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12 La grammatica è dottrina ricevuta? 1. Da dove viene la grammatica scolastica? È ormai consolidato l'uso di parlare di 'grammatica tradizionale'. In effet- ti, questo termine comporta un'eccessiva semplificazione, in quanto con- trappone in modo estremamente sbilanciato la grammatica 'moderna' qualunque cosa questo significhi esattamente: quella dell'ultimo secolo? a tutta quella precedente, che ha avuto uno sviluppo di più di due mil- lenni. Inoltre, il pensiero grammaticale pre-moderno non è stato unifor- me, avendo conosciuto un continuo sviluppo nel tempo ed essendo pre- senti almeno due linee di pensiero diverse, una principalmente di tipo in- duttivo, l'altra di tipo deduttivo. Nel tempo non sono cambiate solo le concezioni e le pratiche, ma anche le motivazioni. Come molte altre discipline della cultura occidentale, anche la gram- matica (o la riflessione linguistica in senso lato) affonda le sue radici nel mondo greco; anzi, le fondamenta sono rimaste quelle ereditate dalla cultura greca. Tuttavia, è molto difficile attribuire con precisione e sicu- rezza ad agenti storici i singoli elementi della grammatica ricevuta. La ragione è in parte che si conosce poco delle concezioni linguistiche della Grecia presocratica, in parte che le attestazioni sono di difficile interpreta- zione, essendo il pensiero linguistico mescolato per molti secoli con quello filosofico (in particolare logico- epistemologico) e retorico; in parte, ancora, che si tratta spesso di concezioni approssimative, che possono essere considerevolmente diverse da come sarebbero state intese più tardi. La conseguenza è che è molto fa- cile sopravvalutare i contributi dei grandi filosofi greci, anche a causa della venerazione di cui ancora godo- no, o di fraintenderne il pensiero, retroattivando concezioni che sono state sviluppate molto più tardi. Le prime riflessioni grammaticali conosciute sono di provenienza filosofica, quindi collaterali: l'interesse primario per il linguaggio consisteva nel suo rapporto con la realtà. Ad Aristotele si deve la prima codifica- zione di una certa sistematicità, tripartita, degli elementi della frase conosciuti più tardi come 'parti del di- scorso', la distinzione tra soggetto e predicato (sebbene è dubbio che questi termini avessero il valore che hanno nella grammatica scolastica moderna) e le categorie flessive (caso, numero, genere, ecc.). La scuola filosofica che più si distinse per gli studi di grammatica (e in genere per l'interesse per il lin- guaggio) è quella stoica. La ragione sta nel fatto che gli stoici ritenevano che la conoscenza consistesse nella conformità delle idee con ciò che esiste realmente nel mondo. In altre parole, il linguaggio era visto come la base della logica. Su questa tradizione si innestò la Scuola Alessandrina, sebbene partisse da motivazioni molto diverse: il fine era quello di preservare la "vera" lingua greca (da loro identificata in quella dei poemi omerici) dalla corruzione. Questa scuola produsse nel II secolo a.C. le prime grammatiche greche sistemati- che: quella di Dionisio Trace (di particolare rilevanza per la morfologia) e quella di Apollonio Discolo (di particolare rilevanza per la sintassi), che furono il modello grammaticale per tutta l'antichità.

12 La grammatica è dottrina ricevuta?...fusa che la grammatica sia una sorta di dottrina ricevuta, che non avrebbe senso discutere, meno che mai as-soggettare a criteri di adeguatezza

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Page 1: 12 La grammatica è dottrina ricevuta?...fusa che la grammatica sia una sorta di dottrina ricevuta, che non avrebbe senso discutere, meno che mai as-soggettare a criteri di adeguatezza

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La grammatica è dottrina ricevuta?

1. Da dove viene la grammatica scolastica?

È ormai consolidato l'uso di parlare di 'grammatica tradizionale'. In effet-

ti, questo termine comporta un'eccessiva semplificazione, in quanto con-

trappone in modo estremamente sbilanciato la grammatica 'moderna' –

qualunque cosa questo significhi esattamente: quella dell'ultimo secolo?

– a tutta quella precedente, che ha avuto uno sviluppo di più di due mil-

lenni. Inoltre, il pensiero grammaticale pre-moderno non è stato unifor-

me, avendo conosciuto un continuo sviluppo nel tempo ed essendo pre-

senti almeno due linee di pensiero diverse, una principalmente di tipo in-

duttivo, l'altra di tipo deduttivo. Nel tempo non sono cambiate solo le

concezioni e le pratiche, ma anche le motivazioni.

Come molte altre discipline della cultura occidentale, anche la gram-

matica (o la riflessione linguistica in senso lato) affonda le sue radici nel mondo greco; anzi, le fondamenta

sono rimaste quelle ereditate dalla cultura greca. Tuttavia, è molto difficile attribuire con precisione e sicu-

rezza ad agenti storici i singoli elementi della grammatica ricevuta. La ragione è in parte che si conosce poco

delle concezioni linguistiche della Grecia presocratica, in parte che le attestazioni sono di difficile interpreta-

zione, essendo il pensiero linguistico mescolato per molti secoli con quello filosofico (in particolare logico-

epistemologico) e retorico; in parte, ancora, che si tratta spesso di concezioni approssimative, che possono

essere considerevolmente diverse da come sarebbero state intese più tardi. La conseguenza è che è molto fa-

cile sopravvalutare i contributi dei grandi filosofi greci, anche a causa della venerazione di cui ancora godo-

no, o di fraintenderne il pensiero, retroattivando concezioni che sono state sviluppate molto più tardi.

Le prime riflessioni grammaticali conosciute sono di provenienza filosofica, quindi collaterali: l'interesse

primario per il linguaggio consisteva nel suo rapporto con la realtà. Ad Aristotele si deve la prima codifica-

zione di una certa sistematicità, tripartita, degli elementi della frase conosciuti più tardi come 'parti del di-

scorso', la distinzione tra soggetto e predicato (sebbene è dubbio che questi termini avessero il valore che

hanno nella grammatica scolastica moderna) e le categorie flessive (caso, numero, genere, ecc.).

La scuola filosofica che più si distinse per gli studi di grammatica (e in genere per l'interesse per il lin-

guaggio) è quella stoica. La ragione sta nel fatto che gli stoici ritenevano che la conoscenza consistesse nella

conformità delle idee con ciò che esiste realmente nel mondo. In altre parole, il linguaggio era visto come la

base della logica. Su questa tradizione si innestò la Scuola Alessandrina, sebbene partisse da motivazioni

molto diverse: il fine era quello di preservare la "vera" lingua greca (da loro identificata in quella dei poemi

omerici) dalla corruzione. Questa scuola produsse nel II secolo a.C. le prime grammatiche greche sistemati-

che: quella di Dionisio Trace (di particolare rilevanza per la morfologia) e quella di Apollonio Discolo (di

particolare rilevanza per la sintassi), che furono il modello grammaticale per tutta l'antichità.

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

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I grammatici romani imitarono i modelli greci con pochi adattamenti, quelli motivati dalle differenze tra

greco e latino, e li perfezionarono. Questa tradizione produsse qualche secolo più tardi le grammatiche di

Donato (c. 400 d.C.) e Prisciano (c. 500 d.C.), che – come le grammatiche alessandrine – prendevano come

modello la lingua latina dei classici. Queste grammatiche, in particolare quella di Prisciano, sono state alla

base della teoria, pratica e insegnamento scolastico della grammatica per tutto il medioevo (anche in virtù

dell'immensa importanza del latino nell'istruzione) e, indirettamente, fino ai giorni nostri.

Una linea di pensiero in parte divergente è quella che, a più riprese e con le dovute differenze, provenne

dall'area dell'Île de France, di carattere speculativo e universalista. La prima fase, intorno al XIII secolo, è

detta dei 'modisti', perché mirava ad accertare i modi del pensiero attraverso il linguaggio ed era di deriva-

zione aristotelica. Il termine 'speculativo' va inteso proprio in questo senso: le categorie linguistiche rispec-

chierebbero quelle della realtà. Si tratta, in altre parole, di un approccio di tipo deduttivo. Qualche secolo più

tardi (intorno al seconda metà del XVII secolo) questa linea di pensiero prese forma nella grammatica gene-

rale (o ragionata/razionale) di Port Royal, in cui 'generale' non ha nulla a che vedere col tentativo di scoprire

leggi universali che regolano tutte le lingue, ma nell'assunto che il linguaggio è prodotto dalla ragione e che

le differenze tra le lingue umane sono solo accidentali, variazioni di un sistema generale. Queste grammati-

che ebbero molto successo, specialmente in Francia, specialmente durante l'Illuminismo.

La grammatica che viene insegnata tradizionalmente nelle scuole dell'Occidente è il risultato di queste e-

sperienze linguistiche variegate, che hanno dato luogo a un sistema non necessariamente coerente né traspa-

rente. Una conseguenza è che non è facile, e a volte persino impossibile, stabile con ragionevole certezza a

quale scuola risalga uno specifico elemento del sistema. Un altro aspetto della questione è che questo sistema

viene tradizionalmente insegnato in modo acritico a scolari in età acritica: tipicamente, fino a qualche gene-

razione fa si insegnava a partire dalla seconda elementare, cominciando con l'analisi grammaticale, per pro-

seguire con l'analisi logica in IV elementare e l'analisi del periodo in V elementare (attualmente, quest'ulti-

ma si insegna normalmente a partire dalla I media). Tutti questi fattori contribuiscono all'idea largamente dif-

fusa che la grammatica sia una sorta di dottrina ricevuta, che non avrebbe senso discutere, meno che mai as-

soggettare a criteri di adeguatezza scientifica. Infatti, quasi unanimemente la grammatica non è considerata

una disciplina descrittiva, ergo falsificabile, ma prescrittiva, o comunque "data".

2. Natura della sintassi

Uno degli aspetti della grammatica tradizionale che più ha attirato le critiche

da parte dei linguisti contemporanei è la sua giustificazione delle categorie

linguistiche. Per capire questo, conviene partire da un assunto di base riguardo

alla natura della sintassi, che possiamo considerare assiomatico: la sintassi

consiste nei principi con cui le parole si combinano. La ragione di questa

enunciazione è che la sintassi, come si ricorderà, è un meccanismo che, a par-

tire da un numero limitato di parole, crea un numero illimitato di frasi. Inoltre,

grazie alla sua proprietà fondamentale, la ricorsività, è in grado di creare, in

linea di principio, frasi infinitamente lunghe, come avviene per i numeri. Questo comporta che l'apprendi-

mento di una lingua non consiste nella memorizzazione di tutte le frasi possibili (esattamente come non si

possono imparare a memoria tutti i numeri possibili). Non consiste nemmeno nella memorizzazione di sche-

mi, perché, in virtù della ricorsività, anche gli schemi sono infiniti.

Questo introduce la seguente domanda: secondo quali principi si combinano le parole? Il candidato imme-

diato, sulla base della pratica della grammatica tradizionale, è che il principio con cui le parole si combinano

è il significato, ovvero che una frase è grammaticale se ha senso. È facile mostrare che questo assunto è fal-

so. Si considerino le frasi seguenti:

a. ?Una virtù sta bevendo una pietra con lenta fretta.

b. *Fretta sta lenta con virtù una pietra una bevendo.

