneo e viceversa; Poiché il pesce naviga in grandi sciami vicino alla terra, è possibile catturarlo per mezzo di installazioni fissate al fondo per mezzo di ganci, dal collo imbutiforme, dove la sua cattura sanguinolenta, una vera e propria mattanza sempre più cruenta, a mano a mano che si solleva la rete e il pesce si accumula in uno spazio ogni volta piú ristretto, per altro non priva del suo antico simbolismo di sangue e di festa.3.“Pesce da carne” è questo e gli autori antichi paragonavano a quella del porco la sua carne grassa e saporita, a tal proposito Strabone raccoglie una leggenda che suffraga l’analogia: l’alimento del tonno è una specie di ghianda, prodotta da lecci che crescevano sul fondo del mare!

1 Si veda D. Cecchi: “Macerata e il suo territorio “ Silvana, Milano 1980 2 O, Ribeiro: op. cit. 3 tutto ciò imparenta molto la mattanza ad una tauromachia molto più cruenta, con una sua sacralità e una sua gerachia litrugica.

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CIVILTÀ DELL’ACQUA E DELLA PIETRA

Spostiamoci ora sulle rive orientali dell’Adriatico: “Partiti de dicta chiesia e veduta più parte de la cità, la quale è hedifficata suxo uno saxo nel lito del mare, circondata da grandissimi monte, andarono a Sancto Francesco messo apresso le mura de la cità, che sono grosissime e belle; e pocho longi da Sancto Francesco è la chiesa di Sancta Chiara apresso la quale è una fontana tonda cum una cuba tonda bellissima. Di sopra ha xi boche chi gietano aqua, e ne 1 summità ge ne ha xiiii, et è tanto ben facta e adornata chi scrivendo non se potria dare ad intendere ad alguno, e l’aqua de dicta fontana vene per conducti da monti grandissimi longi vii miglia. Et da poy andarono a vedere le mure che alhora se fabricavano, e cavavano le fosse, le quale erano de sasso vivo, e de li sassi. tidi quelle cavati facevano le dicte mure”1. Qui l’immagine della “cuba-fontana” rende ancora più manifesta la realtà di questa dipendenza del porto dal rifornimento di acqua potabile. Questo rapporto tra sorgenti, pozzi fornitura di acqua potabile e porto è certo di fondamentale importanza, spesso esso è il superamento di un determinismo geografico, spesso è un trascendere le condizioni originarie come di quelle città porto che sono nate in funzione di una risorgenza di falda. Come Beirut, le cui origini risalgono e si accompagnano nel tempo alle origini della navigazione: sulle coste non eccessivamente accoglienti di questa porzione del Mediterraneo, essa fu da sempre un porto-rifugio. Nel XV Secolo a.c., gli scribi del faraone poeta Akhnaton sostituiranno a volte il nome di “Beruta” con l’ideogramma cruciforme significante “pozzo”2. Il suo nome deriva da Beroth che in cananeo-fenicio vuole dire “pozzo”, il gran numero di sorgenti di acquadolce che ne caratterizzano il sito ne configurano il suo tesoro primario, così i greci, i Latini (Berytus), gli ebrei (Beeroth) l’hanno chiamata e fatta pozzo, eil suo nome e la sua funzione continua nelle lingue semitiche a connotare il pozzo-cisterna. PARASTRATI DI KOYNÈ

Il segno di una identità culturale che sta sopra e oltre lo stesso orizzonte di antropizzazione delle coste ci è normalmente dato dallo spazio sacro dei luoghi di culto. In questa sede non al santuario o alla chiesa convento mi voglio riferire, non tanto ai santuari di crinale, punto di avvistamento sul mare delle varie Santa Maria

1 “Itinerario di Gabriele Capodilista", in “Viaggio in Terrasanta di Santo Brasca e Itineratio di Gabtiele Capodilista” a cura di A.L. Momigliano Lepschy, Milano, Longanesi 1966, pagg. 168-169. 2 si veda Andrée Chedid : “Liban”, Parigi 1972, pag.90

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della Guardia, dove si conservano gli ex-voto dei marinai, quanto a quei centri di urbanità che sono le chiese: cattedrali o pievi o semplici parrocchie. Esse hanno un rapporto col mare diverso da quello di altri luoghi di culto propri di una civiltà, quella islamica, quella cristiano ortodossa perfino, che pure col mare hanno convissuto. Tale rapporto è segnato da una riconoscibilità della Cristianitas: i percorsi delle reliquie, un flusso da orienta a occidente che segue il divagare geografico dell’idea stessa di Europa. Le reliquie e le direttrici di pellegrinaggio costruiscono un paesaggio culturale comune che dall’Adriatico si estende al mediterraneo Occidentale. Prendiamo allora in considerazione un nodo emblematico degli itinerari mediterranei quella città di Ragusa che è tappa degli itinerari dei pellegrini, che è legame tra Oriente e Occidente. Così essa emerge dalla descrizione quattrocentesca del Capodilista: “Mercore XXIV di magyo, la matina, ritrovandosi apresso Ragusa, terra principali di Dalmacia, la quale si governa a comunitade, cercha miglia v,i e volendo dismontare per veder la citade, bisognò per forza de vento contrario fare grandissima volta in mare, unde havendo bon vento li sarebeno andati in una hora, steteno in camino più di sei, tal che a hore xvi gionseno a Raguxa, dove procurando di vederla androno prima al Palazo di Segnori, el qual è magnifico cum cinque tore intorno, e da le finestre se vede el porto de dicta citade, che hè uno belissimo prospecto. Item in citade si vede in una archa infinite reliquie adornate richissimamente de oro e de argento; e fra le altre preciose cosse zè lo panno ne lo quale fo rivolto el nostro Signore rniser lhesu Christo quando fu da Symeone nel tempio apresentato, dove luy prophetizando disce: Num dimittis servum tutum, Domine, etc.; la testa, lo brazio cum la mano integra ne la qual sono nchora li soi anelli et la gamba cum el pede integro de Sancto Blaxio, reliquie de grandissima devozione, le qual tute sono riposte ne la chiesia de la Nostra Dona.”1 Fatto culturale che ci colpisce è la straordinaria connessione con il centro focale della Cristianità, ossia con il fulcro medio-orientale della mediterraneità, l’itinerarsi e iterarsi concreto delle reliquie, il loro stazionare in conventi e chiese che sono albergo al pellegrino, il loro associarsi a ragioni di scambio, il loro essere catalizzatore simbolico, monimen, monumento di flussi di merci e di uomini. E qui il problema dell’affaccio sul mare, che lega la chiesa a questo concreto iterarsi delle reliquie ci è segnalato dalla iconografia, ed esso va oltre l’avvistabilità del luogo santuario, della Madonna della Guardia carica di ex voto, in cui il marinaio ritrova un proprio riconoscimento domestico e delinea piuttosto un orizzonte di relazioni comuni, uno spazio segnato da flussi, da circuiti. Nel paesaggio urbano di una repubblica marinara, ossia di una città stato che è sostanzialmente “stato senza territorio”, il campanile di Aquileia, o quello di San Marco, che si riproduce entro un paesaggio anfibio, il romanico del corso bicolore

1 ibid.

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pisano e genovese delle chiese delle isole e dei domini ci mostra nel modo più diretto il significato culturale della ‘extraversione’ Per altro una diversa dialettica anima dall’interno questi spazi. A Genova tutto ci riporta alla dicotomia tra il suo duomo e le chiese gentilizie, quelle che organizzano la percepibilità della gens attraverso la compagna in una dimensione che va oltre il ridotto dell’albergo e si lega alla comunità della civitas, la dialettica che intercorre tra queste chiese e quella di San Lorenzo, la chiesa che diventerà Duomo è interessante e complessa come quella che si instaura a Venezia tra San Marco e le “Scole” grandi e minori.1 Ma vi sono poi epicentri minori di irradiazione che spiegano flussi, relazioni secondarie, un sincretismo agiografico che è definizione di una direttrice di scambio di una koyné di valori. Ed è questa stratificazione, questo reticolo di flussi, di sovrapposizioni, di sincretismi a colpirci in modo unico nelle chiese dei porti di mare, questa specificità della cristianità cattolica la si legge ad esempio nella pienezza dei suoi cicli a Cagliari entro il quartiere della Marina. A Sant’Eulalia, la santa barcellonese, è dedicata la chiesa costruita dagli Aragonesí scesi da Bonaria su una più antica chiesa francescana di Santa Maria del Porto, essa nasconde sotto i molti grossolani rifacimenti vicini e lontani strutture medievali ancora da scoprire. Cinque di queste dodici chiese ancora in piedi nell’Ottocento sono scomparse: due sotto le bombe del 1943 (Santa Lucia e Santa Caterína) e tre destinate ad altro uso o abbandonate (Sant’Elemu, S. Teresa, Oratorio d’Itria). Esse ci parlano di un mondo, capace di appartenere ad una koynè e di usare altresì la lingua franca scomparso. Un mondo che pure era rimasto vivo nel suo reticolo degli scambi fino alla seconda guerra mondiale e che è irrimediabilmente venuto meno cosicchè queste stesse chiese dalla ricostruzione in avanti lasceranno il fronte mare per rivolgersi a una “continentalizzazione” che le spingerà a seguire la crescita urbana, in una qualche area di risulta o piazza centrale in uno spazio di espansione di recente bonificato.2 Alcune erano tra le più belle della città e tra le più opulente, segnate dalla ricchezza dei traffici e caricate dei doni del ceto mercantile che ha dimorato per secoli nel quartiere. Una città di mare è anche i suoi santuari, invocati nella tempesta, approdi nelle soste di riposo e di pace, gratificati nella fortuna dei commerci. Sontuosa di marmi era la chiesa di Santa Caterina e San Giorgio che era come il simbolo dei legami della città con Genova e con il mare. L’antica colonia dei genovesi e dei loro discendenti l’aveva fondata alla fine del Cinquecento e l’Arciconfraternita intitolata

1 si veda ad es. G. Perocco: “ Carpaccio. Le pitture alla scuola di S. Giorgio degli Schiavoni”, Canova, Treviso, 1975 2 si veda

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ai due santi l’aveva officiata per secoli fino a quando un bombardamento aereo non la cancellò dalla Costa dove era stata innalzata1. 2 E anche Santa Lucia ha messo radici lontano dal mare a cui era anch’essa legata: “La contrada di Barcellona, dove la chiesa sorgeva nella parte bassa di Marina, era dimora dei più ricchi mercanti di Cagliari fin dal tempo della dominazíone spagnola, era il cuore del commercio della città; li si allineavano i fondaci e si aggirava una febbrile folla di mercanti indigeni e stranieri. La chiesa portava i segni vistosi della sua storia: risalente al secolo XVI, quando aveva occupato il luogo dove sorgeva un più antico ospizio dei Benedettini di S. Víttore di Marsiglia, aveva conosciuto l’abbellimento di ricchi fedeli, con doni di tele preziose, símulacri vetusti, cappelle raffinate.”3 Le altre tre chiese sono scomparse per cause diverse. Sant’Elemu, che i Santelmari avevano voluto proprio sulla punta del molo come un custode ravvicinato delle loro sudate fatiche, è scomparsa quando il porto si è allargato e ammodernato; l’oratorio della Vergine d’Itria è stato incorporato nell’Asilo della Marina a fianco di S. Agostino e l’Arciconfraternita dello stesso nome si è trasferita nella chiesa di S. Antonio a Sa Costa portandovi i suoi preziosi archivi che partono dalla fondazione avvenuta nel 1608 con bolla papale di Paolo V; la chiesa di S. Teresa, attigua alla ex casa professa dei gesuiti utilizzata per scuole, è stata prima la sede dell’Archivío di Stato, poi palestra dei giovani fascisti e infine per qualche decennio Auditorium musicale, conservando intatta solo la facciata su cui si legge il nome del fondatore, il padre Franco Giorgi che la eresse nel 1691. Ma anche quelle che sono rimaste in piedi non conoscono lo splendore di un tempo e sono sempre più chiese del silenzio.

1 “Nel suo nuovo altare – ci dice il Romagnino - non si legge un saluto di marinai, ma quello degli alpini d’Italia che fecero il loro raduno in città il 3 novembre 1955. E la nuova chiesa è una mole di cemento e vetro che si stampa sul verde colle di monte Urpinu, e a fatica dalle alte lunette ripetono ai cagliaritani le memorie degli antichi legami con Genova le sinopie color seppia di Dino Fantini, quella centrale con la Vergine in primo piano e un’approssimativa Genova individuabile solo attraverso l’emblematica Lanterna, e quelle laterali di San Giorgio che infila il drago con tutta la sua lancia e Santa Caterina che s’invola al supplizio della ruota che miracolosamente si frantuma. E in tutte e tre le sinopie c’è il volitare d’angeli della chiesa distrutta che sembravano uscir fuori dagli affreschi e dai quadri sulla via. Ma il mare, da cui la chiesa si è ritratta, è lontano.” 2 3

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SECONDA PARTE VERSO UNA GEOGRAFIA VOLONTARIA: STRATEGIE MACROURBANISTICHE E PARADIGMI FUNZIONALI DELLA CITTA’PORTO

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CAPITOLO VI FORME DI ANTROPIZZAZIONE DELLE COSTE

A PROPOSITO DI REPULSIVITÀ E ATTRATTIVITÀ DELLE COSTE

Veniamo ora a quell’aspetto, a quella questione che costituisce un pò il rumore di fondo di questo spazio, il rapporto con le risorse del mare. La pesca e le risorse dei suoi ecosistemi marini a forte produzione di biomassa, fino a che punto spiegano il popolamento? Alla scala dell’ecumene non c’è dubbio che contribuiscano a spiegarlo sul lungo periodo in modo significativo, a patto che non si guardi a un puro, semplice bilancio di risorse marine ma bensì alle forme e alle fasce di contatto tra terra e mare, alla antropizzazione dei paesaggi litoranei, con questo spirito si guardi una carta come quella che mette in rapporto popolamento e piattaforme continentali; è certamente istruttivo leggere come questa zona di contatto abbia contribuito a sviluppare tecniche di attività primaria poste tra i due estremi: l’uno quello dell’acquacoltura delle acque interne e l’altro della pesca d’altura e dunque della marineria nel senso più schietto. Se ci è stato detto che questa liquida pianura mediterranea è sostanzialmente povera, che questo mare è incomparabilmente più povero di ogni altro mare, che soffre in tal senso del suo destino geologico, del suo sprofondarsi rapidamente, quasi privo come è di piattaforme continentali, nelle alture pelagiche, ci è stato altresì detto che le sue coste soffrono, soprattutto nella sua porzione orientale, del continuo processo di ringiovanimento delle sue alture calcaree, conseguentemente, ci troviamo di fronte: a monte, alla mancanza di bacini imbriferi solidamente strutturati e di piane estese, a valle, alla mancanza di ambiti idrologicamente stratificati in solidi ecosistemi1. Ciò è vero con la grande eccezione dei due grandi bacini, climaticamente però non mediterranei2, del Po e del Nilo, la cui importanza è invece molto grande nella conformazione delle piattaforme continentali. Limitiamoci alla penisola italiana, prendiamone un indicatore non assoluto ma significativo, guardiamo dove la piattaforma continentale si estende e dove lascia il

1 da Birot e da Dresch, oltrechè da Ribeiro 2 essi sono posti ai due estremi climatici di questo spazio, per il Nilo si veda oltre a Dresch: op. cit., anche A. Demangeon: “ Problèmes actuels et aspects nouveuaux de la vie rurale en Egypte“ in “ Problémes de Gèographie humaine “, Colin, Parigi, 1952, dove si parla della tecnica del “charaqi” una tecnica di aridicoltura, ossia di messa a riposo del suolo nella stagione estiva che grazie al lavoro di fratturazione del suolo sotto l’intensa opera di evaporazione non richiede il dry-firming, per la pianura padana l’inibizione delle colture irrigue invernali, fatta salva quella del prato jemale di origine fontanilizia la distaccano completamente dalla tradizione mediterranea

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posto a profondità pelagiche, capiremo il perché del contendere intorno ad acque territoriali, quali quelle dell’Adriatico orientale e della costa tunisina delle nostre flottiglie. Guardiamo dove corrono le isoipse dei + 100 e dei – 100 m. sul livello del mare su una carta d’Italia. Non era dunque solo per una dimensione limitata delle pianure costiere, del resto molto tardi bonificate, che molte sponde all’epoca dell’unificazione ferroviaria d’Italia apparivano spopolate, ma anche per la stratigrafia propria di quell’altra liquida pianura che stava di fronte. Eppure le eccezioni sono molte e di queste dovremo cercare di dare una spiegazione. Partiamo dal supporto fisico-geografico. Prendiamo un manuale di geografia fisica, dove l’inquadramento dei litorali è fondamentalmente riportato al giustapposto gioco marino della costruzione – per via di deposito che associa il lavoro meccanico delle onde al trasporto fluviale e della demolizione – per via di abrasione e erosione compiuto sempre dalla forza meccanica delle onde, gioco del ringiovanimento delle ripe-falaise e dell’accumulo formazione delle coste a spiagge. Ma questo gioco appare complicarsi non solo dalla natura geomorfologica del supporto: valli sommerse, fiordi di modellamento glaciale, rias, etc. ma dai movimenti eustatici, subsidenze, ingressioni, trasgressioni marine, tutto ciò da vita a trasformazioni il cui tempo di attuazione è spesso un tempo storico geologico commisurabile ai tempi storici umani, in più tale processo rova una ulteriore accelerazione dei tempi di trasformazione a causa dell’opera di antropizzazione che l’uomo compie non solo sulle coste ma sull’intero bacino versante. Ciò spiega di quale significato sia l’intima connessione con il popolamento di questa processualità geografica che investe uno spazio particolarmente mutevole. E’ allora importante vedere come opere antropiche infrastrutturali e di costruzione di paesaggio entrino in stretto rapporto con queste diverse tipologie litoranee. Tutti questi elementi ci aiutano a capire come sia pericoloso fare un discorso di repulsività o di attrattività delle coste, un discorso troppo a lungo fatto in modo sostanzialmente deterministico che difficilmente può recuperare la complessità storica di una tale interazione. UNO SPAZIO DELLE “DISPONIBILITÀ”: LE VALLI, I DELTA E I PORTI CANALE

A nord delle Gabicce ha inizio un lungo tratto di costa alluvionale che un tempo aveva alle spalle le lagune del Ravennate e che da questo polo fino a quello di Grado – Aquileia, delineava un sistema di lagune e di cabotaggio che consentiva una continuità di navigazione sui fiumi incidenti, fu questo spazio e questa rete di aste e di “valli” il primo supporto alla rinascita medioevale padana1. Un sistema di acque interne, paduli, lagune, valli dolci e salse, etc. ora in gran parte colmate e prosciugate. Questo spazio di contatto è l’espressione di presenze deltaiche più o 1 si veda S. Lopez: “ La rivoluzione commerciale del Medioevo”, Einaudi, Torino,1971

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meno complessamente digitate, solo in alcuni casi minori ci troviamo di fronte alla formazione di delta semplici “ a triangolo”. Qui, poiché il gioco di spazzamento delle maree opera relativamente poco, anche dei piccoli fiumi presentano un loro notevole apporto nella formazione delle coste. E i fiumi che tuttora riversano in mare l’abbondante materiale di trasporto, sono stati tutti regolati e parzialmente deviati dall’uomo. A nord di Ancona le foci dei fiumi principali furono artificialmente deviate e inalveate per essere utilizzate come porti-canale: alterandosi perciò il normale alluvionamento e la distribuzione delle alluvioni per opera del mare, con un conseguente avanzamento del mare.1 I primi porti canale a tutti noti sono quelli di Comacchio, di Venezia, di Chioggia, gli ultimi in ordine temporale sono quelli del ravennate2. Prendiamo in considerazione una sistemazione meno nota, ma quella con maggiore continuità storica rispetto a quella veneziana. “Visitando oggi Comacchio, si rimane colpiti soprattutto dalla presenza, nel centro storico, di alcuni canali che con andamento leggermente sinuoso. creano prospettive urbane contrastanti con le lineari prospettive della pianura comacchiese.”3 Il paesaggio che circonda la città è oggi, per la massima parte, frutto di bonifiche iniziate nell’Ottocento e terminate nel Novecento nel periodo tra il cinquanta ed il sessanta, che sono totalmente in contrasto con il preesistente paesaggio anfibio, il quale vedeva, all’interno del cordone costiero, distendersi vasti specchi d’acqua, le valli, a basso fondale separati tra loro da tortuosi e bassi argini. Ogni valle bonificata presenta, oggi, un proprio reticolo planimetrico, più o meno ortogonale, di strade e canali di scolo, che riquadrano il terreno prosciugato. La città di Comacchio mostra invece, nella sua parte più antica, l’immagine di quello che potremmo definire un paesaggio urbano “lambente” le acque, questo è ancor oggi ben individuabile all’interno della cinta periferica, era, infatti, città lagunare, nata su un gruppo di isole comprese tra i cordoni di epoca preetrusca ed etrusca, sui quali sorgeva la città di Spina e quelli successivamente formatisi in epoca romana. “ Fin dall’antichità classica, Comacchio era separata dal mare da solidi cordoni litoranei, comunicando indirettamente con esso attraverso stretti canali, sorgeva su isole aventi quasi sicuramente una forma ed un orientamento determinati dalla particolare origine delle stesse, formatesi cioè come consolidamento e sistemazione di relitti: sponde della foce di un corso d’acqua, per quelle isole che hanno andamento quasi parallelo al litorale marino; margini costieri, invece, per quelle che

1 questo avanzamento sembra esser divenuto più notevole e forse più generale dal 1875 in poi 2 si veda R. Almagià: op.cit. 3 D. Maestri: “Genesi e morfologia urbana di Comacchio”, Roma, 1977

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hanno andamento ortogonale alle prime, cosicchè la città è venuta ad avere uno schema basato su assi principali ortogonali anch’essí tra loro.”1 Ciò ci riporta al porto di Aquileia, a questa tradizione europea del porto protetto, dell’hafen e del porto canale. E qui si apre una interessante questione di morfologia urbana. Anche in Comacchío troviamo un canale maggiore, che costituisce uno degli assi portanti dello schema urbano, caratterizzato da un andamento quasi rettilineo. A Chioggia come a Comacchio poi è l’asse urbano più lungo a fungere da piazza; la funzione del canale corridoio di flussi vi è importante al punto da plasmarne forma urbis e comportamenti. Ma questi flussi si danno anche perché dietro, ossia a monte del porto canale, dove è l’antico retaggio delle valli, la complessa orditura di ghebi2, valli salse o no e sacche, caratterizzanti la morfologia del corpo idrico della laguna e dei rami del delta, spazi antropizzati attraverso la costruzione di chilometri di serraglie mobili, di arginelli in fango, di reti fissate al fondo, di palade, cogolere e così via, oltre ad un gran numero di mote, ossia di isolotti artificiali o consolidati su cui sono edificati i casoni. Coi porti canale, si da dunque vita a una espressione di geografia umana assai complessa e articolata nei suoi paesaggi e si configura un quadro urbano molto originale e diverso, anche morfologicamente, rispetto a quello della città castramentata o murata della tradizione di terraferma. Così è che non possiamo parlare di frutti spontanei, di un determismo geografico delle risorse e delle disponibilità, ma di un processo di antropizzazione complesso3.

1 ibid. 2 così si chiamano quei piccoli canali naturali tortuosi nelle barene che portano con il loro tessuto capillare l’acqua marina nelle valli attraverso cogolere e chiaviche 3 per contrasto potremmo prendere l’esempio alto tirrenico, dove “Nel complesso la costa tirrenica tra la Magra e Gaeta veniva considerata in passato come repulsiva sia perché sostanzialmente priva di porti ( essendo artificiali i due maggiori porti di Livorno e Civitavecchia, sia perché malarica in quanto oggetto di impaludamento: tomboli, maremme, paludi campagne sono i termini che contaddistinguono fino al nostro secolo la geografia di queste coste.” E ancora: “Il versante tirrenico, dal golfo di La Spezia al golfo di Napoli un susseguirsi di falcature più o meno estese, articolate su numerose bocche fluviali, chiuse da promontori rocciosi - per la gran parte della sua estensione era da considerarsi repulsivo: paludi e malaria, infatti, avevano il sopravvento. Più in particolare, le piane formate dalle alluvioni del Magra (dove giace Luni, già fiorente porto romano, ormai a qualche chilometro dalla costa) e quelle formate dalle alluvioni del Serchio e dell'Arno, apparivano coperte da specchi d'acqua, da stagni, da “paduli” ma anche dai primi segni della risaia; poi la piana formata dal dovizioso trasporto dell'Ombrone dove più vistosi erano i segni della bonifica. In questo contesto, così attivo dal punto di vista del trasporto solido, si capisce come le cronache riportassero le difficoltà per mantenere libera dall'interrimento la bocca del porto di Livorno, considerata unica città marittima della Toscana”, in Zunica: op. cit.. Così è che nella perpetua lotta tra l’erosione marina e l’alluvionamento va collocato il divenire del sistema portuale alto tirrenico, ma è una lotta che non ha il tramite di un paesaggio lagunare “coltivato” come quello alto adriatico, né analoga permeabilità di rapporti verso l’interno.

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UN PRIMO SPAZIO DELLE SFIDE: LE COSTE DI RIPA

Prendiamo ora la tipologia di “ripa”, ossia di falaise1, ecco che frettolosi manuali si precipitano a costruire su di essa una prima immagine di repulsività, domandiamoci subito come mai essa ci spieghi la bella riuscita della marineria ligure e, altrettanto bene la repulsività relativa del basso Tirreno, o ancor più quella delle coste corse2, e in una certa misura sarde? Partiamo proprio dal caso che nega un tale principio di repulsività. Consideriamo la Liguria il mare vi è povero, ancor più che per la sua conformazione di ripa, per la sua recente storia tettonica: “L’histoire tectonique indique que la Méditerranée actuelle est due surtout à des effondrements post-miocènes, largement indépendants des structures qu’ils-affectent. Il suffira de citer quelques exemples attestant l’importance de la révolution que se produit alors dans la zone méditerranéenne. En Méditerranée occidentale, le golfe de Génes (qui, auparavant, avait fourni la matière première des flyschs des Alpes maritimes et de l’Apennin septentrional) s’effondre. ”3 E questo sprofondamento è legato alla formazione di coste chiuse di tipo tettonico, segnate da una profonda solcatura, montagne scoscese come le Alpi Marittime precipitano direttamente nel mare fino a grandi profondità, coste frastagliate solo nei dettagli ma senza dentizioni profonde, se la struttura, come nel caso delle alpi marittime e della Liguria, è perpendicolare alla costa, con fiumi di breve sviluppo, a pendenza rapida accentuata dalla flessura sottomarina della costa, debole ne risulta l’opera di riempimento dei fiumi. Così è che complessivamente debole è anche l’opera del modellamento sia in termini di apporto che di scavo di questa costa chiusa ligure, ciò che ne impoverisce il quadro delle risorse del suo ecosistema marino, anche se questo giudizio va relativamente mitigato dal fatto che la trasparenza delle acque consente una penetrazione della luce e conseguentemente

1 Si veda E. de Martonne: “Traité de Geographie Phisique” Tome II, Le relief du sol, Colin, Parigi, 1948 2 A questo punto dovremmo aprire un troppo lungo discorso nel contesto dell’economia del lavoro, sulla struttura delle “ coste a ripa ”, nei loro contrasti di coste di valli sommerse, di semplice demolizione strutturale, le quali configurano diverse situazioni di sviluppo delle conformazioni, lineari, dentellate, a golfo, uno dei classici contrasti è ad esempio quello dato tra la costa orientale e quella occidentale della Corsica. Per comprendere il senso del gioco di questi fattori, si consideri quanto dice Birot : “ Les seules cótes à indentations profondes ne sont pas engendrées par une structure plissée transversale (comme dans le type breton) mais par une orientation transversale de la direction dominante des fractures et flexures : cótes du Péloponnèse, de la mer Egée ; et sans doute aussi de la Corse occidentale. L'indice de développement maximum est réalisé dails I'Ouest de l'Asie Mineure, ou les fossés sont partietilièrement profonds, ce qui retarde leur colmatale, alors que les horsts s'enfoncent progressivement vei,s le large soug la forme d'un plateau continental, portant une multitude d'iles. ” in P. Birot : op. cit. 3 Birot: op.cit. pag 29

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uno sviluppo della vita a profondità elevate, mediamente superiore a quello di altri spazi marini alle medesime profondità. Così è che Mr. Stephen Liégeard che, alla fine dell’Ottocento, si spinge dalla Costa Azzurra fino a Genova e riempie un libro delle sue impressioni sulla lunga e straordinaria sequenza di insediamenti luminosi, a proposito dei pescatori di Laigueglia: “Brava ed intelligente popolazione questi Laiguegliesi. Come marinai non conoscono ostacoli. La loro abilità è pari al loro ardimento e si fanno lunghi racconti attorno alle loro imprese. La razza non è in via di estinzione. Tutta questa costa, una delle più pescose, si popola di pescatori. Seduti nelle loro barche sono occupati a rammendare le loro reti per la fatica della notte che si avvicina”1. Ma se sostanzialmente povere, ma non inesistenti sono le risorse locali, sono ricche le sue marinerie. Consideriamone brevemente alcuni esempi. Camogli è una memoria viva di un’epoca splendida e di un destino avventuroso, manifestato soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, quando nei registri navali si contavano oltre mille velieri locali e settecento capitani marittimi, quasi tutti con incarichi di comando2. Da queste rive erano partite le “scune”, le “bombarde”, i “brigantini”, i “navicelli” per partecipare alla guerra di Crimea, e i mille bianchi velieri che navigavano sulle rotte commerciali del Mediterraneo e degli oceani più lontani. Potremmo andare avanti per ogni piccolo villaggio, per ogni piccola città-porto della Liguria, vi troveremmo una storia di marineria, una storia di specializzazioni della propria flottiglia, come le flottiglie coralline di Rapallo o di Alassio, della propria cantieristica, che come a Arenzano si era costruita su rapporti minuti con il retroterra, ossia con quella valle dell’Olba che le forniva il legame di quercia e di faggio3. Cogoleto è l’ultimo comune della provincia genovese sui confini occidentali. I cogoletesi costruivano quelle imbarcazioni di tipo “leudo”, particolarmente adatte ai carichi pesanti. Qui è facile rileggere storie di cantieri e di naviganti, relative specialmente al secolo scorso, “quando la gente di Cogoleto, dopo aver sperimentato l’utile del lavoro nelle cave di pietra e nelle fornaci da calce, scopri che la stessa calce doveva essere trasportata via mare (prima che comparissero i binari della ferrovia litoranea) e trovò indispensabile buttarsi nelle avventure delle navigazioni veliche. Da queste parti, in mancanza di acque protette, avevano l’uso di tirare in secco gli scafi, a forza di argani, e mentre erano a terra, di caricarli alla rinfusa. Per la partenza era necessaria un’operazione simile al varo. Gli scivoli venivano

1 G. Beniscelli: op.cit. p.38 2 Qui avevano fondato, nel 1852, la Mutua Marittima Camogliese - la prima del mondo - che ebbe subito un capitale assicurato di tre milioni e mezzo. Alla fine del Settecento dopo la sfortunata battaglia di Abukir, i camogliesi avevano rinnovato la loro flotta mercantile impegnando tutti i cantieri rivieraschi e la flotta venne noleggiata dai francesi, durante il regno di Luigi FiIippo, per la conquista dell'Algeria. 3 G. Beniscelli: op.cit.

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spalmati di sego e i barchi, liberi dai puntelli, prendevano l’abbrivio verso le onde, mentre capitano e marinai dicevano solenni preghiere propiziatorie.”1 Numerosissime le memorie delle opere cantieristiche anche a Varazze, dai tempi più remoti, in quanto Varazze sarebbe la stazione “Ad Navalia”, segnata nella Tavola Peutingeriana e quindi un presumibile porto di epoca romana con depositi di materiali e scali efficienti per la costruzione e riparazione dei navigli. Nei primi 65 anni dell’Ottocento, Varazze, con dodici costruttori navali di prima classe ed otto di seconda, mise in mare 1680 navi e più di duemila imbarcazioni per il piccolo cabotaggio.2 Ma questi centri non vivono solo chiusi nel rapporto col mare, né verso terra nel rapporto con le proprie terrazze coltivate, in Liguria e in Catalogna ad ogni insediamento litoraneo vulnerabile corrisponde un borgo fortificato all’interno, e poi corrisponde una portualità, almeno alla scala del primo e del secondo livello gerarchico, che configura proprie relazioni di valico e che fa si che questi porti siano “porti di Lombardia” come veniva detto nel medioevo. UN POSSIBILE SPAZIO DELLE SFIDE: I LITORALI DI ALLUVIONAMENTO

Osserviamo le ripe basso tirreniche, qui la costa appare partecipe di caratteri fisici e umani propri dei paesaggi delle valli sommerse: una costa alta, a tratti orlata da cimose detritiche più o meno minute, alternate a spiagge inibite da impetuose fiumare: “Così il popolamento si distribuiva in alto, spesso ( e venendo preso dall’enfasi il geografo lo collocava ) “oltre i mille metri sul mare”( sic! )con ai piedi qualche approdo che permetteva, però, solo un modestissimo esercizio della pesca”3. Qui le fiumare tirreniche col tempo hanno smembrato le masse montuose. Soprattutto l’Amato e il Mesima col concorso di affluenti e corsi d’acqua minori, han creato le due maggiori pianure della Calabria tirrenica, quelle di Santa Eufemia e Palmi (o di Gioia); cosparse di acquitrini e malariche, esse erano spopolate prima delle novecentesche opere di bonifica: “Le località abitate raramente si trovano sulle brevi, piane cimose litoranee, e quelle poche sono quasi tutte recenti; altre sorgono sui più bassi terrazzi - come Paola - o assai più spesso su rupi strapiombanti come gigantesche fortezze: Pizzo, Briatico, Tropea, Palmi, Scilla presso l’imbocco

1 Ibid. 2 “ma prima - molto prima - varava le galee rostrate per i Romani, i vascelli medioevali per Genova, per la Spagna e la Francia (si veda il re San Luigi e la seconda Crociata), e quel grande scafo - il "Sant'Anna" - fasciato di lastre di piombo a prova di palla, che Andrea Doria condusse nella spedizione contro Tunisi, e quell'altro galeone - la prima vera nave da guerra degli inglesi - costruita alla fine del Quattrocento (nome: "Grand Henry") che con i buoni uffici del Banco di San Giorgio venne pagata al favoloso prezzo di 15 mila sterline oro.” Ibid. 3 M. Zunica: op.cit.

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settentrionale dello Stretto. Su una breve striscia di litorale piano si allunga invece Reggio, la cui importanza fu in ogni epoca legata alla prossimità con la Sicilia ed al traffico che attraversa lo Stretto, passaggio obbligato dal Tirreno allo Ionio.”1 Si capisce, allora, l’importanza della ferrovia Napoli-Reggio, entrata in funzione nel 1895, che ricuciva la fascia costiera, con un manufatto dal grande interesse nel rapportarsi allo spazio litoraneo: il viadotto. Esso supera la fiumara, là dove il terrapieno consolida il piede della cimosa, per altro instabile supporto della modesta opera d’arte che sorregge l’armamento ferroviario. Se le tappe ritmiche dello scalo-stazione, certo non riusciva di per sé a risolvere le difficili comunicazioni con l’interno, esse riuscivano a creare un asse di mobilità che ha introdotto uno scenario d’urbanesimo nuovo per questa porzione regionale, quello della discesa alla piana, congestiva e precaria ma irreversibile, come del resto mostra l’evoluzione di Gioia Tauro, con la sua storia estroversa2 . Spostiamoci sull’altra costa calabra, quella jonica, qui si ha uno dei più lunghi, uniformi tratti di costa bassa, alluvionale, che esista in Italia, qui il formarsi di cimose litoranee è apparso ai geografi elemento di repulsività lungo almeno l’intero tratto che supera le coste calabresi per giungere a Taranto. Risalendo lungo la costa lucana, cinque grossi fiumi, il Sinni, l’Agri, il Cavo, il Basento e il Bradano ed altri minori, carichi di materiali di trasporto abbondantemente forniti dalle rocce argillose e sabbiose terziarie della Basilicata hanno creato la larga, monotona pianura che si stende fin quasi alle porte di Taranto3. Nella Calabria ionica, anche se non mancano sezioni alte, uniformi, chiuse all’interno da ripide pendici, le fiumare, più numerose, più attive, ancor più ricche di materiale di trasporto di quelle tirreniche, perchè incidono spesso rocce terziarie poco resistenti, hanno creato delle cimose piane assai più larghe, anzi, in corrispondenza alle foci, dei veri e propri apparati deltizi: così l’Allaro, l’Ancinale, il Neto, il Triore e, più attivo di tutti, il Crati, che, col suo affluente Coscile e altre fiumare minori, ha formato un golfo creando una pianura costiera analoga a quelle tirreniche di Santa Eufemia e di Palmi: la Piana di Sibari. Ora il pericolo è quello del fermarsi a questa lettura sincronica che come sappiamo non corrisponde affatto alla storia, di cui è necessario ripercorrere, sia pur sommariamente, le linee processuali. Nell’età greca, quando i processi di

1 R. Almagià: op.cit. 2 si vedano i temi della colonizzazione industriale e dell’aumento del suolo improduttivo toccati dai meridionalisti negli anni Settanta, un utile inquadramento in P. Coppola: op.cit. 3“Da Crotone a Santa Maria di Leuca, lungo l’orlo costiero del golfo di Taranto, solo l’omonima città, le cui origini sono fatte risalire al VII secolo a.C., con il suo porto privilegiato dalle favorevoli condizioni naturali, si poneva in situazione di eccellenza su di una costa del tutto importuosa. Più in particolare, il litorale fino al Sinni appariva del tutto disabitato e anche la piana del Crati non presentava condizioni favorevoli. D’altronde, dal Sinni fino quasi a Taranto estesi cordoni di dune, spesso rivestiti da fitto bosco, impedivano il regolare deflusso dei numerosi fiumi carichi di torbide: ne risultavano così spazi praticamente invivibili.” In M. Zunica: op.cit.

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alluvionamento erano meno avanzati la costa era dentellata da piccole insenature al riparo di promontori, nella costiera ionica era viva l’attività marinara come quella agricola sviluppata lungo lembi di pianure che, poco e meno protese nel mare dell’oggi, ma asciutte, in epoca classica eran ben coltivate, quando vi sorgevano floride città, come Eraclea e Metaponto. Così è stata questa la terra di elezione di quell’urbanesimo costruito dalle colonie greche di “seconda generazione”, non di semplice scalo-emporio su un isola, ma che sviluppò l’abbinamento tra la città-porto a un sistema di bonifica idraulica e di costruzione di vie istmiche capaci di definirne una vera nodalità insediativa. Ma dei porti, solo Crotone ha conservato successivamente una qualche importanza; altri centri sono del tutto scomparsi e solo adesso vengono rimessi in luce i ruderi di Locri. Il disordine idraulico, che sopravvenne a partire dal Medio Evo, non mai frenato da provvedimenti adeguati, portò un progressivo peggioramento che rese tutta la fascia infestata dalla malaria, repulsiva per l’uomo.1 Sintomatica è la storia di Sibari e della sibaritide. Allora il Coscile era, come già si è detto, un fiume indipendente: l’unione col Crati è conseguenza del processo di alluvionamento, che ha sepolto la città di Sibari al punto che non se ne conosce neppure il preciso sito. L’abbandono di questa plaga data già dalla fine dell’età classica ed è perdurato, si può dire, fino ai nostri giorni. Ed ecco il succedersi del movimento montante del pendolo di un Medio Evo in cui le località abitate si stabilirono in alto sui colli, in vista del mare; e quello discendente di un oggi in cui la costa si ripopola per il sorgere di vivaci marine, che vengono sopravanzando i vecchi centri dell’interno. LO SCENARIO DELL’ALAGGIO TRA DETERMINISMO GEOGRAFICO E FATTI CULTURALI

Ecco il quadro che lo sguardo retrospettivo del geografo ci propone per le coste medio adriatiche all’inizio del secolo: “L’impervia costa del promontorio del Gargano proponeva come unica scolta Vieste per sfumare nei laghi di Varano e di Lesina e proseguire con le malsane basse coste molisane, spesso però ampiamente boscate, fino a Termoli. Da qui il bordo costiero fatto di prominenze, non sempre orlato da spiagge, intagliato da corsi d’acqua generalmente modesti con andamento parallelo, correva monotono, scarsamente frequentato dagli uomini fino a Cattolica. Tutti i centri infatti, si arroccavano sulle aree rilevate facendo capo ai “porti” – sdoppiamenti recenti nella maggior parte dei casi innescati dal correre della ferrovia - che vivevano di una modesta attività peschereccia mentre Pescara, borgo appena un pò più ampio, si avvaleva di un porto sull’omonimo fiume, dal modesto cabotaggio.