Nessuna delle frasi in (1) ha senso; tuttavia, mentre (a) è grammaticale (può essere pronunciata come una

frase normale, con un ritmo normale e un'intonazione normale), (b) non lo è (non c'è modo di assegnarle un

ritmo e un'intonazione normale). Eppure le parole che compongono (a) e (b) sono identiche. Se fosse il senso

che determina la grammaticalità, non ci sarebbe modo di capire la differenza di giudizio che le due frasi rac-

colgono. La differenza tra le due è che (a) non permette un'interpretazione ovvia del suo significato, mentre

(b) è un'insalata di parole. Si osservino, infatti, le frasi seguenti che, al contrario, sono formate da parole che

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Marco Svolacchia

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insieme hanno perfettamente senso (le prime due risultano anche facilmente interpretabili) e che tuttavia ri-

sultano agrammaticali:

a. *Sembra Gianni contento. b. *Dove Gianni è andato? c. *Chi sei stato chiamato dopo che è arrivato?

A conferma di ciò, basta cambiarne l'ordine e le frasi diventano grammaticali:

a. Gianni sembra contento. b. Dove è andato Gianni? c. Sei stato chiamato dopo che è arrivato chi?

Della coppia di frasi sinonime in (1) sotto solo la prima è grammaticale: la presenza di 'di' in (b) la rende a-

grammaticale; al contrario, in (2) (b) risulta agrammaticale per l'assenza di 'di':

1. a. Gianni vuole andare al mare. b. *Gianni vuole di andare al mare.

2. a. Gianni ha voglia di andare al mare. b. *Gianni ha voglia andare al mare.

Conclusioni simili si possono trarre dal contrasto tra (a), una frase grammaticale, e (b), agrammaticale, in cui

manca il complemento diretto di 'catturò':

a. Un poliziotto catturò un ladro. b. *Un poliziotto catturò.

All'inverso, con un verbo come 'cammina' non è possibile aggiungere un complemento diretto:

a. Gianni cammina. b. *Gianni cammina la strada.

Come si vede, non è il senso delle parole che compongono una frase che ne determina la grammaticalità, ma

proprietà diverse, di natura formale (ordine delle parole, presenza di elementi grammaticali, ecc.). La conclu-

sione è che una frase è ben formata a prescindere dal senso delle parole che la compongono.

3. Sintassi e significato

Si noti che questo non significa che la sintassi non abbia nulla a che fare col significato.

Al contrario. Si osservino le frasi seguenti:

a. Un poliziotto catturò un ladro. b. Un ladro catturò un poliziotto.

La differenza di senso tra (a) e (b) non sta nelle parole che le compongono, ma nell'ordine delle stesse: in (a)

la posizione di soggetto della frase è occupata da 'poliziotto', in (b) da 'ladro'; questo determina una differen-

za di ruolo semantico nella frase ('chi fa qualcosa a chi').

Ancora, si consideri la frase Il bimbo mangia le fragole in giardino, che può essere ambiguamente inter-

pretata come in (a) o in (b):

1a. Il bimbo mangia le fragole che sono in giardino. 1b. Il bimbo mangia le fragole stando in giardino.

L'ambiguità di (1) non è di natura lessicale (i.e. non dipende dall'ambiguità di senso di una parola) ma sintat-

tica: l'elemento 'in giardino' si può "riferire" (il termine tecnico è 'ha portata su') sia al complemento di

'mangia' ('le fragole') sia all'intero predicato verbale 'mangia le fragole'. Il problema è che la grammatica tra-

dizionale, nello specifico 'l'analisi logica', non è in grado di render conto di questa ambiguità (e di un numero

infinito di frasi di questo tipo). Questo vuol dire che non solo non è in grado di spiegare la ragione di questa

ambiguità, ma nemmeno, banalmente, di descriverla. Per capire questo, si osservi come verrebbero analizza-

te le due possibili interpretazioni della frase:

a. Il bimbo mangia le fragole (che sono) in giardino. VERBO OGGETTO STATO IN LUOGO

SOGGETTO PREDICATO

b. Il bimbo mangia le fragole (stando) in giardino. VERBO OGGETTO STATO IN LUOGO

SOGGETTO PREDICATO

Come si vede, entrambe le interpretazioni vengono analizzate in modo identico. Questo risultato non è acci-

dentale né episodico, ma evidenza un limite intrinseco molto importante della grammatica scolastica (dell'a-

nalisi logica, nello specifico): essere debolmente relazionale. Che cosa significa esattamente 'relazionale'?

Un'analisi relazionale consiste nell'indicare la relazione di ciascun elemento con il resto degli elementi della

frase cui appartiene.

Perché l'analisi logica è relazionale? Perché indica la relazione che alcuni elementi della frase intrattengo-

no con altri. Gli esempi più chiari sono i complementi del verbo, come l'oggetto diretto e indiretto (è implici-

to che sono retti da un verbo, i.e. dipendono da un verbo), l'attributo (p.e. 'attributo del soggetto/oggetto',

ecc.), l'apposizione (p.e. 'apposizione del soggetto/oggetto', ecc.). Per quanto riguarda l'aggettivo, ad esem-

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

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pio, l'analisi logica non si limita a indicare che è un "attributo" (i.e. che si riferisce a/ha portata su un altro

elemento), ma specifica di quale elemento.

Perché l'analisi logica è debolmente relazionale? Perché non specifica la relazione di molti altri elementi,

in particolare dei complementi aggiunti (i.e. quei "complementi" che non dipendono dal verbo, i.e. che in re-

altà non sono affatto complementi) e degli avverbi. Proprio il primo caso è il lupus in fabula: l'incapacità da

parte dell'analisi logica di disambiguare una frase come in (1) sopra nasce proprio dall'incapacità di indicare

in quale relazione sia il complemento aggiunto col resto della frase. Un esempio di ambiguità di portata rela-

tiva a un avverbio è 'Luca ha deciso di andare al cinema tardi.', in cui l'avverbio può avere portata sia su 'an-

dare al cinema' (gli va di andare al cinema a uno degli ultimi spettacoli) sia su 'deciso di andare al cinema'

(si è deciso tardi ad andare al cinema, senza specificare a quale spettacolo).

Per capire in che cosa consista un'analisi sintattica pienamente relazionale si osservino le seguenti rappre-

sentazioni, che sono in forma di diagramma ad albero, il mezzo di rappresentazione più utilizzato nella sin-

tassi contemporanea, in cui (1a) rappresenta l'interpretazione le fragole che sono in giardino e in cui (1b)

rappresenta l'interpretazione mangia le fragole stando in giardino (il triangolo delimita le parole che fanno

parte del costituente indicato dall'indicatore sintagmatico (F = frase; SN = sintagma nominale; SV = sintagma

verbale; SP = sintagma preposizionale; V = verbo):

(1a) F

SN SV

V SN

SN SP

Il bimbo mangia le fragole in giardino

(1b) F

SN SV

SV SP

Il bimbo mangia le fragole in giardino

Si noti che la superiorità di questa analisi rispetto a quella tradizionale non dipende dalla tecnica rappresen-

tazionale (che pure ha la sua importanza, sebbene secondaria). Lo stesso risultato si può ottenere con le pa-

rentesi quadre, un'altra tecnica molto utilizzata:

1a. Il bimbo mangia [SN [SN le fragole] in giardino] 1b. Il bimbo [SV [SV mangia le fragole] in giardino]

Le due rappresentazioni sono perfettamente equivalenti, ma hanno tipicamente un uso diverso. Il diagramma

ad albero produce rappresentazioni più facili da decodificare, ma più difficili da codificare: richiede grafica e

molto spazio nel testo. Viceversa, le parentesi sono molto facili da codificare (si potrebbe utilizzare una

semplice macchina da scrivere) e occupano poco spazio nella pagina, ma sono difficili da decodificare; per

questo si utilizzano preferibilmente quando le strutture sono molto semplici o vengono rappresentate in mo-

do molto essenziale (come negli esempi sopra), pena l'illeggibilità.

Si noti che la frase ambigua di cui sopra non è una curiosità (o un'eccezione, per usare un termine tradizio-

nale), ma uno tra gli infiniti esempi che si possono fare. Si osservi a questo proposito l'esempio seguente,

'Piero accompagna una ragazza in bicicletta', anch'esso strutturalmente ambiguo tra le interpretazioni (a) e

(b):

2a. Piero accompagna una ragazza che è in bicicletta. 2b. Piero accompagna una ragazza e lo fa in bicicletta.

Anche in questo caso l'analisi logica non è in grado di render conto dell'ambiguità. Segue la rappresentazione

mediante un diagramma ad albero delle due strutture:

(2a) F

SN SV

V SN

SN SP

Piero accompagna una ragazza in bicicletta

(2b) F

SN SV

SV SP

Piero accompagna una ragazza in bicicletta

È importante notare che l'aggiunto 'in bicicletta' non può avere, in questa frase, portata sul soggetto (i.e. 'Pie-

ro, che ha la bicicletta, accompagna una ragazza'). Per rendersi conto di questo, si osservi il seguente esem-

pio, L'uomo osserva un bimbo con un cannocchiale, ancora ambiguo tra l'interpretazione (a) e (b):

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Marco Svolacchia

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3a. L'uomo osserva un bimbo che ha un cannocchiale. 3b. L'uomo osserva un bimbo e lo fa con un cannocchiale.

Si confronti l'interpretazione (b) con la frase Un uomo con un cannocchiale osserva un bimbo, in cui l'ag-

giunto ha portata sul soggetto, rappresentata come segue:

(4) F

SN SV

SN SP

Un uomo con un cannocchiale osserva un bimbo

Questa frase, in effetti, è anch'essa ambigua, ma per ragioni diverse, potendo avere le interpretazioni seguen-

ti:

4a. L‟uomo ha un cannocchiale (in mano, appeso al collo, ecc.), ma non lo usa per osservare il bimbo.

4b. L‟uomo ha un cannocchiale e lo usa per osservare il bimbo.

L'interpretazione in (4b) equivale a quella in (3b), ma l'interpretazione in (4a) è impossibile in una frase co-

me (3) sopra, in cui l'aggiunto è adiacente all'oggetto.

Come si spiega questo fenomeno apparentemente misterioso? La risposta è semplice: quando l'aggiunto è

adiacente al soggetto ha portata sullo stesso. Questo significa che lo espande sintatticamente e nel contempo

ne restringe la referenza: la classe degli elementi a cui l'espressione 'un uomo con un cannocchiale' si può ri-

ferire è più ristretto della classe degli elementi a cui l'espressione 'un uomo' si può riferire (questa frase è ve-

ra se e solo se chi osserva un bimbo è un uomo col cannocchiale, non semplicemente un uomo). Pertanto, la

frase non dice nulla a proposito del fatto che l'uomo possa avere usato il cannocchiale per osservare il bimbo

o meno; dice solo che l'uomo ha un cannocchiale. Perché allora è possibile anche l'interpretazione in cui l'ag-

giunto sembra avere portata sul predicato (i.e. 'l'azione di osservare il bimbo è con un cannocchiale')? In real-

tà, l'ambiguità non è strutturale (l'aggiunto non può avere portata sul predicato in quella posizione), ma origi-

na dai meccanismi inferenziali: sappiamo che un uomo osserva un bambino e sappiamo che ha un cannoc-

chiale; traiamo allora l'inferenza che il cannocchiale venga utilizzato a quello scopo. A conferma di questo, si

osservi una frase strutturalmente equivalente, ma con un diverso elemento aggiunto al soggetto: 'Un uomo

con una cravatta osserva un bambino.' Questa frase può solo significare che un uomo ha una cravatta, non

che la utilizza per osservare il bimbo. Perché no? Perché in questo caso l'inferenza strumentale è esclusa,

perché sappiano che le cravatte non possono essere utilizzate per osservare. Piuttosto, l'inferenza che traiamo

in questo caso è che l'uomo indossi la cravatta (invece di portarla in mano, per esempio), perché sappiano

che normalmente le cravatte vengono indossate.