1 R. Almagià: op. cit. pag. I70

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Così, solo Ancona, a ridosso di una delle maggiori prominenze, poteva essere considerata come l’unico vero porto: il più importante del medio Adriatico.”1 E’ il regno della spiaggia, della costruzione di un grande lembo profondo, anche là dove si danno bordi di ripa. La costa abruzzese e marchigiana, dal Fortore alla Punta di Gabicce, è caratterizzata dalla presenza di un piano dolcemente inclinato, alto in media 100-150 m., una antica pianura costiera sollevata, terminante sull’Adriatico con erte ed alte ripe. Queste ripe talora precipitano a picco sul mare e vengono continuamente minate alla base dalla erosione marina che ne determina l’arretramento, ma più spesso sono precedute da una breve cimosa litoranea, sabbiosa, di origine alluvionale. Essa è stata creata dal materiale dei corsi d’acqua, la cui azione erosiva, esercitandosi su rocce mioceniche poco resistenti (sabbie, argille, argilloscisti, marne), è molto energica. Tale cimosa tende ad allargarsi in corrispondenza dell’estremo tronco inferiore dei fiumi. Cosicchè, esemplificando, alla corrispondenza della foce del Potenza la spiaggia si sarebbe protratta di oltre un kilometro dall’età romana, allorchè vi sorgeva la città di Potentia, ora sepolta dalle alluvioni del fiume a sud della foce attuale; a Porto Recanati e a Porto San Giorgio l’ampiezza della cimosa litoranea risulta raddoppiata negli ultimi 400 anni. L’Aspio e il Musone sboccavano in mare con autonome foci. Nell’area a sud di Fano la linea di spiaggia sarebbe avanzata dall’epoca romana fino verso la fine dell’Ottocento di circa 1200 metri. La linearità delle spiagge abruzzesi e marchigiane è interrotta da alcune erte propaggini, come la Punta delle Pietre Nere, quella della Penna, il Promontorio e soprattutto l’aggetto del Conero (572 m.). Esso scende in mare con pendenze ripidissime o anche con ripe a picco vivacemente attaccate dall’erosione marina2. In tutta la costa abruzzese-marchigiana il Conero soltanto offre condizioni favorevoli per l’esistenza di un buon porto: Ancona; minori porti sono al riparo di più brevi promontori; gli altri approdi utilizzano le foci canalizzate di alcuni fiumi. Ma questa relativa importuosità non impediva la presenza di una attività primaria, la cui facies culturale, schiettamente adriatica, vi appariva assai vivace, essendo stata la costa medio adriatica il luogo di permanenza della cultura dell’alaggio, resistita fino a qualche decennio fa. Sono anni in cui la piana costiera era un instabile spazio di margine, dove la spiaggia proponeva solo antiche forme di pesca, si prestava per tirare in secco le barche di modeste proporzioni o per raccogliere tutto ciò che le correnti e le onde vi rigettavano. Dietro di essa era una collina che appariva ancora l’espressione di un paesaggio compiuto dove insediamento e colture avevano

1 M. Zunica: op.cit. 2Nell'insieme la morfologia costiera mostra, secondo G. Cumin, le tracce di un sollevamento intenso nel Pliocene e I75 continuato ancora nel Postpliocene; ma in tempi storici il sollevamento è in stasi e anzi l'abrasione e le frequenti frane hanno prodotto notevoli arretramenti soprattutto nella sezione nord-occidentale.

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impresso un disegno netto e a lungo conservato nel tempo all’insediamento. Più indietro la montagna con l’inizio di un progressivo spopolamento “dimostrava la sua secolare inospitalità, il suo isolamento, la fatica a renderla a misura d’uomo”1 Queste fratture di paesaggio creavano un relativo isolamento, che fino all’avvento della ferrovia inibirà il quadro degli scambi, così è che l’alaggio si ripropone in tutta la sua attualità consuetudinaria per tutta la prima metà del Novecento.2 Il varo della barca era, evidentemente, più facile del rientro: bastava che lo scalante spingesse con la schiena la poppa della barca, aiutato magari dai familiari dei pescatori e dalla vela, che veniva alzata se vi era un po’ di vento da terra, e spostasse le palanche davanti alla prua finché l’imbarcazione galleggiasse. Ma il rientro era reso più complicato dalla configurazione del fondale, specie con mare mosso. Infatti, dal bagnasciuga il fondo del mare scendeva rapidamente dopo pochi metri, formando un avvallamento (la fossa) profondo circa tre metri e largo circa 30, creato dal frangersi delle onde, oltre il quale il fondo risaliva fino ad un bassofondo detto lo seccarì, dell’altezza di un metro circa, o anche meno, e della larghezza di 20-30 metri o poco più. Da tale bassofondo il fondale scendeva poi molto lentamente verso lo cupaló, ossia il mare profondo.3

1 Zunica: op.cit. 2 Due scalanti bastavano per una muta ( una coppia di lancette che pescavano insieme), il loro era un lavoro ingrato e poco remunerativo, il loro lavoro principale era quello di formare lo scalo, ossia lo scivolo sul quale venivano poste le palanche (travi), spalando la ghiaia con una pala a punta arrotondata detta pala da scalante e trasportandola, per colmare avvallamenti e buche, per mezzo di una specie di barella di legno detta la civera; le palanche dovevano essere bene ingrassate per evitare l’attrito con la chiglia e le falsechiglie delle lancette. Si veda 3 Quando la lancetta veniva a terra, i marinai si spingevano sin dove la si poteva governare, magari con il timone rialzato nella posizione detta "in controleva", ma, arrivati vicino al bassofondo, dovevano togliere dei tutto il timone, ammainare la vela e scarrocciare verso la riva sotto l'azione dei vento, guantando ossia governando la barca con uno dei due remi in dotazione. Se la spinta dei vento, ed era il caso preferibile, era troppo debole per spingere a terra la lancetta facendo presa sulla fiancata dello scafo, i marinai issavano a poppa uno dei fiocchi procedendo verso la spiaggia all'indietro. Arrivati alla fossa, cercavano di presentare la poppa della barca alla spiaggia, e per far ciò lanciavano agli scalantí a terra delle cime (li proési) legate a prua, con le quali cercavano di tenere la lancetta nella giusta posizione. I proésí erano due se il mare era molto mosso e le ondate potevano mettere di traverso la barca sia da una parte che dall'altra, mentre ne era lanciato uno solo se le onde ed il vento venivano da una parte sola e bastava trattenere (gguantà) la barca solo sopravvento. Da poppa veniva lanciata a terra un'altra cima (la puppa) per mezzo della quale, a forza di braccia, gli scalanti tiravano la lancetta sino all'acqua bassa della riva, finché si poteva inserire sotto di essa la prima palanca e si agganciavano le catene ai ganci laterali della barca verso poppa. Infine si cominciava a far girare l'argano e si tirava la barca in secco, facendo in modo che la chiglia non si ficcasse dentro la sabbia e spostando continuamente le palanche. Con mare mosso, specie d'inverno, le operazioni divenivano molto più difficili e faticose e gli scalanti, coperti da lunghe maglie e da mutandoni di spessa lana, dovevano entrare nell'acqua per afferrare le cime lanciate dai pescatori e passare a loro volta, magari durante la valìa, cioè la stanca fra un'ondata e l'altra, le catene da infilare ai ganci laterali della barca. Inoltre, una volta in acqua gli scalanti cercavano

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Quindi anche in questo caso ritroviamo il senso di una sfida che ha aperto sulla base di una esperienza culturale alto-adriatica ad un possibilismo geografico, a una geografia volontaria come del resto ben mostra il salto che la flottiglia da pesca ha realizzato nel quadro del nuovo scenario di tendenza insediativa e di infrastrutturazione di porti-canale. UN PROBLEMA DI PORTUOSITÀ FAVOREVOLE O DI ARMATURE INSEDIATIVE?

Parafrasando liberamente da quanto ci hanno detto i geografi potremmo ricostruire un quadro in cui sostanzialmente, all’inizio del Novecento, lo “stato di fatto” costiero appariva composto dal prevalere dei paesaggi naturali scanditi dalle ampie falcature delle spiagge sottili, dai delta che conservavano ancora un notevole grado di libertà, da speroni e prominenze rocciose che limitavano baie e golfi più o meno ampi, da versanti rapidamente immergenti le loro masse nel mare, da strette cimose ora sabbiose ora ciottolose, da effimeri depositi di irruenti fiumare, il tutto in una sorta di frammentazione e di suddivisione che i borghi distanti dal mare e tra loro non riuscivano a legare, ad esclusione di quei settori più densamente abitati cui già abbiamo fatto riferimento, in ultima analisi, un paesaggio sostanzialmente senza armature1. E tale mancanza di armature sembra lungo la costa produrre una totale discontinuità degli insediamenti, non solo urbani, dove le presenze cittadine o appaiono distribuite per linee di forza trasversali, secondo l’andamento delle valli e dei promontori, in un contesto, cioè, dove le forme urbane legate al mare rappresentavano eccezioni, e dove esse sono viste come occasioni puntuali del configurarsi di una portuosità naturale: occasioni di costruzioni tra insenature che possono, arroccandosi a piccole isole esterne, configurare naturali, consolidabili costruzioni di moli, speroni di prominenze rocciose che, usando del gioco delle correnti, dei venti, delle foci e dei flussi, determinano nel punto di contatto tra ripe e spiagge, la formazione di golfi naturali protetti come Messina o come Trieste, o insenature dovute a subsidenze come Taranto, o a eccezionali sbocchi di coste di valle come Brindisi. Così è che agli occhi di questi geografi i cambiamenti delle spiagge fino al Ventesimo Secolo sembrano ancora muoversi all’unisono con gli eventi

di frenare, puntandosi con la schiena, la lancetta che le ondate spingevano verso riva, finché la prima palanca non fosse posta sotto la chiglia. Essi dovevano evitare con tutte le forze che l'imbarcazione si mettesse di traverso ed andasse in marina, cioè rimanesse sul bagnasciuga esposta ai colpi dei mare e corresse il serio pericolo di fracassarsi: non era più possibile che la barca riprendesse il largo, e si poteva tentare di tirarla in secco usando un altro argano libero che si trovasse lungo la direzione dell'asse della lancetta. Ma se anche questo non bastava la barca era ormai perduta poiché affondava. Queste considerazioni le traggo da D. Cecchi: op.cit. 1 Si veda M. Zunica: op.cit.

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meteorologici: il modificarsi lento delle foci, il colmarsi e l’impaludarsi dei settori più depressi, il perdersi e il formarsi di cordoni di dune, tutto si da nel gioco alterno degli eventi fisici. D’altronde la fascia litoranea, laddove si allargava, con la sua spesso malarica repulsività, appariva improponibile alla residenza e alla utilizzazione, mentre dove il rilievo incombeva sul mare, “i borghi dall’esigua struttura e a volte esaltati da cascate di terrazzi, sembravano indecisi tra lo spazio solido e il vivere quello liquido, anche se ambedue gli elementi offrivano troppo poco per sopravvivere”1. Ma è questo in realtà il quadro che il secolo appena trascorso si trovava di fronte? Sì si danno alcune eccezioni, ammetteranno timidamente i geografi, ma che razza di eccezioni esse siano noi ben lo sappiamo, prima di tutto quattro armature di straordinariamente forte importanza: quella della riviera ligure, quella delle coste siciliane nord-occidentali, quella partenopea e un settore della costa pugliese. E dietro queste altre quinte, forse meno appariscenti ma pur sempre formanti un pregnante sistema di armature insediative: le due coste medio e alto adriatica con i sistemi dei porti canale. E poi ancora quella medio tirrenica dove, a dispetto delle dichiarazioni di importuosità, Piombino, Porto S. Stefano, Port’Ercole, Civitavecchia hanno trovavano un sito favorevole ai piedi dei protendimenti rocciosi che individuavano gli ancoraggi “naturali” più sicuri di questi tratti di costa. E dove si da ancora il riscontro di una civiltà dalla straordinaria capacità di organizzazione poliadica come quella etrusca, e dunque si da anche qui lo spessore di una armatura urbana che a lungo silente nell’oggi torna ad esser espressiva. Così domandiamoci: fino a che punto è giusta l’affermazione che i centri costieri a lungo hanno vissuto una storia separata non solo rispetto a un retroterra che spesso stava subito al di là di uno spartiacque, ma anche rispetto ai litorali contermini in una sorta di prevalere egoistico ? LE COSTE OGGI ? NON SOLO UNA CITTÀ LINEARE

Quegli stessi geografi ci dicono: “Passeranno pochi decenni perchè su quella timida organizzazione si instaurino invadenti processi urbani, massicce e grevi localizzazioni produttive”.2 Così eccoli, nell’urgenza dell’oggi, chiamati a fare ben altre considerazioni3.

1 ibid. 2 M. Zunica: op. cit. 3 “effimeri mondi per le vacanze, assolutamente carenti di spinte culturali ma tanto sensibili a ogni minima modificazione che minacci case, manufatti localizzati troppo vicino al mare e che riduca gli spazi godibili per l'abbronzatura. Il che conferma quanto fosse diffusa la mancanza di cultura, di tradizioni, di conoscenza nei confronti della labile cerniera terra-mare. Paradossalmente alla fine del secolo scorso la situazione appariva più distaccata da quel

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E allora guardiamo, a un secolo di distanza, portando una maggiore attenzione ai paesaggi umani e alle armature insediative come si evolve il divenire di questo spazio. Una carta satellitare della penisola, nella espressiva sintesi quale è quella che una visione notturna ci fornisce, ci da un quadro che non possiamo consegnare alle comode dichiarazioni giornalistiche ( e moralistiche ) della congestione e della informe e spontanea conurbazione. Se lo scenario ci appare totalmente mutato, anzi forse quella che ci appare svilupparsi lungo le coste italiane è la più grande mutazione urbanistica a cui il nostro territorio nazionale è andato incontro nell’ultimo secolo, essa è l’espressione di una nuova forma di urbanesimo che parte e riprende, a volte sia pur distrocendoli, le armature di cui abbiamo appena parlato. Ed allora non ci posson soddisfare le definizioni che si son venute delineando: “megalopoli mediterranea”, città continua, conurbazione delle coste, e con espressione forte ma pericolosa, in quanto incapace di comprenderne i processi: “teniapoli mediterranea”, la definiva il Compagna.1 Guardiamo poi una carta muta che ci riporta gli andamenti degli incrementi di popolazione e ci mostra la costanza degli incrementi della popolazione litoranea, in particolare lungo la costa adriatica. Queste due carte sinteticamente ci configurano una trasformazione insediativa epocale. Questo venir meno della repulsività delle coste, questo nuovo focalizzarsi del popolamento ha avuto un attore pioniere, già l’abbiam detto: la ferrovia. Già ai primi del Novecento la ferrovia ricuce ormai quasi per intero il perimetro costiero italiano: un correre di binari in un continuo alternarsi di manufatti: di gallerie, di ponti, non ancora di veri viadotti e di tratti in rilevato a stretto contatto con il mare dal quale si distacca solo in prossimità delle maggiori piane costiere.2 E’ stata la ferrovia, con il suo difficile correre spesso a stretto contatto col mare, a proporsi come elemento connettivo e come richiamo di attività e di uomini. All’inizio si tratta di iniziali tensioni insediative di carattere prima di tutto duale.

determinismo fisico che proprio oggi, in un momento di generalizzata convinzione affrancamento dell'uomo dai condizionamenti fisici, appare piu pressante”. In M. Zunica 1 F. Compagna: “Megalopoli e gigantismo urbano “ in ( a cura di ) c: Muscarà: “Megalopoli mediterranea”, F. Angeli, Milano 1978 2 “Dal punto di vista dell'equilibrio delle coste essa propone, per momenti traumatizzanti. Se da un lato si frappone come ulteriore ostacolo nelle piane di carente drenaggio, complicando situazioni già tanto difficili, è innesco e promozione di quel massiccio, non contro lato avvicinamento dell'uomo al mare. D'altra parte sin dall'inizio propone come grosso problema in ordine al suo tracciamento a motivo di quei principi di sicurezza che avrebbero dovuta tenerla distante dal battente. A posteriori - al di là degli indubbi riscontri positivi, si economici che sociali - ad essa va connesso un significato particolare a proposito di quelle variazioni negative delle spiagge che alcuni studiosi degli anni '30 attribuivano a modificazioni climatiche ma che probabilmente, vanno anche ascritte alle alterazioni degli equilibri fisici derivanti da questa opera.” In M. Zunica

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Uno scalo, una marina, un porto rispetto all’insediamento dell’interno, poi le relazioni si estendono ma non di molto chiuse come sono entro piccoli bacini imbriferi trasversali alla costa, di fatto, si verifica uno spostamento baricentrico di città e di borghi più interni verso il litorale. Poi l’orizzonte insediativo si allarga quando, dopo la ferrovia, si realizzano stabilmente le bonifiche. Ma sul medio-lungo periodo è la sua funzione di asta infrastrutturale capace di organizzare una direttrice a prendere il significato maggiore e a trascinare il disporsi di altre aste infrastrutturali stradali ad essa parallele nella ricerca di una formazione di vera direttrice: “Indubbiamente una incisiva impresa umana capace, come auspicato da Cavour, di riunificare, di rinsaldare, di armonizzare la nazione”1. Ma si tratta di reinterpretare, seguendo le orme di Carlo Cattaneo l’avvento ferroviario prima e autostradale poi non come rivoluzione tecnologica più o meno in grado di intendere le ragioni sociali ed economiche del momento ma di valutarne l’intrinseco significato infrastrutturale ponendole in relazione con aree che necessitavano non tanto di nuove proiezioni di mercato ma di nuove strategie macrourbanistiche e macroeconomiche. Tutto ciò muta completamente la funzione del porto e della città-porto, ma ne muta anche il supporto, il dialogo con il “rumore di fondo”.

1 ibid.

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CAPITOLO VII “SISTEMI CONNESSI” AL CONTORNO LA MORSA DELLA CONTINENTALITÀ

Vi è dietro una specie di unità architettonica di questo spazio, costituita dai sollevamenti terziari dei sedimenti calcarei, un retroterra complesso, frammentato, con situazioni spesso impermeabili le une alle altre incapaci di costituire veri elementi di complementarietà. Altopiani, mesete, “isole” come quella del Magreb, horst e graben peninsulari, polje balcanici, spazi endoreici sahariani o anatolici, tutti questi paesaggi zonali che si trovano appena al di là di un sottile inquadramento litoraneo, sono spazi di arcaismo, spazi per lunga data quasi insensibili alla presenza della cultura urbana, spazi della transumanze e della cultura pastorale. Spazi privi di organizzazione regionale come di una statale, spazi in cui una tenuissima sovrastruttura, saltando il legame contestuale, lega direttamente il villaggio allo stato, ossia alla sua città capitale attraverso l’imposta, spazi eccentrici rispetto alla costa, spazi poveri di relazioni regionali e con non stabili relazioni continentali, spazi del dar es siba. Eppure intorno al mediterraneo si allocano anche le faglie di frizionamento delle tre macrozolle continentali, la grande zolla eurasiatica, la altrettanto tozza zolla africana con la sua piattaforma sahariana, stringono il Mediterraneo in una morsa tettonica, non priva di conseguenze e la frangia dei corrugamenti ercinici che fanno di questo mare d’epoca terziaria un mare di recente formazione, intercettano, a spiegarci le vie di gravitazione dei popolamenti, le grandi faglie del sistema Mar Rosso, Oronte, Giordano1 e del Mar Nero. Qui esse danno vita alla strada dei re, sono direttrici cerniera con i loro paesaggi agrari intensivi, con i loro insediamenti annucleati, direttrici che con le loro densità e diversità di paesaggi e di uomini si contrappongono a quegli altri spazi delle omogeneità e degli arcaismi. Così è che le più antiche strutture relazionali quelle tra Oriente e Occidente, le faglie e le linee zonali e biogeografiche come quelle saheliane2 configurano una altra, più forte geografia mediterranea che si contrappone alle difficoltà e alla scarsità delle

1 dove si è avuto un epicentro della “rivoluzione urbana” ( non vorrei chiamarla “nascita” ) basti pensare alla serie storica degli strati archeologici di Gerico 2 a queste linee di faglia si aggiunga il quadro dell’insediamento di tipo saheliano che parallelo alla costa è l’asse portante della civilizzazione islamica, si veda Lombard: op. cit., si veda anche L. Valenci: op.cit. che ci fornisce una bella descrizione degli itinerari di pellegrinaggio che dal Marocco vanno in Egitto e da qui alla Mecca e che costituiscono un importante direttrice interna degli scambi, e molto più interna la antica direttrice di Limes .

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relazioni locali. E’ anche su questi contrasti macrostrutturali e non solo su un florilegio di strutturazioni e paesaggi locali che si regge il crogiuolo mediterraneo. Ed allora guardiamo al formarsi delle direttrici, ad un particolare loro formarsi connesso con le città-porto L’ALTERNATIVA DELLE VIE ISTMICHE

L’architettura del suolo mediterraneo, con corrugamenti e picchi sovrastanti il litorale, tagliato da grandi fratture, è causa della presenza di estesi e continui tratti di coste alte, che ancor prima di non facilitare il riparo alla navigazione, in presenza di certi orientamenti del vento, non favoriscono le relazioni con l’interno; a questi tratti inospitali corrispondono, interclusi tra cale, baie e porti, vuoti umani. Quando nel XII canto dell’Odissea la maga Circe indica a Ulisse le due vie che consentono il ritorno ad Itaca, mentre la prima passando tra Vulcano e Lipari impone il periplo della Sicilia, la seconda passa per lo stretto di Messina, dove Cariddi simboleggia il gorgo, il vortice formato dalla correnti marine sulle sponde siciliane, mentre il nome di Scilla continua ad essere portato da uno scoglio su cui si infrangon le onde sulla sponda tirrenico-continentale Per altro Scilla e Cariddi, personificavano i rischi e le rovine della navigazione antica. Così è che in forma prima mitologica e poi letteraria si trasfigurano le difficoltà del periplo, dei passaggi degli stretti, del superamento dei promontori, con l’improvviso mutare di venti e correnti. Nel cambiamento delle stagioni soffiano venti impetuosi ed improvvisi; le depressioni che percorrono la superficie del mare portano con se un tempo instabile e perturbato. Negli stretti, di cui il litorale della porzione orientale e settentrionale del Mediterraneo è tanto ricco, si creano correnti pericolose. I mulinelli, provocati dai promontori, le forti correnti degli stretti, le burrasche dell’inverno, che a volte sono autentici fortunali, costituivano, dunque, ostacoli che le imbarcazioni tradizionali avevano non poche difficoltà ad affrontare. A questo quadro naturale si aggiungano i rischi del mutare improvviso delle prospettive di uno spazio che così compartimentato era sempre possibile teatro di assalti pirateschi. Così è che si cercò l’alternativa della via istmica, della via capace di diminuire i pericoli naturali e della pirateria, via che di per sé rischiava però di sostituire a questi quelli del brigantaggio. Per altro queste vie potevano servire solo per particolari tipi di merce, esse dovevano avere un carattere duplice, ossia adatto ad un trasporto carovaniero: esser sufficientemente preziose e poco ingombranti, e sopportare un trasporto a soma. Tra il Mar Egeo e il Mar Nero una via terrestre fece la fortuna della Troia omerica; l’istmo di Corinto spiega l’importanza della città che lo domina dall’alto della sua inespugnabile collina: le merci, i viaggiatori, a volte le stesse navi, subivano un trasbordo per evitare il periplo dei promontori del Peloponneso. Così la fortuna della

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Magna Grecia jonica erano legate alla esistenza di una corrispondenza di scalo sulla costa tirrenica. Allo stesso modo la via Appia attraversava l’Appennino per ridurre al Canale d’Otranto il percorso marittimo sulla via dell’Oriente; per la Cordigliera del Pindo si raggiungeva Salonicco e di lí, costeggiando, si arrivava a Bisanzio, l’altro centro del mondo antico. Poiché le merci che piú viaggiavano erano articoli di qualità, dal prezzo elevato e con poco peso, sopportavano gli alti costi del trasporto terrestre. Tutto ciò configura la nascita di importanti direttrici degli scambi. LA PENETRAZIONE DELLE ANFORE : I DELTA E GLI ESTUARI COME KEY GATE.

Spesso i delta, quelli più complessi e importanti con le loro digitazioni, con i loro impaludamenti malarici, con i loro labirintici itinerari interni, con il loro spazio senza orizzonte erano i luoghi primi della repulsività. Bisognava dunque avvicinarsi al corridoio fluviale a monte di essi, by-passarli attraverso un approdo e una strada che si tenessero ai margini. Ciò è quanto fanno alcune colonie focesi come Olbia del Ponto eleusino alle foci del Don, come Massalia rispetto al Rodano, a questo fiume :“ Médiocre par l’étendue de son bassin (98.000km’) et par la longueur de son cours (812 km), ”1 ma che è un fiume “ remarquable par son module (1.80Oml/s), son débit spécifique (191/s/knì2), sa régularité non esclusive de crues violentes - et surtout sa pente qui atteint jusqu’à l m/km dans le tiers inférieur de son cours et qui ne tombe au-dessous de 0,30cm/km qu’à l’approche de son delta: ces caractéristiques en font à la fois une formidable réserve d’energie potentiellé et une ressource d’une exceptionnelle abondance pour ses riverains ”2. Questi dati favorevoli rispetto alla disponibilità di risorse e di energia e dunque rispetto a una certa concezione della geografia volontaria e industrialista francese degli anni Sessanta3 presentano anche in contropartita caratteri non altrettanto favorevoli : il primo è connesso alla impetuosità delle acque che ha voluto dire una strozzatura ai trasporti in particolare di merci, il secondo è dato dal fatto che la piana alluvionale sia una sequenza di bacini esigui, separati da stretti passaggi e dominati dai massicci Centrale e alpini. E questo “ couloir entre des montagnes ” è un corridoio dotato a ognuno dei due estremi di due metropoli ( o oggi sarebbe più appropriato dire “ Eurocity ” ?), l’una a vocazione marittima e l’altra carrefour continentale manifatturiero, che hanno deboli livelli di interesse per un asse rodaniano e uno scambio diretto. Per altro questo corridoio costituisce non un asse, ma l’asse fondamentale, da quando Massaglia opera, di penetrazion verso il bacino parigino, la fossa renana, il Mitteland svizzero,

1 J. Bethemont: “ Le Rhone: une politique d’aménagement et ses résultants “, pp.65-79 in “ Atti delle giornate internazionali di studio: l’uomo e il fiume – Le aste fluviali e l’uomo nei paesi del mediterraneo e del Mar Nero”, Marzorati, Settimo Milanese, 1989 2 ibid. 3 J. Labasse: ” L’organisation de l’espace”, Ermann, Parigi, 1966

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non presentando problemi di attraversamento. La sezione relativamente ristretta della valle e la chiarezza della sua incisione configurano una distinzione stabile tra l’alveo fluviale e il bacino, ciò che ha da sempre favorito lungo esso la mobilità delle genti : “ du delta au carrefour lyonnais et aux plaines de la Saóne, le couloir rhodanien orienté du Sud au Nord, a constitué de tout temp et dans tous les domaines, une voie de pénétration des influence méditerranéennes vers le nord: c’est dans la vallée du Rhóne l’olivier atteint la limite septentrionale de son expansion et c’est la vallée du Rhóne, “ le chemin des nations ” que les influences mediterranéennes, romaines puis chrétiennes se sont propagées vers nord en direction des vallées de la Seine et du Rhin; en sens invers le Rhóne.a servi d’axe de pénétration à la poussée francaise en direction de la Méditerranée. L’ampleur et le sens de ces chemineme méridiens, tout comme l’importance de l’axe rhodanien ont dònnu variations considérables. d’une époque à l’autre: apogée gallo-roma,i .attestée par l’ampleur du legs urbanistique et archéologique de’ce période; déclin relatif avec l’intégration dans l’espace francais; marginalisation spatiale avec le glissement des lignes de force planétaire de la Méditerranée vers l’Atlantique; léger recentrage dans le ‘ca de l’espace francais avec la percée du canal de Suez et la politique d’expansion coloniale. ”1 IL DIFFICILE SFORZO DI REGIMENTAZIONE DELLE ACQUE

Ma relativamente rari sono i casi in cui i fiumi possono essere, entro lo spazio mediterraneo, naturali corridoi delle genti, solo qualche fossa tettonica o qualche fiume il cui ambito è stato profondamente segnato dalla potente gerarchizzazione ad albero impressa dal modellamento glaciale. Molto spesso il rapporto col loro bacino è tutt’altro che facile, essi raramente sono susseguenti, si trovano a compiere salti di sinclinale, sboccano in catini interni che ne divengono quasi un terminale endoreico, da cui in presenza di portate variabilissime non è facile uscire senza avervi lasciato la precarietà dell’impaludamento. Così è che in Tessalia come in una buona parte del mediterraneo, in lunghe fasi storiche, i fiumi sono stati considerati più come degli elementi nocivi che utili : “ inondations, les débordements, les divagations, ont entretenu des siècles des lacs, des marécages, d’autant plus que l’architecture géologique multiplie les bassins intérieurs, liés à des effons tectoniques, que le fleuve draine malaisément, passant d’un à l’autre en franchissant des gorges ”2. Così è che per tutta questa serie di ragioni legata ad eventi cataclismatici il sostantivo “ potami ”, in Grecia lungo tutta l’epoca moderna ha avuto connotazioni fortemente negative : “ Le fleuve, c’est

1 J. Bethemont: op. cit. 2 in M. Sivignon: “L’ Aménagément des fleuves en Grèce. L’exemple du Pinios” pp.105-111 in “Atti..” op.cit.

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l’endroi ou l’on va déposer des ordures, où l’on menace de mettre les enfants s’ils ne sont pas sages. A la limite, le fleuve, c’est un terrain ordinairement sec et où en hiver on peut trouver de l’eau. ”1 Questo quadro a mio avviso tende a configurare uno scenario di contrasto molto significativo: tra antiche civiltà urbane e culture di villaggio per cui l’orizzonte di un tale vettore non appariva regimentabile da nessuna forza sociale: non lo stato troppo lontano, non l’entità cittadina troppo debole in uno spazio segnato da campagne troppo estese e su cui insiste l’opera centrifuga ma paralizzante del pastoralismo, non le forze private locali prive di una capacità di organizzare in un comune orizzonte di intrapresa i fattori di produzione capitale, terra e lavoro. In questo quadro il rapporto col fiume, con i suoi impaludamenti, con le sue rotte fomentatrici malariche, è retto da relazioni di tipo magico-sacrale, inviluppato come è questo ambiente dai segni di forze negative: da un lato vi sono i draghi, le serpi, le forze ctonie dei laghi, delle acque stagnanti dei fiumi, delle paludi, e ci voglion le titaniche fatiche di Ercole2 o le cavalleresche imprese di un San Giorgio che sconfiggendo il drago e salva la dama3 per averne ragione, dall’altro le forze scatentatisi della natura, le quali seguono una direttrice quella dell’asse del bacino idrografico, tra queste realtà si colloca l’opera conflittuale ancor prima che domesticatrice dell’uomo, l’opera magica del costruttore di ponti4 Questi pochi elementi ci servono a comprendere come l’opera di infrastrutturazione e di regimentazione idraulica sia da sempre stata la costruzione territoriale più importante nella antropizzazione del paesaggio, opera che ha richiesto attenzioni ingegneresche, sforzi finanziari ed umani superiori a quelli attivati nella costruzione degli stessi reticoli stradali. Tali opere sono diventate vieppiù importanti nella costruzione di entità territoriali con spiccata propensione alla definizione di una articolazione funzionale regionale, come sono state le Signorie con i loro tentativi non solo di conquistare e mettere a coltura “terre nove”, ma anche di dare definizione funzionale, tra gli altri, al rapporto città-capitale – città-porto5 LA FIGURA DEL PRINCIPE, IL CINQUECENTO COME SECOLO DELLE BELLE CONTRADE

Per quanto la valle del Po, sia uno di quei casi profondamente segnati nel suo lato pedemontano in sinistra del fiume dal glacialismo e interessato dalla sifonatura dei laghi, la sua conformazione neogenica di pianura ha sempre presentato importanti 1 ibid. 2 In merito al significato bonificatorio delle fatiche di Ercole 3L’iconografia di San Giorgio che sconfigge il drago è una immagine di questa lunga battaglia 4 si veda Ivo Andric: “ Il ponte sulla Drina” Mondadori 1964 5 un altro rapporto che in tale periodo si ricerca con una certa assiduità è quello tra città capitale e città universitaria, a dimostrazione della ricerca di un organico sistema di funzionamento della nuova entità territoriale

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problemi di impaludamento. In tal senso le imprese compiute nella Valle del Po furono indubbiamente cospicue, tanto quanto più cospicue erano le difficoltà da affrontare. Fin dal XIV sec. gli Estensí tentarono di bonificare zone paludose ad est della città di Ferrara. Nel 1400, Borso cercò di operare su aree vaste, per sistemarle idraulicamente con canali di scolo, ma fu.solo nel 1500 , dapprima durante il dominio di Ercole II, in seguito durante quello di Alfonso II, che trovò pratica attuazione un programma di sistemazione generale del territorio compreso tra il Po Grande e il Po di Volano. La Grande Bonificazione, come venne chiamata in seguito l’opera ìniziata da Ercole II, non ebbe svolgimento facile, sia per la grandiosità del progetto, sia per le alterne vicende della Casa d’Este. Parteciparono allo studio e all’attuazione dell’opera importanti ingegneri: Ippolíto Pardi, Luca Federici, Gíovan Battista Aleotti ed altri. Il concetto base fu quello di separare il territorio del Polesine di Ferrara in due zone. l’una, detta delle Terre Alte o Vecchie, nella fascia settentrionale, l’altra delle Terre Basse, nella fascia meridionale. Ognuna di queste zone venne a costituire un organismo territoriale, dotato di propri collettori di raccolta delle acque che, attraverso canali artificiali, andavano a scaricare a mare in due punti distinti. Nel 1580 si conclude, nelle linee generali, la grande Bonificazíone e nello stesso anno viene creato íl primo consorzio dì manutenzione per il buon mantenimento delle opere idrauliche create: ponti, canali, chiuse, sostegni idraulici, etc.1 Come sempre l’obbiettivo primo della bonifica è quello di configurare un sistema di drenaggio delle acque, a cui solo in data successiva farà riscontro un efficace regime di approvigionamento idrico. Né, d’altro lato, nel ‘500, la messa a coltura di nuove terre, mediante bonifica o disboscamento, era interesse peculiarmente estense. Anche altrove, nei ducati padani dei Gonzaga, dei Farnese o nelle terre della Repubblica di Venezia. Ma anche al di fuori dello spazio padano, anche lungo l’Arno mediceo la seconda metà del ‘500 fu periodo di grandi bonifiche2. E’ questo il tempo che Camporesi ha definito delle “belle contrade”3. Premevano in questa direzione sia forse il crescente dissesto idrogeologico dei terreni, aggravato, secondo lo storico Emmanuel Le Roy

1 Gli studi sul Delta Padano sono statí iniziati, scientífícamente, dal Lombardiní, il quale nel 1869 pubblicava sul Bollettino della Soc. Geografica Italiana gli “Studi idrologíci e storici sopra il grande estuario adriatico”. Del 1925 è invece il volume “Cenni idrografici e storici sull'antico Delta Padano” di Giuseppe Macíga, edito dalla Prem. Tip. Sociale -eredi G. Zuffi. Nel 1938 usciva in Roma “Le spiagge padane”, di Visentíni e Borghi, ed. C.N.R, ed anche M. Bondesan in Nuovi dati sull'evoluzione dell'antico delta padano in epoca storica -Ferrara, 1968 Ind. Grafiche e M. Cíabatti in “Ricerche sull'evoluzione del delta padano” C.N.R. -Roma, 1969. 2 si vedano, tra gli altri, per il Veneto gli studi del Ventura e per l’Emilia del Poni 3 Si veda P. Camporesi: “Le belle contrade”, Garzanti, Milano, 1992

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Ladurie, dal peggioramento delle condizioni climatiche nel corso del secolo XVI1, sia, soprattutto, l’incremento demografico e l’aumento dei prezzi che contrassegnarono la seconda metà del ‘500 e l’inizio del ‘600. La nuova organizzazione statale, la previus accumulation legata ai nuovi mercati del grano, stimolano, in questo periodo, l’attenzione statale e la sospingono verso interventi di bonifica, fino a far sì che questo campo della politica degli interventi vi appaia prioritario campo di iniziativa anche dal punto di vista della propaganda. Baccio Baldini, protomedico di Cosimo I ed autore di una sua biografia ispirata ad intenti celebrativi, ricorda tra i meriti del primo granduca di Firenze i suoi numerosi interventi nel campo della sistemazione del territorio e dell’idrografia. “ Cominciò a drizzare il corso del fiume d’Arno, il quale correva con grandissimi avvolgimenti e rendeva il cammino da Firenze a Pisa per acqua lungo e noioso, e teneva anche occupata grandissima quantità di terra, ed oltre a ciò fece racconciare le strade per le quali si va per terra dall’una di queste città all’altra, conciosiacosache fossero in molti luoghi rotte e guaste, in guisa che in poco tempo egli rendé l’aere di Pisa buono ed sano ed il cammino da Firenze a Pisa così per terra come per acqua più breve assai, più agevole e più sicuro che egli non era in prima ed acquistò in poco tempo molta terra nella quale, avendola egli fatta ben coltivare, si raccoglie grandissima quantità di grano e di biade d’ogni maniera ” 2. La figura del Principe campeggia isolata e solitaria nel quadro tracciato, e “ se in parte ciò riflette ovviamente il contenuto celebrativo dell’opera, è ben vero che neppure attraverso altre fonti si coglie intorno a Cosimo I la presenza degli interventi privati che caratterizzano ad esempio le bonifiche ferraresi al tempo di Alfonso II, o la rete di consorzi e retratti attraverso i quali poteri pubblici ed interessi privati affrontano congiuntamente i problemi delle bonifiche nel Veneto.”3 Casi come quelli dei Marchesi, poi Principi di Massa, impegnati a proprie spese durante la seconda metà del secolo XVI e la prima del XVII nella bonifica delle terre paludose di Agnano ed Asciano4, o dell’olandese Vanderstatten, interessato al padule di Vecchiano verso la metà del secolo XVII5, restano eccezionali. Nel contado di Pisa (come in genere nelle altre zone interessate a bonifiche tra Cinque e Seicento (Val di Chiana, Maremme pisane e senesi) ‘ agiscono soprattutto i granduchi ed i loro uffici e nelle terre recuperate mediante le rettifiche del corso dell’Arno, come a Calcinaia, o le colmate, come a Coltano, si costituiscono essenzialmente tenute e fattorie granducali.

1 si veda.E Le Roy Ladurie: “Histoire du climat , depuis l’An Mil”, Parigi, 1969 2 in E. Fasano Guarini: “ Regolamentazione delle acque e sistemazione del Territorio in Livorno e Pisa: due città e un territorio nella politica dei Medici”, Nistri Lischi e Pacini, Pisa 1980 3 ibid. 4 ibid 5 ibid

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LA CRISI DI UN INTERVENTO IDROGRAFICO PUNTUALE.