Il senso di questa discussione è che la struttura sintattica è responsabile dell'interpretazione semantica del-

le frasi, i.e. di come le parole si uniscono a comporre significati complessi. Ovviamente, questo non vale solo

per le frasi ambigue; tutt'altro. La ragione per cui si è partiti dalle frasi ambigue è solo per mostrare in modo

chiaro l'inadeguatezza della grammatica tradizionale. Gli stessi principi regolano tutte le strutture possibili.

Si prenda, ad esempio, una frase come la seguente, in cui compare un aggiunto: 'Gianni lesse un libro con la

copertina blu.' Su quale costituente ha portata l'aggiunto? Sembra ovvio che abbia portata sull'oggetto, come

la rappresentazione seguente illustra:

F

SN SV

V SN

SN SP

Gianni lesse un libro con la copertina blu

F

SN SV

SV SP

V SN

Gianni lesse un libro con grande piacere

Si noti, tuttavia, che la struttura di cui sopra è identica a quelle precedenti (un aggiunto che segue un com-

plemento oggetto): perché allora non è ambigua? In realtà, è ambigua, esattamente come le precedenti. La

differenza è che l'interpretazione basata sull'aggiunto che ha portata sul predicato è pragmaticamente strana,

perché è difficile, sebbene non impossibile, dare dell'aggiunto un'interpretazione strumentale: 'Gianni lesse

un libro con indosso una copertina blu'. All'inverso, a una frase come 'Gianni lesse un libro con grande piace-

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

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re' è essenzialmente impossibile assegnare l'interpretazione in cui l'aggiunto, 'con grande piacere', abbia por-

tata sull'oggetto (i.e. 'un libro del tipo grande piacere'); pertanto, l'interpretazione risulta strumentale.

Come si vede, l'interpretazione di una frase è anche guidata da considerazioni pragmatico-inferenziali, che

fanno sì che un'interpretazione sintatticamente possibile venga scartata (o sfavorita) sulla base delle nostre

conoscenze del mondo e dei meccanismi inferenziali che a esse si applicano per interpretare l'implicito.

Analoghe considerazioni valgono per qualsiasi struttura in cui ricorrono almeno due costituenti su cui un

aggiunto possa avere portata. Ad esempio, un sintagma nominale come '(un) libro di favole di Grimm' è in-

terpretato secondo la seguente struttura, (a), in base al fatto che il lettore/ascoltatore sa che Grimm è un auto-

re di fiabe (non il proprietario o l'autore del libro):

a. SN

SN SP

P SN

SN SP

libro di favole di Grimm

b. SN

SN SP

libro di favole di Pierino

Viceversa, un sintagma come '(un) libro di favole di Pierino' viene normalmente interpretato come sopra, (b),

in cui Pierino è il proprietario del libro, non l'autore.

L'ambiguità di portata degli aggiunti non si limita ai casi presi in esame, in cui i costituenti su cui si può

estendere la portata sono un complemento o l'intero predicato (i.e. il sintagma verbale). Un'altra classe molto

comune di frasi strutturalmente ambigue è quella che contiene una coordinazione, come nel sintagma 'una

ragazza e una signora col cappellino', che può corrispondere alle seguenti due strutture:

a. una ragazza e [SN [SN una signora] col cappellino] b. [SN [SN una ragazza e una signora] col cappellino]

La conclusione di questa lunga discussione è che la sintassi ha in effetti molto a che vedere col significato,

non nel senso che dipende dal significato delle parole (si possono produrre frasi senza senso ma perfettamen-

te grammaticali, e viceversa), ma nel senso che essa regola l'interpretazione semantica della frase, unendo

significati semplici (le parole e i morfemi grammaticali) per creare significati complessi (le frasi). In sintesi,

la sintassi consiste nei principi con cui le parole si combinano e compongono il significato.

Resta da spiegare da dove origini l'ambiguità di portata e perché la grammatica tradizionale è incapace di

renderne conto, in altre parole perché è solo debolmente relazionale.

4. Architettura della frase

Per rispondere alla prima domanda è necessario prendere in considerazione l'architettura generale della frase

e i meccanismi che ne sono alla base. Si prenda una frase complessa come „Mio fratello vuole che Maria va-

da a casa sua‟ e si consideri come viene analizzata dalla grammatica scolastica. La prima osservazione è che

si tratta di un sistema tripartito. Si comincia con l'analisi grammaticale (la tecnica rappresentazionale scelta

per ragioni di chiarezza, una tabella, sebbene non sia tradizionalmente utilizzata nella grammatica scolastica,

è concettualmente equivalente a quelle più informali in uso nella pratica scolastica; le righe inferiori sono re-

lative alla sottocategorizzazione degli elementi):

Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua AGG. NOME VERBO CONG. NOME VERBO PREP. NOME AGG.

POSS.

SING. MASC.

SING. MASC.

TRANS.

3 P. SING. PRES. IND.

PROPRIO

SING. FEM.

INTRANS.

MOVIMENTO

COMUNE

SING. FEM.

POSS.

SING. FEM.

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Marco Svolacchia

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Poi è la volta dell'analisi logica:

Mio fratello vuole che Maria vada a Casa sua VERBO COMPLEMENTO

MOTO A LUOGO

? SOGG. PREDICATO VERBALE

ATTRIBUTO DEL SOGG. SOGGETTO VERBO COMPLEMENTO

SOGGETTO PREDICATO VERBALE

Infine, dell'analisi del periodo:

Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua FRASE PRINCIPALE (INDIPENDENTE) FRASE SECONDARIA (DIPENDENTE)

DICHIARATIVA

AFFERMATIVA

DICHIARATIVA

AFFERMATIVA

OGGETTIVA

Perché tre livelli? Per quanto possa sembrare sorprendente, se si considera la questione senza pregiudizi,

nell'insegnamento scolastico questo non viene spiegato. Quello che si intuisce è che l'analisi grammaticale

analizza singole parole (assegnando ciascuna di esse a una specifica classe sintattica, dotata di proprietà che

sono alla base delle proprie possibilità combinatorie), l'analisi logica analizza gruppi di parole (che gravitano

intorno a una parola principale), l'analisi del periodo analizza frasi ('proposizioni'). Tuttavia, sebbene questo

non corrisponda alla pratica tradizionale (fatto che parla da sé), nulla vieta di accorpare le tre analisi in un'a-

nalisi globale, in cui ciascun 'periodo' viene analizzato a partire dagli elementi maggiori fino a quelli minimi

(o viceversa), come la tabella seguente mostra:

Mio fratello vuole che Maria vada a Casa sua AGG. NOME VERBO CONG. NOME VERBO PREP. NOME AGG.

“VERBO” COMPLEMENTO

? SOGG. PREDICATO (VERBALE)

ATTRIBUTO SOGGETTO “VERBO” COMPLEMENTO

“SOGGETTO” PREDICATO (VERBALE)

FRASE PRINCIPALE (INDIP.) FRASE SECONDARIA (DIP.)

Da questo punto di vista, la grammatica tradizionale potrebbe essere equivalente alla teoria sintattica con-

temporanea, come la rappresentazione seguente mostra (la natura dell'elemento contrassegnato da '?', la cui

spiegazione richiederebbe troppo spazio, non verrà qui considerato perché irrilevante):

F

SN SV Det N V ? ? F SN SV V SP P SN

N Det

Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua

Non c'è alcuna ragione per partizionare la costruzione della frase in tre fasi diverse. Una frase come 'Un poli-

ziotto catturò un ladro davanti a casa mia.' può essere uniformemente scomposta in unità vieppiù piccole (l'e-

lemento che viene ulteriormente analizzato è quello a destra; S = sintagma; P = parola), come segue:

a. [S un poliziotto] [S catturò un ladro davanti a casa mia].

b. [S catturò un ladro] [S davanti a casa mia]

c. [P davanti] [S a casa mia]

d. [P a] [S casa mia]

e. [P casa] [P mia]

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Come si vede, le frasi sono formate da sintagmi e i sintagmi sono formati da parole. Tuttavia, non c'è nessu-

na barriera tra gli elementi, qualunque sia il loro rango. C'è un'altra ragione più profonda, oltre che la sempli-

cità formale, per rifiutare la tripartizione della grammatica tradizionale. In realtà le due rappresentazioni –

quella della tabella e quella a diagramma ad albero – sono molto diverse: mentre l'analisi tradizionale è line-

are – gli elementi (parole, sintagmi, proposizioni) si succedono semplicemente l'uno con l'altro – la rappre-

sentazione di cui sopra è invece gerarchica e ricorsiva. È gerarchica perché molti elementi non seguono gli

altri, ma sono contenuti negli altri. Il termine che si usa è incassati (da 'cassa', i.e. inscatolati). In effetti, la

sintassi delle lingue umane funziona un po' come le scatole cinesi, in cui ogni scatola è contenuta da un'altra.

Pertanto, se è vero che, in ultima analisi, le frasi sono fatte di sintagmi e i sintagmi di parole, non è vero che

le frasi vengono costruite prima unendo le parole in sintagmi, poi i sintagmi in proposizioni, infine le propo-

sizioni in "periodi". Invece, parole, sintagmi e frasi ('proposizioni', se si preferisce) si succedono senza solu-

zione di continuità: nell'esempio di cui sopra, il SV è formato da una parola, il verbo, più una frase intera

(che ha la stessa struttura di quella principale), non una parola. Questo è proprio una manifestazione della ri-

corsività di incassamento (senza il quale sarebbe possibile solo una ricorsività banale, di coordinazione: p.e.,

'Maria è simpatica e intelligente e vivace e...').

Per amore di chiarezza, si riconsideri l'esempio già visto di frase complessa. Secondo la grammatica tra-

dizionale verrebbe analizzata come segue, in cui i numeri esprimono la successione delle due proposizioni:

1 2

Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua

FRASE PRINCIPALE FRASE SECONDARIA

Nella sintassi contemporanea la stessa verrebbe analizzata come segue:

[F [SN Mio fratello] [SV vuole [F che Maria vada a casa sua]]]

Si considerino anche le rappresentazioni seguenti (con parentesi la prima, con un diagramma ad albero la se-

conda), in cui è stata resa più perspicua la struttura incassata della frase per finalità didattiche (per semplicità,

ci siamo limitati ad evidenziare gli elementi più interessanti):

F [SN Mio fratello] SV vuole F che Maria vada a casa sua

F

SN SV Det N V ? ? F SN SV V SP P SN

N Det

Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua

Come si vede, non esiste una proposizione 'Mio fratello vuole'; la frase principale è l'intera frase 'Mio fratello

vuole che Maria vada a casa sua‟, all'interno della quale è incassata la frase subordinata 'che Maria vada a ca-

sa sua‟. In altre parole, nell'analisi tradizionale la nozione di proposizione principale è sinonima di proposi-

zione indipendente. Si tratta di un errore grossolano: è facile dimostrare che una proposizione principale non

è necessariamente indipendente. Proprio la frase sopra ne fornisce un esempio: 'Mio fratello vuole' non è af-

fatto indipendente. La ragione è semplicemente che non è una "proposizione", i.e. una frase; infatti, è eviden-

te che è incompleta; la frase secondaria non segue la frase principale: è inscatolata ('incassata') nella stessa

(o, meglio, è incassata nel predicato, il SV, della frase principale, il quale a sua volta è incassato nella frase

principale). Viceversa, nella frase 'Luca mangia mentre guarda la TV.', la frase principale, 'Luca mangia', è

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Marco Svolacchia

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indipendente, perché completa (la ragione di questo contrasto, il senso di 'frase completa', diventerà chiaro

più avanti): [F [F Luca mangia] mentre guarda la TV].