A valle di Pisa vi è uno specchio lagunare, del quale è residuo l’attuale lago di Massaciuccoli, ed ancora una insenatura poco profonda, quale è il seno pisano, entro cui si insinua l’aggetto deltizio dell’Arno, del quale pare ancora in età romana fosse affluente il Serchio od un suo ramo. Il processo di alluvionamenti si intensificò quando il Serchio captò un ramo indipendente l’Auserculus, dapprima poco attivo poi sempre più ricco di acque, fino ad esaurire, con l’aiuto dell’opera dell’uomo, l’antico ramo confluente nell’Arno. Sempre più il quadro idrografico appare come un sistema connesso, lungo le cui aste, confluenze, processi di erosione, trasporto e deposito si configurano in quanto grafi di processo di un sistema connesso che rendono poco efficaci operazioni di carattere esclusivamente puntuale, come possono essere proprie di una città-stato che non ha configurazione territoriale, come è il caso di una città-porto come Pisa. Così è che a nulla valgono i suoi sforzi. Il Comune, nel corso del ‘300, oltre agli ordinari lavori di manutenzione del Portopisano, a cui era preposto un apposito magistrato detto “ operarius palatae Pisani Portus ”, dovette provvedere in media ogni 15-20 anni, a lavori radicali di ricostruzione delle “ palate ” e dei moli.1 Il 1393 fu l’ultima volta in cui Pisa tentò di restituire efficienza e funzionalità al suo porto, e i lavori, intrapresi con molto impegno, durarono fino al 1396. L’aspra guerra combattuta anche in questa zona contro Firenze proprio in quegli stessi anni (1395-1398) rese di nessuna utilità ai fini che si proponevano, quei lavori, dato che, a causa delle ostilità, vennero meno quasi del tutto i traffici e le attività produttive; di conseguenza anche le risorse finanziarie del Comune di Pisa si esaurirono a tal punto da non consentirgli più di contrastare il progressivo scadimento naturale di Portopisano, essendo già lo stesso mantenimento delle strutture portuali eccessivamente oneroso per esso. Portopisano non fu più almeno per quanto riguardava le strutture - quel “ porto di mare buonissimo e grande ” qual era apparso al cronista Goro Dati2, anche se si deve avvertire però, che ancora più di cento anni dopo, uno scrittore di cose marinare, forse Filippo Pigafetta, ne esaltava la sicurezza richiamando il proverbio diffuso tra la gente di mare: “ Portopisano, buone gomine e buon gabano ”3 La preoccupazione delle autorità fiorentine per le condizione della pianura di Pisa e per i danni provocati assai frequentemente dai fiumi che la solcavano - l’Arno ed il Serchio -, per le ampie plaghe paludose che si estendevano intorno al Lago di Bientina e a sud di Pisa nelle terre di Stagno, Coltario, del Padule Maggiore ed

1 Tali lavori sono documentati in particolare, nella seconda metà del '300, negli anni 1355-58, nel 1372 e successivi e nel 1393 (') riportato in ibid. 2 ibid. 3 ibid.

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altrove, sarà una espressione di una presa di coscienza delle necessità proprie di uno stato territoriale. Almeno a partire dalla metà del secolo XV i Consoli del Mare ebbero il compito di provvedere a far fossi e scoli nelle terre più vicine alla città’; ed agli interventi macro-idrografici così progettati si intrecciavano negli stessi anni una serie di misure volte a limitare i diritti di pascolo delle “ grosse bestie mandriali, cioè bestie bufaline, vaccine, cavallone e porcine ”, onde far diga al degradamento del suolo, al convertirsi di “ terreni che per loro natura sono fertilissimi... in palude di disutile fructo et uso1 ” Il passo del Baldini, tuttavia, consente di cogliere alcuni caratteri particolari del programma di Cosimo I, dei motivi che lo avevano ispirato e dei modi nei quali fu attuato. L’attenzione verso la messa a coltura di nuove terre sembra qui intrecciarsi - tanto strettamente da apparire quasi subalterna - a quella per il commercio, e dunque per lo stato delle strade ed il miglioramento delle vie d’acqua, in particolare per quella dell’Arno, percorsa dai navicelli fino alle porte di Firenze. E’ un’attenzione che si collega in modo chiaro alla politica complessiva di Cosimo I e quindi dei suoi successori verso Pisa e verso Livorno, poli commerciali dello Stato, e che, nei suoi anni più avanzati, avrebbe suggerito ancora al primo granduca l’idea “ grandiosa ”, benché chiaramente non attuabile, di congiungere l’Adriatico con il Tirreno, mediante un canale che attraversasse l’Appennino”2. In questo quadro è evidente l’importanza degli Uffici mediante i quali i Principi perseguono l’attuazione dei loro progetti.3

1 ibid. 2 ibid. 3Mentre nel resto dello Stato sovrintendeva ai lavori pubblici l'Ufficio dei Capitani di Parte Guelfa', nel contado operava, come è noto, un organo specifico, decentrato a Pisa: l'Ufficio dei Fossi. Sarebbe errato attribuire a quest'organo un carattere di unicità e di novità che non gli furono propri. Anche nei contesti in cui le imprese private di bonifica ebbero ben altra incidenza, agirono in effetti tra Quattro e Cinquecento, in ambito comunale, provinciale o statale, analoghi organi pubblici (acquaroli, cavarzellani, lavorieri del Po', Giudici delle acque, Provveditori sopra i beni inculti). Per la campagna pisana già al tempo di Lorenzo il Magnifico, nel 1475, era stata istituita un'Opera della reparatione del Contado, destinata a sovrintendere in particolare alla cura di ventiquattro unità idrauliche, poste nel vicariato di Vicopisano e di Lari. Pur attraverso trasformazioni interne e modifiche strutturali, questa Opera non aveva mai smesso di esistere fino alla ribellione di Pisa, ed era stata rapidamente restaurata dopo la riconquista della città, nel 1509. La sua presenza indicava chiaramente sia l'importanza che le condizioni idrografíche della campagna pisana avevano agli occhi della classe dirigente fiorentina e dei Medici, sia il modo specifico (fondato sulla compresenza di rappresentanti fiorentini e pisani) in cui già prima d'i Cosimo 1 si tendeva ad affrontare i problemi connessi con queste . Tuttavia soltanto sotto Cosimo 1, con la Provvisione facta sopra la Reparatione et opera de' Fossi nella Città di Pisa et Contado " del 29 aprile 1547 e la Deliberatione fatta per lo illustrissimo et eccellentissimo duca di Firenze sopra le cose di Pisa del I' maggio 1551 l'Ufficio dei Fossi sembra diventare effettivamente funzionante: e non è certo un caso che le misure che diedero impulso ad una sua più organica attività si collochino entro un quadro politico più vasto di misure a favore della città di Pisa e del suo contado, di

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Ebbero così origine le strutture pubbliche che per circa due secoli avrebbero sovrinteso al sistema idrografico della bassa valle dell’Arno. Le riforme che esse subirono in particolare sotto i due immediati successori di Cosimo I, non ne alterarono i caratteri fondamentali. Nel 1587, agli inizi del granducato di Ferdinando I, fu fissato un nuovo corpo di “ Leggi, Costituzioni et Ordini ” nel quale il discorso si allargava dalle norme burocratiche a disposizioni di polizia pubblica relativa al buon mantenimento di strade, fosse ed argini, alla conservazione del patrimonio arboreo ed alla limitazione del pascolo, alla difesa dell’igiene pubblica “.1 E’ una limitatezza che si spiega in parte con la natura stessa dei lavori compiuti, per lo più di scavo ed arginatura, e con la elementarità delle tecniche usate per palizzate, steccaie e (raramente) casse2. Investimenti limitati ed ampio ricorso al lavoro coatto3 furono dunque i mezzi con cui Cosimo 1 ed i suoi immediati successori attuarono, fino a Ferdinando 1, il loro programma di lavori idrografici nella Valle dell’Arno: la costruzione del Canale dei Navicelli, per collegare l’emporio pisano allo scalo livornese, gli scolmatori dell’Arno, la rettificazione dei corsi dell’Arno e del Serchio, mediante il taglio di anse e la modifica delle foci; la costruzione dell’acquedotto d’Asciano. 1 grandi

concessioni di esenzioni ed immunità particolari ai nuovi immigranti, di provvedimenti volti allo sviluppo dell'economia cittadina ed agricola della regione". 1Ma l'apparato di funzionari ed ufficiali fiorentini e pisani, e di tecnici di supporto (alcuni dei quali, come Cosimo Pugliani e Gabriello Uchi, raggiunsero una certa notorietà), rimase quello creato da Cosimo. Accanto ad essi lavorarono ai problemi di maggior rilievo consulenti idraulici di più alto livello, quale L. degli Albizi (,del cui Ragionainento sopra il bonificarp il paese di Pisa 14 sono interlocutori ingenui ma non sprovveduti anche Giovanni Caccini, provveditore defl'Ufficio dei Fossi ed il capomastro Davitte Fortini), il Cantagallina, noto soprattutto per i suoi contributi alla costruzione delle fortificazioni di Livorno, e più tardi, portatori della nuova scienza. galileiana, Benedetto Castelli e Vincenzo Viviani. 2Essa tuttavia non può essere valutata pienamente senza ricordare la natura della forza-lavoro cui ricorsero ampiamente Cosimo I ed i suoi successori, senza ricordare come accanto ai dodicimila “ guastatori ” di cui Cosimo si vantava di potersi servire “ scambiandoli di continuo secondo il bisogno e adoperandoli sì nella guerra come in altre opere secondo la mia volontà ”2, fosse ampio, nel piano di Pisa come altrove, il ricorso al lavoro coatto contadino, alle “comandate” ed alle “opere”, cioè all’obbligo imposto a chi non godesse di particolari privilegi di fornire giornate di lavoro ai fossi con i propri animali, gratuitamente o dietro la corresponsione di tenui e spesso assai dilazionati compensi 3 Sull'entità di questo lavoro contadino coatto mancano dati precisi: ma esso non poteva essere senza rapporto con l'impressionante ampiezza delle evasioni agli obblighi e delle “ disubbidienze ” penalmente perseguite. “ Ci son restati scrivevano ad esempio gli Ufficiali dei Fossi nel 1586 – infiniti et infiniti debitori per debiti ricorsi dall'anno 1574 a tutto l'anno 1586, ascendendo alla somma di più d'opere 50.000” . E le informazioni e gli atti civili dell'Ufficio attestano ampiamente la sorda lotta condotta non senza inevitabili compromessi contro la tenace resistenza contadina alle corvées di Stato. 45

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lavori sembrano avere termine con gli anni ‘20-‘30 del secolo XVII, non senza verosimili correlazioni con la nuova congiuntura economica e finanziaria Per alcuni aspetti essi avevano portato a risultati indubbiamente. durevoli, tali da configurare in modo permanentemente diverso il corso dell’Arno e l’insieme delle vie fluviali che collegavano Livorno a Firenze, e da conquistare durevolmente alla cultura terre precedentemente impaludate. Per altro là dove i problemi tecnici erano più complessi (si pensi alle tormentate vicende della foce del Serchio o alle disastrose inondazioni create dai debordamenti del Lago di Bientina tra la Repubblica di Lucca e lo Stato di Firenze), l’assetto idrografico della pianura pisana continuava ad essere pericolosamente instabile e caratterizzato da ampie zone paludose. E soltanto nel secolo XVIII un diverso livello delle conoscenze tecniche e scientifiche, una diversa entità degli investimenti e l’uso di procedimenti diversi avrebbero consentito una nuova cospicua estensione delle zone bonificate. VERSO UNA “CONTINENTALIZZAZIONE” DEGLI SPAZI IRRIGUI.

A volte però i problemi idraulicamente più gravosi o quelli di bonifica si pongono nel passaggio tra la zona di trasporto e quella di deposito, come in buona parte nel caso dell’Arno, a volte non sono verso il delta ma a monte di questi in prossimità di rotte e captazione di nuovi alvei e rami, con la formazione di golene, di budri, come nel caso del Po, a volte più internamente ancora come nel caso dell’Adige, o in quelle situazioni quasi endoreiche, che si possono riscontrare nelle pianure interne mediterranee. L’impaludamento è a volte una lenta risalita verso l’interno. A tal proposito la dimensione degli stati regionali non basta, la bonifica nella sua veste di bonifica integrale richiede il coinvolgimento di risorse energetiche, idrauliche, di forme di gestione di bacino che necessitano di un coordinamento statale molto forte, ma soprattutto necessitano di nuove forme e strutture di popolamento; qui non solo l’orizzonte dell’intervento supera i confini di uno stato regionale, ma richiede delle congiunture storiche particolari come ci attesta il caso della Tessaglia1 con il suo popolamento di rifugiati.

1 “L’examen de la carte des barrages de retenue et de dérivation montre que les plus nombreux sont situés du cóté ionien. Il y a là une raison d’ordre physique: la pluviométrie y est plus régulière et plus abondante. Mais en méme temps cette prééminence du versant ionien est contradictoire avec la répartition spatiale des terres cultivables et particulièrement des terres irrigables: les bassins et plaines les plus étendues se trouvent sur le versant égéen. D’où les projets de déversement sur le versant égéen, des eaux provenant du versant ionien. ” in M. Sivignon: op.cit.

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Osserviamo la Tessaglia orientale e il suo rapporto col Pinios: “ long de 205 Km, prend sa source dans le Pinde, pénètre au droit des Météores dans la plaine de Thessalie Occidentale, franchit par une gorge épigénique le seuil qui sépare cette plaine de la Thessalie orientale, puis s’enfonce dans les gorges du Tempé pour rejoindre la Mer Egée par l’intermédiaire d’un delta situé entre le massif de l’Ossa et le massif de I’Olympe. Par l’intermédieire de ses affluents (Sofaditikos et Enipefs sur la rive droite, Titarissios sur la rive gauche) il draine la totalité des plaines de Thessalie. A l’origine, ce drainage était très imparfait, pour des raisons qui relèvent de l’histoire géologique de la plaine. Les deux bassins qui la composent sont des bassins d’effondrement dont le mouvement de subsidence se poursuit. Le Pinios, fortement chargé en alluvione, s’exhausse progressivement sur son lit, cependant qu’en amont des gorges l’engorgement nourrit des marécages étendus où le fleuve se déverse à la saison pluvieuse. Le mouvement de subsidence contrarie l’effet du comblement de la plaine par les alluvione ce qui contribue à pérenniser le marais. Ces derniers sont en outre alimentés par de fortes vauclusiennes, lorsque les rebords de la plaine sont formés sources de roches calcaires. ”1 In un tale quadro in cui si assiste ad una perennizzazione dovuta al compensarsi del gioco di deposito e subsidenza, caso tutt’altro che raro, ci si rende conto di quale sforzo di investimento sia necessario, un tale sforzo in Grecia è stato legato al ritorno dopo la guerra del 22 dei profughi microasiatici e alla loro fissazione ad un suolo che avrà una importanza strategica nel portare la Grecia a un bilancio agricolo, non ancor agro-alimentare in attivo.2

1 ibid. 2 “ Dès la fin du 19e siècle, des travaux locaux ont permis non pas un drainage completa mais une meilleure évacuation des eaux à la fin du printemps. L’amélioration décisive ici, comme dans bien d’autres régions de la Grèce, est survenue après 1950. Si un réseau classique de canaux de drainage a suffi en Thessalie occidentale, il a fallu des travaux de plus grande ampleur pour drainer le lac Karla en Thessalie orientale. Ce dernier était alimenté par les déversements hivernaux du Pinios et fonctionnait partiellement comme un lac de poljé, du cóté de l’Est et du Sud-Est (massif du Mavrovouni). On a donc creusé un tunnel qui évacue les eaux du Karla vers le golfe de Volos, en prenant le risque d’augmenter dangereusement la pollution dans cet espace maritime à peu près fermé (pollution liée aux engrais et pesticides agricoles et à quelques effluents industriels, comme ceux de la papeterie de Larissa). ” ibid.

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CAPITOLO VIII SCENARI E STRATEGIE MACROURBANISTICHE LO SPAZIO DELLA METROPOLI E DELLA COLONIA

In una società densamente annucleata come era quella dei greci, la vita incentrata sulla esistenza di una popolazione e di una economia chiuse avrebbe comportato, inevitabilmente, l’accrescimento dell’entropia dei propri rapporti sociali, così come, in analogo modo, una crescita (in particolare di popolazione) non strutturata su solide relazioni esterne sarebbe, se lasciata a se stessa, risultata letale. Allora la liceità della crematistica, ossia del commercio internazionale, diviene una necessità inevitabile, come lo stesso Aristotele deve, un po’ a malincuore, riconoscere, così la polis si fa emporio come la stessa Atene con il Pireo. Ma necessità ancor più strutturale è quella che la polis si dia a una politica di gemmazione di nuove unità insediative, ad una politica di filiazione metropolitana, così essa si fa colonia e più precisamente città-porto-colonia. L’aspetto del “sovrappolamento” della città metropolitana non va inteso in senso moderno, ma va inteso nel senso di un pericoloso superamento di una condizione di “popolazione chiusa”, o comunque riferita ad una soglia critica, entro cui i rapporti proprietari, i lotti assegnati, il numero delle famiglie aventi ruolo politicamente attivo, verrebbe superato, creando una pericolosa entropia. Così la polis che come modello letterario celebrava quei principi di autosussistenza (Aristotele ancora e Platone) trasformò le antiche istituzioni delle migrazioni indoeuropee (quali il ver sacrum) entrando in contatto con precedenti istituti semitici. Tutto ciò si fisserà nei fatti innovativi e positivi di un nuovo urbanesimo, cosicché una civiltà urbana e non un semplice nucleo di popolamento migrava, portando con se l’intero bagaglio di strutture culturali e politiche e si rafforzava nella costruzione del rapporto tra metropoli e colonia1. A tal punto tutto ciò implica il salto delle relazioni locali da trascurare il quadro del semplice cabotaggio di tipo costiero per privilegiare attraversamenti, rapporti con isole, viste come tappe lungo direttrici mediterranee, e tutto ciò spinge alla costruzione di stabili rotte degli scambi. E se l’urbanistica della città madre era ancora quella dell’antico modello, la città di fondazione coloniale assumeva un nuovo orizzonte ed impianto come ci mostrano le città della Magna Grecia2. Tralasciando i contatti di formazione prepolitica, possiamo parlare della esistenza di una prima generazione di colonie, come quella impiantata all’Ortigia, in cui la fondazione avviene su un isola strettamente legata alla terraferma, è questo un

1 si veda G. Tacchini: op.cit. 2 si veda F. Cordano: op.cit.

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modello importante che non ha spiegazioni puramente difensive ma appunto nella costruzione di una “testa di ponte”, un centro dei contatti e degli scambi, non solo con le popolazioni locali, via terra, ma anche in funzione di quelli via mare. Una seconda è quella di città-porto poste spesso in un piano di bonifica idraulica a supporto di un nuovo più vasto paesaggio (come Metaponto, Eraclea e Sibari), e che si consolidano come centri posti in un caposaldo da cui si dipartivano vie istmiche (come Locri e ancora Sibari). Il territorio occupato per fondarvi una nuova città gravita intorno al sito scelto come sede pubblica e amministrativa di esso, e quindi delle strutture urbane pubbliche e private. Le strutture urbane si organizzano, a differenza della madrepatria intorno allo spazio destinato alla agorà1 più che all'acropoli. L'acropoli, pur essendo anch’essa un luogo pubblico, è una entità isolata, non mai l'agorà, che ha insostituibili funzioni anche nella comunicazioni con l'esterno della città. Essa obbliga il sito a delle connessioni territoriali e ne impronta fondazione e dinamica evolutiva. Così è a Siracusa, con il binomio Ortigia-Acradina, così è a Taranto dove, anche se l'espansione della città ha avuto sviluppi diversi, la fondazione dei Tarantini è infatti sull'isola (in antico penisola occupata dalla città vecchia) mentre l'agorà è posta al di là dell'istmo, dove già si trovava la necropoli. Il sito dell'agorà, così distintivo della città greca, viene individuato rispetto ai percorsi che vi conducono, sicuramente preesistenti alla fondazione, e al punto di convergenza di essi quando ce ne sia più d'uno. Si è già detto di Siracusa, ma esemplare per il secondo caso è la pianta della zona circostante l'agorà di Megara Iblea che accoglie strade convergenti da due diverse direzioni. D'altra parte la centralità architettonica della posizione dell'agorà risulta evidente in tutte le città greche scavate, in particolare a Metaponto e Posidonia gli edifici pubblici recentemente messi in luce danno un significato evidente alla sua funzione. Vi è per altro una terza fase macrourbanistica di straordinaria importanza di fondazione o di rifondazione e si ricollega all’ellenismo, cioè a quella koynè, che nella alterità nei confronti del persiano e del barbaro, , ma anche nel contatto con esso, si lega attraverso quelle istituzioni che consolidano il passaggio da una comunicazione auricolare a una scritta e che vedono la fondazione di nuovi edifici e

1 Agorá significa l'assemblea dei 'cittadini ed ove si tiene l'assemblea. Roland Martin ( R. Martin: “Recherches sur l’agorà greque”, Parigi, 1951) nel trattare dell’ agora “ omerica ” ha messo in rilievo come nell'Iliade sia più frequente l'uso del termine nel primo significato e nell'Odissea divenga più frequente il significato di “ piazza ” . In ogni caso l'agorà non richiede strutture particolari perché l'assemblea si tiene in piedi, il suo spazio può però essere delimitato da edifici o gradinate, tra quegli edifici ha un ruolo di primo piano il bouleutérion, cioè dove si riunisce la boulél il consiglio ristretto della città, e poi iastéríon, luogo di riunione dell'ekklesía, nome che indica l'assemblea di tutti i cittadini. Nell'assemblea i cittadini dibattono le questioni comuni, si spartiscono il bottino emettono giudizi e si scambiano giuramenti." Più tardi, nel corso del vi secolo, l'agorà diventa anche il luogo del mercato;" e non a caso Platone e Aristotele vedranno in questa commistione la causa primi della decadenza della polis."

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istituzioni: la biblioteca, il museo. Come sappiamo massimo esempio e crogiuolo di una tale cultura è Alessandria, dove appunto queste istituzioni nascono per essere immediatamente trasferite poi nelle capitali dell’Asia minore. Tutto questo processo si riallaccia a un processo di monumentalizzazione della città, ed è un processo diverso da quello che aveva caratterizzato l’Atene periclea, partendo da nuovi luoghi deputati e da una geometrica organizzazione microurbanistica della forma urbis. Pur in un tale quadro la monumentalizzazione degli spazi pubblici nelle colonie avviene in un tempo diverso da quello della fondazione della città, ma rispetta quasi sempre la prima organizzazione e definizione di questi. EMPORI, RETI E DIRETTRICI DEGLI SCAMBI

Se vi è un passaggio di civiltà, dalla città della polis alla città del mondo ellenistico che spiega lo svilupparsi di un intero reticolo degli scambi, è il quadro degli stessi che emerge nel definirsi di modifiche strutturali. Polanyi1 ci ha raccontato come il passaggio alla città periclea fosse legato ad una battaglia. Quella tra il vecchio sistema di accumulo nell’oikos aristocrarico e il sistema di distribuzione del mercato, in un certo senso questa è anche lo scontro tra un tipo di approvigionamento locale e uno continentale. In Attica, come in molte altre regioni della Grecia continentale e insulare, il cereale indigeno era essenzialmente l’orzo. Se è vero che col passare del tempo la popolazione urbana finì per accordare la sua preferenza al frumento, che era importato, e che la maggior parte dell’orzo locale non doveva neppure passare attraverso il mercato urbano, in periodi di crisi l’eventuale disponibilità di orzo indigeno poteva quanto meno raffreddare i prezzi del frumento importato2 . Il commercio che assicura ad Atene i cereali di cui essa ha bisogno si fonda su “un tipo di contratto che dipendeva quasi esclusivamente dalla buona fede delle parti contraenti”3, ciò presuppone che il personale impegnato in questa attività fosse per lo più onesto e corretto. E’ lungo il tragitto percorso dall’emporos che si consumano le frodi e gli inganni a danno dei prestatori di capitale e di Atene. In presenza di margini di profitto non particolarmente elevati il mercante, per sua natura ricerca altre possibilità di commercio. Ora è chiaro che l’opportunità di realizzare grossi profitti si presentava solo in situazioni di deficit produttivo o di difficoltà di distribuzione. In casi del genere la tendenza al rialzo dei corsi del grano poteva essere frenata forse solo dalla

1 K. Polanyi: op.cit. 2 U. Fantasia: op.cit. 3 ibid.

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diversificazione nella coltivazione e nel consumo dei cereali tipica del mondo greco ancora nel IV secolo (e probabilmente anche in età ellenistica)1. Nel contro Dionisodoro le manovre di cui sono accusati i due mercanti si svolgono lungo la rotta che unisce Atene ad Alessandria passando per Rodi. Vicende analoghe, ugualmente documentate da orazioni giudiziarie, hanno per teatro le altre due rotte lungo le quali i cereali erano trasportati ad Atene, quella occidentale e quella pontica.2 Ciò testimonia di una ricerca di nuove opportunità di esitazione del grano che la metropoli in ogni modo combatte, ma che non riesce ad eliminare. In ogni caso è intuibile come un improvviso calo dei prezzi nella città importatrice o un’imprevista difficoltà di rifornimento nei paesi esportatori, una guerra ad es., potessero indurre un emporos che si fosse fatto finanziare il suo viaggio ad Atene a non rispettare leggi e contratti e a dirigersi là dove “il grano è più apprezzato e gli uomini ne hanno grande stima”3. Ma sarebbe un errore riferire al grano la funzione di bene guida nell’organizzazione degli scambi mediterranei. Ora per comprendere appieno il significato del mutamento intercorso in età ellenistica, ci possiamo riferire al mutamento semantico del termine emporos, ossia colui che dapprima designava soltanto colui che viaggia per mare. Nel linguaggio corrente non solo odierno, ma il passaggio dal greco alle lingue romanze e germaniche ne testimonia l’uso antico, si definisce emporio un “ centro commerciale, a cui vengono portate le merci per la loro distribuzione”. Pertanto è qualcosa di più d'un mercato o d'una città mercato. I Greci usavano a partire dal VI sec. questa parola per definire il mercante all'ingrosso: l'emporos (diverso dal kapelos o venditore al minuto), questi era colui che s'imbarcava sulle navi come passeggero per compiere un viaggio e importare merci per conto proprio. Il luogo dove le trovava costituiva l'emporium. I Romani lo chiamavano mercator (che era diverso dal caupo o piccolo commerciante), perché trattava merces o merci su grande e varia scala. L'emporos e il mercator si sarebbero recati entrambi a un tipo di mercati dove fosse disponibile una grandissima varietà di merci, dove fossero accettati i loro fidi e le loro merci, e dove esistessero strutture finanziarie straniere per negoziare gli scambi. Il commercio su questi mercati doveva essere internazionale. “Quanto piú numerosi erano i mercanti e i banchieri, piú grande la quantità di navi o carovane che venivano da luoghi vicini e lontani, tanto piú se ne avvantaggiava il commercio. Un tale mercato doveva essere quanto píú possibile di facile accesso. Se si trovava su una via marittima, doveva disporre di un buon porto, di provviste per i rifornimenti e, per

1 ibid. 2 ibid 3 ibid.

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i casi di emergenza, d'un servizio di carenaggio.”1 I greci avevano stabilito un emporio del genere nell'isola di Delo, al centro dell'Egeo, e un altro nell'isola di Rodi, un angolo strategico del continente asiatico equidistante da Cipro e da Creta, dove le vie principalí fra l'Egitto e Bisanzio s'incrociavano con quelle fra Antiochia e l'Occidente. Rodi inoltre possedeva una potente flotta, impegnata nell'industria dei trasporti. Nel Mediterraneo i Fenici avevano Cartagine, mentre i Romani, quando si dedicarono al commercio internazionale, si appoggiarono ad Alessandria. Il requisito piú importante di un emporio è dato dalla sua posizione geografica. Deve trovarsi su una via principale del commercio, e tanto maggiori saranno i vantaggi, se vi passeranno piú vie principali. Deve anche costituire il punto di arrivo di un certo numero di vie sussidiarie su cui giungano le eccedenze di materie grezze dalle regioni circostanti e tornino indietro i manufatti acquistati, che navi e carovane, percorrendo le rotte principali, hanno recato all'emporio dalle loro lontane basi. In questo modo gli empori compivano la loro funzione di centri di raccolta. Tale funzione comporta qualcosa in piú che la semplice operazione di raccolta delle materie grezze e della loro spedizione alle basi di manifattura. Essa comprende i lavori di pulitura, smistamento, classificazione, miscela ed altri procedimenti, per cui in ogni momento l'emporos può ottenervi gli articoli e le qualità di merci che gli occorrono. A complemento di tali operazioni, i prodotti portati per la vendita dal mercante vengono separati nell'emporío e distribuiti in cambio delle materie grezze, secondo le richieste. Si provvede inoltre a immagazzinare la merce fino all'arrivo delle navi e delle carovane dei clienti, o fino al mutamento di direzione dei monsoni, secondo che il caso richiede. L’emporio aveva dunque oltre a una base regionale, una sua nodalità continentale, esso non era un semplice scalo su una direttrice ma una vera e propria “plaque tournant”. Le distanze che si percorrevano sulle vie principali erano grandi. Era un commercio praticato indirettamente, e di intermediazione e gli empori costituivano i punti di grande collegamento stradale, dove si cambiavano i portatori (corrieri, vettori, spedizionieri), si ottenevano nuovi prodotti, o le merci restavano in sosta. Lungo la Via della Seta, si trovavano nodi stradali ad Antiochia, a Ecbatana e a Seleucia. Quest'ultima era un altro emporio, sorto vicino a un'antica città sulle rive di un lago naturale, dove il canale Nahrmalka, proveniente dall'Eufrate, si congiungeva col Tigri. Cosí la città fungeva da collegamento per il commercio che affluiva lungo i due fiumi. Fondata da Seleuco I come capitale del suo impero, all'incrocio di vie fluviali e di terra naturalmente adatte per il commercio, con una popolazione mista di Greci, Babilonesi e Giudei, i Parti rispettarono la libertà della sua costituzione, sistemando i loro funzionari a Ctesifonte, sulla riva opposta del

1 J. I. Miller: “The spice trade of the Roman Empire” Oxford University Press, 1969, trad. it. “Roma e la via delle spezie”, Einaudi, Torino,1974

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vicino Tigri, essa è un esempio di quel cosmopolitismo che caratterizzerà la città-porto-emporio fino alle soglie del XX sec.1. L'emporio aveva una o piú caratteristiche geografiche essenziali, che evidenziavano il suo ruolo cerniera. Esso poteva, come Tiro, essere situato su un'isola a scopo di difesa, e nel contempo offrire rifugio alle navi con qualsiasi tempo; oppure sulla punta di una penisola, come Sabara Emporium (Singapore)', per dove devono passare le navi delle rotte principali; oppure in un punto che controlla tratti stretti di mare, come Troia, Cartagine, o Bisanzio; su un istmo, dove da ambo le parti giungono mercanti da diverse regioni; o su una strada che attraversa una penisola, o in un'area circostante le foci di grandi fiumi, quali il Gange, il Tanais (Don), il Tigri, l'Eufrate, il Nilo, il Rodano, il Po. Palmira, che controllava e sorvegliava il commercio fra Damasco, Seleucia e il golfo Persico, che gestiva dentro le sue mura un'industria di profumi e si occupava del magazzinaggio in generale e della distribuzione delle merci, era un emporio di un “porto in terra” del deserto. Ruolo simile esercitavano Alessandria tra il Mar Rosso e il Mediterraneo, e Petra altro porto in terra tra il Golfo Persico, l'Arabia meridionale e la Siría2. In questi centri vi erano da affrontare anche i problemi del personale e della finanza. Per quanto riguarda il primo, bisogna ricordare che il commercio era una faccenda internazionale3. In un emporio occorrevano anche riserve finanziarie per provvedere i regali per le autorità locali, per l'allestimento di agenzie e per la valuta. In queste aree il baratto non è un mezzo normale di scambio. Con l'introduzione della valuta sorgono i banchieri. Nell'antica Babilonia l'uso di eseguire i pagamenti tramite un banchiere o con ordini scritti garantiti da depositi, e l'uso di lettere di credito negoziabili fissarono la norma generale. Per il commercio su lunghe distanze si poteva ricorrere a crediti a lungo termine, ma sulle strade sussidiarie i piccoli mercanti esigevano metalli preziosi e moneta sonante, xenia per ogni occorrenza

1 ibid. 2 ibid. 3 Si dovevano scegliere con cura e addestrare i rappresentanti all'estero, perché fossero in grado di capire la gente con cui avevano a che fare, e avessero conoscenza dei prodotti che trattavano. I capitani e gli agenti arabi impiegati dal popolo di Muza per il loro commercio con l'Azanía ne erano un esempio calzante'. La poesia tamil del I e II secolo indica la simpatia che si nutriva per gli Yavana o Greci. Il controllo del personale comprendeva la cura per le ciurme delle navi, costrette a trascorrere lunghi periodi in mare e in porti stranieri: è probabile che a tal fine si portassero a bordo spezie fresche, come le foglie dello zenzero “verde”. Nei porti del Malabar si trovavano sulle navi greche, fra le merci d'importazione, rifornimenti di grano per i marinai “ perché i commercianti del luogo non avevano provviste né di grano né di orzo” in J.I. Miller: op.cit.

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MEDITERRANEO E MEDITERRANEI: UN PRIMO UTILE CONFRONTO

Questo carattere di mediterraneità o di perimediterraneità degli empori, questa duplicità di un rapporto di livello continentale tra “porti fronte mare” e “porti in terra”, ci rimanda al confronto con il definirsi di una altra armatura di empori, con un altro spazio di “mediterraneità”, posto tra il Mare del Nord ed il Baltico, dove si è sviluppata l’armatura urbana dei porti della Lega Anseatica. Quando per la frattura tra mondo cristiano e mondo araboislamico si é spostato a nord l’asse del circuitarsi degli scambi della grande zolla eurasiatica, questo mondo é salito improvvisamente a una sua primazia. Di questi circuiti i vichinghi e i variaghi sono il primo elemento portante. Popolamento di bassissima densità, un misto di agricoltori piratí-marinai-contadini piccoli nuclei insediativi fondati su famiglie allargate nuclei di uno o due lignaggi. Il fiordo rappresenta lo spazio vitale, l’influsso mitigante del mare, le chiarie di prateria che si apron lungo la costa, ‘le connessioni con periodici punti di scambio emporio e mercati come quello dell’isola di Gotland di cui da certo punto di vista di una immagine insediativa Stoccolma mostra bene l’esempio c’é cioé una complessità di penisole, isole connessioni possibili che potremmo chiamare effetto baia o sindrome di urbanizzazione da baia1. Spostandoci verso la porzione più continentale del terminale della zolla eurasiatica, percorrendola dal Mare del Nord verso il Baltico, il succedersi a “bucce di cipolla” delle zone che separano dal mare la linea del piegamento ercinico, da un interno di suoli a loess, di antico popolamento slavo, a un esterno di morene sterili e di urtall trasverse parallele alla costa di formazione glaciale, al di là di terre pesanti compatte argillose (fredde), fino alla fascia di irnpaludamento ricca di humus costiera si incidono fiumi che scendono da sud est verso nord-ovest e che sono caratterizzati da una penetrazione molto profonda della risalita delle maree a dar vita ad estuari, navigabili. E l’haven si insedia là dove l’estuario inizia, dove una isola da la possibilità di gettarvi una relazione trasversa di “porto” di attraversamento o di ponte, dove si da la possibilità di fissare mulini al riparo delle più impetuose correnti, là dove si ha massima possibilità di legame tra acque dolci e acque salate, là dove si ha possibilità non difficile di superamento della barriera liquida e si danno occasioni di costruzione di percorsi trasversi quasi paralleli alla costa. Il loro allocarsi è appena a valle dei suoli neogenici di formazione eolica e periglaciale, i loess, che consentivano fin dalle civiltà danubiane l’insediarsi di villagì cerealicoli. La straordinaria conquista del mercantilismo .sulla fascia propria di suoli di non grande tradizione insediativa agricola ( estranei a quei flussi di popolamento segnati

1 Speci di pivot, di plaque-tournant luogo di scambio che farà scuola sulle altre sponde dell’Atlantico si pensi a Boston e in una certa misura a New York

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dai volkwanderung indoeuropei , alcune isole ponte alle bocche degli estuari diverranno la sede eletta di un flusso di allocazioni urbane, dove in breve lasso di tempo il mercante passa dalla connotazione di pirata, diavolo senza patria ne focolare alla definizione di una élite di patriziato e scabinato proprio delle città della lega hanseatica. MEDITERRANEO E MEDITERRANEI: UN SECONDO UTILE CONFRONTO

Era il 1500 quando una xilografia, quella del de Barabari, porta per la prima volta al cospetto del mondo una immagine prospettica completa della città di Venezia. Questo modello iconografico non nasce dal nulla proprio perchè a Venezia è l’espressione della maturazione della rappresentazione di un rapporto di contestualità, un rapporto tra una città di isole e un territorio lagunare, nella sua complessa dinamica di funzionamento. A un livello simbolico essa è anche la rappresentazione tra Venezia e un altro territorio. il mare, o meglio il suo mare, e in primis il suo golfo, così il fuori formato della ripa degli Schiavoni e dell’Arsenale prendono il sopravvento sullo stesso Rialto. Ora una altra realtà anfibia, una altra per certi versi analoga situazione contestuale appare sede di elaborazione di analoga veduta a volo di uccello: l’Olanda a partire dalla terza, quarta decade del Cinquecento elaborerà con questo strumento le sue profonde conoscenze topografiche non solo delle proprie città ma dell’intero orbis terrarum Ogni città d’Olanda, di quella porzione cioé dei Paesi Bassi, sita tra l’Utrecht e il Mare del Nord e tra I’Iisselneer e la Maas, i cui caratteri originari Heuzinga ci ha penetrantemente descritto nel suo affresco della civiltà del Seicento1, é sempre stata posta e prima di tutto nel senso fisico più diretto, in contatto con orizzonti mutevoli di cielo, di acque e di terra. Al di sopra di queste città stà infatti un cielo la cui matericamente tersa realtà atmosferica ha, con la sua incom: “bente presenza e con la sua mutevolezza, impressionato ogni viaggiatore (Diderot nel suo “Voyage en Hollande” ne evidenze le conseguenze “quelque fois on y prouve les quatre saisons de l’année dans un meme jour”2). Questo cielo che con lo spessore delle sue nuvole invade gli sky-Iine urbani e precipita l’orizzonte alla distanza di qualche chilometro così come subitamente lo apre a prospettive regionali di rinnovata profondità ed estensione, è, con la sua dinamica presenza, molto di più di un semplice riferimento climatico al contorno, esso è l’intrinseca espressione della natura stessa di quei paesaggi. Esso esprime, al

1 Heuzinga:”La Civiltà olandese del Seicento”, Einaudi, Torino 2 D. Diderot: “Voyage en Hollande”, ed. Maspero, Parigi, 1978

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di là di certi mediocri cliclé letterari (si veda ad es. l’interpretazione dell’orizzontalità dei paesaggisti olandesi come quella dell’astrattismo di Mondrian) la condizione dinamica che ne pervade città e campagna. Non é a caso che la capacità di rappresentazione “a volo di uccello” di un sito urbano si sia, nella famosa rappresentazione di Amsterdam di Cornelis Anthonisz del 1544 (caratterizzata dalla elevazione di un punto di vista che viene portato ad un livello quasi zhenitale) coniugata con la sensibilità di Jan Christiaensz Micker (1598-1664), il quale, anticipando la fotografia aerea come forma di percezione istantanea, proiettò su quello stesso impianto urbano (ormai certo anacronistico) e sul contiguo Ijsselmeer increspato di onde, il gioco delle ombre portate da cumuli incombenti. In tal modo egli non faceva del semplice virtuosismo, ma, astraendosi dalla vernacolarità del “cityscape” e dalla freddezza della oggettività topografica delle proiezioni verticali, esprimeva Amsterdam, il suo paesaggio anfibio, la sua “forma urbis”, come un sistema relativo collocato in uno scenario di elementi diversamente mutevoli. Tra questi elementi si evidenziava, per il suo diverso carattere, l’acqua dei canali il cui imperituro senso di un fluire eracliteo era però segnato dal ritmo di una produzione del tempo regolata dalle portate, dalle captazioni, dalle emissioni di altri canali. Modo d’essere domestico, diverso ed autonomo rispetto a quello del defluire dei fiumi o dei ritmi cosmici delle precipitazioni e dello scatenamento delle acque del mare. Come non spiegare proprio nel gioco di questo contrasto tra stato selvaggio e stato domestico delle acque la scoperta di una nuova sensibilità paesistica, quella di Jacob Van Ruisdael, che nel primigenio flusso di un fiume riscopre la metafora di una vita universale e naturale diversa da quella di un paesaggio olandese in cui il fluire dell’acqua del canale segna il tempo non solo del mercante ma del contadino e di una campagna legata inscindibilmente al proprio mercato? Questa regimentazione e domesticazione dello spazio-tempo è quella che nelle città olandesi si sintetizza nella costruzione corposamente positiva di un luogo urbano che è porta, piazza, porto. borsa, municipio, pesa e mercato, è quella che scandisce il tempo degli approvigionamenti urbani, è quella di una pratica e di una ritmica frequentazione della città da parte della campagna e che stà nell’ordine degli eventi quotidiani e non più eccezionali. Ma questo orizzonte d’acqua domesticata stà spesso ad un livello più alto di quello dei piedi degli olandesi e si intride della corposa presenza di suoli torbosi, di sfagni e di humus. Su queste terre anfibie le case hanno fondazioni alla maniera dei vascelli, nella sintesi della civiltà del seicento i volumi delle case riprendono le stazze delle “kogge”, vi è quasi una intima contiguità e continuità tra case e vascelli, una stessa cultura materiale quella del mastro-carpentiere stà alla loro base, navi e case sono cosi non solo assimilate - in quel paesaggio ma un gioco di simpatie e di similitudini le accomuna, come ci attestano la visione di Amsterdam verso la metà del 1500 di

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Antoon van den Wyngaerde o quelle di Rotterdan dei primi decenni del Seicento di Floris Balthasarsz. Emerge da tutto ciò una impronta di soluzioni microurbanistiche assolutamente vitale e caratteristica, segnata dalla presenza di acque domesticate, dove il “canale-strada” fonda la piazza e il mercato, dove il polder, con la sua organizzazione fondiaria e infrastrutturale, dà corpo a un nuovo quartiere, dove il “dam” segna l’organizzarsi delle banchine e degli l’haven”. Ma questa straordinaria coerenza di risoluzione dell’impianto urbano che fa di ogni città olandese un solido sistema relativo a fronte delle mutevoli coordinate degli elementi naturali è, attraverso il canale, proiettata in un orizzonte di relazioni sovralocali. La rete idrografica olandese, con la continua divagazione deltaica dei vari corsi del Reno e della Haas, si presenta altamente instabile: la morte di un ramo dopo una esondazione, la cattura da parte di un altro ramo, sono eventi che si sono succeduti, nei tempi storici, ad intervalli relativamente brevi di secoli, quando non di decenni e di cui espressiva testimonianza 6 il ripiegamento del Reno sempre più a sud fino alla captazione di quella sede storica della Maas che passando da Rotterdam ancora ne porta il nome ma non più le acque. Simile instabilità idrografica risulta inoltre accresciuta da una complessiva instabilità idrologica. Storicamente variabili sono infatti i luoghi di incontro e di compenetrazione di acque dolci e acque salate, instabilmente anfibie sono le terre soggette ai fenomeni di subsidenza e di imbibimento più o meno pronunciato della falda freatica e di depressione rispetto al livello dei mari e alla pensilità dei corsi fluviali. La risposta a questa sfida geografica non poteva trovarsi altrimenti che in un sistema infrastrutturale che risolvesse, attraverso il consolidamento di relazioni di rete, la complementarietà e l’interrelazione tra singoli rami altrimenti aleatorie. Nel gioco di aste e nodi di questa maglia di canali e rami fluviali, le città divenivano di conseguenza i capisaldi di armature territoriali e di nuove relazioni policentriche anziché essere semplice e isolata espressione di una condizione puntualmente favorevole (porto, centro di un grande territorio agrario e cosi via). Si configura in tal modo un sistema connesso di relazioni policentriche che sta alla base di una apertura economica delle città sul piano regionale ancor prima che su quello continentale e che quindi intimamente connette forme di sviluppo autocentrato (la rivoluzione agrononica guidata dalle città olandesi ad es.) con forze dí sviluppo estroverso (la solidarietà interurbana nella gestione degli affari della Compagnia delle Indie ad es.). Di tutto ciò, ancora una volta è espressiva testimone la più larga iconografia (quale ci è esemplificativamente testimoniata dal grande arazzo che fa bella nostra di sé nel Museum Lakenbal di Leida) che non solo rappresenta con piena consapevolezza il problema del sito urbano ma anche i reticoli e gli orizzonti spaziali di tale organizzazione policentrica. Di queste rappresentazioni l’Olanda del Sud ed in particolare i terminali lungo la Maas dei vari itinerari policentrici sono privilegiati elementi di primo piano. E’ guardando alla importanza di questi terminali canalizi

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(Schiedan e il Delfthaven) o alla importante funzione di contatto nella connessione di traffici di altura, di cabotaggio e di trasporti fluviali di Rotterdan e dunque alle loro connessioni di maglia e alla loro funzione di centri posti lungo direttrici di scambio che si comprenderà il periclitare di un centro come Vlaardingen dotato di una più lunga storia ma di minori connessioni con il retroterra. Tutti questi esempi ci consentono di rilevare l’esistenza di molteplici sistemi di rete che articolano i flussi degli scambi via mare, e ne configurano relazioni di scambio con altri sistemi di trasporto di stoccaggio e di mercato. Rispetto a ciò la tipologia delle relazioni mediterranee acquisisce una connotazione specifica.