L'incassamento degli elementi gli uni negli altri non è una proprietà specifica delle frasi, ma di qualsiasi

costituente. Si ricordi il caso degli 'aggiunti', che espandono un elemento delle frase:

F

SN SV

V SN

SN SP

Gianni lesse un libro con la copertina blu

Come si vede, la "scatola" dell'aggiunto 'con la copertina blu' si aggiunge a quella del complemento, venendo

a formare una scatola più grande, quella del complemento espanso (un 'libro con la copertina blu' è un'espan-

sione di un 'libro'; al tempo stesso, è più restrittivo: la frase è vera se e solo se il libro che Gianni lesse aveva

la copertina blu, non semplicemente se fosse un libro).

Resta da spiegare perché l'incassamento è una configurazione così tipica della sintassi delle lingue umane.

La risposta è che esso deriva dal meccanismo combinatorio fondamentale della sintassi, che consiste nell'u-

nire due elementi alla volta ricorsivamente. La prima proprietà prevede solo combinazioni binarie: sono

escluse combinazioni di più di due elementi. Ad esempio, un'espressione come 'tornare a casa subito' si ottie-

ne nel modo seguente:

1A COMBINAZIONE

aP + casaN → [a casa]SP;

SP

P N

a casa

2A COMBINAZIONE

tornareV + [a casa]SP → [tornare [a casa]SP ]SV;

SV

V SP

tornare a casa

3A COMBINAZIONE

[tornare [a casa]SP ]SV + subitoAVV → [tornare [a casa]SP ]SV subito]SV

SV

SV Avv

V SP

tornare a casa subito

Non si ottiene, invece, nel modo seguente:

tornareV + aP + casaN + subitoAVV → * [tornare a casa subito]SV

* SV

V P N Avv

tornare a casa subito

La proprietà della ricorsività prevede che alcuni meccanismi possano essere ripetuti senza limiti (l'espressio-

ne sopra ne fornisce un esempio). La ricorsività, si ricordi, è la proprietà che permette al linguaggio umano di

essere un sistema illimitatamente aperto; in particolare, permette di creare frasi infinitamente lunghe e, di

conseguenza, frasi in numero illimitato.

Va sottolineato che il meccanismo di combinazione non opera ciecamente, i.e. non unisce qualsiasi ele-

mento; piuttosto, unisce un elemento a un altro che ne soddisfi i requisiti (nel lessico degli addetti ai lavori si

parla di 'tratti'). Descrivere questo aspetto, che può essere molto complesso a seconda dei casi, esula dagli

scopi di questa trattazione; ci limiteremo a darne alcune indicazioni a titolo di chiarimento: un verbo, a se-

conda delle sue proprietà (essere plurivalente; per cui v. più avanti) può unirsi a un complemento (p.e. 'bere

del vino', ma non *'sciare una discesa'), che può essere un sintagma nominale (se transitivo; p.e., 'mangiare

del pane', ma non *'andare del pane') o con un sintagma preposizionale (se intransitivo; p.e. 'andare a casa',

ma non *'chiamare a Luca'); un aggettivo si unirà a un sintagma nominale se ne condividerà numero e genere

(p.e., 'una gara dura', ma non *'una gara duri'), e così via, a seconda della categoria di ciascuna parola e del

lessico grammaticale di ciascuna lingua (p.e. il latino e il greco classico avevano tre generi, incluso il neutro;

il greco classico tre numeri, incluso il duale; il cinese moderno ha invece un lessico grammaticale molto ri-

dotto; altre lingue presentano un lessico grammaticale molto complesso e comunque sensibilmente diverso

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da quello di altre lingue; le lingue del mondo non differiscono sensibilmente solo per i suoni che utilizzano

distintivamente e per come li combinano, e per le parole che formano il lessico, ma anche per il lessico

grammaticale che utilizzano).

Va detto che la grammatica tradizionale, almeno da Aristotele, ha tenuto conto e studiato analiticamente

alcuni di questi tratti, le proprietà morfologiche delle 'parti del discorso', ma ha trascurato altre proprietà fon-

damentali per la costruzione delle frasi. Uno di questi è il concetto di 'testa', la nozione che, di ciascuna

combinazione, un elemento è dominante, i.e. quello che determina con quale elemento può combinarsi e le

caratteristiche del sintagma risultante. Nell'esempio sopra, 'tornare a casa subito', il sintagma che risulta è

verbale, perché funziona come un verbo, non come una preposizione o un avverbio, conseguenza del fatto

che la testa del sintagma è un verbo. Ad esempio, nella frase seguente 'un poliziotto' è un sintagma che può

essere sostituito da un nome semplice, 'Gianni'; quindi si tratta di un SN:

a. [un poliziotto]S [catturò un ladro dentro casa].

b. [Gianni]N [catturò un ladro dentro casa].

c. [un poliziotto]SN

A sua volta, il sintagma 'catturò un ladro dentro casa' è verbale perché può essere sostituito da un semplice

verbo, 'sparò':

a. [un poliziotto] [catturò un ladro dentro casa]S

b. [un poliziotto] [sparò]V

c. [catturò un ladro dentro casa]SV

Ancora, procedendo nella scomposizione, il sintagma 'dentro casa' è preposizionale perché può essere sosti-

tuito da una semplice preposizione, 'dentro' (nella grammatica scolastica 'dentro' sarebbe considerato prepo-

sizione in 'dentro casa' e avverbio quando è solo, ma si tratta di una distinzione artificiosa, come, ad esempio,

quella tra aggettivi e pronomi dimostrativi):

a. [catturò un ladro] [dentro casa]S

b. [catturò un ladro] [dentro]P

c. [dentro casa]SP

Pertanto, 'catturò' è la testa del sintagma 'catturò un ladro dentro casa' e 'dentro' è la testa del sintagma 'dentro

casa'. A loro volta, 'un ladro dentro casa' è il complemento di 'catturò' e 'casa' è il complemento di 'dentro':

a. [TESTA catturò] [COMPL un ladro dentro casa]

b. [TESTA dentro] [COMPL casa]

In conclusione, la testa è la parola fondamentale di un sintagma; un sintagma è la proiezione (i.e. l'espan-

sione) di una testa; il complemento è l‟espansione primaria di una testa.

Appurato che la grammatica tradizionale è solo in parte relazionale, qual è la ragione della sua natura i-

brida? In altre parole, perché esiste un'analisi logica – che si occupa di cogliere le relazioni tra gli elementi,

accanto all'analisi grammaticale, che si interessa solo delle proprietà dei singoli elementi – ma imperfetta? È

il risultato contingente di un difetto di analisi o è invece la logica conseguenza dall'approccio scelto? La ri-

sposta sembra essere sostanzialmente la seconda: la natura dell'analisi logica tradizionale dipende fondamen-

talmente dallo scopo che si prefiggeva, essere propedeutica allo studio del latino, in particolare alla traduzio-

ne in latino. La ragione è che il latino, come il greco, è una lingua che ha marche di caso sul nome (non solo

sui pronomi, come l'italiano), per assegnare correttamente le quali è richiesta l'individuazione della funzione

del nome nella frase. Ad esempio, una frase come 'Il marinaio ama la figlia del contadino' suonerebbe in lati-

no come in (1) sotto (nauta = 'marinaio'; agricola = 'contadino'); mentre una frase come 'La figlia del marina-

io ama il contadino' suonerebbe come in (2):

1. naut-a fili-am agricol-ae amat. NOM. ACC. GEN.

2. fili-a agricol-ae naut-am amat. NOM. GEN. ACC.

La marca di caso ('desinenza') non è una proprietà intrinseca di una specifica parola (come la sua pronuncia o

il suo significato), ma viene assegnata al nome in base alla sua funzione nella frase, i.e. in base all'elemento

da cui dipende. Perciò, l'analisi grammaticale, che analizza le singole parole in base alle proprietà morfosin-

tattiche, è insufficiente per la traduzione in latino. Questo spiega perché una notevole parte dell'analisi logica

è devoluta all'analisi dei complementi (per cui v. più avanti).

C'è anche un altro elemento che prende le marche di caso, l'aggettivo, come mostra l'esempio seguente

(magnus = 'grande'; pulchra = 'bella'):

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Marco Svolacchia

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naut-a magn-us puell-am pulchr-am amat. NOM. NOM. ACC. ACC.

'Il grande marinaio ama la bella ragazza.'

Come si vede, l'aggettivo riceve la marca di caso dal nome su cui ha portata (i.e. la testa del SN); quindi è

necessario analizzare la sua funzione nella frase. Lo stesso si verifica quando l'aggettivo è usato in funzione

predicativa; ad esempio, nella frase puell-a est pulchr-a 'La ragazza è bella', l'aggettivo, pulchra, ha il caso

nominativo, come il nome a cui si riferisce.

Un'altra categoria per cui si rende necessaria un'analisi relazionale per l'assegnazione della marca di caso è

l'apposizione, che prende la stessa marca del nome a cui si riferisce, come l'esempio seguente illustra (puella

= 'ragazza'):

naut-a puell-ae, fili-ae agricol-ae, ros-am dat. NOM. DAT. DAT. GEN. ACC.

'Il marinaio dà una rosa alla ragazza, la figlia del contadino.'

L'apposizione 'filiae (agricolae)' ha la marca del dativo perché si riferisce al nome 'puellae', che ha la marca

del dativo, assegnato dal verbo do 'dare'.

Non sorprende quindi che complementi, aggettivi e apposizioni sono gli elementi di cui l'analisi logica in-

dica sistematicamente la relazione con la frase. Perché nella stessa non viene indicata la relazione di un ag-

giunto o di un avverbio con l'elemento della frase da cui dipendono, come abbiamo già visto? La risposta è

che in questi casi non si pone un problema di marca di caso. Gli avverbi sono una categoria lessicale invaria-

bile, in italiano come in latino; pertanto non prendono marche di caso. Per gli aggiunti il discorso è diverso: i

nomi prendono sempre una marca di caso, qualunque sia il loro ruolo nella frase. Tuttavia, il caso viene as-

segnato a un aggiunto in base alla semantica del caso stesso o in base alla preposizione che lo regge (o en-

trambi), non in base alla testa nominale da cui dipende. Si osservi per il primo caso l'esempio seguente:

anim-o vir-um pudic-ae, non ocul-o, eligunt. ragione-ABL. uomo-ACC. virtuosee-NOM. non occhio-ABL. scelgono

'Le donne virtuose scelgono il marito con la ragione, non con l'occhio.'