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CAPITOLO IX ANCORA A PROPOSITO DEL PARADIGMA DI EMPORIO LA POLIS E “COLUI CHE VIAGGIA PER MARE”,

Un interlocutore di Socrate, Iscomaco, nella seconda parte dell’Economico senofonteo, introduce l’esempio del padre, il quale, mosso da passione per l’agricoltura (philogeorgia) e per il lavoro (philoponia), si era arricchito acquistando terre improduttive e rivedendole a molte volte il valore originario dopo averle rese fertili. Socrate non si lascia sfuggire l’occasione per ribattere con l’ironica riproposizione di un analogo modello: “Questo è come dire, Iscomaco, che tuo padre è per natura amante dell’agricoltura non meno di quanto i mercanti siano amanti del grano (philositoi). E infatti i mercanti, proprio per il loro eccessivo amore per il grano, dovunque vengano a sapere che ve ne è una grande quantità, subito navigano lì, attraversando il mar Egeo, il mar Nero e il mare di Sicilia; e dopo averne preso quanto più è possibile lo trasportano per mare, avendolo caricato proprio sulla nave su cui navigano loro stessi. E quando hanno bisogno di denaro, non lo scaricano a caso, ma lo portano là dove vengono a sapere che il grano è molto apprezzato e gli uomini ne hanno grande stima, e a questi essi lo cedono. Ecco, a me pare che tuo padre fosse amante dell’agricoltura più o meno in questo modo”1 Incontriamo dunque qui una attività, e non è una attività che avrà per così dire buona letteratura,2 ma che avrà grande peso nello sviluppo della città-porto mediterranea e che ci porterà alla definizione di una particolare struttura urbana: l’emporio. Tale termine deriva, come già ci ha fatto intravedere il testo senofonteo da, semplicemente, “colui che viaggia per nave”; questi è inevitabilmente un uomo d’avventura: mercante o pirata, o tutte due le cose insieme, come è assai naturale nella storia del commercio e della marineria. Ora questo elemento sconvolge il quadro ideale della città e, ancora prima, quello della famiglia greca: il principio dell’autarchia3, che è principio sostanzialmente stazionario della riproduzione, che è principio dell’equilibrio laddove lo scambio si dia come necessità. Non è forse lo spazio della polis uno spazio ambiguo ? Da un lato esso è lo spazio modello dell’autarchia, quello spazio che vive, di una acropoli, di una insenatura, dove una breve fiumara accumula un pò di suolo alloctono, per una coltivazione di grano o per una selva di ulivi, dove, giocando sull’intercalarsi dei calcari, nella conca

1 (Oecon. 20,27-28). Riportato in U. Fantasia: “ Il viaggio alla ricerca del profitto: l’emporia classica fra economia ed etica” in: ( a cura di G. Camassa e S. Pasce: “ Idea e realtà del viaggio. Il viaggio nel mondo antico”, Ecig, Genova, 1991 2 neppure la polis da questo punto di vista avrà per lungo tempo buona letteratura come ci ha insegnato Finley nella sua analisi sulla società degli antichi. 3 si veda a tal proposito il significato dell’opera di Esiodo prima ma anche dei filosofi fino ad Aristotele

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collinare si recuperano terrazzi alle tre colture principi dell’arboricoltura mediterranea: il fico, la vite e l’olivo? Dall’altro è lo spazio eminentemente votato al contatto attraverso la liquida pianura che nella sua baia si domestica. Si veda una immagine quale quella, del centro, e i nomi non vengono a caso, di Emporio nell’isola di Chio: una ampia falcatura prospicente il mare, una spiaggia relativamente protetta dai venti, comunque facile all’alaggio, un piccolo acrocoro collina che è guardia ed acropoli facile da difensersi, come mostra una più antica presenza di castelliere, una modesta pianura, delle bene insoleggiate pendici facili al modellamento a ciglioni o a terrazzi, ecco il quadro di un universo che si sente relativamente sicuro entro il suo quadro di autosostentamente, le sue circoscritte possibilità di asty - agorà e di crematistica. EMPORIO E CREMATISTICA

Abbiamo accennato alla “cattiva letteratura” che caratterizza l’emporoi e questa sta a fronte della buona letteratura che contraddistingue la visione ideale dell’autarchia, gente senza themis, senza hestia, sembrano essere questi mercanti, e tutto ciò è quanto ci è data dalla letteratura giudiziaria che ci fornisce documentazione dei conflitti che si aprono tra la polis e questa attività commerciale. Un filo tutto sommato ben visibile collega i protagonisti di queste vicende legali agli emporoi philostoi di Senofonte, agli emporoi “che vagano da una città all’altra” della Repubblica di Platone1 , o ancora a quei viaggiatori “esclusivamente estivi”, che “come gli uccelli di passaggio... prendono, per così dire, il volo attraverso il mare, e corrono qua e là per gli altri paesi durante la buona stagione, trafficando per amor di guadagno”, e che costituiscono la prima, e la meno gradita, delle quattro specie di viaggiatori che visiteranno lo stato ideale delle Leggi2. Il viaggio alla ricerca del kerdos, elemento comune di queste descrizioni, sembra dunque rappresentare la premessa immediata per una valutazione sostanzialmente negativa, dal punto di vista etico, dell’attività dell’emporos. 3 Così questa letteratura tende a puntare il proprio indice contro i mercanti e ad assolvere i prestatori di capitale4. A fianco di questa vi è la riflessione che la letteratura politico-cittadina conduce sul tema del commercio, essa configura un solo modello positivo in tema di scambio di beni, sia in ambito locale che in quello interstatale: questo è lo scambio di equivalenze fra produttori, fra partners che hanno

1 (II 371 d) 2 (XII 952 d-e) 3 U. Fantasia: op.cit. 4 ibid.

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bisogno ciascuno del prodotto dell’altro: più ci si allontana da questo modello di scambio “puro”, maggiore è la riprovazione. Incarnando il passaggio da un modello di scambio finalizzato al semplice perfezionamento dell’autarchia ad uno scambio che, nel corso del suo svolgimento, genera, in modo del tutto innaturale un kerdos puramente monetario, il kapelos assume il ruolo di potenziale distruttore degli equilibri comunitari, che altre forme di scambio (dal dono al baratto e alla crematistica nella forma “naturale” lasciano invece del tutto inalterati1. La condanna del kerdos si traduce poi, sul piano sociale, nella tendenza che raggiunge il culmine nelle norme formulate per la città dei Magneti nelle Leggi2 , ciò porta a risospingere ai margini dello stato ideale i gruppi che, praticando le varie forme di intermediazione commerciale, sono portatori di una ricchezza monetaria che è frutto del kerdos lucrato nei loro traffici.3 Tutto ciò configura la relazione fra polis ed emporoi in termini tendenzialmente conflittuali. Ciò è implicito anche nella legislazione commerciale cui viene fatto spesso riferimento nelle fonti. Gli emporoi philostoi che, nella seconda metà del IV secolo, non avessero fatto ritorno allo scalo di Atene per via di un calo dei prezzi del grano, non avrebbero soltanto mancato di onorare un contratto scritto, ma avrebbero norme della legislazione ateniese relativa al settore commerciale. La più generale, se non anche la più antica, fra queste era che nessun Ateniese o meteco residente ad Atene potesse, pena la morte, trasportare grano in porti diversi dal Pireo4. Un’altra proibiva ad Ateniesi e meteci, pena la confisca del denaro, di finanziare con prestito marittimo iniziative commerciali che non prevedessero l’importazione ad Atene di merci specificate nel contratto, in particolare di grano5. I casi giudiziari a noi noti documentano come l’operatività di queste norme non bastasse a scoraggiare comportamenti che andavano contro gli interessi ateniesi: “A giudicare dalle orazioni del corpus Demosthenicum di argomento commerciale, la categoria dei mercanti lasciava molto a desiderare quanto a correttezza e onestà.”6 Ma, come si è osservato in precedenza, in queste orazioni si è conservato sempre e soltanto il punto di vista dei “capitalisti”, di chi finanziava il commercio marittimo. Costoro tendono a rappresentare la cerchia degli emporoi come nettamente separata dalla loro e popolata da personaggi privi di moralità. Tale letteratura asserisce che la prosperità del mondo dell’emporion dipende, non dai debitori (cioè dai mercanti) ma dai fornitori di capitale: “Il buon esito degli affari non è dovuto ai mutuatari, ma

1 ibid. p. 83 2 (XI 918 b ss.) 3 U. Fantasia: op.cit, p.93 4 (Licurgo. Leocr. 27; [Demosth. ] XXXIV 37; XXXV 50). 5 ([Demosth.]XXXV50-51,cfr.LV16e11) 6 in U. Fantasia: op.cit.

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ai mutuanti: non un padrone, non un passeggero che possa prendere mare, se viene rifiutato ai mutuanti ciò che è loro dovuto”1 E’ stata richiamata l’attenzione2 sul fatto che il trasferimento del rischio dal debitore al creditore - uno dei tratti caratterizzanti del negozio di prestito marittimo - avesse senso, da un punto di vista attuariale, solo se il volume delle transazioni fosse elevato, cioè se il rischio insito in ogni singola transazione veniva controbilanciato da un ampio numero di viaggi felicemente conclusi. Il che significa ribadire, per una via diversa, che il sistema doveva funzionare nel complesso in modo abbastanza scorrevole e che l’alea fosse mitigata dal rilievo statistico imposto dai flussi intramediterranei, consolidati su un quadro di rotte. Se ci si limitasse ad osservare dal punto di vista dei prestatori di capitale il funzionamento della città-porto greca rimarremmo inevitabilmente delusi di fronte ad una pura e semplice fornitura di servizi entro un tale modello di scambio. Ma questo non era altro che un semplice quadro ideologico, la realtà doveva essere ben più complessa, come ci mostra il senso della istituzione delle rotte e queste rotte non seguivano solo mercati e luoghi di produzione ma una vera e propria strategia macrourbanistica. IL DIVERSO RUOLO DEL COMMERCIO NELLE CITTÀ DELLE REPUBBLICHE MARINARE

Facciamo ora un salto in avanti al fine di comprendere come cambi il rapporto tra città e mercante nelle città porto che daranno vita all’avvento di “città-stato” - “repubbliche marinare”. Seguiamo brevemente il mutare del quadro contrattuale e del diritto contrattuale, seguendo la lezione del Lopez3. Partiamo osservando il contratto di colonna, largamente diffuso ad Amalfi e in altre città portuali italo-bizantine del Meridione, nonché nella città dalmata di Ragusa-Dubrovnik (mentre non sembra che sia stato mai adottato in Venezia). Tutti gli apporti di capitale e di lavoro di coloro che viaggiavano su una stessa nave (il capitano, i marinai, i mercanti) venivano elencati su una colonna del libro di bordo; profitti e perdite erano divisi secondo il valore attribuito a ciascun apporto. Il contratto, per il suo carattere patriarcale, è rimasto in uso fino ai giorni nostri, nelle piccole navi da pesca dell’Adriatico, ma e assolutamente inadatto alle esigenze del commercio capitalistico. Dopo il secolo XII, ogni menzione della colonna scompare a poco a poco dai documenti. Nel diritto greco-romano aveva avuto larga diffusione un altro contratto il prestito marittimo, che rimase in auge durante tutto il Medioevo, pur perdendo gradualmente

1 ibid. 2 E.E. Cohen: “Ancient Athenian maritime courts”, Princeton,1973 3 S. Lopez: op.cit.

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la sua posizione di preminenza. Come il mutuo ordinario, comportava un tasso di interesse e non creava alcun legame associativo fra il mutuante e il mutuatario; la durata del contratto era limitata a un solo viaggio (o a un viaggio di andata e ritorno) e la restituzione delle cose date a prestito era esclusa in caso di perdita totale per naufragio o attacco nemico. Questa clausola consentiva alle parti di affermare che l’interesse percepito sul mutuo non era “usura ”, ma quel che oggi chiameremmo un premio di assicurazione. 1 prestiti marittimi sono menzionati molto di frequente nelle fonti di tutte le città di mare cristiane, ma la loro popolarità diminuí verso la metà del secolo XIII, sia perché i papi statuirono che il premio era, in realtà, usura, sia perché l’assicurazione cominciò lentamente a svilupparsi come un ramo indipendente degli affari. Inoltre, il commercio marittimo esigeva - come quello terrestre - una collaborazione piú stretta di quella che poteva esistere fra le due parti di un semplice mutuo. Questa esigenza fu soddisfatta da un altro contratto, la collegantia o coazione ”), commenda (“raccomanda che univa i vantaggi del prestito marittimo (durata limitata a un solo viaggio e nessuna responsabilità del mutuante nei confronti dei terzi) ai vantaggi principali del contratto di società (divisione dei profitti e delle perdite fra mutuante e mutuatarío, ed esclusione di ogni sospetto di “usura”). La commenda, che alcuni moderni autori chiamano impropriamente “ società in accomandita ” , fu una creazione medievale di eccezionale importanza, che diede un grande contributo al rapido sviluppo del commercio marittimo in confronto al piú lento progresso delle forme capitalistiche del commercio terrestre. Il suo luogo di nascita è ancora discusso: i paesi islamici e bizantini sembrano conoscerla per primi, fin dal secolo VII, ma la commenda occidentale presenta molte difformità da quella dei paesi orientali; non si può escludere, quindi, che il contratto sia sorto in modo indipendente in luoghi diversi. Nella sua forma italiana piú semplice, lo schema era il seguente: una parte, che rimaneva in patria, prestava un capitale all’altra parte che prendeva il mare e che si incaricava di trasportare il capitale e investirlo in operazioni commerciali per la durata di un solo viaggio di andata e ritorno. Il mutuante sopportava tutti i rischi di perdita del capitale e aveva diritto a una quota dei profitti (i tre quarti, nella maggioranza dei casi). Il mutuatario sopportava tutti i rischi attinenti all’attívità di gestione ed intascava il resto dei profitti. 1 terzi entravano in contatto soltanto con lui e non potevano chiamare in causa come corresponsabile il mutuante, ne conoscessero o no l’esistenza. Tenuto conto del fatto che il mutuante percepiva, senza alcuno sforzo personale, la parte maggiore del profitto (e, nella maggior parte dei piú antichi contratti, dava anche precise istruzioni al gestore sulla destinazione del viaggio e sul tipo di merci da acquistare), si potrebbe pensare - a prima vista - che la commenda fosse un iniquo contratto associativo fra un ricco capitalista e un povero lavoratore; ma questo non era affatto il caso piú frequente. La stessa persona poteva essere simultaneamente mutuante in alcuni contratti e mutuataria in altri; in altri termini, essa divideva i

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rischi e moltiplicava i profitti aggiungendo capitale altrui a quella parte del proprio capitale che portava con sé in un determinato viaggio, e affidando il capitale residuo a colleghi che partivano per altre destinazioni. Oppure, una persona con pochi denari poteva tentare la fortuna nei grandi affari affidando una piccola somma a un ricco mercante che non avesse disdegnato un contributo, per quanto modesto, al proprio capitale viaggiante. Quanto alla ripartizione ineguale dei profitti, essa era largamente controbilanciata dal fatto che solo il gestore dell’affare sapeva realmente a quanto ammontavano i profitti realizzati. Nei primi contratti si prevedeva che egli dovesse convalidare i suoi conteggi con qualche elemento di prova, ma piú tardi il mutuante si impegnò a credergli sulla parola, “ senza necessità di giuramento o testimonia. In conclusione, la commenda fu il piú immediato precedente medievale delle nostre attuali società per azioni, che attirano capitali di qualsiasi ammontare da ogni strato sociale, limitano la responsabilità dei soci e non si sentono obbligate a fornire dettagliati resoconti della propria attività agli azionisti. t vero che la commenda durava per un solo viaggio, ma nulla impediva a un mutuante soddisfatto dell’esito della prima operazione di affidare il proprio capitale allo stesso gestore per altri affari. Un nuovo scenario statistico, la doxa, il rischio di impresa entrano di peso a fissare il nuovo status sociale del mercante armatore e a farne l’attore dello stesso rinnovamento della città.

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CAPITOLO X LA NAVE, LA VELA, IL REMO: A PROPOSITO DI PRODUTTIVITA’ LE LIMITAZIONI DELLA NAVIGAZIONE MEDITERRANEA, SECONDO I GEOGRAFI.

“Le imbarcazioni antiche mal si adattavano ai grandi percorsi marittimi. Navi piccole, di bordo basso, incapaci di resistere all’assalto delle onde, sospinte ed arenate nei ripari della costa al calar della notte o al minimo segno di burrasca, armate di una vela quadrata, che poteva sfruttare solo i venti posteriori, guidate con un remo a poppa, di scarsa efficacia e che non permette di deviare la rotta; per navigare con venti contrari, per manovrare nell’entrata dei porti e nelle rientranze della costa, si aveva solo un mezzo, i remi.” 1 Ecco riassunti, in un piccolissimo nucleo di proposizioni, quasi a voler definire un teorema i limiti e i caratteri arcaici della navigazione mediterranea, secondo Ribeiro2. Non molto dissimile da questa, appare la tesi braudeliana: “Al Nord, meglio fornito, il Mediterraneo attinge, d’altro canto, oltre agli uomini, anche le nuove tecniche. Cosí la “ cocca ”, la Kogge, grossa barca piatta solida, in origine dotata di un solo albero e di una sola vela quadrata, capace di affrontare il cattivo tempo invernale. E sarebbero i pirati baschi di Baiona a dimostrarne per primi le qualità ai Mediterranei3. E non mitiga il Braudel il giudizio implicito sulla mancanza di capacità innovativa della marineria mediterranea ricordando come: “Nei secoli XIV e XV, essa diventa il battello tondo tipo, sia nel Baltico sia nel Mediterraneo. In compenso, il viaggio del Pierre de la Rochelle a Danzica, circa centocinquant’anni dopo, rivelò agli attoniti Danzíchesi un nuovo tipo di battello, la “caracca”, indiscutibilmente nata nel Mezzogiorno, derivata dalla “cocca”, ma accresciuta di alberi e vele multiple conforme alla tradizione mediterranea e che unisce le vele quadrate e le latine. Una nave del Mezzogiorno, dicevamo, ma del Mezzogiorno oceanico, perché sembra certo che siano stati i Biscaglini a perfezionarla, prima che divenisse, verso il I485, la nave mercantile ordinaria dell’Oceano e del Mediterraneo”.4 Ora proprio la considerazione che egli fa a proposito delle vele mediterranee mostra come tale tesi non sia affatto accettabile e come la caracca sia in effetti, proprio per ciò che riguarda la propulsione, il frutto di una esperienza mediterranea, ossia dell’incontro tra vela quadra e vela latina. Ed ecco la seconda tesi, del resto complementare alla prima, in cui questo quadro è il prodotto di una condizione sociale che ha nelle sue strutture il permanere di una

1 O. Ribeiro: op. cit. 2 ibid. 3 F. Braudel: op.cit 1982 4 ibid. p. 135

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condizione, se non di un modo di produzione, schiavistica, il cui sopravvivere è determinato in particolare dalla condizione di scontro che si da tra le varie aree di civilizzazione che si affacciano su questo mare: “Dalle navi fenicie fino alle galee veneziane, che sopravvissero fino ai tempi moderni, il motore umano fu il mezzo principale di propulsione. I tonnellaggi erano ridotti (80 tonnellate per la maggior parte delle navi romane) e gli equipaggi di rematori numerosi. In terre povere e sature di gente, non era difficile reclutarli. Ma questo lavoro estenuante rimase soprattutto legato alle forme di degradazione sociale, fatto da schiavi e da condannati. Quando non se ne aveva in quantità, in qualche costa nemica (a volte quella che era piú vicina, sull’opposta sponda) si andava a catturare uomini robusti a questo scopo.”1 Questa tesi merita sicuramente la massima attenzione, ma essa è solo parzialmente connessa alle forme di reclutamento del mondo militarizzato mediterraneo, che non è tanto dissimile da quello europeo occidentale, inglese in particolare2. Terza tesi: ultimo elemento di questo arcaismo è espresso dal prevalere del cabotaggio rispetto alla navigazione di altura: “Per non sacrificare il carico al rifornimento di acqua e viveri si doveva toccar terra dopo alcune ore di viaggio; da ciò la molteplicità dei porti, che gli anfratti delle coste articolate favorivano; molti di essi erano semplici scali, senza comunicazioni con l’interno, maglie di una rete di vita marittima ai margini di un entroterra dedito all’agricoltura e alla pastorizia, ma isolato ed indipendente da essa.”3. Sarebbe per altro assai facile opporre a questo quadro quello della naturalità del Mediterraneo ad essere culla della navigazione: “La mer, sur qui les yeux dea primitifs s'ouvrirent en méme temps qu'à la lumière du jour, l'ensorcelente qui se teinte de pourpre dans l'ombre des falaises et d'or transparent sur le sable dea baies ensoleillées, la feconde qui leur offre avec la nourrituire les premières parures dont ils s'émerveillent, n'est pas pour eux un obstacle, mais un élément naturel et familier. Tout semble les inviter vers de nouveaux rivages et les conditions naturelles de la Méditerranée sont les mieux adaptées au développement d'une marine primitive. Leurs emlbarcations, peu stables et gouvrnées par une sorte de godille à l'arrière, craignent les vents et la houle du large; n'ayant pas de boussole et devant se diriger d'après le soleil, elles hésitent à s'éloigner de la cóte ; d'ailleurs l'équipage ne peut ramer longtemps de suite et de fréquentes escales sont néeessaires pour aller à la corvée d'eau et se reposer. Or, pendant la belle saison, d'avril à octobre, les vents violents et les tempétes sont rares en Méditerranée ; les brises régulières, qui soufflent de la terre entre le soir et le matin et de la mer entre le matin et le soir, les courants qui longent les cótes, favorisent le cabotage; enfìn les caps, les péninsules,

1 O Ribeiro: op.cit. 2 si veda C. Wilshon: “England Apprenticeship”, Longman, Londra 1965 3 ibid. pag.108

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les chapelets d'iles lancées les une en face des autres comme autant de relais préparés, rassurent les pilotes encore inexpérimentés, surtout dans la mer egée, où les iles sont si nombreuses qu'il est à peu près impossible de perdre la terre de vue. ”1. Del resto Conrad il grande romanziere degli oceani, affermava che la vera culla, la vera nutrice della marineria era da sempre la realtà mediterranea. In tutte queste posizioni c’è del vero, ma il loro limite è di essere date come visioni monotone, perpetuamente riproponentesi, di permanente nascita o di permanente arcaismo della società marinara mediterranea, soprattutto quest’ultima a partire per lo meno dalla seconda metà del Trecento, va riconsiderata in profondo, così come hanno fatto gli studiosi che si sono applicati alla evoluzione del vettore navale e l’hanno studiato nei suoi vari aspetti, mettendone in mostra le varie specificità e ci hanno guidato a capire il modo di un saper fare marinaresco mediterraneo che è stato capace di venire in contatto non solo con i caratteri originari di questo spazio, ma anche con quelli oceanici2. CONGIUNTURA E TECNICA MEDITERRANEA

Osserviamo allora da vicino questo spazio statico e abitudinario, come viene definito, osserviamone i moli di un porto, in una annata, in un giorno qualsiasi del XVII sec. e scopriremo una antica, sedimentata, articolata e complessa realtà, con sue forme di scambio che è bene indagare. Guardiamo verso i moli di un porto, prendiamo il porto mediceo, proviamo a immaginarci la complessità di quella antica realtà di commerci che interessavano Livorno questo nodo di recente fondazione della vita del Mediterraneo, questo nodo che ha configurato una linea autonoma di scambio con l’altra costa. Forse tutti i carichi in entrata e in uscita dal porto in un anno sarebbero stati su un unico grande cargo di oggi, ma non è parafrasando Sombart3, non è facendo una cattiva storia quantitativa che si possa riuscire a penetrar le strutture di questa realtà. Rivolgiamoci piuttosto ai registri, alle raccolte di portate e magistrali seicenteschi e confrontiamo la ricchezza tipologica del naviglio di allora alla povertà “normalizzata” di quello di oggi: barche, bertoni, brigantini, caicchi, caracche, caramusali, garbi, feluche, fluit, fregate, galere, galeazze, leuti, polacche, saette, scafe, tartane. E poi guardiamo anche la ricchezza della gamma tipologica, di forme e materiali dei contenitori delle merci che da quelle navi venivan scaricate su quelle banchine, in 1 in J. Gabriel Leroux: “ Les Prèmieres civilisations de la Méditeranée” PUF, Parigi, 1966 2 si vedano gli studi del Lane, del Davis, del Rubin de Cervin 3 Si veda la bella critica al Sombard in A. Sapori, Il mercante italiano nel medioevo, Milano, Jaca Book, 1983, già SEVPEN, Paris 1952.

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barba alla unificazione del tonnellaggio -botte: ballette, barili, bariletti, botti, canestri, cappi, caratelli, carri, casse, cassette, cassoni, cesti, cestoni, coffi, colli, corbe, corge, fagotti, fanega, fardelli, fardi, fusti, giat-t-e, gruppi, involti, moggi, mezze botti, nichise, pacchi, pacchetti, pani, quarteroli, quartieri, quarti, rinvoltini, rubbie, rugli, sacchi, sacchetti, scafa5zzi, schibe, tamburi, terzaroli, tonioli, totielli, vasi, vesciche, zaffi, zuruli ... Certo una simile babele metrologica e tipologica non potrebbe non scandalizzare la nuova onda dei vari operatori del settore, certamente scandalizzerebbe molto meno le compagnie portuali che sulla sapienza del come stivare una simile complessità merceologica avevan costruito la propria ragion d’essere 1. Ma domandiamoci: non era tutto ciò la riprova che quel mondo era permeato da un quadro di tecnologie adeguate e ancora ben vive che venivano da specializzazioni produttive, da trasformazione di oggetti d’uso inseriti in catene tecniche commerciali? Tutto ciò naturalmente aveva i suoi limiti: costruiva ambiti localizzati di scambi più che favorire il vasto raggio, ma ci testimonia di un mondo che, se da lunga data sviluppava una strategia di parsimonia nell’uso delle proprie risorse, non si configurava come irrimediabilmente povero ed ormai marginalizzato di fronte ai nuovi scenari avanzati dell’economia-mondo, un mondo con le sue catene tecniche e le sue tecnolgie adeguate. Un mondo che, basta guardare alle navi in entrata e in uscita dai suoi porti2, presentava relazioni molto più equilibrate, scambi molto più intensi tra le varie sue parti, di quanto non avvenga oggigiorno3. NAVI LARGHE E NAVI SOTTILI.

Partiamo dall’inizio, o quasi, e poniamoci nel solco di Ulisse4. Se nell’Iliade risuona l’eco di lotte che si attardano e che sono state provocate dall’invasione dorica, a questa epopea guerriera succede l’Odissea come raccolta

1 Abbiamo esteso di qualche tipo di imbarcazione l'inventario dato da C. Ciano in "Uno sguardo al traffico tra Livorno e l'Europa del Nord verso la metà del Seicento", in Atti..., Op. cit., pag. 150. 2 In C. Ciano: op.cit. 3 Si veda inoltre V. Salvadorini, "Traffici con i paesi islamici e schiavi a Livorno nel XVII secolo: problemi e suggestioni", in Atti .... op. cit., pagg. 205-255, in particolare L Valenci: op.cit, Questione quanto mai delicata questa oggi dopo la decolonizzazione il quadro degli scambi continua a rimanere profondamente monoculturale, fondato per ciascun paese su uno o due prodotti e per di più concorrenziali tra loro 4 Jean Bérard riprendendo gli autori classici in particolare Strabone, insiste molto sul nucleo di informazioni goegrafiche e di marineria consolidatosi in quel nucleo basilare dell’Odissea che sono “i racconti alla corte di Alcinoo”, si veda: J. Bérard: “La colonisation greque de l’Italie méridionale et de la Sicilie dans l’antiquité. L’historie et la légende.” P.U.F, Parigi, 1957, trad it.: “ La Magna Grecia”, Einaudi, Torino, 1963

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pacifica di leggende e avventure marittime, questo contrasto, ci è stato sempre insegnato, corrisponde a un mutar di atteggiamenti del popolo greco : tra il X e il VI a.C., i greci rinunciano a lotte su piccole porzioni di un territorio troppo sterile e pongono il loro orizzonte in uno spazio più ampio, uno spazio di scambi, così come già un altro popolo aveva cercato, con successo, di fare prima di loro, i Fenici1. I ritrovamenti votivi di cui il mare è stato ricchissimo produttore, ci mostrano bei modellini di navi larghe, simmetriche, ben spanciate. Se da sempre le navi larghe sono una immagine di popoli pacifici, di commerci opulenti bisognerà osservare come prima dell’avvento degli indoeuropei e delle invasioni doriche il Mediterraneo sembri essere prevalentemente un mare di pace, di cabotaggio e di commerci relativamente sicuri e che er altro necessita di un propulsore che non sia esclusivamente fornito dal lavoro del remo. Tutto cambia con l’avvento di queste popolazioni guerriere, fino all’introduzione della nave lunga rostrata. Ma domandiamoci subito quale prestito possa mai essere questo. Un prestito arabo ci dice Poujade2, un prestito che viene da quella porzione di mare connesso con l’oceano indiano che è certamente una delle aree più sviluppate nel campo della marineria3. Per altro il tramite più naturale di ciò sono stati i fenici non gli indoeuropei : “ Dès la fin du ier millénaire, ils avaient des comptoirs, des colonies, sur les cotes d’Afrique et d’Espagne meridionale. Les poèmes homériques, contemporains de la grande expansion maritime des Phéniciens, leur donnent tout naturerement un róle prépondérant, et L’Odyssée est remplie de violences et de rapines de toutes sortes exercées par les Phéniciens, quelle représente comme des mercantis éhontés, des bandits sans scrupules ; mais il faut, dans ces récits, faire la part des jalousies de marins et des rivalités commerciales. ”4 Ciò malgrado, il fatto straordinario e fondamentale è che, in qualche modo, a dispetto dell’Odissea, si presenti il quadro di un Mediterraneo che appare uno spazio unitario, anche se non certo unificato. Solcato ormai da stabili rotte non da semplici cabotaggi costieri o da viaggi. E’ a partire da questa datazione antichissima che la sua marineria acquisirà una prima fondamentale impronta comune. Da questa data il quadro dello scafo che si delinea vedrà configurarsi la dicotomia tra nave larga e nave lunga, tra prevalenza dei remi e della vela, su questo dualismo inizierà a plasmarsi in questo periodo un primo grande ambito di civilizzazioni e uno scenario ad esso connesso che caratterizzerà una particolare configurazione dell’urbanesimo, quello che lega la metropoli alla colonia e che sarà una delle espressioni di scenario più importanti di tutta la storia mediterranea. In questo quadro

1 si veda S. Mazzarino: “Fra Oriente e Occidente”, 2 ed. Rizzoli, Milano, 1989 2 J. Poujade: “La route des Indes et ses navires”, Payot, Parigi 1946 3 ibid. 4 in J. Gabriel Leroux: op. cit.

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gli adattamenti della vela sono quanto mai significativi :“ Tyr et Sidon construisent les gros vaisseaux marchands, aux flancs arrondis, aux extrémités relevécs, complètement pontés, que l’on voit au Louvre sur le bas-relief de la flotte de Sennachérib. La voile s’ajoute aux rames pour mouvoir cette lourde masse, et le gouvemail est toujours constitué par des avirons latéraux. Le vaisseau marchand, lorsqu’on abaisse la proue et qu’on la munit d’un éperon de métal chargé d’éventrer la coque ennemie, devient un navire de guerre; il a deux rangs de rameurs, soldats et passagers occupant le pont supérieur. C’est la première ébauche de la trière, dont on attribuait l’invention à Thasos, mais qui fut introduite de Phénicie en Grèee par Corinthe et Samos. Utilisée couramment dès le VII.e siècle, elle devient à Rome la trirème. La galère égéenne, d’autre part, fut conservée par certaines cités, sous une forme très améliorée, e ehe de la pentécontore, longue, rapide et basse sur l’eau, avecc laquelle les Phocéens purent explorer la Méditerranée occidentale bien avant les autres Grees. ”1 Ormai le flotte si disputano l’egemonia del mediterraneo. Tutto ciò determinerà l’importanza del rapporto porto – arsenale. L’IMPORTANZA DELL’ARSENALE

Guardiamo ai porti fenici che saranno modelli per lo spazio marino mediterraneo. Il vecchio Andrea Doria ricordava come nel Mediterraneo ci fossero tre porti sicuri : Cartagine, giugno e luglio. E se questi due simbolizzano l’importanza della stagione idonea alla navigazione, il primo simbolizza non solo l’importanza di un porto protetto, ma fornito di quanto l’ antenata di una galea richiedeva. Particolarmente impressionanti sono le descrizioni del porto militare di Cartagine: un bacino circolare, protetto da mura e circondato tutt'intorno dalle darsene per le navi; al centro c'era un'isoletta, sede dell'ammiragliato. “Alcuni anni fa su quest'isoletta, che attualmente si trova in mezzo alla laguna circolare di Douar-Chott, sono stati portati alla luce i resti di costruzioni puniche, tra cui anche le fondamenta di parecchie darsene: dopo lunghe discussioni, protrattesi per decenni, possiamo finalmente affermare con certezza che questa laguna è ciò che resta del porto militare punico.”2 Nel VI secolo a.C. in Grecia si affermò sempre più la differenza tra porti militari e porti commerciali. Per compiere le operazioni di carico e di scarico, le navi mercantili, pesanti e di gran pescaggio, avevano bisogno, possibilmente, di attraccare alla banchina, altrimenti dovevano rimanere alla fonda in un bacino riparato e svolgere queste operazioni con l'aiuto degli alleggi. Le navi da guerra invece

1 ibid. p.74-75 2 O. Hockmann: “Antike Seefahrt”, Monaco, 1985, trad. it. “ La navigazione nel mondo antico”, Garzanti, Milano, 1988

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dovevano essere tirate in secco e ricoverate in apposite darsene, ben ventilate, che avevano come “scalo di alaggio” una rampa in leggera pendenza, che iniziava sott'acqua e saliva gradatamente verso l'ingresso del capannone.1 Con i loro scivoli le loro possibilità di portare in secca facilmente barche così preziose e delicate, con i loro grossi capannoni dove farle svernare, gli arsenali diverranno una articolazione e una costante delle città-stato, mediterranee, una costante che penetrerà molto addentro la storia moderna, giungendo fino alle soglie del XIX sec.. E l’Arsenale a Venezia in particolare sarà qualche cosa di più, sarà il laboratorio della progettazione dell’ingegneria nautica, sarà il luogo dove i maestri d’ascia che costruiranno galee, galeazze e galeoni, ne fisseranno le norme in alcuni elementi di disegno che fisseranno lungo sezioni ortogonali, non un monotipo ma regole di proporzionamento prese ai terzi degli sviluppi trasversali, sistemi relativi dove fissare l’esperienza di un sapere pre e para-galileiano2, sarà il luogo di produzione e riparo delle stesse galeazze, sarà il luogo di cucitura e riparo delle vele, luogo anche di occupazione femminile, tantè che il Sanudo, siamo alla data della scoperta dell’America, ne fisserà il ricordo attraverso la descrizione di un luogo dove chiunque può se vuole trovarvi lavoro, dove non si ferma mai la sapienza, la cura, l’intelligenza delle mani nel dare corpo e accudire al manufatto nautico. L’INFLUENZA DELLA PESCA

Il Mediterraneo dunque solo spazio di mercanti e di guerrieri? E la pesca, l’attività che è in più diretto intimo rapporto col mare, in che modo entra in gioco? L’origine delle imbarcazioni e lo spettro delle loro tipologie sarebbe monco senza il rapporto più umile ma anche più capillare, quel rapporto con la pesca, che in una città come Venezia forma proprio il tessuto di fondo. Non possiamo ignorare il fatto che la pesca sembra esser stata dovunque il fermento di una vita marittima. A un mare povero di pesce manca uno dei suoi elementi piú immediati di attrazione, per altro abbiamo visto come questa mancanza possa essere una sfida a ricercare quell’elemento fondamentale della marineria che è dato dalla costruzione di più ampi orizzonti rispetto a quelli locali.3 Non vi è, in tutto ciò e l’abbiamo ben visto, nessun legame diretto, semplice e immediato, nessun 1 Anch'esse sono attestate per la prima volta per l'isola di Samo, all'epoca di Policrate (Erodoto, iii, 45). 2 S veda F. C. Lane: “L’architettura navale intorno al 1550” in op.cit. 3 In tal senso ci pare sbagliato l’assunto di Ribeiro (op.cit.): “Donde, malgrado l’antica origine dei primi successi della navigazione nel mondo occidentale, la permanenza del carattere rudimentale delle tecniche navali e l’assenza di autentiche popolazioni marinare, come i Polinesiani e i Normanni, caratterizza il mediterraneo.” Ciò sembra forse calzare per i liguri, per i catalani, i fenici, i greci, per Venezia e chissà per quante altre popolazioni presenti in questo mare?