Gli aggiunti animo e oculo hanno qui portata sul predicato (SV) eligunt virum ('con la ragione' è relativo a

'scegliere un marito'), non sul nome virum 'marito'. Tuttavia, se gli aggiunti avessero portata sul nome ('un

marito di intelletto/di occhio') avrebbero la stessa marca di caso. L'esempio seguente illustra il secondo caso:

agricol-a dom-um sine fili-is redit. contadino-NOM. casa-ACC. senza figlie-ABL. tornò

'Il contadino tornò a casa senza figlie/tornò alla casa senza figlie'

Quale sia la portata dell'aggiunto sine filiis 'senza figlie', o sul predicato redit domum 'tornò a casa' o sul no-

me domum '(a) casa', prenderà l'ablativo, che è assegnato dalla preposizione sine 'senza'.

La conclusione che si deve trarre da queste osservazioni è che molti limiti dell'analisi logica, in particolare

la sua natura debolmente relazionale, derivano dagli scopi per cui è stata concepita: l'apprendimento e la tra-

duzione del latino. Va da sé che gli scopi contemporanei per cui si insegna e si studia la grammatica sono

molto diversi: se l'insegnamento grammaticale fosse solo propedeutico al latino, non ci sarebbe ragione di

insegnarla in modo generalizzato. In realtà gli obiettivi attuali dovrebbero essere molto più ambiziosi: l'inse-

gnamento della grammatica è solo un aspetto, per quanto importante, delle conoscenze metalinguistiche, che

sono un requisito fondamentale per accedere ai livelli "alti" degli usi linguistici, i.e. quei settori dell'uso del

linguaggio che richiedono qualche grado di consapevolezza, in primis la lingua scritta, che è un tipo di lingua

molto poco spontaneo, sia per quanto riguarda l'apprendimento di un sistema di scrittura, si per quanto ri-

guarda l'apprendimento della comunicazione scritta. Si pensi solo all'abilità del punteggiare, che richiede,

prima di tutto, sofisticate capacità metasintattiche.

5. Teoria dei complementi

Un altro settore della grammatica scolastica che deriva dall'insegnamento del latino

è la famosa (famigerata, per molti) 'teoria dei complementi', tanto dispendiosa quan-

to sostanzialmente inutile, e che è probabilmente la causa prima dello scarso richia-

mo che la riflessione grammaticale esercita su scolari e studenti. Il suo scopo, evi-

dentemente, consiste nel mettere in grado di tradurre dal latino e, ancor più, in latino. A parte le considera-

zioni già fatte su questo e la constatazione che il latino non è la lingua, ma solo una lingua (le lingue del

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mondo possono differire sensibilmente nel modo in cui codificano le funzioni sintattiche), è facile rendersi

conto che la teoria dei complementi ha tradito in buona misura anche lo scopo prefisso. Paradossalmente,

nonostante l'importanza che le viene attribuita dalla Scuola e nonostante l'atteggiamento dogmatico presente

in questo settore, è un fatto che non regna un accordo apprezzabile riguardo a quanti e quali siano i comple-

menti, a parte una base comune costituita dall'oggetto diretto e indiretto ('termine'), agente, specificazione,

causa, luogo (stato, moto a/da/per) e pochi altri. In effetti, non esiste una codificazione universalmente accet-

tata: esistono pratiche abbastanza diverse, spesso inconsapevolmente tali, e qualche tentativo consapevole di

codificare i complementi, vuoi in base agli autori presuntamente autorevoli, vuoi in base a interventi perso-

nali.

La classificazione seguente rappresenta uno dei sistemi proposti. La ragione per cui è stata scelta non è

perché sia migliore o peggiore di altri, o più autorevole, ma perché è onestamente esplicita; quindi, esempla-

re delle caratteristiche di questa linea di studio e insegnamento (già l'intestazione è interessante: 'Comple-

menti indiretti: sono quelli preceduti da una preposizione semplice o articolata; sono i più utilizzati. Ve ne

sono numerosi tipi; noi ne distinguiamo 47', che lascia intravedere il fatto che qualche dubbio serpeggi anche

tra chi insegna; tra l'altro, alcuni di questi complementi non sono introdotti da una preposizione: perché sa-

rebbero indiretti?). Per brevità, la classificazione non è riportata in forma completa, ma con un estratto molto

rappresentativo (sono stati omessi i complementi e gli esempi più ovvi):

'Complementi indiretti' (Scuola Elettrica – Classe 1a media)

ABBONDANZA Lo scaffale è pieno di libri.

ARGOMENTO

Questa è una riunione per gli alunni.

Noi parliamo sopra le squadre di calcio.

Questo libro è inerente il maschilismo.

CAUSA Io sono stufo delle tue parole.

Luigi parte al tuo ordine.

CAUSA EFFICIENTE Fui colpito da una pietra.

CLASSIFICAZIONE Il Bari è arrivato ultimo in classifica.

COLPA Fu accusato di omicidio.

DIFFERENZA Sei più alto di 10 centimetri.

DISTANZA Il mare dista tre chilometri da casa mia.

DISTRIBUZIONE Io prendo un tè ogni 24 ore.

ESCLAMAZIONE Che bel fiore!

ESTENSIONE La strada è larga 6 metri.

ETÀ Un bambino di 6 anni va alla scuola elementare.

MEZZO

Riempirono la bottiglia di acqua.

Questa è una lampada ad incandescenza.

La barca fu trasportata a riva dal mare.

MOTO A LUOGO Io vado a Napoli.

MOTO DA LUOGO Pietro è venuto da Lecce.

MOTO PER LUOGO Il tram passa dal centro della città.

ORIGINE Questo vaso proviene da Grottaglie.

PARAGONE MAGG. L'aereo è più veloce del treno.

MINOR. Antonio è più piccolo di Luigi.

UGU. Sei bella come una rosa.

PENA Giovanni è stato multato di 300 Euro.

PREZZO La mamma ha comprato la zucchina a due Euro.

PRIVAZIONE Antonio è privo di soldi.

QUALITÀ Katia è una donna di bella presenza.

RELAZIONE Tra di noi andiamo d'accordo.

SCAMBIO Katia confonde l'oro bianco con l'argento.

SEPARAZIONE La spiaggia separa la casa dal mare.

STATO IN LUOGO Io vivo a Taranto.

STIMA Questo anello vale mille Euro.

SVANTAGGIO Questa è una pillola per la malattia.

TEMPO CONTINUATO Io andrò da Katia in 15 minuti.

TEMPO DETERMINATO D'inverno fa freddo.

TENDENZA Katia è propensa ai carabinieri.

Luigi ha l'attitudine per la pittura.

UNIONE Oggi esco con il maglione fucsia.

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Marco Svolacchia

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In questa codificazione si nota che non vengono esplicitati, conformemente all'uso generalizzato, i criteri su

cui è basata. Con tutta probabilità, questo è dovuto a un atteggiamento fideistico rispetto alla tradizione, che

viene considerata una sorta di dottrina ricevuta, che non può essere messa in discussione, a parte forse che

per qualche aspetto marginale. Il problema è che non c'è neanche modo di esplicitare i criteri, perché la prati-

ca si basa più su una tradizione di insegnamento, nemmeno del tutto uniforme, che su una teoria degna di

questo nome. È vero che alla base c'è lo scopo di fornire una giustificazione dell'uso dei casi in latino; in al-

tre parole, l'analisi logica è ancillaria del latino, in particolare di quel settore chiamato 'sintassi dei casi', che

indaga l'uso dei casi in latino; tuttavia, il procedimento è dubbio. Si prenda il caso ablativo, il più eclettico

dei casi latini: a quanti significati diversi corrisponde? Per rispondere a questa domanda sarebbe necessario

disporre di una griglia semantica di riferimento. In mancanza di criteri espliciti, la codificazione dei com-

plementi è stata basata su pratiche intuitive e criteri contrastivi: venivano notati gli usi dei casi che si allonta-

nano da quelli basilari o che risultano controintuitivi per parlanti della lingua di contrasto. Il problema è che

le lingue non codificano i ruoli che i sintagmi nominali assumono nella frase in modo uniforme. Il risultato,

quindi, è quel coacervo di categorizzazioni ragionevoli e irragionevoli che conosciamo. In particolare, fino a

quale punto si deve spingere la sottocategorizzazione dei complementi? Il problema diventa analogo a quello

della polisemia: quanti sono i sensi diversi di una parola? In assenza di espliciti criteri reali, le possibilità so-

no virtualmente infinite: è sempre possibile cavillare su una pur minima differenza di uso di una parola, arri-

vando a conclusioni arbitrarie.

La tabella sopra esemplifica con molta evidenza questi problemi. Ad esempio, perché esiste un c. di quali-

tà, ma non uno di quantità (al posto del quale troviamo un c. di differenza, distanza, estensione, età, misura

e, in parte, pena, prezzo, stima)? In altre parole, perché si è scelto di fermarsi a un livello generico per la qua-

lità e di sottocategorizzare la quantità? Che cosa impedisce di sottocategorizzare ulteriormente il c. di misura

in misura liquida, solida, ecc.? Un ulteriore problema di questa pratica è che porta ad applicazioni arbitrarie;

si confronti, p.e., 'Katia ha comprato un telefonino per 100 Euro' (c. di prezzo) con 'Questo anello vale mille Eu-

ro' (c. di stima): è evidente che la scelta della categorizzazione dipende dal verbo della frase. Si prenda, però,

una frase come ''Questo anello costa mille Euro': a quale complemento verrebbe assegnato il sintagma eviden-

ziato? E una frase come 'Ho venduto questo anello a mille Euro'? Ancora, in 'Lo scaffale è pieno di libri' il sin-

tagma evidenziato è categorizzato come c. di abbondanza; come sarebbe allora categorizzato il sintagma e-

videnziato in una frase come ''Lo scaffale è spoglio di libri'? Complemento di 'scarsezza'? Un altro esempio tra

i mille possibili: si prenda una frase come 'Roma si trova tra Firenze e Napoli'; come sarà categorizzato l'e-

lemento sottolineato? Si immagina come c. di stato in luogo. Perché non piuttosto c. di "stato tra luoghi" (ac-

canto a stato in/moto a/moto da/moto per luogo)? Si notano anche delle autentiche bizzarrie: il c. di

'tendenza' (si noti anche l'artificiosità di alcuni esempi), il c. di 'unione', il c. di 'classificazione' (si tratta di un

aggettivo), il c. di 'esclamazione' (si tratta di frasi esclamative, non di sintagmi). Ancora, si nota che la cate-

gorizzazione di alcuni complementi duplica il senso del verbo reggente (c. di 'distanza': in 'Il mare dista tre

chilometri da casa mia' è il verbo distare che veicola questo senso, non il complemento; c. di 'origine': in 'Questo

vaso proviene da Grottaglie' il senso di origine è veicolato dal verbo provenire, usato in senso metaforico, non

dal complemento; c. di 'privazione': in 'Antonio è privo di soldi' è l'aggettivo 'privo' che veicola questo senso; lo

stesso vale per il c. di 'separazione', ecc.). Le osservazioni si possono moltiplicare quasi ad libitum: lasciamo

il compito al lettore di continuare.

6. Il verbo e i suoi argomenti

Whenever the literary German dives into a sentence, that is the last you are going to see

of him till he emerges on the other side of the Atlantic with his Verb in his mouth.