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determinismo, piuttosto troppo si è trascurata la connessione tra gli spazi interni, il cabotaggio e lo sviluppo della marineria che resta l’altro polo dello sviluppo nautico proprio del Mediterraneo. Abbiamo già cercato di rivalutare questo legame tra le città porto e le acque interne partendo da un punto di vista sia infrastrutturale che di gestione delle risorse dell’ecosistema, ma non possiamo in alcun modo trascurare il significato che tale apporto ha espresso anche da un punto di vista della mobilità, del vettore di trasporto rivolto a un orizzonte minore e misto di acque interne e di cabotaggio. Quali sono i vettori di quegli spazi lagunari per altro legati anche a itinerari fluviali che da Ravenna a Trieste, passando per Venezia, sia in senso geografico che temporale, hanno fatto dell’Alto Adriatico un epicentro dello sviluppo mercantile? Per ricostruire per quanto possibile il profilo di un bastimento da carico dei tempi dell’alto medioevo, Rubin de Cervin1 si è servito di un manoscritto cartaceo del 1311 noto come lo “Zibaldone da Canale” che, oltre a contenere notizie varie relative alla mercatura allora corrente negli empori del Levante, riporta il disegno di una nave tonda a due alberi attrezzata “alla latina”. Anche se elementare nel suo schema, l’incisione è ricca di particolari che si possono leggere sia nei garbi dello scafo come nel suo piano velico. La ruota di prua, ad esempio, rivela un profilo che a Venezia rimarrà immutato nei secoli ripetendosi uguale nella peata e così pure nei trabacoli da carico e da pesca dell’Adriatico. Non ha incastellature, ma solo una piccola tuga sull’alto della poppa ove doveva allogarsi la timoneria e di sotto a questa una leggera balconata sostenuta da mensole ed un’altra simile all’estremità della prua. Il timone è ancora doppio, messo ai due lati, formato a foggia di pala come un grande remo, col suo assero che passa attraverso un collare necessariamente largo perché abbia modo di ruotare secondo inclinazioni diverse, protetto nella sua parte alta da un targone dal quale sporge oltre il capo di banda. Le linee che corrono lungo lo scafo si possono interpretare come quegli ordimenti longitudinali detti “bottazzi” che si sovrapponevano lungo i corsi del fasciame a proteggerlo da offese eventuali, comuni sia sui mercantili del Mediterraneo come in quelli dei mari del Nord. Ora se osserviamo una peata, un trabaccolo, la parentela vi appare stretta con quelle barche che consentono usi promiscui come le rascone e che servono a risalire i fiumi. Non solo nella progettazione degli scafi in cantieri, anche fluviali, che usano la progettazione con sezioni “a terzo”, ma negli intrecci che si danno a livello produttivo tele per vela cordami e fili per sartiame e per reti, etc. COSTI, PRODUTTIVITÀ E AFFIDABILITÀ: PARANZE, LANCETTE E BRAGOZZI.

Restando nel tema delle imbarcazioni da pesca e restando nello spazio adriatico emergerà la vivacità di questa matrice e una complessità di fattori influenzanti le scelte tecniche, la relativa flessibilità di queste imbarcazioni ed ancora una volta il 1 G.B. Rubin de Cervin: “La Flotta di Venezia”, Milano 1985

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rapporto tra scafo e vela in funzione della minimizzazione del numero dei membri di equipaggio atto a governare l’imbarcazione stessa, una sintesi questa che ha mantenuto in vita fino a tutta la prima metà del Novecento, una facies nautica di straordinaria vivacità. Così la lancetta,1 usata dai pescatori di Civitanova, Porto Potenza Picena e Porto Recanati e da quelli immediatamente a nord, fino al Conero, ed a sud, fino a Porto San Giorgio, è stata, almeno dalla metà dell’Ottocento fin verso gli anni Sessanta del nostro secolo, una delle tipiche imbarcazioni per la pesca costiera usata dai pescatori di quasi tutto il litorale adriatico, sia pure con differenze nella forma e nella grandezza dello scafo e delle vele e nel numero di queste. Tali imbarcazioni, chiamate bragozzi a Chioggia, lancette nelle Marche e paranze2 in Abruzzo, è probabile che abbiano avuto tutte la stessa origine.3 I primi bragozzi, lancette e paranze ebbero probabilmente la prua slanciata come quella della rascona ma subirono modifiche, nella forma di essa come in altri particolari, sia per l’uso diverso al quale queste imbarcazioni erano destinate, e cioè la pesca, sia per la differente conformazione dei fondali e dei litorali delle zone in cui venivano usate.4

1 il nome è una contaminazione della parola launch (=lancia), con la quale gli inglesi classificavano qualsiasi imbarcazione a poppa quadra della lunghezza fuori tutto di metri 10-10,50, misura che corrisponde esattamente alla lunghezza standard della lancetta,La lancetta aveva una larghezza da metri 3,50 a 4 ed un'altezza al centro, dal fondo della chiglia alla coperta, di metri 1,30 circa. La poppa era quadra, ma con gìi angoli arrotondati ed i lati leggermente bombati, la prua tonda ed alta con la "ruota", che negli esemplari costruiti nel nostro secolo era leggermente ricurva all'indietro e terminante con una caratteristica parte sporgente (lo pizzo); il fondo era quasi piatto, con la chiglia che usciva appena fuori e con due longheroni longitudinali, chiamati anche "falsechiglie" (li vasci), ai lati di essa, che servivano da piano di appoggio e scorrimento per il varo ed il ritiro a terra. Le fiancate erano quasi diritte, con una curva che le raccordava al fondo piatto. La lancetta era pontata per tutta la sua lunghezza con una coperta completamente sgombra, ad eccezione di due boccaporti di accesso alla stiva, uno piccolo a prua sulla sinistra ed uno più grande a centro a poppa, tutti e due con portello di chiusure Le murate, molto robuste, basse a poppa ed al cen tro, divenivano poi sempre più alte fino a raccordarsi con il terminale della "ruota" di prua; potevan essere inseriti in appositi f--,i sulle murate quattro scalmi in legno per i remi, due verso prua e due verso poppa. ( traggo queste come le informazioni delle note seguenti dal lavoro di Dante Cecchi: op.cit. ) 2 da paro=paio, perché pescavano in coppia 3Secondo George Goldsmith Carter, esperto conoscitore ed illustratore di navi a vela, deriverebbero tutte da un'imbarcazione veneziana chiamata rascona, barca da carico per piccolo cabotaggio ancora in uso nei primi anni dei Novecento, dalla prua slanciata, attrezzata con due alberi, con il timone ridotto ad un solo grande remo a dritta della poppa, con vele molto colorate ed uno scafo abbastanza profondo che era una specie di incrocio tra quello "lungo" tipico dei Mediterraneo e quello "tondo" nordico, con prevalenza, se mai, di quest'ultimo. 4 Conservarono forse maggiore rassomiglianza con la rascona i bragozzi e le paranze, che mantennero dimensioni più grandi della lancetta e conservarono i due alberi, che nella lancetta si ridussero ad uno.

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La lancetta, subì, rispetto alla rascona, sensibili modifiche sia nello scafo che nella carena, divenuta piatta per consentire il suo giornaliero ritiro a terra, come nella poppa e nella prua, più piene ed arrotondate e perciò più robuste ed adatte all’onda corta dell’Adriatico, anche se a scapito della velocità che, utile nella rascona per abbreviare il trasporto delle merci da un posto all’altro, serviva meno in una barca destinata alla pesca. Gli alberi furono ridotti da due ad uno per la ridotta dimensione dell’imbarcazione, raramente più lunga di 11 metri, e per rendere più facile la manovra della velatura da parte dell’equipaggio, ridotto a due soli uomini. A causa della sua chiglia quasi intieramente piatta, eccezion fatta per le due falsechiglie che servivano solo da piano d’appoggio per l’alaggio e funzionavano ben poco da deriva, la lancetta, sia pure col grande timone che ne era la deriva principale, non era certamente una barca con spiccate caratteristiche nautiche, e le sue pecche erano quasi certamente superiori alle sue virtù, specialmente se si pretendeva di prendere il mare anche col tempo brutto. Navigava bene solo con andature portanti con venti a favore di lasco, gran lasco e poppa, male di mezzanave e molto male sia di bolina larga che stretta. Né era possibile modificare la chiglia, perché la mancanza di un porto con acque abbastanza profonde ed il fatto che doveva essere, quindi, ritirata a terra ad ogni ritorno dalla pesca avevano condizionato le sue forme e le sue caratteristiche. Si consideri, inoltre, che l’equipaggio era di due soli uomini perché, se ne fossero stati di più, una volta diviso il pescato, la parte assegnata a ciascuno sarebbe stata troppo misera perché con il ricavato si potesse vivere.1 La forma della prua, alta e rotondeggiante, e quella della poppa, piena, erano una delle caratteristìche, di tecnologia adeguata propria della lancetta: l’Adriatico, infatti, è un mare stretto, con le due coste non molto lontane l’una dall’altra, e tale situazione, con venti forti, causa onde serrate, le quali, se avessero colpito ad intervalli molto brevi una barca con la prua sganciata e tagliente e con una poppa a

1Tutto ciò, con la necessità di contenere il più possibile il prezzo di acquisto, aveva fatto semplificare al massimo attrezzature e velatura, escludendo anche la possibilità di poter adottare, per esempio, lame da deriva mobili in legno applicate lateralmente sulle fiancate, come da secoli esistono sulle barche nordiche, o una lama centrale in ferro rientrante in una cassa di deriva, che avrebbero dato all’imbarcazione maggiore stabilità e permesso di mettere a prua un bompresso fisso a sostegno di fiocchi degni di questo nome: si pensi che, quando la lancetta issava due fiocchi, quello supplementare aveva, al posto dell’asta, uno dei due lunghi remi in dotazione! Così, anche con vento favorevole, la lancetta non riusciva ad effettuare una virata in prua se non con l’aiuto dei remi o compiendo una specie di marcia indietro con la vela tenuta a collo a forza di braccia. Priva dell’effetto controbilanciante di una chiglia profonda o di una deriva, la lancetta riusciva a non sbandare eccessivamente sotto vento forte solo grazie alla sua eccezionale larghezza, ma ciò poneva sotto sforzo eccessivo l’albero ed anche la vela, che era veramente enorme rispetto allo scafo per poter imprimere una sufficiente forza propulsiva ad una barca pesante, con una prua quasi piatta, e che si trascinava dietro una rete di notevoli dimensioni avente un effetto frenante che è facile immaginare.

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canoa, le avrebbero impresso un continuo e tale beccheggio da rendere la vita a bordo quasi impossibile, ed impossibili le operazioni di pesca.1 L’unica vela rimasta divenne in compenso molto grande rispetto allo scafo, allo scopo di ottenere una forte spinta propulsiva per vincere l’effetto frenante della rete da pesca; il remo di governo fu sostituito da un grande timone sfilabile “a calumo”, ossia con paia molto più immersa dello scafo perché avente funzioni anche di deriva. Ma della rascona la lancetta conservò le caratteristiche costruttive, la vela “al terzo”, dipinta a vivaci colori, bomata e con pennone, la semplice attrezzatura delle manovre correnti ed i caratteristici “occhi ai due lati della “ruota” di prua.2

1 Invece la lancetta, così com’era, ed anche con mare grosso, frenata dalla rete che trainava ed ai cui strappi all’indietro rispondeva con la grande spinta di galleggiamento data dalla poppa rotonda e piena, con la prua che, rotonda anch’essa, non si immergeva molto, riusciva a navigare senza beccheggiare quasi affatto; l’altezza della prua, inoltre, impediva che le onde che si frangevano sulla sua fronte piatta arrivassero sul ponte. Infine, il cavo della rete, fissa, o sia a prua che a poppa e che logicamente rimaneva sempre sopravvento, impediva all’imbarcazione di sbandare troppo e contrastava la spinta laterale della vela e dell’eventuale fiocco eliminando così, in buona parte, anche il rollio, rendendo la barca incredibilmente stabile. La barra del timone in questo caso veniva fissata con un cavo e la barca, sempre con venti portanti, procedeva sicura e si governava da sola. In tali condizioni la lancetta, anche se la sua chiglia piatta causava uno scarroccio necessariamente forte (andava a sanno, come dicevano i marinai)dava il meglio delle sue prestazioni: “con il suo albero inclinato verso prua, la grande vela ed il fiocco gonfi di vento, era simile ad un enorme animale da tiro, curvo in avanti e teso nello sforzo immane di trainare la rete, come un bove possente l’aratro.” 2L’albero, di legno di larice o di pino, a sezione tonda e rastremato verso l’alto, di lunghezza eguale a quella della barca, era spostato verso prua e p costruzione inclinato verso di questa, per non contrastare la forza del vento; uno dei paranchi fissati in esso serviva per sollevare il sacco della rete da pesca, un altro per issare la vela, altri per usi vari e con funzioni anche di sartie. La grande vela, in robusta tela olona, era trapezoidale, colle basi rispettivamente di m 4 e 14 circa e l’altezza di m 11, e colorata con terre e tinture contenenti sostanze tanniche che ne prolungavano la durata formando uno strato di protezione che impediva anche la formazione di muffe: di solito si usavano terre d’ocra, infuso di corteccia di pino ed un po’ di olio di lino cotto. Veniva colorata su ambo i lati, arrotolata e tenuta così per un giorno intero; poi si faceva asciugare ai sole per un’altra giornata, si bagnava con acqua di mare, si rifaceva asciugare definitivamente, dopo di che era pronta per l’uso. Le lancette erano dotate di tre fiocchi, uno grande, uno medio ed uno piccolo, detti rispettivamente la menzana, la menzanella e la polacchina, anch’essi in tela olona; di solito la barca issava un solo fiocco, a seconda dell’intensità del vento, ma a volte ne issava due. ai lati della prua, di rilievo, erano i caratteristici “occhi” in legno: aventi la forma di due grandi virgole disposte orizzontalmente con il “gambo” rivolto all’esterno della ruota di prua, erano ricavati da un sol pezzo di legno di olmo. Di origini antichissime e simboleggianti per gli Egiziani l’occhio protettore dei dio Horus (oro) e per i Cretesi della dea madre Rea, furono poi adottati dai Greci, dai Romani e da quasi tutti i popoli mediterranei come espressione della fede in una divinità protettrice il cui sguardo dalla prua spazia vigile sul mare.

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Per le scarse o quasi nulle qualità boliniere della lancetta, i marinai uscivano per la pesca solo quando erano sicuri che avrebbero avuto dei venti portanti che soffiassero dal largo o lungo la costa e che soprattutto fossero favorevoli al rientro1. L’affidabilità di una tale imbarcazione la cui permanenza è stata così rilevante nel tempo è espressa anche dalla funzionalità della sua coperta: ampia, quasi del tutto sgombra all’infuori dei due boccaporti, permetteva, specie verso la prua, riparata dall’alta murata, una comoda cernita del pescato uscito dalla “saccata”; sotto coperta lo spazio era molto, ma per la scarsa altezza, un metro circa, si poteva procedere solo stando curvi o sostare seduti o sdraiati, ed i marinai stavano sempre in coperta, uno attento al timone e l’altro nella zona più riparata di prua oppure, nelle lunghe ore della pescata, sotto coperta a poppa, a dormire un po’. Le murate basse davano poco riparo e sicurezza, ma erano funzionali per la manovra dei cavi di traino della rete e per il ritiro di essa a bordo.

1 Il terrore dei pescatori delle lancette erano i venti forti -spiranti da terra verso il largo, libeccio (garbì) o ponente oppure un improvviso vento da bora o da levante, che in breve tempo sollevava il mare in grosse ondate. Se sorpresi in mare da una “ponentata” o da una “garbinata”, i marinai erano nell’impossibilità di tornare a terra per il forte vento contrario e non restava loro altro scampo che navigare lungo la costa cercando di allontanarsi da essa il meno possibile o gettare in mare tutte e due le ancore (l’una, detta lo ferro, pesava circa 40 kg; la seconda, lo rampì, circa 25), con la speranza che reggessero, per aspettare che cessasse o almeno diminuisse la prima furia dei vento. Più di una volta alcune lancette arrivarono, per sfuggire alla tempesta, fino a Pescara o ad Ancona o furono rintracciate dopo lunghe ricerche in alto mare da mezzi della marina militare e rimorchiate fino a terra. Con la bora ed il levante, invece, era lo stato del mare che rendeva a volte impossibile il rientro. Le lancette, costrette in quelle condizioni ad ammainare la vela ed a togliere il timone ad una certa distanza dalla riva, erano difficilmente governabili in mezzo alle grosse onde che si frangevano sui bassifondi (chi è stato sulle spiagge delle Marche nei giorni in cui spirano tali venti ricorderà la spumeggiante linea di “cavalloni” parallela alla spiaggia che si forma al largo e si abbatte sulla riva) e se si ponevano di traverso prima che gli scalanti, cioè gli uomini addetti a tirarle in secco, ai quali si univano subito tutti gli uomini e le donne di Civitanova o Porto Recanati o Porto Potenza Picena che accorrevano sui lido, potessero in qualche modo assicurarle con i cavi e guidare il rientro, finivano di traverso sulla spiaggia e rimanevano lì, sotto le ondate che spesso le demolivano. Questo era uno dei pochi casi in cui si poteva verificare che una lancetta si sfasciasse completamente, poiché per la sua robustezza di costruzione era difficile che andasse perduta per arenamenti, collisioni in mare (fra gli attrezzi di bordo c’era anche un grosso corno di bue, che i pescatori suonavano vigorosamente tra la nebbia per evitare collisioni) ed anche capovolgimenti, dato che con i boccaporti chiusi l’imbarcazione era quasi a tenuta stagna e si manteneva a galla per l’aria che rimaneva entro di essa. “Si sa di lancette tornate a riva capovolte, con i marinai sopra la chiglia, l’albero spezzato e senza il timone o con la vela a brandelli, ma si conoscono rari casi di lancette affondate. Una di esse ebbe una collisione con una nave che la tagliò quasi in due, eppure si riuscì a riportarla a riva. Nel 1946 una lancetta urtò con la prua una mina che, forse per difetto d’innesco, esplose qualche secondo dopo, quando la barca l’aveva ormai sorpassata di una ventina di metri: la lancetta non riportò alcun danno”

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PRESTITO CLASSICO E PRESTITO ARABO

Rare e frammentarie le cognizioni che si hanno riguardo ai navigli dei Venetici durante il periodo bizantino e tardomedioevale, ma si può ritenere che sempre vi perdurasse la divisione fra “navi tonde” e “navi lunghe”, le prime mosse dalla forza del vento, le seconde da quella remiera. Erano concezioni e parametri che dovevano risalire ai tempi classici ed è possibile che pur attraverso successive mutazioni avvenute per gradi, dalle corbitae romane discendessero quei tipi di navi di cui, ad esempio, leggiamo la terminologia negli Statuti Marittimi Veneziani del XII secolo1. Costituiscono in effetti forse il più complesso documento di polizia navale che si conosca e danno un quadro, sia pur schematico, del naviglio mercantile esistente a Venezia in quel secolo. Riguardano di massima certi bastimenti che sono definiti col termine generico di naves, ma includono anche disposizioni per altri indicati come banzoni vel buzi naves di cui l’identità rimane ancora incerta. La legislazione dello Zeno (1255) si articola in due parti: la prima dispone ancora per le naves, mentre la seconda prescrive le norme che si addicono alle tarrete, dal che si desume che queste ultime fossero una classe a sé, e probabilmente di dimensioni minori. La navis ha due alberi, “di cui il prodiero è fortemente inclinato in avanti e tenuto su saldamente da quattro manovre “dormienti” per banda, che vanno ad incappellarsi presso la cima sopra la quale si osserva la coffa, o cheba in veneziano, questa di forma cilindrica, fatta con doghe di legno simile a botte vinaria, od anche a volte di vimini intrecciati. Le vele triangolari sono inferite e poi serrate sulle antenne, guarnite in basso da un paranco o “caricabasso” e nell’alto da due mantigli di ritenuta che dalla “penna” scendono giù in coperta. Gli Statuti dello Zeno elencano anche il giuoco di vele che le naves et alia ligna di determinata portata dovevano tenere a bordo, quali l’artimone, il terzarolo, il dolone ed il parpaglione che potevano mutarsi secondo la forza del vento e lo stato del mare, e sono le stesse voci che il poeta didascalico Francesco da Barberino (1294-1348) ripete nei suoi “Documenti d’amore”: “Vele grandi e veloni terzaroli e parpaglioni”. Si tratta dunque di terminologie che risentono ancora dell’epoca classica visto che il nome di dolon lo si ritrova attestato presso vari autori latini fra i quali Livio che lo definisce “minimum velum et ad proram defixum.”2 Ma rispetto all’epoca classica abbiamo il fatto che la vela che è sulla scena non è più la quadra ma la latina.

1Si tratta di un Corpus di diritto marittimo che sembra traesse le origini dal iottos icevrtvos bizantino dell’ottavo secolo riveduto e compilato in seguito da legislatori veneziani durante i dogadi di Pietro Zani, Jacopo Tiepolo e Rainieri Zeno e finalmente riveduti dalla Corte dell’Esaminador. 2 In G.B. Rubin de Corvin: op.cit.

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E’ possibile avanzare l’ipotesi che la stessa attrezzatura fosse comune alle diverse categorie di onerarie non solo nella marineria veneziana, ma in tutte le altre del Mediterraneo. In effetti la velatura detta “latina”, ed anche quella “al terzo”, era nettamente superiore alla “quadra”, perché permetteva ai bastimenti di stringere il vento, anche se pericolosa con l’andatura “al gran lasco” o in “fil di ruota”, ma, esiste un ma, tale imbarcazione richiedeva per contro un equipaggio più numeroso per via delle sue complesse manovre nelle virate e nei cambi di vele. Per la manovra delle vele triangolari, che avevano raggiunto spesso proporzioni pericolose specialmente quando si andava col vento “in fil di ruota”, occorreva un gran numero di uomini e lunga e precaria era l’operazione del cambio delle vele. Prima del 1300 tutti i grandi velieri del Mediterraneo erano imbarcazioni con vele latine a due alberi, la forma classica del mercantile del ‘400, ma ecco che iniziano ad essere nuovamente importanti le presenze di imbarcazioni con un solo albero piantato al centro, sormontato da una larga coffa circolare. La vela è la grande quadra o cochina che però può essere ridotta sfilando via le bonete che sono i lati più bassi inferiti lungo il bordame inferiore senza che vi sia la necessità di ammainare completamente il pesante pennone. D’ora in poi, mediante un’armonica suddivisione delle vele disposte su più alberi e con la latina ridotta su quello di poppa, il numero dei marinai può limitarsi allo stretto necessario1. Alla metà del secolo la maggior parte dei mercantili corrispondeva ormai a imbarcazioni più semplici e di stazza ridotta rispetto a queste, si afferma il tipo definito cocca.2: le cocche portavano un grosso albero maestro a vela quadra, e nel Mediterraneo forse anche un albero piú piccolo a prua con vela latina. Invece dei timoni laterali usati dalle latine le cocche erano dotate di una barra fissata al dritto di poppa.3

1 Col succedersi delle spedizioni crociate, anche dall’Inghilterra gli armati di Riccardo approdano in Terra Santa e per la prima volta nella storia navi inglesi e navi latine si trovarono vicine in Mediterraneo. Agli occhi dei Veneziani e dei Genovesi quelle navi hanno un aspetto assai diverso dalle loro, e sono infatti più piccole e basse sull’acqua e portano un albero solo piantato nel mezzo con una grande vela quadra sopra la quale spiccano a vivaci colori le figure di leoni, ippogrifi ed altri simboli araldici, ma, e ciò è la differenza fondamentale tra i legni del nord e quelli del sud credo è data dall’impostazione del fasciame: qui,. secondo una consuetudine antichissima, i corsi delle tavole si mettono a combaciare fra loro in modo da formare una superficie piana e uniforme, lì invece gli ordimenti si sovrappongono con l’orlo della tavola superiore che poggia sopra quella inferiore. Così erano costruite le imbarcazioni dei Vichinghi e dei Normanni così lo sono le inglesi che certamente da quelle derivano. 2 E’ probabile che il termine derivi dal fatto che le loro caratteristiche provengano da una nave sviluppata in precedenza nel Mare del Nord o del Baltico, detta kogge 3 La superiorità meccanica del nuovo tipo di barra è tutt'altro che dimostrata, come i vantaggi relativi della vela quadra rispetto alla vela aurica, sia per le grosse barche a vele latine del Duecento che per le cocche del periodo successivo è praticamente impossibile navigare controvento, data l'altezza del castello e la lunghezza esigua della chiglia rispetto alla larghezza; tutte queste barche si muovono solo con vemti portanti, si può sostenere che la grande vela

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Così un nuovo tipo di nave, capace di spodestare la galera fu creato dalla trasformazione del sartiame della nave tonda verificatasi nel corso del secolo XV, nonché dall’evoluzione delle armi da fuoco. La trasformazione della cocca a un albero in un tre alberi con velatura piena, dotato di vela di bompresso, vela di gabbia e vela latina avvenne intorno alla metà del secolo, e possiamo configurarla come una ibridazione della esperienza europea con quella mediterranea.1 E’ possibile che il cambiamento della velatura non incidesse più di tanto sulla velocità della nave, ma comunque la rese assai piú economica e dal punto di vista della sicurezza, i vantaggi offerti dalle galere grosse e dai remi furono di gran lunga compensati dalla velatura della nave tonda, oltrechè da un cambiamento dovuto alla introduzione delle armi da fuoco prima e dell’artiglieria subito dopo. E qui crediamo che sia da ricercare la vera ragione della scomparsa dai libri ufficiali della Serenissima delle tarrete e della crisi delle altre navi armate unicamente “alla latina”, una ragione soprattutto economica dalla quale in definitiva doveva dipendere la fortuna dell’impresa armatoriale. Ma è questa per il mediterraneo una scomparsa molto relativa: se dal Tirreno al mediterraneo occidentale l’iconografia fino a quella ottocentesca continuerà a proporcene sotto molteplici nomi l’immagine. Guardiamone le caratteristiche salienti. Riguardo alle tarrete, Marin Sanudo Torsello le descrive come aventi “vasa longa bene ad orzam”; comunque presso gli autori la voce muta talvolta in tarida con le varianti di taria, targia, tarita, dalle quali nel secolo XV deriverebbe la tartana. Ora la tartana è una imbarcazione particolarmente importante nel mediterraneo occidentale dove si attraversa il golfo del leone con grandi lascate, ed è una imbarcazione che ha continuato a sopravvivere ben dentro il XX sec., in funzione di trasporti veloci, ad alto valore aggiunto, in funzione di avventure di capitani coraggiosi liguri e provenzali operanti anche su rotte oceaniche.2

quadra funzioni bene col vento in poppa, lavorando un po’ come gli attuali spinaker, ma nei viaggi relativamente brevi, nel cabotaggio costiero la vela latina consenta dei bordi migliori di lasco e legata a profili più filanti presenti una maggiore facilità di manovra. 1 Gli specialisti insistono sulla grande importanza del cambiamento, ad esempio, sostiene che l'aspetto dei velieri appaia meno diverso da quello dei velieri del 1785 che non da quelli di un secolo precedente. 2 Si veda J. Poujade: op. cit.

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CAPITOLO XI LA LOGICA DI DIRETTRICE UNA IMMAGINE COMPATTA MA BEN ARTICOLATA

La prima constatazione che si può fare in merito alla città-porto del Mediterraneo è la sostanziale, estrema compattezza che la caratterizza, almeno fino alle soglie del nostro secolo. Se i porti delle città atlantiche o del mare del Nord sono caratterizzati dalla presenza di avamporti, retroporti, articolazioni territoriali di bacino molto ampie, cosicchè essi non appaiono come una pura sequenza di azzonamenti ma come una vera, complessa nodalità trasportistica ed insediativa,1 il carattere primo dei porti del mediterraneo è quello, quasi opposto, di apparire nella loro più completa e serrata compattezza, fondata non solo su alte densità insediative e su promiscuità di attività ma anche su espressive integrazioni funzionali. Per comprendere come questa connotazione sia un vero aspetto portante di una strategia macrourbanistica ci possiamo riportare a una di quelle manifestazioni originarie dello sviluppo delle repubbliche marinare che bene ci è espresso dalla comparazione di due porti primari quali quelli di Genova e di Marsiglia. A Marsiglia le relazioni terrestri sono relativamente facili, nulla di comparabile con i percorsi accidentati, pericolosi, esposti agli attacchi dei briganti che i mercanti di Genova debbono prendersi in carico con costi molto elevati in quel retroterra appenninico. I centri dell’approvigionamento agricolo relativamente vicini e le loro esitazioni facilmente sfruttabili, configurano un ampio ventaglio di accessibilità, per altro vi sono in rapporto a questa stessa rete e al commercio della valle del Rodano Arles e Port de Buc che divengono porti a cui ci si rivolge direttamente ( e in particolare da parte della concorrenza genovese ) per gli approvigionamenti granari.2 Alla fine del XV sec. tutte le transazioni di questo piccolo ma importante punto di rottura di carico ( Port de Buc, il porto della bocca del Rodano ) venivano decise dalle piazze finanziarie di Martigues e di Avignone.3 A Marsiglia, quasi a continuare un antica dialettica classica tra acropoli ed agora, la ville haute , la città episcopale, con giurisdizione propria e un proprio porto, si contrappone alla ville basse, amministrata dal Comune.4

1 Si veda ad es. L. Pierrein: “ La circulation maritime” in AA,VV: “ Géographie générale”, Gallimard, Parigi, 1966 2 si veda J. Heers: “ Paysages urbains et sociétès dans les différents types de “villes portuaires” en Méditterranée occidentale au Moyen Age”pp. 11-27 in ( a cura di ) E. Poleggi: “ Città portuali del Mediterraneo “, Sagep, genova, 1989 3ibid. 4 ibid.

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A Marsiglia si tiene fiera due volte all’anno ( se ne sentiva evidentemente il bisogno ) a Genova non si da analogo bisogno i ritmi dello scambio essendo qui estranei alle pulsioni di un calendario delle stagionalità. A Marsiglia i mercanti della città svolgono una intensa attività extramoenia, rifornitisi alle fiere di Lione e di Ginevra, quando non di Parigi, percorrono i borghi, i castelli, le contee della regione per conseguire esiti economici attraverso uno scambio diretto, a Genova nulla di tutto ciò.1 A Marsiglia le vie prossime al centro si presentano, come nelle città medioevali dell’interno, attraverso il concatenarsi delle organizzazioni di mestiere e senza rapporti diretti con il porto, la loro ecologia produttiva e degli scambi si organizza internamente ad una specifica specializzazione produttiva, a Genova sono le attività portuali ad improntare la matrice delle attività2. Tre elementi caratterizzano in modo contrapposto Genova rispetto a Marsiglia: 1) Genova appare una città molto più compatta, prima di tutto per il sistema viario e dei trasporti: non vi esiste l’uso dei carri, tutto si fa a soma attraverso carovane di muli, o al più certe importazioni si fanno per barca attraverso lo sbocco del colle del Turchino a Voltri dove le merci vengono imbarcate su piccole scialuppe. Così l’approvigionamento minuto della città partecipa direttamente della vita portuale, il porto è al centro della vita quotidiana stessa della città3. 2) Nel 1134 il Comune di Genova obbliga tutti i frontisti del porto a predisporre dei portici perfettamente regolari e allineati, una vera via coperta pubblica in cui il comune percepirà gli affitti e assegnerà gli stalli, i banchi, gli emboli e getterà le basi per la costruzione di una facciata prestigiosa lasciata alla attività privata dei proprietari.In questo quadro di mobilitazione delle risorse finanziarie nello stesso anno il Molo Vecchio e quello della Lanterna, verranno omologati alla condizione di “opera pia”, cosicchè potranno, come gli ospedali, gli ospizi e i conventi, essere oggetto di lasciti testamentari, divenendo un importante elemento di identificazione simbolica del paesaggio municipale, della coesione pubblico- privato operante nello sviluppo della città, come ci attesterà molti secoli più tardi quel lascito del conte di Galliera, da cui prenderà le mosse la costruzione del molo della Lanterna.4

1 si veda J. Heers: “Genes au XV siècle”, Flammarion, Parigi, 1971 2 ibid. 3 ibid. 4“Perché dovrei parlare dei portici costruitivi sopra? Perché di quella torre bellissima congiunta ad esso per mostrare di notte l'ingresso del porto alle navi affinché, spinte dalla tempesta, non cozzino contro gli scogli o contro le vicine spiagge? Questa costruzione è di tal fatta che è difficile giudicare se sia di maggior costo o meraviglia: infatti, per Dio immortale, i nostri scrittori riferiscono quanto danaro impiegarono i nostri avi per quest'opera; e si è diffusa l'opinione che ad un così alto costo si sarebbe potuta costruire una città non piccola'. Ma d'altra parte è così meravigliosa che ha uguagliato per fama il famoso Píreo di Atene, celebrato da molti scrittori, e ha superato il porto di Rodi o di Napoli: infatti sia che tu vada tra gli Arabi, i Britanni, gli Sciti, gli Indi, vedrai che ovunque è giunta la fama di questa mirabile costruzione.”

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3 ) il tessuto urbano è pervaso dalla presenza di fondachi, e questi portano i nomi delle famiglie, delle grandi famiglie allargate genovesi, sono il riferimento primo e terraneo dell’albergo che organizza estesissime alleanze strutturate nella verticalità delle case a torre, sono il cuore della contrada, corte e nucleo microurbanistico dell’isolato in cui si confermano le solidarietà di una gens. Una seconda tipologia, strettamente connessa con i fondachi, è espressa dalle stationes, anche esse familiari, anche esse appartengono e portano i nomi delle grandi famiglie, sono queste delle corti chiuse, con magazzini coperti e caravanserraglio di lunghezza di 15-20 metri., è in esse che vengono a scaricare le loro balle i Piacentini, i Lucchesi, i Romani.1 Da fondachi e staziones “Prendono così forma gli alberghi, che sono sia organismi socio-politici perché tra i membri di questi vengono scelti gli uomini che ricoprono le più importanti magistrature, sia istituti a carattere demo-topografico, interessati alla gestione comune di certi spazi ( piazze, logge, chiese ). Persino i passaggi di proprietà all’interno delle mura sembrano essere condizionati dal rispetto della contiguità di residenza tra i componenti di uno stesso parentado e gli Statuti della repubblica riconoscono questo particolare diritto sociale delle famiglie” 2 I NON INUTILI PANEGIRICI DELLA SUPERBA

“Dapprima parlerò della posizione e della bellezza della città, poi delle ricchezze, infine della nobiltà. Chi non riterrà incomparabile la sua posizione, ammetterà di non conoscere cosa si debba ammirare o desiderare in una città:”3 Così, ponendosi nel consueto solco del panegirico della città, inizierà l’Anonimo autore della “ Collaudatio quedam urbis Genuensis”4,proseguendo poi con l’analisi del sito: “è infatti situata nel golfo ligure, a tergo è difesa dai gioghi degli Appennini e di fronte è cinta da altissimi flutti, in modo da essere sicura dalle incursioni dei popoli confinanti e dagli assalti dei pirati. Rende notevole questa posizione soprattutto il fatto che la città stessa è posta quasi al centro della riviera ligure, in modo che, essendovi di qua e di là castelli molto muniti e forti ed alcune città illustri, è posta per così dire, tra ali di cavalleria ed è indubbiamente una posizione molto adatta per dominare e tenere i popoli sottomessi.”5

1 si veda J Heers: op.cit 1989 2 si veda J: Heers 1971 3 La ornano case degne di re, poste in faccia al mare, le cui fondamenta sono lambite incessantemente dalle onde marine; la ornano come stelle splendenti moltissime torri disposte qua e là, sia per abbellimento, sia per difesa. In G.Petti Balbi: “Genova medioevale vista dai contemporanei”, Sagep, Genova, 1979 4 Collaudatio quedam urbis Genuensis” 5 ibid.

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Ed ecco aprirsi, quasi ad illustrare un portolano, il quadro delle rotte rispetto ai venti: “Si aggiunge una straordinaria opportunità per la navigazione: qui si apre infatti un facile e rapido percorso verso qualunque regione e lido.”1 E poi ecco ripresa l’importanza della costruzione artificiale del porto: “Che dovrei dire del suo aspetto? Perché non chiameremo a ragione opera divina questo nobile porto, costruito dalla mano e dalla fatica dei nostri antenati? Infatti è stato costruito piuttosto da arte divina che umana, tra flutti profondi e spesso agitati da frequenti colpi di vento: si estende infatti 800 passi in longitudine e 20 in latitudine.”2 Ne emerge una natura educata al modellamento del manufatto che è prima opera lignea e poi di pietra: “Che dovrei dire dell’altra profonda insenatura che chiamiamo darsena? Chi potrebbe adeguatamente cantarne le lodi, se si guarda alla comodità e alla bellezza? Che cosa di più valido si sarebbe potuto escogitare per la comune”3 Che questa sia una soluzione funzionalmente vincente ce lo testimonia l’iconografia, quella più convenzionale, di maniera, apparentemente disattenta alla personalità di Genova e della ecologia delle sue funzioni intramurali4, o quella che ne configura una topografia posta in stretto rapporto con il definirsi di una geografia umana e ne formula un quadro inventariale, minutamente descrittivo della vita della città porto, vorremmo dire delle sue grandezze di flusso e di stock5. L’ACQUEDOTTO: CIVILTÀ URBANA DELL’ACQUA E DELLA PIETRA.

E da questo punto di vista emergono fatti di grande rilievo nel definirsi del carattere della città porto, così ecco ancora il nostro panegirista che continua: “Perché dovrei ricordare la galleria sotterranea per raccogliere le acque di rifiuto della città e per purificare l’aria ripugnante, che si dirige dal mare fino alle colline, degna dell’opera di Tarquinio? Cosi egli, quando regnava su Roma, la sistemò sotto la città e la fece concava?”6. Così riprendendo, al fine di mostrarne il ruolo straordinario e l’impegno senza pari della città nel conseguire una nuova dimensione di urbanità, il parallelo con la storia di Roma7, egli fissa un elemento topico della città mediterranea: l’acquedotto, questa “seconda natura” da cui un personaggio come Ghoete resterà profondamente

1 ibid. 2 ibid. 3 ibid. 4 come quella del “Supplementum Chronicarum” di Giacomo Foresti del 1490 5 la veduta di Cristoforo Grassi del 1597 ma su un originale assegnabile al 1481 ha la minuzua realistica già dei cabrei 6 sempre nel Collaudatio etc. 7 ibid.

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aggiogato1. Ne comprendiamo allora il senso profondo: “Perché parlate dell’acquedotto che giunge a più di sessanta mila passi dalla città? Che cosa vi può essere di più mirabile o di più famoso di quest’opera? L’alveo delle acque scorre infatti non attraverso campi e zone piane e diritte, ma attraverso colli erti, valli, burroni e precipizi, così che la sua altezza in alcuni punti fa stupire chi lo guarda; condotto, quindi in città attraverso declivi su bellissimi ed adeguati aqualizíi di pietra squadrata e con opere costruite allo scopo porta abbondanti acque a tutta la città e con il suo corso ed il suo perimetro non dà meno decoro alla città”2. Questa descrizione ci da tangibile il segno del costruirsi della città attraverso relazioni territoriali che vanno oltre la stessa linea degli spartiacque che la circondano per recuperare il senso di una infrastrutturazione mediterranea di straordinaria importanza, quella appunto dell’acquedotto.3 LE SPEZIE E I CONVOGLI MEDITERRANEI

Nel “liber gazarie”4 che la repubblica di Genova elabora non solo come codice di diritto marittimo ma come regolamento per la navigazione sulle rotte del Mar Grande ( Mar Nero) come su quelle di ponente. Vi sono importanti indicazioni riguardanti i modi di comportamento commerciale da rsipettarsi da parte dei mercanti genovesi ed in particolare vi è tutto un quadro di limitazioni di attività di investimento in campi commerciali, urbanistici ed edilizi all’interno e all’esterno delle “scale” genovesi. Nei provvedimenti decisi dai Consigli di Venezia alla stessa data vi è una minuziosa descrizione del modo di organizzarsi dei convogli mercantili diretti verso levante. Questo ricco patrimonio normativo ci consente una lettura del modi di organizzarsi per direttrici della stessa concezione statale-amministrativa delle due grandi repubbliche marinare. Nei provvedimenti di Venezia è evidente una distinzione tra le galere, dotate di remi, e i tipi di nave che dipendevano esclusivamente dalle vele. “Dopo, il 1329 1e galere usate per il commercio, galee da mercato, furono sottoposte ad un tipo di regolamento particolarmente rigido, determinati contratti in base ai quali le galere di proprietà del Comune venivano noleggiate a operatori privati. Questo tipo di contratto di nolo fu per un certo periodo tanto soddisfacente da far sí che gli incanti si svolgessero quasi ogni anno dal I329 al I534. Prima del 1329, però, o forse del

1 Mi riferisco alle considerazioni eiportate da Ghoete nel suo “Viaggio in Italia” quando giunto a Spoleto descrive le impressioni sull’acquedotto 2 sempre nella Collaudatio etc. 3 l’importanza di tale opera infrastrutturale è quella dell’essere l’antesignana del viadotto termine inglese settecentesco che configurerà un salto nella costruzione dei manufatti stradali superando il limite del solo “passare attraverso” del ponte 4 si veda G. Forcheri: “Navi e navigazioni a Genova nel trecento – il liber gazarie”, Istituto internazionale di Studi Liguri, Bodighera, 1974

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1325, non esistevano. A quell’epoca la politica veneziana oscilla: tra due estremi; le galere di mercato erano di proprietà del Comune e da esso gestite, oppure erano invece private, e proprietà e gestione erano sottoposte a scarsissimi controlli.1 La tipologia dei viaggi che partivano dalla riva degli Schiavoni erano di cinque tipi: 1) viaggi liberi di navi possedute e gestite da privati; 2) viaggi regimentati di navi possedute e gestite da privati; 3) viaggi autorizzati navi possedute e gestite da privati; 4) viaggi di navi possedute dal Comune e messe all’incanto per la gestione privata; 5) gestione da parte del Comune di bastimenti di sua proprietà.2 La “ navigazione libera ”3 - per dirla con Luzzatto4 - non andava esente da regolamenti ed è piú ímportante di quanto in genere non si sia ritenuto. Ogni anno qualche viaggio veniva proibito o incentivato secondo la situazione politica o i risultati dei raccolti di grano. Quando non compaiono istruzioni specifiche riferite ad uno degli altri modi di organizzare il trasporto, possiamo presumere di trovarci di, fronte a un caso di navigazione libera. Erano questi i viaggi nel Mediterraneo occidentale e qualunque viaggio nell’Atlantico intrapreso prima che il Comune di Venezia, nel 1314, cominciasse a finanziare e regolamentare i viaggi delle galere per il Mare del Nord. Quasi sempre il naviglio nell’Adriatico era gestito da questo tipo di iniziativa privata, soggetta alla normativa generale che proteggeva la signoria di Venezia sul golfo. Anche gran parte degli scambi lungo le coste e tra isola e isola nei mari Ionio e Egeo erano ben poco influenzati dalle decisioni del governo. Mentre tutti i trasporti che il Lane definisce da “carretta”5 rimanevano a disposizione della navigazione libera, le navi che seguivano le grandi linee del Levante avevano

1 F.C. Lane: “Le galere di mercato” pag.51, op. cit. 2Nella quinta forma organizzativa il comandante, Patronus funzionario salariato scelto dal Comune. Era responsabile a fronte al doge per gli aspetti commerciali del viaggio. In gestione diretta da parte del Comune l'equipaggio erano gli stessi funzionari che arruolavano la gente per le galere, questi avevano paga e razioni da questi funzionari. L'arruolamento, e la tutela della disciplina in mare erano affidati al Capitanio, ed era a lui che il comandante doveva rispondere, i noli venivano riscossi a Venezia da un particolare gruppi della dogana detti Extraordinarii ". La gestione diretta da parte del Comune non rappresentava una novità. Era stato il Comune a stipulare, nel 1201, appalti per la fornitura di un'immensa flotta per la quarta crociata. Nel 1268 offrí di noleggiare a Luigi IX alcune navi di sua proprietà, oltre ad altre di proprietà di nobili veneziani ". 3 Per “ navigazione libera ” il Lane intende i viaggi pianificati da privati individui, soggetti sí a questi regolamenti, ma in cui i tempi, le rotte, i noli e la scelta del vettore erano determinati sulla base di accordi privati. 4 G. Luzzatto: “Storia economica di Venezia dal XII al XVI secolo, Venezia 1961 5 La navigazione libera era la regola generale per quasi tutti i velieri di piccole dimensioni e anche olte delle grandi navi tonde - le cocche e le caracche dei secoli XIV e XV ". Le cocche e le caracche che portavano cotone e altre “merci leggere ” nel Mediterraneo orientale operavano invece in viaggi “ regolati ”, oppure in flotte “ autorizzate ”, rigidamente organizzate. Queste

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meno libertà. Se portavano i generi di carico piú preziosi - stoffa, contante, lingotti, spezie e altre “merci leggere ” - i loro viaggi erano “ regolamentati ”. La legge stabiliva i periodi in Levante per portarle a Venezia, anche se dipendeva interamente dall’iniziativa individuale, si avevano due mude all’anno, in primavera e in autunno. Le date variavano da regione a regione, e secondo il tipo di bastimento che effettuava il carico. Poiché portavano carichi pregiati, il governo curava con particolare attenzione la protezione delle galere o delle navi tonde delle mude. In alcuni casi, per questi “ viaggi regolati ” stabiliva i noli e altre condizioni economiche. : Quando si riteneva opportuno un controllo piú rigoroso, tutti i bastimenti che progettavano di partecipare a una particolare muda erano tenuti a farsi registrare in anticipo. I proprietari dovevano versare una somma a garanzia del fatto che sarebbero effettivamente partiti.1

Ciò è certamente il sintomo di una struttura degli scambi che si viene modificando. A Venezia il declino delle flotte di galere da mercato è commisurato a quello del commercio delle spezie: “Ciò che prima del 1535 veniva trasportato dalle galere, da questo momento in poi fu caricato sulle navi tonde “2, ma ciò è ancor più il sintomo di un cambiamento militare. Ormai in epoca moderna, una nave ben fornita di artiglieria e condotta con abilità poteva fornire una protezione da ogni attacco buona quanto quella della galera, dove gli equipaggi rimanevano relativamente scoperti al tiro di artiglieria. Eppure la nave sottile conservò a lungo la sua importanza nelle flotte mediterranee, perché per inseguire una galera occorreva un’altra galera. Ma ai mercantili occorreva potenza difensiva, non offensiva e la galera grossa era sempre stata un bastimento tanto costoso che i noli rispetto a quelli delle navi tonde, apparivano ormai esorbitanti.

flotte di cocche furono assai frequenti nella prima parte del secolo XV . A quell'epoca le galere di mercato erano ormai quasi tutte proprietà del Comune, noleggiate alla gestione privata in un incanto annuale. Agli inizi del secolo XIV, viceversa, numerose galere di mercato erano proprietà di privati. Alcune di queste praticavano la navigazione libera, in genere con equipaggi troppo esigui per una galera e con un numero relativamente ridotto di remi ". Nella maggior parte dei casi, però, le galere private venivano utilizzate per viaggi regolati o autorizzati. Questi viaggi delle galere nel primo Trecento erano organizzati piú o meno come i viaggi regolati e autorizzati delle cocche cent'anni dopo. Agli inizi del secolo XIV si effettuavano anche alcuni viaggi di galere in proprietà del Comune, e da esso direttamente gestite. 1Ibid. pag. 54 2ibid.

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TOPOGRAFIA DELLA FORTEZZA E LOGISTICA DI UNO “STATO TERRITORIALE”.

“Chi si stupirà più che Venezia sia posta sulle paludi e sia sorta in una laguna per niente esposta ai venti, essendo stati costruiti grandi terrapieni e cumuli di sabbia che contengono l’ira e l’impeto del mare?” annotava l’anonimo genovese1. Da questa sua condizione di città che come ci ricorda l’autore della Honorantiae civitatis Papiae, e siamo nell’827, “non arat, non seminat, non vindemiat”, che come suo carattere primo avrà quello “di coltivar el mar et lassar star la terra”, da questa sua condizione di città nata dalle acque non da acque generiche, non da un mare genericamente inteso, ma da quel determinato pezzo di Adriatico che la inviluppa delle sue dense realtà insulari e peninsulari ad orinte ed anfibie a occidente ( nel patto del 1175 tra Guglielmo II e la Repubblica, l’area di pertinenza veneta da quello riconosciuta ha la sua delimitazione nella linea Ravenna-Ragusa.) essa trae la sua prima linfa. Essa, infatti, come insegna Sanudo, è “nello intimo seno del mare Adriatico situada, sopra le acque salse”. Ne è figlia e, nello stesso tempo ‘, padrona. “Maris Adriatici dominatrix”, riconosce Albertino Mussato2. Dell’Adriatico regina, Venezia è, pure, in una evoluzione da città-stato, quale era la repubblica marinara, a stato territoriale, che prima di essere stato terraneo è stato di direttrice ( o di corridoio ) dominatrice assoluta. Il rapporto di Venezia con l’Adriatico, si vien sempre più delineando attraverso un lavoro preciso, visibile, connotabile, dettagliabile, di ricognizione e ricostruzione cartografica di contorni ben definiti. Venezia non ha di fronte a sé un’indiscriminata, oceanica immensità, ma uno specchio d’acqua, via via restringentesi latitudinalmente sino a quella strozzatura quasi finale del canale d’Otranto, ecco che essa definisce tutto ciò un golfo, anzi il golfo di Venezia, il suo golfo e l’abbraccia tutto, a mo’ di “territorio”, da sottoporre all’obbligo di “fare scala a Venetia”. Al di là delle contestazioni - anzitutto quella del pontefice Giulio II, il solo sovrano della penisola che abbia diretti interessi territoriali e strategie statali e mercantili paragonabili, perentoriamente richiedente che l’Adriatico sia “libero a tutti”, sì che vi circoli “ogni sorte di robe et mercadantia per ogni” suo “loco” senza che la Serenissima imponga i suoi gravami, essa, peraltro, punendo i delitti” in questo “commessi”, garantisce la securitas navigandi. Così è che, sintomaticamente, essa e non il libero mercantilismo del Pontefice, costruirà solidi rapporti culturali oltrechè commerciali con le Puglie3. Ma se la securitas navigandi all’interno dell’Adriatico è garantita dalla flotta, essa necessità di punti di approdo di porti e fortezze.

1 in G. Petti Balbi: op.cit. 2 in G. Benzoni: “ Un incontro marittimo: La Serenissima e la Puglia” in AAVV. La Puglia e il Mare 3 ibid.

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Ora, se il Cinquecento è il secolo del grande sviluppo della città ideale e della trattatistica, esso è anche il secolo, insieme al Seicento, della architettura militare e della “città-fortezza” La compattezza che queste città-porto presentano non è certo inarticolata e prima di tutto essa si basa sul trinomio: molo-mura-fortezza. Vi è sicuramente un momento difensivo e militare che ne spiega il senso e che nelle città emporio delle repubbliche marinare si manifesta ben dentro l’epoca moderna. E’ infatti lungo gli assi delle direttrici orientali degli scali di Genova e soprattutto di Venezia che possiamo vedere applicata con una caparbietà che ormai contrasta col quadro stesso dell’arte nautica come di quella della guerra, l’attenzione per una politica degli interventi che ne consolidi l’unità di un manufatto in sé circoscritto e separato dal territorio e che sappia selezionare molto bene il convergere dei possibili approcci via mare. Prendiamo il caso della Creta veneziana. Creta, la sede della prima grande talassocrazia, situata nel mezzo delle vie marittime tra Egitto, Medio Oriente, Mar Nero e Mare Adriatico, l’isola che vedrà, poi, tutta la sua lunga storia segnata da una condizione ribaltata: essa infatti avrà sempre più un ruolo così significativo per le rotte del mediterraneo medio-orientale da essere considerata una colonia importantissima per vari conquistatori.1 Lungo la costa settentrionale dell’isola sorgono tre, un tempo, grandi città: La Canea, Rettimo e Candia2 che come nuclei abitati esistevano nello stesso sito ancora in epoca preistorica e classica. Lo sviluppo urbano di queste tre città durante il periodo veneziano e specialmente nei secoli XVI-XVII, è in funzione della capacità del loro porto e sostanzialmente esso è indipendente dalla realtà del territorio circostante, esse appartengono ormai a un circuito estroverso, quasi indifferente al popolamento interno dell’isola. Queste città hanno dunque una funzione per le relazioni continentali strategica, il loro porto è in funzione delle necessità della navigazione, del caricamento delle navi, costituisce un rifugio sicuro durante l’inverno, ha l’attrezzatura per le riparazioni e l’armamento delle navi.

1Fino il 823-824 fu territorio (Eparchia) dell'Impero Bizantino. Dall'823 al 961, sotto il dominio degli Arabi, grazie ai suoi porti, fu una base per le loro invasioni in tutto il Mediterraneo. Dal 961 al 1204 conobbe il secondo periodo bizantino, dopo la riconquista dell'isola da parte di Niceforo Foka. Dal 1204 al 1669 si ha il periodo veneziano, durante il quale Creta diventa una delle più importanti colonie della Serenissima in tutto il Levante. Dal 1669 al 1898 è il periodo dell'occupazione turca. Nel 1898-1913, l'isola è indipendente. Nel 1913 Creta si unisce con lo Stato Greco'. 2 La città di Candia è situata pressoché alla metà della costa settentrionale dell'isola. Nello stesso sito della città minoica gli Arabi avevano costruito la città di Khandàk, l cui toponimo, derivato dalla fossa che girava attorno ad essa, dimostra, se ce ne fosse bisogno le necessità difensive e la appetita funzione di questa strategica tappa la città distrutta e ricostruita nel 961 da Niceforo Fokà.

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G. Gerola, riferendosi agli arsenali di Creta, scrive: “Scopo precipuo infatti degli arsenali veneti d’Oriente era quello d’I consentire il proseguimento delle attività navali fino all’inizio della cattiva stagione, di favorire il ricetto ed il risarcimento delle navi durante l’inverno e di renderne possibile l’immediata ricomparsa in mare al ritorno della buona stagione, quando importava più che mai o assumere l’iniziativa della ostilità o essere in grado di opporsi fulmineamente alle sorprese dei nemici, senza attendere il tardo arrivo della flotta di Venezia”1. A questa funzione non di semplice scalo, ma di vero e proprio arsenale si associano le necessità della organizzazione difensiva di queste città. Fino al ‘500 le fortificazioni costruite nell’isola dal Veneziani non furono completate e organizzate. Le grandi città si erano allargate fuori dalle mura vecchie, formando grandi borghi che rimanevano senza fortificazioni e difesa. D’altra parte, la rivoluzione portata nell’arte militare in tutta l’Europa in seguito all’introduzione delle artiglierie ebbe ad esercitare in Creta tanta maggiore influenza in quanto i poveri e deboli castelli antichi erano insufficienti a resistere al colpi di artiglieria. Così I’Isola intera fu munita di un completo sistema di fortificazioni, alcune intese a proteggere i maggiori centri abitati, altre ad impedire al nemico lo sbarco nei porti e negli approdi’. La città bizantina, fortificata da una cinta con torri rettangolari che si protendevano lungo i due moli fino alla rocca sul mare, fu conservata per tutto il primo periodo veneziano (fino al XIV sec.) con la stessa organizzazione urbana. Poi sempre più l’elemento veneto influenzò il carattere della metropoli del Regno, come delle altre due città: le chiese cattoliche, ampie in stile latino ed ornate di alto campanile, si distinguono dalle piccole chiese greche. Le tre città erano ricche di palazzi aristocratici, di edifici pubblici e governativi: il palazzo del duca o del rettore, del capitano e del provveditore generale, le case dei consiglieri e dei camerlenghi, le logge, i quartieri dei soldati, le sale d’armi, i depositi di munizioni, i fondaci, le prigioni, gli ospedali. Una strada centrale univa il porto con la porta centrale delle mura medievali, verso la campagna. Questa strada passava dalla piazza dove erano la fontana, il palazzo ducale, la chiesa del duca (San Marco), la loggia. Infine, verso Nord-Ovest, entro le mura vecchie e vicino al golfo di Dermatà c’era il quartiere di Giudecca2.

1 G. Gerola: “Monumenti Veneti nell’isola di Creta”, Venezia, vol. I-IV,1905-1940 2 Questo nucleo abitato era la “città vecchia”, come appare in tutte le vecchie piante di Candia. Al di fuori delle mura vecchie, verso settentrione ed occidente si erano però venuti ben presto estendendo quei borghi che avevano cominciato a fortificarsi con una cinta cui si iniziò a porre mano nel '400 ma che fu completata solo nel '500. Il nuovo perimetro fortificato, difeso da poderosi bastioni, guardato da alti cavalieri, protetto al suo esterno dal forte di San Demetrio ed in seguito da tutto il complicato sistema delle opere avanzate, comprendeva entro una nuova cerchia la città vecchia e tutti i borghi, mentre la capitale, triplicata così di area e popolata da 10 a 15 mila abitanti,

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Ma a fronte della costruzione di questo paesaggio civile, vi sta quello militare con i suoi proporzionamenti e dimensionamenti con le sue necessità di approvigionamento e di immagazzinamento e vettovagliamento, con i suoi servizi di cantiere, con la sua logistica e le sue guarnigioni.

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CAPITOLO XII DAL CHIUSO ALL’APERTO LA RAPPRESENTAZIONE DELLA FORMA URBIS

Guardiamo l’immagine di Genova, di Napoli, di Marsiglia, sono città che l’iconografia esalta nella loro compattezza. La cultura di queste città è permeata dall’idea del “recinto”, del costruito, del paesaggio urbano che si differenzia dal circostante contesto. E ciò è ancora più notevole per una realtà come quella di Genova che ha saputo fissare la ricchezza urbana diffusa dello spazio della riviera come un suo intorno dipendente. Per certo appare un dato pregnante il fatto che i cartografi ci presentino queste città-porto quasi sempre, inevitabilmente, viste dal mare e ci mostrino città che sembrano sostanzialmente volger le spalle al proprio entroterra e vivere aprendosi, anima e corpo, alle direttrici della liquida pianura che sta loro davanti. Del resto, anche questo l’abbiamo già percepito, non é solo un fatto di immagine, dietro quelle vedute proposte dal cartografo, che rappresentano là città vista dal mare, vi sta una lezione di rilievo d’ambiente importante: il rapporto tra i suoi manufatti e le sue presenze funzionali più significative e la nodalità del fronte mare che apre alle direttrici di traffico.1 Con il passaggio dal medioevo all’epoca moderna si può sempre più parlare della costruzione di un manufatto “città porto” unitario, un sistema definito dalla articolazione di fortezza, mura, moli che giunge a dare, inglobandola, una definizione di forma urbis unitaria. Così questo manufatto si inscrive in una topografia del sito come in una valva che ne diviene sempre più un fisico, necessariamente omologico, suo imprescindibil supporto. Ma se fino al Quattrocento, il carattere era eminentemente mercantile, col giungere dell’epoca moderna tale supporto avrà sempre più carattere militare che mercantile. Fino allora l’iconografia ci aveva presentato la realtà di una acropoli, castello, torre, che è per altro nei confronti di un certo tipo di attacco svolgeva ancora il suo compito molto avanti nel tempo come ci attestano le sempre utili note dei diario del Pirata Sir Kenelm Digby: “Continuammo allora la nostra rotta e visitammo il golfo di Cagliari e quello di Salinas; nel primo vedemmo cinque navi all’ancora vicino alla città di Cagliari dove, ero stato informato, c’era la postazione con dodici pezzi di bronzo, senza contare la numerosa artiglieria del castello. Queste informazioni oltre al fatto che eravamo stati avvisati, ci decisero a non tentare nulla in quel luogo”2.

1 Lo sguardo dei portolani è rivolto al profilo delle coste e al modo in cui entro esse si inscrivono i porti 2

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L’IDEA DEL RICCHIUSO

Con l’avvento dell’epoca moderna ci troviamo di fronte a una costruzione nuova, per dirla con l’Ammanati; il ricchiuso: “L’anno 1573 - scriveva Bartolomeo Ammannati - sendo vivo il Ser.mo granduca Cosimo di felice memoria’, esendo in Livorno, io mi ritrovi per commissione di S.A.S., et un giorno mi fece tragettare alla torre del fanale, e disse di voler dirmi un suo pensiero, il quale è questo. Di voler accostar insieme al porto hoggi di Livorno, un ricchiuso, come un altro porto, col far fare un muro dal fanale a terra ferma, verso la man diritta guardando, sendo in mare, verso il porto, et arrivato in terra ferma farvi un baluardo e dal fanale alla Cittadella far fare un muro, il quale disse esser di grandissima importanza ... ; et ivi fondar con pietre grosse et far rinchiudere qui un nuovo porto, dove si potrebbe tener buon numero di barcarecci, e questo sarebbe un sicuro refugio à detti barcharecci, per aver sempre grande abbondanza di grani per il suo felice stato. Mi dimandò ciò che di questo pensiero mi paresse; risposi che non era discorso se non da alto intelletto e che ci voleva tempo e comodità da risolvere si gran cosa; al che rispose: e il te lo credo, poi ch’io sono stato pensando a ciò dieci anni”1 Sono trascorsi più di quattro secoli da quel 28 marzo del 1577, giorno in cui venne fondato ‘il rinchiuso’ della città, evento di cui il diplomatico Dovera ci lascia, pregnante, l’immagine: “non lasciando indietro cosa che si dovesse da fare, mi misse, nel nome di Iddio Benedetto la prima pietra di quella muraglia, et veramente che ogni cosa passò e 2 per il cielo rispetto al buon tempo et per le altre circostanze, molto bene”, eppure tutto è ancora là a parlarci di questo evento. Nulla meglio del sapore ben percepibile della ritualità del gesto ecistico, nulla meglio della potente descrizione del “costruibile” dell’Ammannati ci mostra la forza dell’endiade città-porto. Vi è il segno di un passaggio, la ricerca di un progetto unitario del manufatto città-porto che era iniziata con gli studi di Leonardo e soprattutto di Bramante nel decennio che va dal 1503 al 1513 per Civitavecchia dove più che di una città-porto si legge la volontà trattatistica di attuare il modello di una “città sul mare” ripristinando per via archeologica il modello del porto traianeo di Centumcellae come manifestazione concreta del ruolo di restaurator imperii che Giulio II si era dato.2 L’idea del Buontalenti risente della teoria Albertiana di funzionalità e d’impostazione pratica connessa all’impianto portuale e difensivo esistente, ma realizza soprattutto un modello nuovo pentagonale, che deriva dallo schema teorico

1 l'Ammannati a Ferdinando I, 2 aprile 1588", Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, F.797, c.43 r. in F. Diaz, "Prolusione", Atti del Convegno "Livorno e il Mediterraneo nell'età medicea", Livorno 23-25 settembre 1977, Livorno, Bastogi 1973, pag. 19. 2 Ibid.

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adattato del Fílarete, ci dice il Nuti1. Il profilo angolare dei bastioni e dei rilevati corrisponde a quello ad 8 punte di Sforzinda; i due bastioni ridotti sono così previsti per inserire nel sistema a Sud Ovest il porto munito con darsena vecchia e nuova ed a Nord Ovest il fosso navigabile Pisa-Livorno, anche questo difeso da mura e protetto dai “ seccagni ” del mare aperto. La punta occidentale è strutturata con la fortezza vecchia di Antonio da Sangallo, recuperando nel tessuto l’abitato a forma così detta “ quadrilonga ”. “Nell’interpretazione del piano urbano fra le posizioni radiocentriche (Fra Giocondo, B. Lorini, P.Sardi) e quelle ortogonali (P. Cattanco, V. Scamozzi) Buontalenti definisce gli spazi secondo isolati rettangolari ai margini e quadrilateri al centro con asse decumano, che parte dalla Chiesa di S. Giulia, dove convergono la Via di Salviano e quella Pisana, ed arriva al porto”2. L’articolazione quindi della città-porto si presenta distinta; all’esterno per rispondere alle teorie difensive è in forma pentagonale irregolare con un lato di base più lungo attestato secondo il mare, mentre all’interno essa ricorre ad un impianto reticolare che ottimizza il reticolo ortagonale degli isolati. LIVORNO E IL PORTO FRANCO

Il potenziale di risorse economiche e la formazione eterogenea e eterogenica della gente a Livorno è uno dei fenomeni più interessanti che palesa l’impegno politico di programma e di gestione e la complessa realizzazione delle opere compiute. Fra le altre città che si rinnovarono nel Rinascimento, Livorno ebbe uno dei maggiori sviluppi superando tante contrastate vicende dovute alle condizioni sanitarie, l’origine etnicamente diversa della popolazione ed i limiti insediativi urbani.3 Occorre risalire al 1491 per il ripristino fatto da Cosimo di una provvigione della Repubblica fiorentina, che accordava immunità ed esenzioni fiscali ai nuovi abitanti di Pisa e Livorno. Nel 1548 viene in seguito emanato il primo stabilimento di privilegio a quanti con famiglia si trasferivano in città, garantendo sicurezza nelle persone e nei beni ai debitori pubblici e privati ed ai condannati con sanzioni pecuniarie. Francesco I pubblica dopo il 1593 l’indulto in 44 articoli che prese il nome di “ Costituzione Livornina ” per favorire tutti i mercanti di ogni nazione e credenza, che fossero venuti ad aprire commerci e casa a Pisa e Livorno.4 L’appello è rivolto con un bando espressamente ai “ Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni e Persiani ”.5

1 G. Nuti: “Il porto e la città nell’epoca medicea” in Atti op. cit. pp.325-346 2 ibid. 3 E.F. Guarini: “Esenzioni e immigrazioni a Livorno tra sedicesimo e diciassettesimo secolo” in Atti op.cit. 4 ibid. 5 L'evento, che doveva con la posa solenne della prima pietra ristrutturare completamente il borgo in città avvenne il 28 Marzo 1577 e fu concepito da Francesco I su progetto del

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Ma le condizioni ridotte di spazio del bacino portuale senza adeguate attrezzature, i traffici navali, che erano privi di protezione ed avvenivano in prevalenza in mare aperto e la presenza ricorrente della malaria oltre alla peste in Toscana del 1582 fece sospendere forzatamente le opere già intraprese, fino a quando Ferdinando I, succeduto a Francesco I, ordinò di riprendere il programma costruttivo interrotto e costituì un “ Consiglio livornese ” di tecnici esperti di opere militari e marittime per progettare una città ed un porto più grandi e tali da rispondere al nuovo destino di Livorno esplicitamente designata come “ Città emporio ” di tutta la Toscana. Anche se i lavori per terminare la diga verso la Torre del Fanale furono ripresi e sospesi in breve tempo per il ripetersi delle stesse difficoltà, la politica medicea per potenziare la città continuo lenta ma tetragona. Così furono eseguite imponenti opere urbane e strutture portuali creando la Nuova Darsena a Sud della Vecchia con banchine e profondi fondali, la diga in direzione del Forte della Sassaia, il Fanale della Meloria, l’acquedotto sotto la guida dell’olandese Mayer, il lazzeretto di S. Rocco, poiché quello del Fanale costruito da Francesco I era piccolo, le Buche del grano in città e sui bastioni per la conservazione delle derrate, il porticciolo per ricevere il traffico del Canale dei Navicelli e l’arsenale marittimo per la costruzione di navi da guerra e mercantili. Nuove fabbriche edilizie inoltre completarono il quadro organico del tessuto cittadino con il Duomo, che veniva a sostituire l’antica pieve dando così una struttura cultuale di forte identificazione urbana ed i portici in Piazza d’armi, impianti di grande importanza nella definizione non solo funzionale per l’affermarsi di una nuova unità vivente: città.1 Ed inoltre anche la costruzione di diverse abitazioni ad uso privato date in affitto o a riscatto con mutuo di 7 anni a condizione che l’assegnatario si stabilisse in città. Era dunque Livorno ormai una città-porto organicamente pianificata perché potesse accogliere 20.000 abitanti e più di 30 navi insieme2. Buontalenti. La fondazione fu compiuta con grande concorso di popolo, messa pontificale, muratura di medaglie con l'effigie di Francesco Gran Duca di Toscana, presente B. Buontalentí e con ripetute salve di archibugi e d'artiglieria. 1La misura “ grande ” della Piazza, realizzata con l'intervento del Cogorani nel 1587 e posta all'incrocio degli assi regolatori non deriva dal vuoto di un isolato, ma è piuttosto il polo di tutto lo spazio-forma urbano, modellato in 3 parti e raccolto al centro dai temi angolari e ritmici dei portici posti di fronte alla Chiesa. Questo progetto, che investe per la qualificazione creativa insieme il tessuto urbano, il significato del sito e la rappresentazione espressiva, pur richiamandosi all'idea della piazza d'armi delle città fortezza, trasforma lo spazio pubblico in luogo rinascimentale aperto. Nuovi sono gli interessi di prospettive e di frequenze proprio ai margini della piazza lungo la cadenza metrica dei portici. 2 Tra Seicento e Settecento si possono riassumere gli elementi di crescita urbana nei seguenti fatti: dopo Ferdinando I e Cosimo II, che ha il merito di aver realizzato veramente il grande porto con un'altra imponente diga parallela a terra partente dalla Sassetta in direzione Nord-

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Si trattava di promuovere una “ fondazione mercantile ” che per altro non proveniva dal nulla1 e la gente entro le mura ebbe a Livorno un continuo incremento passando da 749 ab. nel 1551 ad 8000 nel 1604, a 12.000, quasi quanto Písa, nel 1621 ed a 28.040 nel 1745. In un momento in cui i centri degli interessi si spostano sull’Atlantico e in certo modo conseguenza del nuovo assetto geografico ed economico è la decadenza in Toscana dell’artigianato locale e dell’industria tessile, l’operazione livornese ha il sapore di una sfida ed è un tentativo di superamento degli equilibri degli Stati rinascimentali entrati in profonda crisi. Viene quindi pianificato il quartiere Venezia Nuova proprio nell’entroporto, riunendo gli abitanti di Venezia e S. Marco e recuperando lo spazio occidentale della

Ovest. 1 lavori iniziati nel 1611 furono ultimati nel 1617, il successore Ferdinando II provvide alla costruzione dei nuovi quartieri divenuti necessari per lo sviluppo del traffico e delle case commerciali; fu realizzato il quartiere della “Venezia Nuova” dando inizio il 6 Luglio 1629 ai lavori su palafitte per creare 23 isolati, dei quali 14 sul mare di Venezia con abitazioni e depositi, 4 chiese, 7 stabilimenti, il Rifugio, il luogo Pio, due Bottini dell'olio, gli Ammazzatori pubblici, il Piaggione dei grani, il Monte Pio, la Pescheria nuova. Più tardi fu completata l'opera d'urbanizzazione con 25 strade, 3 piazze e 7 ponti (quello Grande della Venezia a 3 archi, della Crocetta o piccolo oggi scomparso, del luogo Pio, dei Domenícani, di Marmo della via Borra, di S. Giovanni Nepomuceno, dei Lavatoi vecchi). Inoltre nel 1634 viene terminata la costruzione di un altro arsenale nella zona della Nuova Darsena e nel 1645 quella del Lazzaretto di S. Jacopo a 1 km a Sud di Livorno. Con Cosimo III, che morì nel 1723, a cui si deve la Torre quadra della Meloria, e con Gian Gastone, che fece ultimare nel 1731 i così detti “Bottini dell'olio ”, si conclude il periodo mediceo. 1 Livorno aveva una popolazione non certo numerosa ma stabilmente residente; ciò la differenziava da Portopisano anche dal punto di vista delle istituzioni: aveva proprie magistrature elettive, prima i consoli e poi gli anziani, Consigli e assemblee di cittadini, vale a dire ordinamenti e istituzioni più complessi di altri comuni del contado, e simili a quelli di alcuni pochi centri più importanti del territorio pisano. Tutto ciò testimonia l'importanza di questa “ terra ”, derivante dalla sua posizione sul mare a poca distanza da Portopísano, di cui era stata in certo senso, fino alle soglie del '300, un “ sobborgo satellite ”, e insieme testimonia il favore con cui il governo di Pisa guardava al suo sviluppo. Ora, proprio negli ultimi decenni del '300 il progressivo sviluppo di Livorno e l'accrescersi dell'importanza del suo porto fu senza dubbio in rapporto diretto col graduale lento decadimento di Portopisano, dovuto principalmente all'azione d'insabbiamento provocata dai depositi alluvionali dei vari corsi d'acqua della zona, e specialmente dell'Arno, la cui foce principale si apriva appunto nell'“ arco di Stagno ”, dunque, nel bacino stesso in cui si trovava Portopisano. Depositi alluvionali che, nel corso dei secoli XIV e XV, modificarono profondamente anche la situazione generale del vicino comprensorio, accentuandone i caratteri palustri che resero sempre più inospitale la zona di Portopísano. A fronte di ciò invece Livorno, per la sua particolare posizione, venne a godere di una situazione relativamente privilegiata. Ma questa condizione protetta e di antico sito portuale mediterraneo richiedeva alcune opere particolarmente importanti a cui non riusciva a far fronte la realtà di una repubblica marinara ma solo una nuova concezione di stato territoriale poteva por mano.

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Fortezza Nuova e la zona fra l’antico canale ed il porticciolo dei Genovesi, che verrà interrato.1 Le condizioni di vita riportate negli Annali del Vivoli e nelle linee di sviluppo della città del Mori riferiscono di “ tenuissimi stallaggi ” con i quali si favoriva un vero “ commercio di deposito ”. Nello stesso tempo aumenta la richiesta di suoli edificabili, che vengono ricavati in lotti dentro la Fortezza nuova e destinati per volere mediceo alla società urbana, che doveva essere costituita da “ finanzieri, ricchi mercanti, artigiani, arrisicatori, forzati ”. Si tratta quindi di un Piano organico per investire ad alta produttività di reddito i capitali pubblici, richiamando in città anche risorse private ed interessi di lavoro e d’abitazione “ senza differenze di classe per la borghesia mercantile ed il proletariato urbano ”2. Il carattere tipologico e figurativo dei fabbricati nel quartiere Venezia Nuova si distingue per le misure alte, uno dei primi esempi in Italia di “maison de rapport”, corpi di fabbrica per più appartamenti e caratterizzati dalla destinazione d’uso mista dovuta alla presenza ai piani terreno e primo di depositi di servizio per il porto. Una popolazione cosmopolita e fluttuante verrà così a determinare l’identità urbana e civile di Livorno come formazione di città porto da un lato profondamente diversa dal vecchio tessuto degli acquartieramenti per etnie del Mediterraneo e dall’altro estranea all’assetto ed alla tradizione storica della Toscana. Il processo insediativo è innovativo e capace anche di superare con l’impianto di lazzaretti e di ospedali le condizioni sanitarie critiche dovute alle infezioni importate ed agli stati patogeni dell’ambiente portuale. Numerose “ comunità ” verranno così a stabilirsi a Livorno costituendo un habitat urbano di isole sociali e di impianti insediativi con lingua, usi e tradizioni diverse. Alcuni dati possono far comprendere meglio la parte attiva che hanno esercitato queste comunità nella città medicea. La Comunità istraelitica è la più importante; secondo il Repetti da 700 unità su 8642 ab. nel 1633, arriva a 4330 unità su 30.349 ab. nel 1740. Godeva di libertà di culto, di autonomia amministrativa e di particolari privilegi secondo la Costituzione livornina; ogni mercante accolto nella comunità diveniva cittadino toscano. La zona urbana abitata era intorno alla Chiesa di S. Francesco e le lingue parlate erano il portoghese, il castigliano ed il dialetto giudaico (detto “ bagito ”).

1 Il progetto è realizzato dal Santi Sanesi, esperto di lavori edilizi ed urbani e provveditore dell'arsenale di Pisa. L'impianto delle fabbriche e dei servizi cittadini così attivati da gente francese, greca, inglese, mussulmana ed araba era capace di rispondere ad una gestione diretta, che sarà nel tempo sempre più incrementata tramite i cospicui guadagni dovuti alle agevolazioni dei dazi. 2 G. Nuti: op.cit.

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Gli Israeliti svolgevano la principale attività nel commercio con oltre 30 Case di spedizione su 150. “La Comunità svolse una notevole influenza nella vita della città con l’apertura di un Monte di Pietà, con opere d’investimento industriale e di smercio (droghe e corallo) ed iniziative rilevanti nell’arte, nella cultura, nell’assistenza pubblica scolastica e nella stampa (la prima stamperia israelita risale al 1650). Da segnalare per il significato civile ed umanitario la Compagnia per il riscatto degli schiavi, fondata nel 1606-7 dalla Comunità, “ quarant’anni prima dell’omonima Compagnia veneziana ” I Greci Uniti, dai quali poi si separarono i Greci scismatici anche con un diverso cimitero, furono ospitati a Livorno in quanto facevano parte degli equipaggi dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano ed erano gente di mare esperta ed intraprendente. La Comunità si insediò presso la Chiesa di S. Jacopo in Acquaviva e nel 1626 risultava presente con 80 famiglie. Gli Inglesi si trasferirono a Livorno per usufruire delle libertà di mercato che non riuscivano ad avere a Marsiglia. Di religione protestanti costruirono una loro chiesa con annesso cimitero e lasciarono il ricordo di importanti personalità nella cultura, nella marina, nella politica e nelle attività mercantili ed industriali (manifatture della lana, seta e cotone e raffinazione dello zucchero). Gli olandesi vennero a Livorno da Amsterdam richiamati da esigenze di scalo e di commercio e dettero un notevole impulso al porto. Presso gli scali degli Olandesi si costruirono una Chiesa ed un proprio cimitero. Gli armeni sono presenti a Livorno come sensali corrispondenti degli europei trasferiti nel Levante. Per erigere la loro Chiesa ottennero che i mercanti armeni versassero una tassa per ogni “ balla ” di merce sbarcata a Livorno. Anche gli svizzeri, i francesi, i valdesi, i siro-maroniti ed i turchi costituirono delle piccole comunità con circoli, chiese ed iniziative scolastiche. L’EMPORIO DELLA TRIESTE SETTECENTESCA

Nel 1728 con la visita dell’Imperatore a Trieste aveva preso corpo il progetto di un emporio, di un porto militare e di un arsenale. Una nuova immagine per una città-porto completamente indifesa senza mura, cannoni, avamposti, catene, completamente esposta ad un attacco nemico portato dal mare. I porti olandesi potevano permettersi qualche disinvoltura difensiva perchè per giungere alla città bisognava forzare l’Jssel meer, ma per Trieste la cosa appariva certopiù audace. Ma queste similitudini e queste visioni nuove di città aperta avevano radici funzionali profonde. Quando l’architetto Fusconi traccia il “Piano di una nuova città” il piano per l’estensione di Amsterdam è già stato eseguito in due differenti fasi tra il

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1609 e il 1625, e tra il 1657 e il 1663 l’intervento olandese1 servirà ad ispirare il modello formale e organizzativo dell’architetto e dell’Intendenza Commerciale. Anche le banchine progettate da Giovanni Fusconi si avvicinano alle dimensioni di quelle olandesi: 6 klafter in quelle triestine, 10 metri nelle banchine di Amsterdam. Sulle banchine un’altra similitudine sorprendente: gli alberi. Là erano degli olmi qui dei tigli, ma il paesaggio da loro creato è lo stesso. Anche se i primi edifici realizzati nel Distretto saranno grandi e costose realizzazioni fatte eseguire dai ricchi mercanti, giunti per primi in città e non mediocri case d’affitto. Inizialmente si costruiranno residenze, manifatture e locande, soltanto negli anni successivi con l’arrivo di artigiani e piccoli negozianti appariranno le loro modeste case2. LA FIERA ED IL PORTO CANALE.