Mark Twain, A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court, 1889

Paradossalmente, a fronte della tendenza a sottilizzare su questo o quel complemento, la grammatica scola-

stica non distingue tra i veri complementi (elementi retti dal verbo) e gli aggiunti (che modificano un ele-

mento della frase).

Quanti e quali complementi ci siano in una frase dipende dal verbo. Nella teoria grammaticale tradizio-

nale i verbi vengono distinti, ancora una volta, in relazione al caso: transitivi e intransitivi. Questa distinzione

si è dimostrata valida, sebbene quella degli intransitivi sia una categoria spuria: è composta di due classi di-

verse, con proprietà molto diverse, che condividono solo una proprietà negativa: quella di non reggere diret-

tamente un sintagma nominale; in effetti, una denominazione più corretta sarebbe 'non transitivi'. Tuttavia,

non tratteremo questo aspetto, che va oltre gli scopi di questa lezione.

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Quello che è qui rilevante è che la distinzione tra transitivi e intransitivi è insufficiente a render conto di

alcune proprietà fondamentali del verbo e, di conseguenza, della struttura della frase. Si osservi la tabella se-

guente (dove X, Y e Z sono variabili distinte):

INTRANSITIVI TRANSITIVI

1 dormire: X dorme dirsi: si dice X 2 andare: X va a/da Y aggiustare: X aggiusta Y

3 dare: X dà Y a Z

Un verbo intransitivo come dormire condivide con un verbo transitivo come dirsi (impersonale: 'si dice che')

la proprietà di richiedere un solo partecipante all'azione; ugualmente, l'intransitivo andare richiede ('sele-

ziona') due partecipanti all'azione, come il transitivo aggiustare; dare, infine, è un verbo transitivo che sele-

ziona tre partecipanti, a differenza degli altri due transitivi considerati. Così, ogni verbo (in realtà, anche al-

cuni aggettivi e nomi) si contraddistingue per il numero di 'argomenti' (questo è il termine correntemente uti-

lizzato) che seleziona. Questa proprietà è chiamata valenza; a seconda della valenza i verbi vengono distinti

come segue (si noti la presenza dei verbi avalenti, i.e. che non selezionano alcun argomento; si tratta di verbi

che denotano fenomeni atmosferici):

avalenti piovere, tirare vento, far freddo

monovalenti dormire, starnutire, sciogliersi

bivalenti aggiustare, mangiare, andare

trivalenti dare, consegnare, dire

Una denominazione equivalente è 'zero/mono/bi/tri-argomentali'. Il termine valenza è stato preso in prestito

dalla chimica, per sottolineare il fatto che si tratta di una proprietà intrinseca non derivabile da altre e che ri-

chiede di essere saturata per essere soddisfatta. Questa è la ragione dell'agrammaticalità di alcune frasi già

viste all'inizio di questa trattazione, ripetute di seguito per comodità. La frase in (a) seguente è agrammatica-

le perché difetta di un argomento, essendo catturare bivalente ('X cattura Y'); viceversa, la frase in (b) è a-

grammaticale perché contiene un argomento non selezionato dal verbo camminare, monovalente ('X cammi-

na'):

a. *Un poliziotto catturò __.

b. *Gianni cammina la strada.

Per quanto semplice, la teoria della valenza rende conto di molte proprietà rilevanti della sintassi. Un esem-

pio è offerto dalla differenza tra principali dipendenti e indipendenti, già trattata. Quando una proposizione

principale (per così dire) è indipendente? La risposta si basa sulla valenza: se la proposizione secondaria non

è un argomento del verbo della principale allora questa sarà indipendente (a); viceversa, se la secondaria è un

argomento del verbo della principale, allora questa sarà dipendente (b):

a. Ho ascoltato un disco mentre tu stavi via.

INDIPENDENTE SECONDARIA = AGGIUNTO

b. Carlo vuole che tu vada a casa.

DIPENDENTE SECONDARIA = COMPLEMENTO

In altre parole, in (a) la secondaria è un aggiunto, un elemento opzionale che modifica un elemento della fra-

se (nel caso specifico modifica il predicato, i.e. il SV, 'ascoltato un disco'); in (b) è una frase completiva (i.e.

una frase complemento), che è parte integrante della principale in quanto suo argomento. Questo spiega per-

ché, mentre si può dire 'Ho ascoltato un disco', non si può dire *'Carlo vuole'.

La differenza tra argomenti e aggiunti è alla base di altri fenomeni altrimenti inspiegabili. Si osservino le

due frasi seguenti, solo la prima delle quali è grammaticale; la seconda è anche impossibile da interpretare (a

differenza della stessa con l'elemento interrogativo che segue il verbo che lo regge: 'Hai tossito [appena han-

no chiamato chi]?'). Tuttavia, esse sembrano sintatticamente uguali (la lacuna indica la posizione con cui l'e-

lemento interrogativo, chi, va logicamente messo in relazione per essere interpretato, i.e. la posizione di

complemento del verbo 'chiamare', nella frase secondaria):

a. Chi hai detto [che hanno chiamato __]?

b. *Chi hai tossito [appena hanno chiamato __]?

In che cosa consiste la differenza tra (a) e (b)? La risposta è che la secondaria in (a) è argomentale (è il se-

condo argomento di dire), mentre la secondaria di (b) è un aggiunto (la valenza di tossire è saturata dal pro-

nome sottinteso di 2a persona singolare).

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Marco Svolacchia

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È paradossale il fatto che la grammatica scolastica – mentre richiede tante energie per classificare (in buo-

na misura in modo arbitrario) la semantica dei sintagmi, e senza che questo comporti conseguenze apprezza-

bili – ignora questa distinzione primaria.

Un altro aspetto molto importante della teoria della valenza è la semantica degli argomenti selezionati da

un verbo, che non definisce solo il numero dei partecipanti all'azione espressa, ma ne definisce anche il ruolo

nella frase. Ad esempio, il verbo 'aggiustare' seleziona i seguenti argomenti, a cui conferisce i seguenti ruoli

semantici:

aggiustare: X = AGENTE; Y = PAZIENTE

L'AGENTE è l'elemento che determina un cambiamento di stato in un altro elemento (senza subirlo); il pazien-

te (un termine di fatto equivalente è TEMA) è invece l'elemento che subisce un mutamento di stato. Un verbo

trivalente come dare seleziona un altro ruolo semantico:

dare: X = AGENTE; Y = PAZIENTE; Z = TERMINE

TERMINE (traduce l'inglese goal) è l'elemento terminale dell'azione del verbo. Quanti e quali sono i ruoli se-

mantici definiti dalle lingue del mondo è ancora oggetto di discussione, e non approfondiremo questo argo-

mento.

Un altro aspetto importante della sintassi delle lingue del mondo che è strettamente collegato alla valenza

è la diatesi, i.e. la forma che un verbo può prendere in relazione ai ruoli semantici. Si tratta quindi di una ri-

manipolazione della valenza di un verbo. Si osservino gli esempi seguenti:

a. ATTIVO Il sole ha sciolto la neve.

b. PASSIVO La neve è stata sciolta (dal sole).

c. MEDIO La neve si è sciolta (*ha sciolto se stessa).

d. RIFLESSIVO Il prigioniero si è sciolto (si = se stesso).

e. AUTOBENEFATTIVO Marta si è sciolta i capelli (si = per sé).

(a) è una frase attiva (transitiva), in cui c'è un agente in posizione di soggetto e un paziente in posizione di

oggetto. (b) è una frase passiva, che ha lo stesso significato fattuale della prima; tuttavia, la prima differenza

fondamentale è che l'agente (dal sole) è opzionale (come la notazione tra parentesi indica), a differenza dello

stesso nella frase attiva; la seconda è che nella posizione di soggetto della frase si trova il PAZIENTE, non l'A-

GENTE (anche questo impossibile in una frase attiva). Questo significa che il passivo è una diatesi che rende

opzionale, quindi secondario, l'AGENTE (sebbene sia implicato) e primario il PAZIENTE (i.e. la predicazione

verte sul paziente, non sull'agente). (c) è una frase media, che nella grammatica tradizionale sarebbe conside-

rata, erroneamente, riflessiva: c'è un solo argomento, ovviamente in posizione di soggetto, che non è AGENTE

ma PAZIENTE. Infatti, è impossibile usare un vero pronome riflessivo, che può invece comparire nelle vere

frasi riflessive, come in (d), in cui soggetto e oggetto sono coreferenti (= si riferiscono alla stessa entità). An-

che la costruzione in (e), autobenefattiva, viene confusa nella grammatica tradizionale con quella riflessiva;

si noti, però, che Marta e capelli non sono coreferenti; piuttosto, questa diatesi riguarda l'entità in favo-

re/sfavore della quale avviene l'azione (i.e. il soggetto è agente e termine dell'azione). Come si vede, la sem-

plice teoria dei ruoli semantici permette di distinguere tra frasi riflessive, pseudoriflessive e autobenefattive,

che hanno proprietà sintattiche diverse, ma che nella grammatica tradizionale vengono confuse.

Ma qual è la differenza tra una frase passiva e una media, se entrambe hanno un soggetto PAZIENTE? Nella

grammatica greca questa diatesi è denominata medio-passiva, intendendo che sarebbe intermedia tra quella

attiva e quella passiva. Le cose stanno diversamente; come mostrano gli esempi seguenti, ciò che distingue la

media dalla passiva è l'impossibilità di selezionare un agente (un verbo medio può solo avere una CAUSA):

a. La nave è affondata (a causa dei pirati).

ai. La nave è affondata (*dai pirati).

b. Molte case bruciarono (a causa dell'incendio).

bi. Molte case bruciarono (*dall'incendio).

Ma qual è la differenza tra i ruoli semantici di AGENTE e CAUSA? Si considerino le frasi seguenti quasi equi-

valenti, una passiva in cui compare un AGENTE (a), e una media (ai), in cui compare una CAUSA:

a. La nave è stata affondata dai pirati.

ai La nave è affondata a causa dei pirati.

Qual è la differenza semantica tra le due frasi? (a) è compatibile con uno scenario in cui i pirati hanno diret-

tamente e volontariamente affondato la nave (speronandola, cannoneggiandola, incendiandola, facendola e-

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

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splodere, ecc.); (ai) non è compatibile con nessuna di queste possibilità; può implicare, piuttosto, che la nave

ha subito l'affondamento per cause naturali sotto la minaccia dei pirati (p.e., per sfuggire ai pirati la nave è

andata contro gli scogli; oppure la nave è affondata in seguito a sabotaggio da parte dei pirati, ecc.).

A conferma, si consideri la differenza semantica tra AGENTE e CAUSA in una frase passiva, in cui entrambi

possono comparire:

a. La nave è stata affondata a causa dei pirati.

b. Molte case furono bruciate a causa dell'incendio.

(a) significa che non sono stati i pirati ad affondare la nave, ma qualcun altro; i pirati sono la causa di questa

azione (p.e., la nave è stata affondata per non farla cadere nelle mani dei pirati, o perché i pirati hanno pagato

qualcuno per farlo, ecc.). (b) significa che non è stato l'incendio a bruciare le case, ma qualcun altro, a causa

dell'incendio (p.e., sono state bruciate dalle autorità per fare barriera all'avanzata dell'incendio).