“ ... Alcuni si sono già annunciati presso di noi, che qui a tale disposizione vogliono prendere un Posto, portare subito alcune barche e contenitori di legno, e subito dopo vogliono edificare vari edifici al loro posto ... ” 3. Ed ecco apparirci uno squarcio di una situazione specifica: a Trieste molti commercianti vivevano stabilmente nelle barche. Molti di quelli che vi giungevano per la fiera, davano fondo all’ancora sottocosta e vi rimanevano per oltre un mese. Quest’abitudine comune ai piccoli mercanti-armatori nordici o mediterranei era propria di chi solcavano i mari con le

11 Sfruttando i canali esistenti e l'energia fornita dai mulini il terreno fu colmato e le nuove aree disposte all'edificazione. Diversamente dalla futura realizzazione triestina, l'intervento olandese prevedeva due tipi di insediamento: il cosiddetto “piano dei canali” e il successivo intervento denominato De jordaan. 1 tre canali semicircolari vennero chiamati Heerengracht, Keizsgracht, e Prinzengracht. La loro larghezza variava fra i 25 e i 28 me mentre le banchine erano di profondità fissa di 10 metri. All'interno i lotti avevano una profondità di poco superiore ai 100 metri e per regolamento la distanza interna, fra l'edíficazione posta perimetralmete non doveva essere inferiore ai 48 metrí; spazio generalmente occupato da eleganti giardini. Questo insediamento si proponeva ai ricchi mercanti i quali realizzarono residenze lussuose e costose riservate a loro stessi, ai collaboratori e a soci delle loro imprese. Il De iordaan fu invece realizzato con case modeste e con una densità edilizia notevolmente maggiore e fu destinato ai quartieri degli artigiani e alla realizzazione di abitazioni da dare in affitto. I canali dividevano gli isolati talvolta in file di due elementi, al volte di tre, al centro quattro. Pure le misure degli isolati non era sempre ben definite. La loro estensione era più contenuta di quelle degli isolati “del piano dei tre canali”: 50 metri di profondità per i metri di lunghezza, in media (Taverne, 1978). Nella seconda metà del Cinquecento, era accaduto a Trieste come ad Amsterdam , di ricevere un numero elevatissimo di rifugiati. Essendo impossibile ospitarli all'interno dell'antico nucleo si pensò a una nuova vasta espansione da realizzarsi tramite il prosciugamento dei terreni esterni e la demolizione di un'ampia fascia di fortificazioni. 2 Si veda F. Caputo, R. Masiero: “Trieste e l’Impero”, Marsilio, Padova, 1987 3 (Ms, sa, 1736) In F.Caputo: op.cit.

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proprie merci alla ricerca di congiunture favorevoli, di chi metteva la propria disponibilità di tempo al servizio di una tale ricerca. “Il progettato Distretto avrebbe così potuto ospitare nei suoi canali, attraccate con sicurezza tanto le imbarcazioni di passaggio quanto quelle dei nuovi abitanti in attesa di costruirsi la casa. Il progetto risolveva contemporaneamente due problemi, quello del porto e quello della città, realizzando una notevole economia di scala e coinvolgendo, negli scavi dei canali, i privati. La Cassa Imperiale non avrebbe dovuto intervenire tanto onerosamente quanto nel caso del precedente progetto.” Con l’anno seguente, poi, sarebbero state concesse alla città due fiere franche e non più una sola. Le nuove disposizioni imperiali, rese pubbliche tramite gli avvisi stampatí dall’Intendenza Commerciale, avevano fatto conoscere a tutti, in città come all’estero, i nuovi periodi di esenzione e franchigia: “ ... di maniera, che la prima cominci alla vigilia della Domenica Exaudi, e continui fino alla vigilia della Santissima Trinità; l’altra poi cominci all’ultimo del mese ottobre, e si finisca alli 14 del seguente mese novembre ... ” 1 E per capire cosa significasse una fiera, bisognerà rilevare quali libertà di negozio essa attivava. Dapprima all’interno dell’arsenale e quindi nelle case private, nei magazzini, nelle botteghe, sopra le imbarcazioni e in qualsiasi altro sito, venditori e compratori, mercanti locali e forestieri, potevano negoziare all’ingrosso come al minuto qualsiasi genere di mercanzia. Eccezion fatta per il ferro, l’acciaio, il rame, il mercurio, il tabacco e il sale, generi regolamentati da rigorose norme protezionistiche, qualsiasi merce poteva essere scambiata in regime di franchigia doganale. Gli scambi potevano avvenire dentro e fuori la città, in case private, magazzini, botteghe, nelle stesse barche o in qualsiasi altro luogo. Rimanevano sospese le disposizioni emanate nel 1725 sulla proibizione della vendita al minuto delle merci depositate all’interno dei porti franchi. Passati i venti giorni della fiera quelle norme avrebbero ripreso vigore. Ciascuno poteva tenere, in quel periodo di sospensione delle norme consuetudinarie, osteria o taverna in maniera tale da poter offrire vitto e alloggio. Uomini e animali potevano spostarsi liberamente e fermarsi ove lo ritenessero più opportuno. Durante la fiera potevano essere scaricate le merci senza servirsi di facchini del luogo. Ognuno poteva mediare tra venditore e acquirente stabilendo contratti; a chiunque veniva riconosciuto, solo in quei giorni, il ruolo di sensale. Era il grande affare della città, a cui non si poteva mancare, per poter partecipare, con le proprie mercanzie, alla fiera si doveva presentare, per iscritto o a voce, una richiesta ai Giudici e Rettori.

1 P. Kandler: “Documenti per servire alla conoscenza delle condizioni legali del Municipio e Emporio di Trieste”, Tp. Del Lloyd austraco, Trieste, 1848.

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Erano richiesti casotti: “ ... Comparisce il sign. Stefano Marignani Capo d’Istría e volendo eriger due casotti per l’iminente fiera supplica compiacergli di concedergli la licenza di poter valersi de due siti sotto le logge offerendosí di corrispondere ciò che li verrà stabilito con riverenza si protesta ... ”1 Ma anche semplici cavalletti “ ... Comparisce Domenico de Bíagio volendo render certa la sua mercanzia consistente in pochi cestini, altre simili bagatelle, adimanda poter estender su due cavaletti cappi ad oggetto di aprofittarsene e farne la vendita nela prosima fiera ... ”2 . Vi appare un che di pirenniano nel quadro di chi richiede di ripristinare consuetudini acquisite e di trasferirle da una condizione precaria a uno stabile uso.3 Chi vendeva disponeva la propria merce all’interno dei casotti o semplicemente sui piani di legno appoggiati ai cavalletti e riparati da una tenda. C’era anche chi contrattava davanti a una stuoia stesa sul terreno ricoperta di mercanzia, oppure girava per la città con coffe assicurate alle spalle, pronte ad aprirsi alla richiesta di un compratore Appartenevano a quest’ultima categoria i sudditi napoletani, sotto nuova bandiera: “quei Calabresi, Messinesi, Pugliesi, ed altri diti del Re di Napoli, che traficare sogliono nell’Adriatico, si servon di tartane, e trabacoli, fabbricati nelle loro spiaggie, ed inalzano le bandiera di sua Maestà Siciliana”4 . Le loro merci: “consistono in biancherie, lavorate ad opera, e tesuti di bombace, cioè di coltre, calze, fazzoletti, e berette di più qua secondo la brama di chi può spendere”. Anche dalla Liguria giungevano i mercanti trasportando: “in sú guisa la vendita de prodotti della cara Patria, cioè massarizie. marmi, canditi, agrumi, e piante di fiori”. Assieme a loro “mercíari, stringari, guantari, passamaneri e vergarí” solitamente impegnati a girare di casa in casa, si mischiavano alla folla.

1 (Ms, Giudici, 1735/1), in F. Caputo: op.cit. 2 (Ms, Giudici, 1735/2), ibid. 3Il collegio delibera anche su casi in cui il richiedente si ric consuetudini acquisite : “ ... Anna vedova Símonetti ritrovando due casotti d'affittare per la fiera di tutti li Santi.... defonto suo suocero, e consorte, quali da loro stessi venívan congiuntura adoprati: così con tutto l'ossequio supplica con il solito della loro benignità darle il permesso acciò ne. possa farli pore, con che spera d'ottenere quanto con tutta supplica, mentre con il più profondo de suoi rispetti ....E Giudici, sd). Anche Lorenzo Ageo vuole ritornare in un posto già occupato “Havendo ( ) eretto à mie spese il piccolo magazeno di tavole fu( dalla porta .... vicino al Perinello col decreto di 8 ducati anui p il pícíol fondo et vedendo essersi reso inutile ( ) per non esser affitta più anni son risolto a suplicar ( ) di voler rilasciarmelo novamente mediante lo stesso affítto anuo che così servirà à me' di sollevo per allogiar le mie mercantie...” Queste suppliche ci forniscono un quadro significativo del divenire di una consuetudine di usi temporanei, ritornanti, microparcellari che non riescono ancora per il momento a trovare una loro stabile vivibilità. 4 ibid.

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AISANCE DU LOTISSEMENT E BILDING CYCLE

La colmatura delle saline, lo scavo dei canali, i nuovi tratti di banchina, i moli, l’edificazione. dei nuovi edifici pubblici e la manutenzione operata su quelli già costruiti contribuivano a mantenere vivace il mercato edilizio. Per queste ragioni i magazzini erano talvolta più richiesti delle abitazioni stesse. Spesso occorreva un deposito per il legname, per le pietre, per coppi e le tavelle, e questi materiali dovevano essere lavorati pe divenire travature di solaio, tavole per l’impiantito, conci perfettamente combacianti. Era necessario spegnere la calcina per ottenere un buon legante, proteggere la sabbia per non ritrovare imperfezioni intonaci, cuocere e macinare le pietre per un resistente terrazzo. Senza contare le opere accessorie, i vetri per gli infissi, i lavelli di pietra e tutti quegli elementi strutturali e accessori che rendono la costruzione di un edificio un elenco ampio di materiali, sistemi di lavorazioni, tecniche. Così, quando il porto era vuoto e scarseggiavano le merci, si poteva accontentare la richiesta di deposito avanzata da qualche capomastro Allo stesso modo nei rari periodi durante i quali scemava la domanda dei privati potevano essere soddisfatte le necessità indotte dalle opere pubbliche. Tutto ciò aveva una importante ricaduta sul piano amministrativo, nuovi e più rigorosi criteri urbanistici e pratiche dell’edilità venivan richieste. Un ufficio ben organizzato e tecnici qualificati giudicavano. Negli elaborati grafici dovevano essere definiti tutti gli elementi strutturali compresi i sistemi delle volte e i nodi costruttivi dell’edificio. In seguito alla progettazione grafica si affiancò una prova sul computo metrico estimativo, ovvero la descrizione particolareggiata delle opere da eseguire, la loro quantità e la stima complessiva dell’onere economico richiesto dall’intera costruzione. “Nulla poteva essere lasciato al caso o all’improvvisazione. La casa per un mercante non era diversa da qualsiasi altra sua impresa commerciale e come tale andava trattata”1. Le fondazione e i muri perimetrali venivano elevati nel materiale tradizionalmente impiegato nelle costruzioni cittadine: l’arenaria. Le banchine di fondazione erano estratte da giaciture profonde per garantire l’assenza di imperfezioni, mentre la muratura fuori terra poteva essere di “pietra mezzana” di giacitura intermedia o addirittura ricavata da strati superficiali. Se non si voleva far giungere il materiale più pregiato dalle cave di Muggia o da quelle poste lungo la strada del Friuli, bastava ricavarlo dalla cava aperta sul fianco del colle di San Giusto. Tutta la città era posata su uno strato misto di marna e arenaria, il Flysch. Bastava uno scalpello e un mazzuolo, cunei di legno costantemente bagnati e grazie alle discontinuità delle forme naturali, due punti di attacco erano sufficienti a fornire il materiale lavorabile agli scalpellini. Le erte, piattabante, piane e architravi delle finestre assieme ai portali d’ingresso e ai gradini erano sbalzati in pietra del Carso. Si trattava di calcari 1 ibid.

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dell’entroterra triestino, marmi estratti per lo più dalle cave di Aurisina. Anche questa era una pietra tradizionalmente impiegata, omogenea e compatta, resistente all’usura e agli agenti atmosferici. Le murature interne del piano terreno, come quelle dei piani superiori, erano fatte di mattoni. Le “pietre cotte” giunte da Ferrara erano prescritte anche per le canne dei camini. I grandi “motoni di Pesaro” pavimentavano una parte del pianterreno e tutti i pianerottoli delle scale, mentre nelle cantine la lastricatura era di pietra stesa in macigni, di notevole spessore, levigati dopo essere stati posti in opera. I pavimenti delle camere dei piani superiori erano formate da tavolato d’abete piallato e incollato mentre i correnti su cui si appoggiavano erano inchiodati alla travatura del solaio sottostante1. L’ARRIVO A TRIESTE: UNA NUOVA ICONOGRAFIA.

Vi è un indicatore assai significativo che ci mostra il radicale mutare del rapporto tra porto, città e hinterland portuale ed esso è dato, ancora una volta dall’iconografia. Ammettiamo pure che una veduta come quella del 1803 dello Schinkel sia in qualche modo influenzata dal tema paesistico, caro ai tedeschi, dell’incontro col mediterraneo2, con la sua vegetazione e con la sua storia classica, ma è certo che la veduta “da dietro”, dalla strada che scende dal Carso della riva vecchia e del porto franco, che compare a occidente della città, è fortemente sintomatica di un diverso porsi del rapporto: viabilità - tessuto microurbanistico della città-porto. Ecco che la città non viene più ripresa dal mare, ma da un punto di terra, che ne esalti e non appiattisca, l’articolazione funzionale delle sue parti: così è nella “Veduta Meridionale della Città e Porto Franco di Trieste” di Pollencig del 1801, così un anno più tardi nella “Vue de la Ville et du Port-Franc de Trieste” di Heymann o nella “Vue générale de Trieste” di Cassas. Del resto la visione di Scinkel tendeva a confermare quella veduta dall’alto che le strade austriache ormai ben consentivano3. Il commercio aveva bisogno di nuove strade per poter collegare i porti dell’alto Adriatico ai mercati continentali. Efficaci collegamenti fra il settentrione e il meridione dei Domini Ereditari vennero creati con la sistemazione del valico del monte Loibl, la cui apertura al traffico commerciale diede agevole comunicazione fra Klagenfurt e Lubiana e con l’attraversamento del monte Semmering capace di unire Vienna a Graz, nel 1728. La strada si dirige verso gli importanti mercati dell’Europa

1 ibid. 2 a iniziare dall’incontro con quel paesaggio mediterraneo che attraverso il Brennero si apre e che ci è testimoniato da due figure straordinarie come Durer e Ghoete 3 Si volle porre sulla sommità del Semmering una lapide in cui si affermasse come da quel valico sarebbe passato il commercio verso il mare, ovvero verso il Litorale austriaco.

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centrale di Francoforte, Colonia e quindi verso i Paesi Bassi. A nord si prosegue per Lipsia e Dresda; verso est si raggiungono le piazze di Praga, Bratislava e poi Danzica. L’altra strada commerciale capace di penetrare i mercati dell’Europa centrale e orientale parte pure da Venezia, giunge a Pontebba quindi Villaco da cui si collega a Salísburgo. Verso est sono raggiungibili i mercati di Ludenburg, Bruck e Vienna, da dove è possibile proseguire per Presburgo, Raab e Pest verso est, per Brunn e Olmútz verso nord. Per altro la configurazione orografica dei rilievi alpini e prealpini facilita gli spostamenti da est verso ovest o viceversa, non quelli in direzione nord-sud. Si va facilmente da Vienna sino in Baviera, in Tirolo. Ancor più agevole risulta il passo verso la Moravia e la Boemia. Le antiche strade seguono i percorsi dei grandi fiumi navigabili. La Sava, la Drava, il Danubio aprono agli uomini e alle merci l’oriente. Più difficile raggiungere Trieste. Si può passare attraverso Graz oppure Maribor, ma quest’ultima è una via lontana dai principali mercati interni e maltenuta1. Ma ecco che Trieste riesce proprio in questi ampi circuiti in parte avvolgenti le Alpi, in parte circuitanti il pedemonte padano a trovare ancorp iù che in pure indicazioni dirette di valico il suo riferimento e, in tal mod, riesce a definire una nuova nodalità.

1 E il problema della manutenzione delle strade esistenti, prima ancora della progettazione e realizzazione di quelle nuove, andava affrontato. Le strade erano mantenute in efficienza dal lavoro obbligatorio, le robotte, a cui erano tenuti gli abitanti dei territori attraversati. Sino a quando lo Stato non decise di affrontare autonomamente questo problema le singole giurisdizioni si sforzarono, durante tutto il Settecento, di emanare norme valide per tutti sull’argomento. E Consiglio Capitaniale delle Contee di Gorizía e Gradisca giunse fra i primi ad emanare disposizioni precise e degne di nota (Capitaniale, 1772).

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CAPITOLO XIII CITTA’-PORTO, CITTA’-CAPITALI COSTANTINOPOLI: CITTÀ VENTRE O SERRA CALDA?

Sul finire del Cinquecento, otto grandi navi cariche di grano, provenienti dall’Egitto, forniscono i vettovagliamenti di Costantinopoli per un sol giorno1. Alcuni documenti del 1660-61 e del 1672-73 rivelano le dimensioni del suo appetito ed è un appetito che dura da sempre, o quasi2. Quotidianamente, la città consuma dalle 300 alle 500 tonnellate di grano, essa è così fonte di lavoro per i suoi 133 fornai (a Istanbui, su 84 fornai, solo 12 però fanno il pane bianco): in un anno, quasi 200.000 buoi, di cui 35.000 per la preparazione della carne salata o affumicata, il pastirina; quasi quattro milioni di montoni e tre milioni di agnelli. Piú tonnellate di miele, di zucchero, di riso, sacchi e otri di formaggio, caviale e 904 cantari di burro fuso (7000 tonnellate circa). Tutti i paradossi economici e in primo luogo quello di viaggiare al di sopra dei propri mezzi e della propria produzione. E’ la prima realtà non solo del mediterraneo a non apparire come una città ma a presentarsi come un agglomerato, composto non da una vera e propria conurbazione ma dal convergere di più insediamenti intorno ad un Corno e ad un piccolo mare - stretto 369 Lo spazio urbano è frazionato da piani d’acqua successivi, da bracci di mare troppo larghi. Una folla di marinai e di navícellai anima migliaia di barche, caicchi, traghetti, maone, barcone, navi “usciere” (per il trasporto degli animali tra Scutari e la riva europea). “Rúmeli Hisar e Besiktas, a sud del Bosforo, sono due prosperi villaggi di navicellai”’, questo per le merci, quello per i viaggiatori. “Istanbul é sicuramente, per antonomasia, la città dei Turchi: i loro turbanti biancoblú dominano, sono al 58 per cento della popolazione, nel secolo xvi com.e nel xvii. Il che vuol dire che vi si incontrano anche numerosi Greci col turbanti blu, Ebrei coi turbanti gialli, e Armeni e Tzigani”3. Sull’altra sponda del Corno d’Oro, Galata occupa il nastro meridionale, che è situato dopo l’arsenale di Kasimpasa, “ con circa 100 archi di pietra ben costruiti a volta, lungo ciascun una galleria coperta ... ”4, e che raggiunge, píú a sud il secondo arsenale di Tophane, dove si fabbricano polvere e artiglieria frequentato esclusivamente dalle navi d’Occidente; là si trovano i missionari ebrei, le botteghe, i magazzini, le bettole dove si vendo vino e l’araq; sulle altura, le Vigne di Pera, dove ebbe residenza l’ambasciatore di Francia. Petra, la città dei ricchi, “costruita alla

1 F. Braudel: op.cit. pag. 369, vol.I 2 ibid. 3 ibid. 4 ibid.

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franca”, popolata di mercanti, latini e greci; ma vestiti alla turca, che vivono in case opulente con seta e gioielli... “Queste mogli un po’ troppo civette belle di quanto non siano perché esse si imbellettano molto e impiegano tutto il loro avere nel vestirsi e ornarsi con anelli e pietre in capo, la maggior parte delle quali sono false”, Pera è unita a Galata. Greci e Latini non vi regnano da padroni, anzi, ma vi pregano a modo loro. Specialmente “ si professa in questa città sino con le processioni italiana.”1 Scutari sulla sponda asiatica è la stazione carovaniera d’Istanbul, punto d’arrivo e di partenza delle immense strade d’Asia. La preannunciano i numerosi caravanserragli e bans, e anche i suoi rilevanti mercati di cavalli. Sul mare, non ha un porto che offra un buon riparo: le merci devono passare, e in fretta, alla ventura. Città turca, Scutari è piena di giardiní, di residenze principesche. Il sultano vi tiene il suo palazzo, ed è un grande spettacolo quando lascia il Serraglio e si porta, su una fregata, sulla sponda asiatica “per svagarsi”. La descrizione dell’agglomerato sarà completa aggiungendo a Istanbul il suo píú importante sobborgo, Eyub, allo sbocco, sul Corno d’Oro, del Fiume d’Europa delle Acque Dolci, e inoltre la lunga ghirlanda di villaggi greci, ebraici e turchi sulle due sponde del Bosforo, villaggi di giardinieri, di pescatori, di marinai, dove, molto presto, sono state costruite le residenze estive dei ricchi, i yalis, dal basamento in pietra, con un pianterreno e un primo piano in legno; sul Bosforo dove non c’è vicinanza indiscreta da una riva all’altra, esse aprono le loro numerose finestre senza grate”’. Non è arbitrario accostare “queste case di campagna e giardini”’ alle ville della campagna fiorentina. Questo agglomerato, per quanto anche esso conosca le tecniche dell’acclimatazione nei giardini di delizia come in quelli produttivi (da qui sono infatti passate le coltivazioni delle bulbacee, da qui le più raffinate selezioni dei tabacchi), è straordinariamente interessante per il modo in cui acclimata gli uomini, i quadri di Charden ne sono una testimonianza. Ecco dunque apparire alcuni segni importanti di una civiltà della grande città-porto mediterranea: la sua capacità di essere centro di un cosmopolitismo di etnie che si van conoscendo. E’ questo del cosmoplitismo un tema fondamentale nelle città-porto ‘d’epoca moderna del mediterraneo, un tema che si inscrive nella diversità degli acquartieramenti, nelle forme di segregazione etnica, nelle riconoscibili diversificazioni degli abbigliamenti, in un quadro di simboli e segni, ma è anche osmosi, processi reciproci di acculturazione non violenta, assimilazioni e naturalizzazioni. Tutto ciò il XX sec., preparato dal XIX sec., ha saputo distruggere e non solo nel modo violento che conosciamo dei nazionalismi succedutisi agi imperi cosmpoliti, ma anche attraverso la nazionalizzazione economica delle città-porto,

1 ibid.

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non più viste nel quadro di una economia internazionale d’emporio, ma sempre più in quello di una economia esterna di una base produttiva e di un mercato nazionale. UNA DIFFICILE IDENTITA’: NAPOLI, CICLI VIRTUOSI, CICLI VIZIOSI.

Queste città ventri vivono al di sopra dei loro mezzi? Domanda fondamentale e altrettanto vera per Napoli. Nella cristianità, Napoli non ha un equivalente, ci dice sempre Braudel1. La sua popolazione - duecentottantamila abitanti - è il doppio di quella di Venezia e di Roma, il quadruplo di Firenze, il nonuplo di Marsiglia. Di tutta l’Italia meridionale, che vi concentra i suoi ricchi e i suoi poveri, irrimediabilmente miserabili, questi, essa diverrà non solo il teatro ridente o dolente della propria esistenza sincronica, lo spazio di un più o meno miracoloso, quotidiano arrangiarsi, ma anche quello di una economia. L’imbricarsi della sua popolazione spiega la fabbricazione, allora, di tanti beni di lusso. Nel secolo XVI, gli articoli di Napoli sono un po’ come quelli di Parigi dell’Ottocento e del primo novecento: merletti, spighette, fronzoli, passamanerie, taffetà, nodi e coccarde di seta variopinta, tele che si ritrovano commerciate in quantità lungo il Reno (persino a Colonia)2. I Veneziani affermano che quattro quinti degli operai di Napoli vivono sulle lavorazioni della seta e si sa che l’Arte di Santa Lucia gode, anche lontano, di grande rinomanza. Pezze di seta dette di Santa Lucia sono rivendute lontano anche se una critica che verrà mossa alla città e al suo agro è quella dell’incapacità di saper sostituire “gli inutili pioppi” a cui si marita la vite con i gelsi. Nel 1624 la minaccia delle leggi suntuarie in Spagna, implica il rischio di assestare un colpo alle esportazioni napoletane di seterie, mettono in pericolo le entrate fiscali. Verso la città, confluiscono i contadini di tutte le province del reame, montuoso e pastorale. Sono attratti dalle “ arti ” della seta, dai lavori pubblici cittadini, iniziati al tempo di Pedro e continuati molto dopo (alcuni non sono ancora terminati) vengono per esser impiegati a servizio nelle case nobili, con le loro folle di servitori e di valletti. Accorrendo verso queste assunzioni, facili i contadini si liberano contemporaneamente da condizioni gravose, sia che il signore abbia ereditato sia come certi mercanti, spesso genovesi - terre e titoli. La città, dunque, cresce senza sosta, essa si è arricchita di case e di abitanti, è giunta a due miglia di perimetro e i suoi quartieri nuovi sono pieni di edifici, quasi quanto i vecchi ”3, Ma già nel 1551 la speculazione puntava sui terreni disponibili da una parte e dall’altra delle mura nuove, costruite dalle vicinanze della Porta di San Giovanni a Carbonara fino a Sant’Elmo, vicino al giardino del principe d’Alife’.

1 ibid. 2 ibid. 3 ibid.

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Necessariamente, nel grande agglomerato, il problema del vettovagliamento è sempre presente, e in primo piano. E’ il vicerè che controlla quel servizio specificamente municipale per mezzo del prefetto dell’Annona, ch’egli nomina dal 1550, vero ministro del rifornimento, incaricato degli acquisti, del deposito, delle rivendite ai fornai e ai mercanti ambulanti d’olio’. La città, da sola, non potrebbe assumere quella gestione deficitaria. Nel 1607 un documento degno di fede informa che essa spende almeno 45.000 ducati al mese, mentre le sue entrate non raggiungono i 25.000. Spesso, il grano e l’olio sono rivenduti in perdita. il prestito salda la differenza1. Il segreto della vita di Napoli si cela in parte in questo disavanzo che ascende, nel 1596, ai 3 milioni, nel 1601 agli 8. Tocca forse al bilancio del regno (che non raggiunse il pareggio col passar degli anni) di assumersi la differenza? o è merito di un’economia ancora semplice ma robusta? O l’arrivo delle navi nordiche’, che stimola l’attività di Napoli e portandole grano e pesci del Nord, facilita la sua vita quotidiana? Un segreto, quello legato a un prezzo politico del pane che ripresenta una vecchia storia mediterranea, una storia che ha conosciuto la Roma imperiale, una storia che conoscerà il Cairo e l’Egitto, Algeri e l’Algeria della nostra contemporaneità, e molti altri stati e città capitali, una storia sostanzialmente inibente forme di sviluppo dell’agricoltura nazionale e che favorisce importazioni e latifondi. Ma è questa la vera storia di Napoli? Napoli prima di diventare la città della pasta, la città dei “mangiamaccheroni” è stata la città della “foglia”, dei “mangiafoglie” come ci ha magistralmente ricordato il Sereni2 I “mangiaravanelli” attribuito agli Spagnoli, dalla commedia dell’arte seicentesca, è un epiteto usato spesso da Scapinio, significa non tanto una parte decisiva, che i ravanelli dovevano avere nella loro alimentazione, quanto un riferimento alla “miseria spagnola”, che li costringeva ad accontentarsi di un tanto modesto companatico, e che si assumeva, per il contrasto con una certa loro boria. er contro, appare il riferimento a effettivi usi tri termini di quella nomenclatura etnogastronomica quale il Fasano, tra gli altri, ci attesta alcuni esempi nelle note al suo Tasso napoletano, pubblicato nel 1689. Cosí, ad esempio, di contro a epiteti, largamente attestati da altre fonti, come quello di “ mangiarape ” per i Lombardi, “mangiamarroni” per i montanari dell’Appennino tosco-emiliano, come quello di “mangiafagiolí” per i Cremonesi, e cosí via, il termine di “mangiafoglie” per i Napoletani è dagli stessi, come ci testimonia una vastissima letteratura colta e popolare3, espresso con grande entusiasmo e in forme di desioso ricordo e nostalgia

1ibid. 2 E. Sereni: op.cit. 3 ibid.

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per quanti napoletani non possano, per una causa contingente, riportarsi alla prastica di questa primaria loro matrice alimentare, composta per altro da carne e foglia, da intingoli e ragù. Dunque ben lungi da un espressione pauperistica ci troviamo in presenza di una realtà alimentare antica e importante, fondata non sul predominio del cereale ma sull’ortaggio proveniente dall’agro partenopeo e dalla carne, che a quella data, per lo meno fino a tutto il Seicento, presenta tassi di consumo veramente notevoli1. In vero, quando si tratta dell’enorme Napoli, tutto è sproporzionato: in un anno essa divora 40 000 salme di grano delle Puglie, oltre agli altri rifornimenti, e importa, nel 1625, lo si crederebbe, 30.000 cantari di zucchero (I500 tonnellate) e 10.000 cantari di miele, riesportandone una grande parte sotto forma di “siropite, paste” e “altre cose di zucaro”: ma certamente i poveri non ne mangíano2. Queste cifre ci informano di un appetito pantagruelico e di un metabolismo al limite della capacità di governo per uno stato che non sia anche un impero, ma ci informano altresì di un elemento costante che si lega al volano della massa fisica delle città porto milionarie: la capacità di trasformare l’economia politica della pentola l’arte della cucina in una industria: ed è sicuramente questo un aspetto di grande rilievo della città-ventre mediterranea, in cui batte rabelasianamente un cuore del basso non connotabile di segni solo negativi. UNA NUOVA IDENTITÀ NAZIONALE: L’ENDIADE ATENE- PIREO

Abbiamo osservato la vita d’epoca moderna di due città-porto,, ora entrati nell’epoca contemporanea, guardiamo la rinascita o meglio la nuova nascita di un sistema città capitale – città porto quale è quello di Atene-Pireo In quegli anni (siamo alla morte di Socrate) Atene si risollevava dalla sconfitta; aveva avuto i suoi territori devastati, le lunghe mura abbattute; aveva perduto il dominio e la dignità antica...”3 A più di due millenni di distanza da quando Temistocle ne organizzò i porti (un vero e proprio sistema di bacini dotati ciascuno di sue specializzazioni e che continuò ad attrezzarsi da allora sempre più fino alla distruzione silliana), il Pireo era un insieme di insenature naturali frequentate solo occasionalmente da navi che vi si riparavano in caso di tempesta 4.

1 come ci attesta inconfutabilmente il Sereni, ibid 2 F. Braudel: op.cit. 3 L. Storoni Mazzolani, Le sacre sponde, Milano 1984. 4 "Una fregata veneziana vi si era allora ancorata, battuta la notte avanti da una tempesta, veniva per racconciarvisi. il grido de'marinai che raccoglievano le vele, lo strepito dell'artiglieria con cui il comandante volle onorare la santa terra dell'Attica e il movimento che questo arrivo produsse nelle poche genti che abitano il Pireo ruppero il silenzio che d'ordinario lo rattrista, ma che lo rende più interessante al viaggiatore". In G. Scrofani, Viaggio in Grecía, edizione critica condotta sul testo comparso nel 1799, Roma, 1965, Lettera LVII.

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il destino non era stato diverso per Atene che, come sapevano gli spartani, senza il suo porto che avevano distrutto era destinata a morire di asfissia. Cosi, ad ancora più grande distanza di tempo da quando Atene, con atto di imperio, affermò il suo volere sinecistico, incorporando nella città il risiedere degli originari dell’Attica rurale, contadina, esiodesca, questo “breve spazio che non ha più di cento miglia circa di giro, né più di 228 miglia quadrate di superficie ,4 si era, per così dire, presa la sua rivincita. Una rete di greti e di piccoli alluvi sostanzialmente privi di acque perenni ma popolati da selve di ulivi, quegli ulivi che “in mancanza degli antichi abitanti sembra che facciano gli onori del loro paese”1, qualche vigna alla “maniera di borgogna”, notano i viaggiatori francesi, tra i calcarei detriti di falda accumulati ai piedi di piccoli rilievi che portano sui primi poggi i villaggi, qualche piccolo annucleamento lungo le tappe della strada che porta a Negroponte, qualche storica testimonianza sulla “via sacra” che viene da Eleusi e là, in lontananza, Atene, anch’essa tornata a essere poco più di un villaggio2. E tuttavia un paesaggio a metà tra il fantastico e il reale si apriva allo sguardo di chi, giungendo nella pianura da una di quelle due strade sunnominate, andava ricercando i segni di una civiltà che si voleva alle radici d’Europa e di cui la diaristica e l’iconografia tra XVIII e XIX secolo ci danno la più ampia delle testimonianze3.

1 ibid., Lettera XLVIII. 2ibid. 3 Un villaggio certamente come peso di popolazione, ma non come complessa realtà socio-economica, con le sue funzioni amministrative e con la pluralità della sua articolazione interetnica e tanto meno villaggio lo é per la ancor viva presenza dei suoi monumenti. Del resto, la piccola dimensione dell'Atene periclea era oggetto della più grande ammirazione per la peculiare capacità della sua forza creatrice e fondatrice di civiltà di trascendere il peso della propria massa fisica, che sembrava invece impedita alle civiltà degli stati nazionali e assolutisti contemporanei. Ecco al proposito esprimersi le considerazioni di Chateaubriand, op. cit., p- 129: "Nous marchions vers cette pétite ville, dont le territoire s'étendait a quinze ou vingt lieues, dont la population n'égalait pas celle d'un faubourg de Paris, et qui balance dans l'univers la renommée de l'empire romain. Les yeux constamment attachés sur ses ruines, ie lui appliquais ces vers de Lucrèce: Prirnae frugiferos faetusmortalibus aegris Dididerunt quondam Preclaro nomine Athenae, Et recreaverunt vitam, legesque rogarunt Et primae dederunt solatja dulcia vitae'. E ancora lo Scrofani, Lettera XLVIII: "Fra i mille affetti che mi agitano l'an,ima il primo a svegliarsi fu quello della sorpresa. Dentro questo breve spazi-o, che non ha più di 100 miglia circa di giro né più di 228 miglia quadrate di superficie, contenevansi 190 popoli, 400 mila schiavi e 100 mila appena di soli cittadini. Ma fu dal suo seno che uscirono le numerose colonie che popolarono l'arcipelago e l'Asia, e le armate vincitrici di Dario e di Serse….Scorrete con l'occhio su le ruine di Garghetto , di Peania, di Cefissa, di Phila: ivi nacquero Epicuro, Demostene, Menadro, Euripide: spargete una lagrima su quelle di Coilè: quivi fu sepolto Tucidide; adorate queste di Alopekì che furon la patria di Socrate. Là, a la vostra dritta, quella torre su la vetta del Parneto è l'antico Philo dove a Trasibulo con gli occhi fissi alla cittadella d'Atene giurò la perdita de'30 tiranni e l'eseguì. Quello è il villaggio di Paleo Lambrica su l'antica tribù di Lambra; quelle sono le montagne d'Eleusi e del Laurio, celebri per

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Ma domandiamoci: tutto ciò era vero solo per quei viaggiatori stranieri che avevano coltivato uno spirito e una lingua che sembravano esistere solo nei libri che possedevano e nelle rovine di cui si andavano impossessando (e non solo spiritualmente)? La risposta ce la dà allora il comandante, generale, eroe nazionale e popolare per eccellenza, quel Makriyannis figlio di pastori e privo egli stesso di una qualsiasi forma di erudizione scolastica ma animato da quello spirito della “stirpe” che è nel popolo greco, e che Seferis ha così magistralmente saputo riportare alla luce1 quando avverte altri soldati, pronti a commerciare statue e beni di quel mondo passato ma non inutilmente trascorso, che “è per queste cose che abbiamo combattuto”. Così egli indica al mondo in che modo quelle rovine parlassero “demotiki”, fossero per quel popolo, sia pure semplificate (o essenzializzate?) da schemi interpretativi propri di una epica popolare, monumento ancor vivo, magari mediato come alcune tombe da una cristianizzazione e da una eroicizzazione che le trasformava in “martyrion”. E i sepolcri erano un topos di quel paesaggio, i primi scavi e la memoria collettiva li avevano portati alla luce ancor prima di altri monumenti e lo erano di quella piana là dove essa si apriva verso il mare, là dove si erano combattute le battaglie della libertà; erano lungo i cammini come il sepolcro dell’amazzone Molpedia che si incontra a metà di quella strada che conduce al Pireo ed è situata tra le due muraglie fatte fabbricar da Temistocie e ripristinate da Cimone: i lacedemoni e Silla le abbatterono, ma le loro fondamenta sono tuttavia riconoscibili fra i roveti e le vigne che coprono la pianura. Gli ulivi le ombreggiano in varie file e le graziose vignaiuole l’animano in questa stagione co’ loro canti”2.

misteri e le miniere d'argento. In somma ecco l'Eridano e l’Ilisso, il luogo dell'Accademia, la strada del Pireo; ecco le mura e la cittadella d'Atene". 1Questo straordinario testimone della diaspora greca, nato e vissuto in giovinezza a Smirne, non diversamente dall'alessandrino Kavafis - dei resto all'inizio dei secolo le più grandi "città" greche, con l'eccezione di Salonicco, erano al di fuori degli attuali confini nazionali (Costantinopoli, Smirne, Alessandria d'Egitto) - ci fornisce una chiave preziosa di lettura di una koine comune alla stirpe greca, che aveva improntato di un epos e di una "civilisation", giunta alle soglie del nostro secolo, tutto il Mediterraneo orientale. Si veda tra gli altri il suo saggio sull"'Erotokritos", in G. Seferis, Le Parole ed i Marmi, Atene 1965, Milano 1965. 2 Di questo paesaggio a metà tra il fantastico e il reale Lacarrière ci ha dato una viva ricostruzione nel suo saggio introduttivo al libro di F.M. Tsigakou, La Grèce rétrouvée, Parigi 1984. Questo paesaggio cosi è descritto da Chateaubriand, op. cit., p. 127: "Enfin, le grand jour de notre entrée à Athènes se leva. Le 23, à trois heures du matin, nous étions tous à cheval. nous commencámes à défiler ern silence par la voie Sacrée: je puis assurer que l'initié le Plus dévot à Cérès n'a iamais éprouvé un transport aussi vif que le mien. Nous avions mis nos beaux habits pour la féte; le janissaire avait retourné son turban, et par extraordinaire on avait frotté et pansé les chevaux. Nous traversámes le lit d'un torrent appelé Saranta-Potamo ou les Quarante Fleuves, probablement le Céphise Eleusinien: nous vìmes quelques débris d'églises chrétiennes; ils doivent occuper la place du tombeau de ce Zarex qu'Apollo, lui-méme avait instruit dans l'art des chants. D'autres ruines nous annoncèrent les monuments d'Eumolpe et d'Hippothoon; nous

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Pur sussistevano dunque i segni-monumento di un nesso inscindibile per una città greca, per quella “gente della vigna e dei mare”1: i segni appunto della unità della stirpe e del suo rapporto con il mare.

trouvámes les rhiti ou les courants d'eau salée: c'était là que, pendant les fétes d'Eleusis, les gens du peuple insultaient les passants, en memoire des injures qu'une vieille femme avait dites autrefois à Cérès. De là passant au fond, ou au point extrème du canal de Saiamine, nous nous engageámes dans le défilé que forment le mont Parnès et le mont Egalée; cette partie de la voie Sacrée s'appelait le Mystique. Nous apercúmes le monastère de Daphné, nati sur les débris du temple d'Apollon, et dont l'église est une des plus anciennes de l'Attique. Un peu plus loin nous remarquámes quelques restes du temple de Vénus. Enfin, le défilé commence à s'élargir: nous tournons autour du mont Poecile placé au milieu du chemin, comme pour masquer le tableau; et tout à coup nous découvrons la plaine d'Athènes. Les voyageurs qui visitent la ville, de Cécrops arrivent ordinairement par le Pirée ou par la route de Négrepont. Ils perdent alors une partie du spectacle, car on n'aperçoit que la citadelle quand on vient de la mer; et l'Anchesme coupe la perspective quand on descend de l'Eubée. Mon étoile m'avait amené par le véritabie chemin pour voir Athènes dans toute sa gloire. La première chose qui frappa mes yeux, ce fut la citadelle éclairée du soleil levant: elle était iuste en face de moi, de l'autre cóté de la plaine, et semblait appuyée sur le mont Hymette qui faisait le fond du tableau. Elle présentait, dans un assemblage confus, les chapiteaux des Propylées, les colonnes du Parthénon et du temple d'Erechthée, les embrasures d'une muraille chargée de canons, les débris gothiques des Chrétiens, et les masures des Musulmans. Deux petites collines, l'Anchesme et le Musée, s'élevaient au nord et au midi de l'Acropolis. Entre ces deux collines et au pied de l'Acropolis, Athènes se montrait à moi: ses toits apiatis entremélés de minarets, de cyprès, de ruines, de colonnes isolées, les dómes de ses mosquées couronnés par de gros nids de cigognes, faisaient un effet agréabie aux rayons du soleil". Poi, decantatosi nel suo spirito lo stupore e la commozione dovuta all'impatto così a lungo atteso con quei monumenti, il luogo inizia a delinearsi, e prende una sua precisione topografica e culturale; ne consegue una descrizione del sito che è allora molto produttivo mettere a confronto con la carta dell'Attica quasi coeva e lasciataci da altra mano francese:"Mais si l'on reconnassait encore Athènes à ses débris, on voyait aussi, à l'ensemble de son architecture et au caractère général des monuments, que la ville de Minerve n'était plus habitée par son peuple. Une enceinte de montagnes, qui se termine à la mer, forme la plaine ou le bassin d'Athènes. Du point où je voyais cette plaine au mont Pcecile, elle parassait divisée en trois bandes ou régions, courant dans une directión parallèle du nord au midi. La première de ces régions, et la plus voisine de moi, était inculte et couverte de bruyères; la seconde offrait un terrain labouré où l'on venait de faire la moisson; la troisième présentait un long bois d'oliviers qui s'étendait un peu circulairement depuis les sources de l'Ilissus, en passant au pied de l'Anchesme, jusque vers le port de Phalère. Le Céphise coule dans cette forét qui, par sa vieillesse, semble descendre de l'olivier que Minerve fit sortir de la terre. L'Ilissus a son lit desséché de l'autre cóté d'Athènes, entre le mont Hymette et la ville. La plaine n'est pas parfaitement unie: une petite chaine de collines détachées du mont Hymette, en surmonte le niveau, et forme les différentes hauteurs sur lesquelles Athènes plaga peu à peu ses monuments". 1 Seferis, OP. Cit. 1 Vi è al proposito un itinerario classico-romantico Monaco-Roma e ritorno da un lato e Monaco-Atene dall'altro che sarebbe molto interessante indagare, comprese le tappe intermedie, ad esempio. Trieste e le deviazioni accademiche (Vienna) al fine di leggere come nuovi stimoli e nuove forme di sensibilità oltreché nuove ideazioni funzionari abbiano teso a fondare "in laboratorio" valenze di città e di stati in formazione.