Si potrebbe pensare che la teoria dei ruoli semantici sia equivalente a quella dei complementi; in realtà,

sono più le differenze che le analogie: innanzitutto, i ruoli semantici riguardano, in primis, gli argomenti,

mentre la teoria dei complementi riguarda in primis gli aggiunti (i 'complementi indiretti', come recita il tito-

lo della classificazione presentata sopra); secondo, e più importante, le categorie proposte non si basano su

speculazioni filosofiche, o similia, riguardo a come funzionerebbe il mondo, alla verità ultima delle cose,

ecc., ma in base a osservazioni empiriche: sono le lingue umane che evidenziano queste distinzioni. Detto in

termini più reali, il compito della teoria dei ruoli semantici è di scoprire su quali categorie si basa l'interpre-

tazione primaria delle frasi. Si tratta quindi di descrivere una realtà mentale, non di prescrivere la verità ri-

guardo a entità ideali, una fondamentale differenza teorico-metodologica rispetto alla grammatica tradiziona-

le e quindi scolastica. Questo non significa che la teoria dei ruoli semantici sia ancora del tutto soddisfacente;

significa piuttosto che ogni avanzamento avverrà su base empirica (osservazione dei fatti delle lingue o di

qualunque altro dato di natura cognitiva), non sulla base di presunte autorità o di speculazioni.

Un'altra differenza è che queste categorie non forniscono una tassonomia fine a se stessa, come nella

grammatica tradizionale, ma permettono di descrivere semplicemente e di spiegare fenomeni che rimarrebbe-

ro altrimenti misteriosi, tipicamente trattati nella grammatica tradizionale come "eccezionali", un modo infal-

libile per non avanzare nelle conoscenze. Un esempio è dato dai verbi tradizionalmente denominati intransi-

tivi, a cui abbiamo già accennato, che mostrano (e non solo) un comportamento disomogeneo. Un fatto ben

noto è la selezione dell'ausiliare: alcuni selezionano essere (come i passivi), altri avere (come i transitivi),

come gli esempi seguenti illustrano:

INTRANSITIVI-ESSERE INTRANSITIVI-AVERE

a. Noemi è andata al cinema. ai. Sara ha corso per due ore.

b. Noemi si è svegliata. bi. Sara ha gridato contro un cane.

c. Noemi è guarita. ci. Sara ha telefonato a Marta.

PASSIVI TRANSITIVI

d. Noemi è stata guarita. di. Sara ha mangiato un panino.

Nella grammatica italiana tradizionale si descrivono questi fatti asserendo che i verbi intransitivi selezionano

l'ausiliare avere ad eccezione dei verbi di movimento. Il problema è che molti intransitivi-essere non sono

verbi di movimento (v. svegliarsi e guarire tra gli esempi sopra); d'altra parte, diversi verbi di movimento

selezionano avere, non essere (p.e. correre, camminare, ecc.). La strategia tradizionale è di caratterizzare ad

oltranza la lista delle eccezioni, che finisce per diventare una lista della spesa (si inizia con classi di verbi –

come, appunto, 'verbi di movimento' – e si finisce con liste di verbi singoli). È chiaro che questo approccio

non ha alcun senso dal punto di vista scientifico, perché non spiega nulla (perché quella classe/quel verbo in

particolare? Perché i verbi che fanno eccezione sono più numerosi di quelli presunti regolari?). Probabil-

mente, non ne ha nemmeno dal punto di vista didattico (che è l'obiettivo primario di questo approccio), vista

la complessità delle eccezioni che bisogna apprendere. Inoltre, risulta empiricamente inadeguato, in quanto

non può, per principio, render conto dei verbi che hanno una doppia selezione, come, p.e., saltare: a. 'Daniele

ha saltato sul letto per un ora.' vs. b. 'Daniele è saltato sul letto dalla sedia'.

Al contrario, la descrizione di questi fatti diventa molto semplice, e la spiegazione evidente, se si parte

dalla teoria dei ruoli semantici: gli intransitivi che selezionano un argomento PAZIENTE prendono l'ausiliare

essere, mentre gli intransitivi che non selezionano un argomento PAZIENTE prendono l'ausiliare avere. In tutti

gli esempi nella colonna a sinistra sopra il soggetto è un PAZIENTE, i.e. l'elemento che subisce un mutamento

di stato, esattamente come il soggetto di un passivo (che anch'esso seleziona essere). Nel caso di andare (e

verbi simili) potrebbe sembrare controintuitivo che il soggetto, invece di essere un agente, sia un paziente. In

realtà, non è un agente perché non provoca un mutamento di stato in un altro elemento; piuttosto, subisce un

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mutamento di stato: un soggetto che va in un posto muta necessariamente la sua condizione. Al contrario,

nessuno dei soggetti delle frasi nella colonna a destra è un paziente: 'gridare contro un cane', p.e., non indica

un cambiamento di stato.

Ma come spiega la teoria dei ruoli semantici il fenomeno dei verbi a doppia selezione (p.e. saltare negli

esempi precedenti)? La risposta, semplicemente, è che in (a) la frase non implica un cambiamento di stato

del soggetto, a differenza che in (b), in cui il soggetto era sulla sedia e con un salto cambia di posizione.

Questo risultato illustra un altro aspetto della questione: una buona teoria produce risultati anche in ambiti

per cui non è stata costruita, ciò che costituisce una buona evidenza della sua validità.

7. Il soggetto

Un altro settore che mostra chiaramente i limiti della grammatica scolastica è quello delle ca-

tegorie funzionali, quale, in primis, il soggetto. Tradizionalmente, il soggetto viene identifi-

cato tramite categorie semantiche; quella standard è la seguente:

1. 'Il soggetto è l'elemento che compie l’azione'

È evidente che questa definizione non è difendibile, come mostrano le frasi seguenti:

a. Il cane è un animale fedele.

b. Il film mi è piaciuto molto.

c. Luca ha subito un duro colpo.

d. Matteo è stato sgridato.

e. Matteo è stato sgridato dalla madre.

f. La nave è affondata.

g. La nave è stata affondata.

In (a) il soggetto, il cane, non può compiere nessuna azione, perché ricorre in una frase senza verbo ('essere

un animale fedele' è un'azione?); in (b) il soggetto, il film, non è un elemento passibile di azione; semmai, il

soggetto attivo è colui che sperimenta lo stato psichico descritto dal verbo 'piacere', i.e. mi, che non è eviden-

temente un soggetto, ma un oggetto indiretto; in (c) il soggetto, Luca, è chiaramente l'elemento che subisce

l'azione descritta dal nome di azione, colpo; in (d), una frase passiva, il soggetto, Matteo, è per definizione

l'elemento che subisce l'azione, non che la compie, come mostra la frase in (e), che contiene l'agente, dalla

madre; in (f), una frase media, il soggetto è, ancora, l'elemento che subisce l'azione: infatti la frase è parente

stretta della corrispondente passiva, in (g).

D'altra parte, esiste una correlazione tra soggetto e AGENTE: in una frase attiva in cui compare un argo-

mento agente, questo sarà il soggetto della frase; pertanto, per un verbo bivalente come rompere – di cui uno

è AGENTE (p.e., Pierino), l'altro PAZIENTE (p.e. i giocattoli) – la frase derivata sarà come in (a), non come in

(b):

a. Pierino ha rotto tutti i giocattoli.

b. *Tutti i giocattoli hanno rotto Pierino.

La conclusione è che è probabile, ma non necessario, che il soggetto sia un agente. Un soggetto sarà un a-

gente solo a due condizioni: se la sua diatesi è attiva e se il verbo seleziona questo ruolo semantico. Questo

comporta che nella maggior parte dei casi un soggetto non è un agente. In altre parole, la nozione di soggetto

e di ruolo semantico sono distinte, ma interagenti; confonderle, come fa la grammatica scolastica, conduce

immancabilmente a una posizione di stallo nello studio della sintassi.

Un'altra definizione che ha avuto una certa fortuna a Scuola (si noti en passant che la grammatica scolasti-

ca non è nemmeno così uniforme come si pensa) è la seguente: 'Il soggetto è l'elemento che compie l‟azione

o di cui si parla'. Questa formulazione è inaccettabile a priori, a prescindere dal fatto che sia o meno empiri-

camente fondata: quale nozione sarebbe mai quella di soggetto, ritenuta universalmente fondamentale in sin-

tassi per le innumerevoli conseguenze che ha sulla costruzione della frase, se alla sua base ci sarebbe una ca-

tegorizzazione così spuria? Quale relazione ci potrebbe mai essere tra la nozione di 'agente' e quella di 'ciò di

cui si parla'? Ogni formulazione che contiene una disgiunzione è, scientificamente parlando, fortemente so-

spetta: come minimo, lascia il dubbio che sia il risultato di una comprensione del problema ancora insuffi-

ciente. Inoltre, che cosa ci fa capire del problema? Che cosa impedisce di avanzare una formulazione ancora

più bislacca, come 'Il soggetto è l'elemento che compie l‟azione, di cui si parla o a cui viene attribuita una

qualità' (e via peggiorando)? In effetti, un'altra variante che si incontra nei libri di testo contemporanei, appa-

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rentemente più sofisticata della prima, è in realtà ancora più naif: 'Il soggetto è l'elemento che compie

l‟azione o che la subisce'. Il fine di questa proposta è, con tutta probabilità, quello di tener conto delle frasi

passive, in cui – per definizione – il soggetto è un paziente. A parte il problema metodologico che deriva dal-

le formulazioni disgiunte, questa definizione si scontra, banalmente, contro un fatto di ordine empirico: in

una frase transitiva ci sarebbero due soggetti (quello che fa l'azione e quello che la subisce); ma, come tutti

sanno, 'l'elemento che subisce l'azione' in una frase transitiva è un complemento oggetto.

Pertanto – dato che, come abbiamo visto, l'idea del soggetto come AGENTE è erronea – possiamo prendere

in considerazione la definizione seguente:

2. 'Il soggetto è l'elemento di cui si parla'

Nemmeno questa definizione, però, resiste all'osservazione, come le seguenti frasi mostrano:

a. Piero, non lo vedo da parecchio.

b. A Roma, non ci sono mai stato.

c. Veloce, non lo è mai stato.

In (a) Piero è, intuitivamente, l'elemento di cui si parla; tuttavia, non è un soggetto (è un oggetto). In (b) ciò

di cui si parla è A Roma, che evidentemente non può minimamente essere un soggetto, dato che è introdotto

da una preposizione. In (c) ciò di cui si parla è un aggettivo, che per definizione non può essere un soggetto.

La conclusione, pertanto, è che il soggetto non è una nozione discorsiva (i.e. connessa con il ruolo informati-

vo che un elemento della frase assume in un discorso/testo).

La frase seguente – in cui ricorre un soggetto che non è né 'ciò di cui si parla' (che è alla festa) né

'l'elemento che compie l'azione (che è da nessuno), ma un altro elemento (tu), che in questo caso ha il ruolo

semantico di PAZIENTE – riassume esemplarmente l'intera questione:

d. Alla festa, tu non sei stato invitato da nessuno.

In effetti, se uno scolaro riesce a individuare il soggetto non è grazie a queste definizioni, ma nonostante es-

se. Di fatto, utilizzerà la sua intuizione sintattica (che gli farà contare sull'accordo del verbo o ausiliare, sulla

posizione, sulla presenza di pronomi di ripresa, come 'lo' in (a, c) sopra, ecc.).