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E quei segni tornarono a rinforzarsi, a prendere il sopravvento. Certo alla Grecia fu imposta, dal consesso internazionale delle potenze europee, una reggenza; fu mandato a regnarla un ragazzo di diciott’anni. Certo, dopo la interessante parentesi urbanistica di Nauplia, fu un’opera di quasi frettolosa ingegneria genetica l’innesto dell’apparato statale e della fusione di capitale ad Atene, ma da lì iniziò una crescita, forse non un vero sviluppo, anzi ciò è innegabile, ma pur sempre una crescita che, sia pur con trend differenziatisi nei vari periodi, appare continua, brulicante, impetuosa1. Lo sviluppo di Atene, ripartendo dall’esistenza di un nesso inscindibile e, cioè, quello che la lega al porto dei Pireo, la sua più importante porta, l’irrinunciabile fulcro dei suoi nessi prima ancora che con il sistema della “economia-mondo” con le radici di una “civilisation” e di una cultura “estroversa”, con quella ‘, stirpe degli elleni” sparsa per il mondo e prima di tutto nel Mediterraneo orientale, come ci avverte il poeta Seferis’. E Atene in termini nuovi, anzi in rottura con tutta la storia delle civilizzazioni succedutesi nell’area-regione del Mediterraneo orientale, fece propria una doppia strategia. La prima è quella di una “città-capitale” di tipo nazionale, impresa difficile in uno stato che vive di pura dicotomia e di una dissociazione tra la realtà dei suoi confini territoriali -fortemente compattati, per cosi dire, intorno alla continentalità della penisola ellenica - e il sistema del suo popolamento urbano che continuava, come un tempo, a essere sparso entro gli enclave costieri di “città-porto” che facevano da rosario a quel mediterraneo orientale di cui i greci avevano organizzato non solo gli scambi, ma vi avevano improntato una intera sensibilità, una urbana “koine”. La seconda, quella di una nuova metropoli che si forma sul modello implosivo, concentrativo, tendente in unico grande centro a compattare le risorse di un unico grande territorio, sul modello cioè dell’industrialismo montante e delle tendenze imperialistiche dell’occidente nel quadro dell’economia mondiale; una strategia diametralmente opposta a quella che il mondo ellenico aveva fondato con il suo rapporto metropoli-colonia, e che era piuttosto di tipo esplosivo, diffusionista, seminatrice di polis. Pur rendendoci conto delle contraddizioni che un simile processo ha attivato2, non ci possiamo esimere dal riconoscere che quell’opera di ingegneria genetica ha avuto

2 La città moderna di Atene deve la sua origine anche a una netta cesura storica. Come lo stato nazionale, costruito sulle fondamenta del patrimonio storico, Atene, unita all'antichità solo dall'acropoli, ha utilizzato la storia per legittimarsi come centro di potere. Atene, quindi, rappresentò uno degli strumenti della costruzione dello stato nazionale greco. La sua scelta corrisponde a una strategia di potere. Insediandosi in una città distrutta e spopolata, il governo del re Ottone ha potuto modellarla a suo piacimento. La società di Atene, così come la sua architettura, è stata creata ex novo. Il significativo che gli edifici pubblici, principali simboli del nuovo regime, siano stati finanziati dai due principali attori dell'europeizzazione del paese: la

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proprio nel nesso ritrovato tra il Pireo e Atene uno dei suoi punti di forza; non possiamo non renderci conto che al di là della idea di un rimodellamento della “forma urbis” tutto compattato nella maglia del triangolo: Sintagma, Omonia, Ceramico, i bavaresi, ossia quel gruppo per molti versi interessante di ricercatori in laboratorio e in atelier della artificiata costruzione di uno stato (lo avevano fatto, forzando una identità nazionale, anche a Monaco1 avevano saputo rivalorizzare, con una certa lungimiranza urbanistica., i nessi, un tempo esistenti, tra Atene e il Pireo. Così archeologi e topografi storici con le loro minute ricostruzioni delle mura di Pericle consegnarono per tempo a ingegneri e architetti l’immagine forte di quella relazione, e questi vi seppero costruire, oltre il disegno urbano del Pireo, una direttrice infrastrutturale legante i due poli”. Nella successione delle carte che vanno da fine secolo alle prime decadi del nostro, il segno di quel nesso non solo delle strade ma piuttosto della ferrovia, si rafforza e prende risalto2. Questa costituisce un legame evidente, organizza, annucleando, alcuni azzonamenti; e ciò è tanto più significativo quanto più si consideri il distacco, come esiste ancor oggi, tra la realtà di una ferrovia che è stata3, integrandosi a due città e alla funzione portuale, organizzatrice di tendenza insediativa e la realtà della rete ferroviaria greca sostanzialmente incapace di modellare funzioni e insediamenti4.

corte, l'espressione delle “Potenze”, e gli “Evergeti”, i ricchi commercianti greci della diaspora che rappresentavano l'elemento greco occidentalizzato.Si veda G. Prévelakis: “Athenes et les espaces hélleniques au XIX siecle” in “La Grande ville, enjeu du XIX siècle”; Parigi, PUF,1991 1Si vedano in particolare le pubblicazioni di topografia storico-archeologica della Scuola tedesca di Atene e quelle coeve del piano del Pireo 2Si veda al proposito la dicotomia dei paesaggi urbani che la ferrovia del Pireo segna come una barriera nelle ricchissime di informazioni fotografie aeree degli anni trenta. 3 "La povertà della Grecia risulta invero tragica se si deve misurare dalle sue stazioni ferroviarie che si confondono con le umili case dei contadini. A Patrasso il treno si ferma su di una piazza come un tramvai e la stazione che è al di là sembra piuttosto la baracca di un caffè". In G. Comisso, Approdo in Grecia, Bari 1954. 4Si veda: “La traversata del canale d'Otranto, Progetto transfrontaliejtalo-greco per l'itinerario comunitario dall'Europa al Medio Oriente nell'interconnessione Brindisi-Igoumenitsa-Volos, testi di V. Donato, G. Goggi, G. Redaelli e G. Tachini, Milano, 1982. Vedi anche: V. Donato, G. Tacchini, "La coerenza regionale della Grecia, approccio macroeconomico e macrourbanistico al riequilibrio territoriale", in AA.VV., Modello probabilistico, modello deterministico, Milano, 1982.

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CAPITOLO XIV VERSO SISTEMI PORTUALI UNO SCENARIO IN RAPIDA MUTAZIONE

L’avvento della navigazione a vapore fu sul medio periodo la fine di un grande numero di porti che esistevano e funzionavano fin dall’epoca fenicia o greca. Gli scali si ridussero, aumentando le esigenze di pescaggio, di spazio di manovra e di impianti industriali. 1 piccoli luoghi di pesca tradizionale e di cabotaggio, riparati in recessi pittoreschi e chiusi, videro giungere villeggianti e turisti, ma si separarono definitivamente dalla grande navigazione1. Come dovunque, il costo elevato delle opere dei porti costrinse alla loro concentrazione. Solo alcuni, attrezzati per le esigenze della vita marittima odierna, continuano, nello stesso posto, una antichissima tradizione: Marsiglia, Napoli, Genova, il Pireo, rientrano in questo caso e sono, forse, i piú vecchi tra i grandi porti del mondo.2 Nell’Italia che inizia il suo cammino verso l’unificazione sono soprattutto gli scali mediterranei che danno l’idea di come si affronta il problema portuale, gli esempi sono appena oltre i confini di allora: Trieste e Marsiglia. La creazione di un porto moderno a Marsiglia era stata determinata, negli anni Quaranta dell’Ottocento, essenzialmente da due ragioni: la grave congestione che obbligava ad ormeggiare le navi di punta e in doppia fila, rendendo impossibili con il solo ausilio delle vele le operazioni di entrata e di uscita; la forte espansione della attività commerciale francese in Mediterraneo a seguito della colonizzazione dell’Algeria. Costruendo un bacino nuovo a lato del porto vecchio, i francesi si pongono all’avanguardia nell’ammodernamento delle opere marittime solo nel periodo 1860-1880, infatti, nei maggiori centri marittimi europei si arriverà alla formazione di aree portuali distinte dalle strutture di origine medievale. Alla stessa epoca inoltre è già in funzione la linea ferroviaria che collega Parigi con Lione, Marsiglia e Tolone. Dal 1857, a seguito del completamente della linea Vienna-Trieste, lo scalo giuliano è il primo porto sudeuropeo collegato via ferrovia con la regione alpina. Al governo imperiale preme proteggere gli interessi politici e commerciali nel Levante, ma anche impedire il predominio francese nelle comunicazioni marittime nel Mediterraneo. Anche a questo scopo, nel 1837, l’imperatore approva gli statuti della società di navigazione a vapore Lloyd Austriaco (l’attualè Lloyd Triestino poi Lloyd Adriatico) ed assegna alla stessa un lucroso contratto postale affinché l’aquila imperiale sia presente a Costantinopoli, Salonicco, Trebisonda e in Siria. Più che logico quindi che, non appena la tecnica lo consente, gli Asburgo si preoccupino di costruire una

1 Si veda al proposito la rivista la “Marina Mercantile” in particolare le annate dei primi anni Settanta 2 O. Ribeiro: op,cit.

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ferrovia capace di dare luogo ad una rapida linea di comunicazione tra il Belgio, la Svizzera, le province renane e Trieste per far gestire a questo porto un hinterland ben più vasto dei territori posti sotto la loro sovranità. Dovranno passare ancora più di vent’anní prima che - grazie al San Gottardo - tra il porto di Genova e il suo hinterland transalpino naturale sia installata una rete di comunicazioni idonea a facilitare i rapporti commerciali del Mediterraneo con la Svizzera e la Germania.

UNA RIVOLUZIONE CULTURALE: “PRODURRE SERVIZI”.

Se guardiamo alla origine etimologica del termine “porto”, troviamo una serie di matrici plurime certamente significative, a iniziare da quella latina di “portus” dove l’origine fluviale di attraversamento, di passaggio e traghettamento appare fondamentale Più schiettamente marittima appare quella greca di ormeggio legata al termine ormus, mentre quella appartenente all’area delle lingue germaniche di haven e di hafen appare connessa alla funzione di riparo, così come l’havre della lingua d’oil appare più artificializzarsi in un termine prossimo al bacino interno. Tutto, in una linea evolutiva più marcata nel nord, pare legarsi a una funzione di servizio e di manufatto connesso a una attività relazionata a quel gioco di manipolazione delle merci che vi attribuisce nuovo valore aggiunto; tutto pare spingere da una primitiva funzione di riparo - rifugio, di “servizio pubblico”, legato all’espletamento di un compito di pubblica utilità1, verso la costruzione di una entità che è elemento di un “terziario produttivo” per dirla in linguaggio dell’oggi. Ora questa nuova tendenza dell’organizzazione del porto ha per altro ormai dietro le spalle un suo lungo cammino. Tutto ciò per altro pone un problema molto reale quello del destino del cabotaggio, il cui annullamento, l’abbiamo visto nel delinearsi di sistemi policentrici e di armature urbane ed insediative costiere, sarebbe una vera sciagura,cosicchè non pare affatto poter essere tema eludibile, in particolare per il mediterraneo2.

1 la progettualità dei moli dall’epoca postunitaria ai nostri giorni, da parte dello Stato, pare in particolare per i piccoli e medi porti aver operato in tal senso 2 per altro bisogna affrontare non in modo semplicistico tale questione, ad esempio, negli anni Ottanta, si è sollevata la questione della opportunità del cabotaggio e si è guardato alle ‘economie settoriali’ che i due grandi canali adriatico e tirrenico consentirebbero e tutto ciò in una pericolosa dissociazione con la storia delle armature insediative della penisola (si pensi alla relativa continentalità di intere armature insediative della penisola, dalla Umbria, alla sabina, agli Abruzzi, dalla porzione del mezzogiorno longobardico che giunge ad interessare il limite delle serre pugliesi). Ma ancor più questo discorso del cabotaggio rischia di essere un arretramento sul piano delle relazioni continentali, rispetto alla rivoluzione intermodale strategica per il mediterraneo, sul piano regionale, rispetto alle necessità del rispondere attraverso sistemi portuali alla formazione e consolidamento di ambiti metropolitani di tipo policentrico e di interi bacini di produzione.

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IL TRAMONTO DELLA FIGURA DEL COMMERCIANTE-ARMATORE

Un elemento fondamentale contribuisce nella seconda metà del XIX sec. a cambiare il panorama del settore marittimo portuale in maniera radicale. Si tratta della graduale scomparsa della figura del commerciante-armatore, tipica dei decenni (ed anzi dei secoli) precedenti e della progressiva specializzazione delle funzioni armatoriali. Nel passato, il viaggio per mare delle merci era considerato una funzione intimamente collegata con il commercio. Chi commerciava beni con l’oltremare doveva necessariamente essere anche armatore: non esisteva infatti la figura di colui che impegna capitali al solo scopo di vendere a terzi il servizio di trasporto1. L’impatto di questa trasformazione è duplice: essa riguarda un importante cambiamento sia nella domanda di strutture e servizi portuali, sia nella stessa composizione del ceto economico che gravita attorno al porto. Quando la figura del commerciante-armatore era dominante, al porto si chiedeva innanzi tutto di dare riparo alla nave, di fornire un elevato numero di accosti, la disponibilità di magazzini e poche altre cose. La nave non era molto importante per l’armatore-commerciante: il suo valore, rapportato al valore del carico, era molto modesto, qualche volta addirittura irrisorio2. Le dimensioni medie della nave armata dal commerciante erano in genere modeste. Per movimentare grossi volumi di traffico erano dunque necessarie molte navi. Questo fatto unito alla lentezza delle operazioni di carico-scarico richiedeva dunque molti metri lineari di banchina ai porti i quali erano sempre congestionati. Di questa situazione si trova traccia in moltissimi documenti che riguardano i traffici marittimi dell’Ottocento: il rapporto tra metri di banchina e carico movimentato era il principale parametro di riferimento per giudicare la situazione e l’efficienza di un porto. Ad esempio, la durata media di sosta di una nave a Marsiglia superava il mese. A Genova dove si era registrata nella prima metà dell’Ottocento una eccezionale concentrazione di commerciantí-armatori, la situazione non appariva molto diversa anche perché nella concezione dell’armatore commerciante la nave era spesso considerata alla stregua di un magazzino galleggiante.

1La figura dell’armatore puro comincia a delinearsi in Olanda nel XVII secolo, all’epoca della massima potenza marittimo-commerciale di quel Paese. Ma nel complesso è solo nell’Ottocento che la figura del commerciante-armatore progressivamente scompare per lasciar posto a quella dell’armatore puro. 2 De Jong ad esempio ci dice che all’inizio dell’Ottocento un viaggio dall’Olanda al Giappone con una nave di circa 1000 tonnellate di stazza poteva produrre profitti dell’ordine di 120 mila fíoriní; mentre il veliero impiegato poteva essere valutato attorno ai 150-200 mila fiorini. Se ne può dedurre che, se tutto andava a buon fine, potevano bastare pochi viaggi e quindi un paio d’anni per ammortizzare la nave che avrebbe potuto avere in seguito, salvo naufragi, una durata di 30 anni ed oltre.

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Nel porto di Marsiglia, prima che un’apposita legge consentisse alla città di dotarsi di un nuovo e più ampio bacino, quello della Joliette, in aggiunta al porto vecchio si registrava un movimento di 20 navi al giorno e la presenza contemporanea all’ormeggio di ben 700 bastimenti. Ne conseguiva una grave congestione; e le navi, per poter essere accomodate, dovevano essere sistemate in doppia fila, perpendicolarmente alla banchina e così vicine, le une alle altre, che le operazioni di entrata e di uscita non potevano essere eseguite sfruttando le vele. Questa strozzatura veniva ulteriormente aggravata dal fatto che esistesse un numero sempre più grande di mezzi di trasbordo che contribuivano a occupare il bacino. L’importanza socio-economico di questa concentrazione non era inespressiva Giorgio Doria rileva che attorno al 1850, a Genova “nel campo delle importazioni di tessuti di lana e di cotone il cui valore è di circa 60 milioni di lire le sei principali ditte estere importano per 17-18 milioni. Su una importazione di circa 10 milioni di lire di pellame, il 30 per cento è nelle mani di due soli commercianti genovesi; per la lana grezza, il cui valore importato è di circa tre milioni, il 75 per cento è conciato da un’unica azienda. Due altre ditte controllano con 12-13 milioni di importazioni il 50 per cento dei grani e monopolizzano l’intero traffico dell’olio. Il 60 per cento delle contrattazioni di tabacco (le cui importazioni si aggirano sui 5 milioni di lire) passa nelle mani di due sole ditte francesi. Nel settore dei coloniali una sola ditta tratta affari per 6 milioni”1. Così è che la categoria dei commercianti-armatori non solo era numerosa a Genova nella prima metà dell’Ottocento, ma lo era anche negli altri ben più piccoli porti della Riviera. Ma il grosso del movimento tendeva sempre più a concentrarsi nel porto della Superba. Negli “scagni” attorno al porto e in piazza Banchi venivano concordati acquisti di grano russo ed egiziano per conto di importatori italiani e di clienti inglesi. Le navi che compivano il trasporto verso la Gran Bretagna dei cereali acquistati in Mar Nero o in Egitto venivano utilizzate con carichi di ritorno di carbone e manufatti dal Regno Unito per Genova. In mano ai genovesi erano anche il commercio del vino, degli oli e di molti generi alimentari. La presenza genovese era forte anche nei settori della lana e delle pelli2. Tutta questa attività commerciale ha la funzione di mobilitare il piccolo risparmio verso impieghi produttivi. Prima dell’affermarsi delle società anonime, l’istituto della caratura offre infatti anche ai piccoli risparmiatori la possibilità. di accedere

1 In M.Macciò, G.Migliorino: “Il porto frainteso”, Costa &Nolan, Genova,1986 2Erano invece controllati da commercianti-armatorí esteri i traffici di prodotti coloniali, quelli dei tessuti e dei prodotti industriali. Né avrebbe potuto essere diversamente poiché il trasporto dei prodotti delle nascenti fabbriche era in genere riservato alle navi dei paesi produttori. L’Inghilterra in particolare esercitava, nella prima fase della rivoluzione industriale, una politica protezionistica non solo nei confronti delle proprie manifatture ma anche al fine di garantire la presenza della propria flotta nei traffici originati nei porti nazionali.

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all’attività marittimo-commerciale e all’impresa di suddividere il rischio, distribuendo i capitali investiti su un certo numero di navi. Alla metà dell’Ottocento, comunque, la figura del commerciante-armatore è ormai prossima a scomparire. A farla saltare contribuiscono due eventi: lo sviluppo delle nuove tecnologie e, in particolare, la navigazione a vapore e la guerra di Crimea (1848-1870) che creando una forte domanda di trasporto per truppe, armamenti e materiali di rifornimento (il solo corpo di spedizione sardo, intervenuto nel 1855, era di circa 18.000 uomini), fa uscire l’armatore-commerciante dall’antica logica e lo trasforma in puro venditore di spazio a bordo. Diverse flotte approfittano della occasione e nasce un modo nuovo di fare l’armatore: chi ha la nave offre solo un servizio di trasporto, lasciando ad altri il compito di commerciare le merci che egli si impegna a portare per mare. Si delineano così due grandi filoni della attività marittima: quello della “busca” e quello della linea; il primo impostato sul movimento di carichi senza stretti vincoli di percorso; il secondo su collegamenti regolari da punto a punto, con una logica simile a quella del trasporto ferroviario1. Lo scenario cambia allora completamente, a volte frammentato in un nuovo gioco di industria protetta, armatoria, cantieristica, come nel caso italiano e genovese in particolare, a volte, come nel caso dell’armatoria greca, fondato su una città-porto inserita in un quadro totale finanziario, immobiliare, di noli e di fitti, di totale extraversione2. IL TEMA DELLA NODALITÀ

Abbiamo avuto modo di vedere come nell’altro “mediterraneo”, fin dalle città della lega Anseatica, fin dalle Compagnie delle Indie, le città-porto siano così intensamente rivolte alla risoluzione di quella permeabilità del territorio, cioè alla risoluzione dei contatti tra vie d’acqua d’altura e vie d’acqua interne, canalizie e fluviali, tra vie d’acqua e vie del ferro e della gomma, da privilegiare totalmente la funzione della commercializzazione, del mercato, della borsa, del trasporto. La grande differenza a livello di immagine tra i porti di questi due mondi, “mediterraneo del nord” e “mediterraneo del sud”, sta proprio nel fatto che gli uni appaiono rivolgersi quasi soltanto alla liquida pianura che sta loro davanti, mentre gli altri che si inoltrano molto dentro gli estuari dei grandi fiumi europei, fanno da nodo al contatto tra le varie pianure, le valli d’acqua e di terra. 1 Il nuovo armatore lucra grossi guadagni con gli Stati belligeranti. Ma questi proventi che, per quanto riguarda l’Italia, vanno in particolare a beneficio della marineria di Camogli, largamente impostata sulla “busca”, non vengono reinvestiti nell’ammodernamento tecnologico della flotta. Si continua con i velieri e, nel giro di poco più di un ventennio, la scelta si rivelerà fatale. 2 Si veda G. Prevelakis: “ Les Balkans”, PUF, Parigi, 1994

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Alla compattezza normalmente configurata per i porti mediterranei fa da contrappunto una molteplicità di tipologie dei porti di quel secondo mediterraneo che si estende dal canale della Manica al Baltico: porti non estroflessi sul mare, e porti interni, policentrismi portuali, estuari e reti deltaiche; si prenda una immagine di un porto della costa atlantica dell’Europa, più ci spostiamo verso nord, più la permeabilità, pur importante anche a sud di questa costa, con la presenza forte degli estuari aumenta1. 1Nell’Ottocento, dopo un periodo di ristagno, l’Olanda si lancerà in una impresa che darà alla rete infrastrutturale maggiore respiro continentale con l’apertura di grandi opere canalizie e con la costruzione della rete ferroviaria. In questo senso nuovi riferimenti macrourbanistici investiranno Amsterdam e Rotterdam che non solo sono rìspettivamente le capitali dell’Olanda del Nord e di quella del Sud ma anche i poli del primo ordine dei due sistemi metropolitani che nel loro insieme costituiscono il bacino del Ramstat. A Amsterdam l’apertura nel 1876 del Canale del Mare del Nord consentirà uno sbocco diretto al mare aperto e sarà in grado, lungo le sue sponde, di organizzare servizi portuali in autonomia funzionale alla grande industria di base (la concentrazione che al suo sbocco sarà successivamente fatta di tutta la produzione siderurgica olandese è manifesta testimonianza di ciò. A Rotterdam una coeva opera di canalizzazione della Maas costituirà, in sinistra e destra dì essa, una completa e innovativo organizzazione degli haven, nuove tecniche di rottura di carico, di “grupage” e di movimentazione, rompendo con le strategie che continuano la logica dell’emporio e dei magazzini generali, definirà ampi spazi di banchinamento e azzonamenti, soprattutto a sud, atti a rispondere alle nuove specializzazioni dello stoccaggio e movimentazione delle rinfuse e del bunkeraggio. sia, negli ampi specchi d’acqua degli haven, sia attraverso un trasbordo diretto sulle “paniches” che solcano il Reno. Ma a fronte di tali trasformazioni ben diverso sarà il rapporto che le due città instaureranno con il porto. Se ad Amsterdam questa estroflessione del porto avverrà sotto l’egida di radicate funzioni urbane (amministrative, finanziarie, universitarie), a Rotterdam possiamo affermare che ciò avverrà sotto il segno del costituirsi di un dominio delle funzioni portuali. A Amsterdam il rapporto tra il poligono urbano compreso nel Singel, il porto. il Canale del Nord e l’Ijsselmeer sarà consapevolmente giocato e felicemente, alla fine degli anni Sessanta del XIX sec. nei Consigli comunali che, respingendo il piano del 1866 dell’ingegnere della città Van Niftrik, non solo negheranno una ipotesi sovradimensionata di espansione ma legheranno il futuro urbanistico della città a due scelte fondamentali: la prima quella di confermare l’ipotesi governativa di allocazione di una stazione centrale passante nella zona del porto che era tradizionale “porta” della città (in contrasto con l’ipotesi del piano del 66 che ne prevedeva a sud della città la sua allocazione), la seconda quella di una espansione ben più contenuta che, basandosi sul parcellare e su certi quartieri agricoli e gettando le basi di nuovi criteri gestionali, anticiperà il piano di Berlaghe. Sicuramente meno consapevolmente inquadrate in un unitario impianto urbanistico appaiono invece le scelte di politica degli interventi che a Rotterdam si sono succedute a partire da quella trasformazione macrourbanistica. Per quanto espressiva, nel suo modo di ricucire il rosario dei centri urbani posti in destra della Maas, la ferrovia, con il suo essere parallela ma lontana dal fronte della Maas (politica che sarà di recente ripresa dal tracciato autostradale) e pur con il suo modo di fissare la stazione nel vertice nord del triangolo del centro storico, aperto con la sua direttrice verso Delft, avrà però nella dicotomica separazione dal fronte portuale il suo limite intrinseco. In tal quadro ogni fatto della tendenza insediativa sembra avvenire senza sostanziali forme di contenimento della linea di conurbazione di questo fronte ed ogni espansione sembra essere soggetta ed inglobata dall’espansione indotta e dai fatti di tracimazione legati alla attività portuale.

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Ora se il contrasto, tra permeabilità e impermeabilità, tra compattezza e articolazione, tra pluralità di bacini e bacino unico, appare esser stato l’elemento che più ha caratterizzato la differenza tra i due mari, la correlazione ferro-acqua legata all’avvento delle ferrovie, ha profondamente modificato questo scenario, la vera grande differenza essendo quella dell’operare nella costruzione di nuovi bacini “per forza di levare” a nord, e per “forza di portare” al sud; nell’avere nell’asse fluviale artificializzato o schiettamente canalizio, al nord, il grafo di sequenza che l’organizza, nello sviluppo continuo entro anche un perimetro e un recinto amministrativamente riconoscibile, della linea di costa contappuntata da moli e sistemi antemurali a mare e d banchina a riva, al sud, la sua forma organizzativa. Il successivo elemento della containerizzazione ha ulteriormente contribuito ad avvicinare i sistemi, facendo sì che l’azzonamento di banchina richiedesse grandi superfici di manovra; questo evento ha ridotto gli spazi interni e ampliato quelli a mare, così l’Europort di Rotterdam ha adottato la tecnica costruttiva per forza di portare” IL SOPRAVVENTO DEL GRANDE PORTO.

Se il secolo XX si è distinto per il sopravvento del grande porto, questo si è definito in funzione dei suoi aspetti infrastrutturali: per il modo con cui ha superato le strozzature della circolazione marittima, quelle stesse che ci mettevano di fronte alle immagini di una serie di navi alla fonda, ancorate in rada ma al di fuori del porto in attesa del loro turno, mentre inattive immobilizzavano capitali cosicchè salivano i costi, i salari e le spese di mantenimento dell’equipaggio, gli interessi del capitale investito, i tassi di noleggio, etc. Così il grande porto deve garantire la sua funzione di “haven” ossia di specchio d’acqua sicuro per le navi, e ciò comporta i problemi dei tiranti d’acqua, ma deve prioritariamente configurarsi come una infrastruttura produttiva più che un pubblico servizio e come tale presentarsi in grado di fornire un quick despatch con i suoi caratteri di crescente produttività per la movimentazione e ciò comporta un mutare continuo della tipologia di banchina, di affidabilità nelle funzioni di carico e scarico, ossia esso deve presentare una razionalità nel sistema delle attrezzature di trasbordo al magazzino o alla integrazione diretta con un altro sistema di trasporto: raccordi ferroviari in primis. Il porto è stato, in un gran numero di casi e fino al XX sec., fondamentalmente luogo di magazzinaggio, e ciò era quanto avveniva in particolare a livello gerarchico superiore. I prodotti vi trovavano i servizi idonei di magazzinamento ( magazzini generali e specializzati ). Il porto della città metropoli e delle “città mondiali” che erano “piazza di mercato”, apprezzava i prodotti che obbligatoriamente vi dovevano fare scalo e ne definiva le caratteristiche merceologiche: Così è che i prodotti al

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posto di trovare nel porto un semplice molo vi trovavano una piazza di commercio, vi trovavano gli operatori che ne facevano uno screening, ne regolavano la mercificazione, così il grande porto attirava i flussi intorno alla borsa e alla piazza finanziaria: Uno degli aspetti vincenti e di rottura con l’immagine sopraddetta nel XX sec. è stata la capacità del porto di presentare una semplificazione delle tecniche di trasbordo in particolare a iniziare da quella delle rinfuse. Così una tipologia, dall’importanza vieppiù crescente, è quella di essere semplice momento di trasbordo in funzione di uno specifico carattere del suo essere punto di rottura di carico, e questo fatto acquisisce sempre più peso nei grandi porti dell’Europa centro occidentale vista la vicinanza di grandi regioni economiche e umane. Il grande impulso del porto di Rotterdam la organizzazione di un retroporto con grande livello di dotazione infrastrutturale. LA TRADIZIONE INDUSTRIALISTA DEL PORTO MEDITERRANEO

A fronte di queste classiche evoluzioni della struttura portuale andrà collocata quella che ha avuto grande peso per i grandi porti mediterranei ed essa è stata quella della trasformazione manifatturiera ed industriale che le materie prime e i semilavorati hanno avuto sul posto, ossia nell’immediato retroporto: a iniziare da quei prodotti biologici che sono stati manipolati e trasformati attraverso l’industria dei grassi, degli oli, dei “semplici” come la grande tradizione marsigliese ci ricorda, o ancora quella dell’industria alimentare, delle gallette, dei biscotti con l’uso dei grani insilati in cui una tradizione di approvigionamento delle navi prende un nuovo indirizzo di mercato come invece ci ricorda la Genova novecentesca, ma anche l’Oneglia degli oli e della pasta a una scala minore. Industrie queste ben approvigionate, ben localizzate rispetto al punto di rottura di carico. Così è che il porto è per la città non un semplice molo ma un vero foyer industriale. Una ulteriore tipologia che contribuisce in modo sostanziale alla concentrazione portuale entro una strategia di stato territoriale nazionale è quella connessa a forme di industrie protette e strategiche. Questa è operante in un quadro di sviluppo che passa dall’autarchico all’autocentrato e che coinvolge dimensioni di azzonamento essendo legata all’industria di base, e a economie di scala e a quadri relazionali commisurati a scale di bacino e di ambito sovraregionali di ingente portata1. E certo in tal senso l’esperienza più importante è data dalla connesione che la cantieristica sviluppa con l’industria pesante, in particolare con la siderurgia fino allo sviluppo del fronte mare in autonomia funzionale del ciclo integrale siderurgico, o di quella degli approvigionamenti energetici.

1 Si veda G. Tacchini: “Studi sulla maglia dinamica”, Milano,2000

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Un esempio paradigmatico in tal senso ci è dato dal porto del Pireo. Nella sua evoluzione Il Pireo, a fronte di una città che concentrava tutte le risorse della koinè e diaspora greca, divenne allora non solo un emporio, un porto commerciale ma anche, come Genova, come Marsiglia, un porto industriale. Quando, sulla fine degli anni Sessanta, la congestione (si legga i costi di congestione), ha messo, qui come ovunque, in crisi quella stessa strategia, esso ha iniziato a vivere di una dicotomia drammatica e manifesta, che sempre aveva covato sotto le ceneri della sua ordinata maglia ippodamica. Così si separano oggi i destini di quelle aree manifatturiere, di quelle “coree” fatte di attività tradizionali in gran parte trasferitesi qui dalle isole, di cui il porto del Pireo è stato il luogo di concentrazione, l’insaziabile accumulatore delle risorse (e in questo senso esso nel suo rapporto con le isole è più simile a Marsiglia e al suo rapporto col Magreb che non a Genova) e di una attività commerciale e armatoriale che viaggia coi ritmi della estroversione dell’economia internazionale1, degli spostamenti di merci e persone in altri e ben diversi quadri di “ecologie delle funzioni”, siano queste quelle dell’industria di base, delle containerizzazioni o dei flussi turistici internazionali.

DAL “FRONTE A MARE” AL SISTEMA PORTUALE.

Sappiamo che il Mediterraneo e l’Italia in particolare, con il Piano Sinigallia, è stata la sede prima dello sviluppo dell’autonomia funzionale dei porti industriali2, che questo ha configurato una forte spinta verso l’articolazione del porto e verso la formazione di un sistema. Ora se il modellamento geomorfologico del mediterraneo, la sua strutturazione fisica non hanno facilitato una permeabilità analoga a quella riscontrata nell’Europa occidentale, andrà per altro rilevato come per alcuni punti privilegiati, i grandi delta: Marsiglia per la valle del Rodano, Venezia per la padania, Livorno per quella dell’Arno, si siano date forme evolutive che hanno fortemente teso verso una logica di organizzazione di rete e che tornano di grandissima attualità. Un sistema a rete, ossia un “sistema omeostatico”3 delle relazioni viarie che va perseguito in una società dalla accresciuta domanda di mobilità operativa, dovrà necessariamente avere nei porti punti di confluenza di direttrici continentali e regionali, di collegamenti istmici tra costa e costa, di dorsali e direttrici interne. Così oggi Marsiglia con Fos, così oggi lo stesso sistema portuale dell’Attica non è solo il Pireo, al di là dello sperone del “monte delle Capre”. Il golfo di Salamina apre a Eleusi alla stessa pianura tebana e un nuovo quadro di relazioni infrastrutturali di 1 In questo senso la Atene del XX sec. è stata molto più “città mondiale” per una collettività di armatori, una realtà immobiliare a misura delle loro iniziative che una “città capitale”. 2ibid. 3 ibid.

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carattere continentale si individua. Nuovi nessi e una nuova armatura maggiormente perequativa, tendente a rafforzare la dinamica già in atto del riequilibrio territoriale della Grecia si mostra . possibile. Così Genova nella sua articolazione portuale di Voltri, ma potremmo giungere fino a Savona, con le sue importanti specializzazioni carbonifere, configura non una puntuale nodalità ma una successione di funzioni portuali in grado di scambiare con tre grandi direttrici di monte, non più il vertice di un triangolo, quello industriale degli anni fino al Sessanta, ma il lato minore di un trapezio. UNA MODESTA IPOTESI CONCLUSIVA

Dopo aver considerato alcuni caratteri inscritti nella storia di questo mare e delle sue città-porto, rivolgiamoci ora al suo futuro, semplicemente proponendo qualche “dubbio metodico”. Quella endiade “città-porto” che la storia urbanistica del mediterraneo ci aveva fatto credere quasi eterna, necessaria, inscindibile, ci appare incrinarsi e forse irrimediabilmente delinearsi una dissociazione e ci appaion configurarsi due destini possibili, l’uno legato ad una ipotesi pessimistica ci riporta a entità che si van separando: la città, sempre più chiusa in una sopravvivenza da secoli bui del Mediterraneo, ed il porto, nelle sue sempre più estese e sempre più inscritte in compartimentazioni aziendali, autonomie funzionari dall’altro. Da questo punto di vista la stessa dissociazione sempre più marcata tra Rotterdam e il suo porto1, sempre più esterno, sempre più lontano qualche dubbio sul suo esser

1Così in un breve giro di anni la Maas ha sostanzialmente perso il suo ruolo di elemento vitale che nella tradizione olandese scandiva i ritmi e i tempi della vita urbana, così essa tende a divenire una ingombrante barriera spaziale o al massimo un suggestivo sfondo per il rinnovo urbano degli haven. In questa logica altre spinte all’ipertrofia si impongono dall’esterno alla città, quali quelle espresse dalle necessarie continuità dei tracciati “continentali” autostradali che spostano allora, fuori asse rispetto alla città storica, l’attraversamento della Maas (si veda come il Benelux tunnel o il ponte autostradale prendano il sopravvento rispetto alle secanti del ponte del Feìjenoord e del Maas tunnel) ne consegue l’estendersi di una rete di traffici canalizzati all’esterno e poco integrati con la città. Così Rotterdan sembra divenire, come molte altre, ma diversamente da Amsterdam, una “città mondiale”, senza una “forma urbis” ed una espressione urbana configurata. Ma certamente tutto ciò, non essendo l’espressione di un destino ineluttabile, può essere contrastato da una progettazione di attività, paesaggi e luoghi che riprendano quel patrimonio rilevante di soluzioni microurbanistiche sparse e disarticolate, di cui abbiamo detto e che, mettendole in rapporto al sedime culturale, non demandabile a puri interessi di restauro e di archeologia industriale dei nuclei storici (da Schiedan al Delfthaven allo stesso triangolo storico di Rotterdam con le sue propaggini primonovecentesche) ricostruiscano quella articolazione che una volta la Maas dava a Rotterdan quasi spontaneamente e che oggi richiede una sapiente opera di ideazione.

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radicato come un tempo in una cultura-civiltà lo dovrebbe, al di là dei trionfi del gigantismo, pur presentare. Al proposito non è forse inutile ricordare come l’ipertrofia e il gigantismo non paiono essere state nella esperienza’ della evoluzione biologica altro che condizioni letali per la loro inerzia e rigidità e, in un momento in cui le “ragioni di scambio” del sistema dell’”economia-mondo” paiono ricercare e trovare altri baricentri (nel bacino pacifico come anche, sia pur più contradditoriamente in quello meditterraneo), soluzioni che trasferiscono il porto sempre più in mare aperto alla ricerca di spazi sempre più ampi e liberi non pare essere politica perseguibile sul lungo periodo e prospettiva culturalmente vincente per le città. Una seconda ipotesi, contrastante con questo processo di dissociazione,riconfigura il tema della portualità, e pur rispettando le esigenze micoreconomiche, lo ricolloca in uno scenario non solo di superamento delle strozzature macroeconomiche del sistema dei trapsoti, ma in uno scenario macrourbanistico consapevole delle relazioni di rete e del ruolo strategico delle armatura policentriche, non univocamente costiere. La realtà portuale richiede allora non tanto soluzioni spinte verso i primati delle economie di scala e del gigantismo ma verso l’articolazione di un sistema portuale, strutturato su una consolidata realtà poleografica e su reti di tipo omeostatico1

1 Si veda G. Tacchini: op.cit.