Dopo aver mostrato che cosa non è il soggetto (né una nozione semantica né discorsiva), è necessario dire

qualcosa riguardo a che cos'è il soggetto. Si considerino le frasi seguenti:

3. a. __ parla bene

b. *__ parle bien

c. *__ speaks well

d. *__ spricht gut

(3) esemplifica una differenza sintattica fondamentale tra le lingue del mondo: vi sono lingue come l'italiano

(lo spagnolo, l'arabo, ecc.) che sono a soggetto nullo (i.e. il pronome soggetto è sottinteso, salvo usi partico-

lari) e lingue come il francese (l'inglese, il tedesco, ecc.) a soggetto obbligatorio (in cui il pronome è obbliga-

torio). Che cosa succede, allora, nelle lingue a soggetto obbligatorio nel caso di un verbo avalente? Come fa

il requisito a essere rispettato? La risposta è, come gli esempi seguenti illustrano, che viene introdotto un

pronome soggetto fittizio, i.e. semanticamente vuoto (nella fattispecie, il pronome non marcato, i.e. più neu-

tro: singolare maschile, nelle lingue con due generi; singolare neutro, nelle lingue a tre generi):

4. a. Il pleut

b. It is raining

c. Es regnet

Il punto che qui interessa è che la presenza di questo soggetto fittizio indica che la categoria 'soggetto della

frase' esiste a prescindere da nozioni semantiche o discorsive; in altre parole, è una posizione specifica della

frase, indipendente dalla selezione del verbo (i.e. dal verbo che ricorre nella frase). Va aggiunto che questa

posizione è quella più in alto nella frase normale (i.e. non interrogativa o marcata discorsivamente), connessa

con la specificazione aspettuale-temporale della frase. Infatti, nelle frasi non finite non può comparire un

soggetto: *'Voglio [tu andare a casa] vs. 'Voglio [che tu vada a casa]'.). Si tratta di una posizione dominante,

in cui compare l'argomento più importante del verbo, secondo una gerarchia di rilevanza (ad esempio, AGEN-

TE, se il verbo e la diatesi lo seleziona, o PAZIENTE, in mancanza dell'agente o di altri ruoli superiori).

Definito che cos'è il soggetto, resta da specificare qual è la sua funzione. Per quanto una risposta univer-

salmente accettata non esista, l'ipotesi più naturale è che sia l'argomento della predicazione, i.e. l'argomento

del verbo, a cui la predicazione viene riferita. Qualunque sia la sua funzione ultima, comunque, si tratta di

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una categoria squisitamente sintattica, che non può essere derivata da nozioni più "concrete". Più specifica-

tamente, nella grammatica scolastica vengono confusi componenti diversi della sintassi, nella fattispecie:

1 RUOLI SEMANTICI AGENTE, PAZIENTE, ecc.

2 RUOLI DISCORSIVI TOPIC, FOCUS, ecc.

3 FUNZIONI GRAMMATICALI SOGGETTO, OGGETTO, ecc.

I ruoli semantici, come abbiamo visto, sono assegnati, in primis, da un verbo (non avalente) al/ai suo/suoi

argomento/i (oltre che da altre teste).

I ruoli discorsivi (che non possiamo qui trattare, per questioni di spazio) riguardano la sincronizzazione in-

formativa tra gli interlocutori: una conversazione necessita di molto più che la grammaticalità per avere suc-

cesso, perché deve basarsi anche sulla rilevanza delle informazioni. Ad esempio, rispondere alla domanda 'A

che ora parte la corriera?' con 'Parte la corriera, tra poco' è errato, seppur perfettamente grammaticale; la ra-

gione è che non tiene conto delle richieste informative contenute nella domanda dell'interlocutore.

Le funzioni grammaticali sono categorie perfettamente sintattiche, i.e. senza contenuto: si tratta di posi-

zioni nella frase che hanno la funzione, in ultima analisi, di permettere la decodificazione della frase (come,

del resto, le marche di caso e le marche di accordo).

Ovviamente, dire che le tre categorie sono diverse non significa escludere che possano interagire tra loro;

infatti, questo succede (e ad alcune di queste interazioni abbiamo accennato). Tuttavia, si possono compren-

dere le interazioni tra diversi fattori solo quando gli stessi sono distinti. Proprio quello che la grammatica

scolastica non fa; da cui origina la confusione che la contraddistingue.

Le inadeguatezze della grammatica scolastica non finiscono qui: ce ne sono altre di notevole importanza.

Tuttavia, lasceremo cadere il problema in quanto lo scopo di questa trattazione non è di essere esaurienti, ma

di mostrare che ci sono buone ragioni per ritenere inadeguata la grammatica scolastica.

Conclusioni

Abbiamo visto che la grammatica scolastica deriva dal

pensiero grammaticale tradizionale occidentale (di ori-

gine greca), termine molto vago con cui ci si riferisce a

una nebulosa di riflessioni e pratiche linguistiche che si

estendono per un periodo di almeno duemila anni, in

modo continuativo ma meno uniformemente di quanto

comunemente si ritenga. Lo scopo originario era con-

servativo/puristico: preservare il greco (e poi il latino)

dalla "corruzione" del tempo (i.e. il mutamento linguistico) e dei "barbarismi" (quando il greco e poi il latino

erano parlati da molti come lingua seconda). Il focus dell'interesse è stato quasi sempre per gli aspetti morfo-

logici della sintassi, più che per quelli strutturali. L'analisi logica (e del periodo) sono intrinsecamente co-

struiti sul latino, in particolare sono subordinate alla traduzione dal latino e, ancor più, in latino, a sostegno di

quel settore della grammatica latina che va sotto il nome di 'sintassi dei casi' (i.e. l'uso dei casi). Questo spie-

ga molti dei limiti della grammatica tradizionale.

La grammatica scolastica ha accolto, in modo molto difficile da stabilire nel dettaglio, e sistematizzato

questa tradizione di studio, andando a volte oltre gli stessi scopi iniziali (ad esempio, nella teoria dei com-

plementi, in buona misura superflua anche per la traduzione in latino). Il risultato è una teoria molto sbilan-

ciata: molto dettagliata per quanto riguarda gli aspetti morfologici, molto carente per quanto riguarda la

comprensione della costruzione della frase. Un esempio molto chiaro è l'incapacità di render conto dell'am-

biguità sintattica (in effetti, della struttura della frase in genere) e di riconoscere la differenza tra complemen-

ti (gli argomenti del verbo) e aggiunti (gli elementi opzionali che modificano un elemento obbligatorio della

frase). Un altro aspetto negativo è la mancanza di trasparenza e semplicità: la grammatica scolastica è inse-

gnata in modo tripartito (grammaticale, logica e del periodo), senza che ne venga esplicitata la ragione e o-

scurando il carattere ricorsivo della sintassi delle lingue umane, con tutta probabilità la caratteristica più di-

stintiva del linguaggio. Infine, la grammatica scolastica ha un approccio nozionale: cerca di spiegare elemen-

ti astratti tramite nozioni di senso comune. Il risultato è la confusione tra componenti linguistici diversi, che

impedisce di capire, da una parte, la natura della sintassi; dall'altra, di spiegare una congerie di fenomeni sin-

tattici di grande interesse.

È importante, a questo punto, sgombrare il campo da un possibile equivoco. La trattazione precedente po-

trebbe dare l'idea che la grammatica scolastica sia del tutto negativa. Non è affatto così: se dopo più di due-

mila anni continuiamo a utilizzare nozioni come nome e verbo, soggetto e predicato, questo va al merito di

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tutti quegli studiosi che hanno creato questa tradizione; la sintassi contemporanea ha costruito sulla gramma-

tica antica. Il punto è un altro: un conto è riconoscere il contributo del passato alla formazione del pensiero

linguistico contemporaneo, un altro è rimanere fermi al pensiero del passato. Molte discipline occidentali af-

fondano le loro radici nel pensiero greco, ad esempio la matematica; ma nessun matematico serio aderirebbe

all'idea che la matematica debba fermarsi al periodo greco. In effetti, è proprio questo il mutamento decisivo

che si è avuto nello studio del linguaggio (e della sintassi in particolare, che è studiata seriamente da poco

più di mezzo secolo): studiarlo in modo scientifico, senza sudditanze rispetto alla tradizione. Di conseguen-

za, alcuni assunti della grammatica tradizionale hanno superato la prova dell'analisi scientifica, altri no. Se

l'impressione è totalmente negativa, questo dipende dal modo in cui la scienza opera: criticando le teorie che

non resistono alla prova dei fatti, sostituendole con altre più promettenti (non necessariamente "definitive";

anzi, quasi mai tali).

Perché questo atteggiamento non produce in molte altre scienze lo stesso tipo di reazioni sorprese, se non

infastidite, che la sintassi contemporanea produce? La risposta deve essere che nessuna disciplina si trova a

fare i conti con una tradizione che è rimasta indiscussa fino a pochi decenni fa. Ci si può chiedere perché la

grammatica tradizionale sia stata sottratta per così tanti anni al metodo scientifico. Molto probabilmente a

causa dell'atteggiamento che ha accompagnato da sempre lo studio della grammatica: fin dall'inizio non si è

trattata di una scienza di scoperta, ma di una dottrina ricevuta. Si ricordi che la grammatica è nata come rea-

zione purista al mutamento e alla variazione: avrebbe poco senso chiedersi se una dottrina è vera o sbagliata;

la dottrina è la misura del giusto, rispetto alla quale viene definita la correttezza. Tanto più un'analisi è con-

forme alla dottrina, tanto più è corretta. Bisogna anche tenere conto del fatto che le basi della grammatica

vengono gettate negli scolari in un'età totalmente priva di spirito critico.

Sta di fatto che a tutt'oggi, nonostante che il metodo scientifico sia largamente entrato nella cultura domi-

nante, l'accettazione della sintassi contemporanea da parte della Scuola ha mostrato finora risultati modesti.

Va aggiunto che la situazione attuale è molto più confusa che in passato (per rendersene conto è sufficiente

esaminare un numero anche modesto dei manuali scolastici oggi in uso), quando, pur con tutti i limiti del ca-

so, la grammatica scolastica era insegnata in modo sostanzialmente uniforme e sistematico. Diversi inse-

gnanti hanno la consapevolezza che la grammatica tradizionale non sia il migliore dei mondi possibili e che

la ricerca linguistica degli ultimi decenni si è allontanata considerevolmente da essa; qualcuno di loro ha an-

che acquisito qualche rudimento della sintassi contemporanea. In generale, però, i manuali in uso mostrano

un grado variabile di eclettismo tra vecchio e nuovo (senza rendersi minimamente conto delle contraddizio-

ni); inoltre, la scelta degli elementi moderni è spesso improntata più alla moda del momento che a una com-

prensione reale della materia.

È apparentemente ancora più singolare che gran parte di quei pochi insegnanti che sanno qualcosa di sin-

tassi contemporanea continuino ad utilizzare, per molti aspetti analitici, la grammatica tradizionale, che resta

la loro grammatica di imprinting, che la sintassi contemporanea non è riuscita a scalzare. Una parte del pro-

blema, con tutta probabilità, sta nel fatto che la grammatica scolastica, pur con tutti i suoi limiti e con le ri-

serve che ha suscitato da qualche decennio a questa parte, presenta un indubbio vantaggio rispetto alla

grammatica scientifica: appare come una dottrina sistematica, coerente e soprattutto immutabile nel tempo,

ciò che la rende rassicurante e adatta all'insegnamento scolastico. La sintassi contemporanea, invece, come

ogni disciplina di ricerca, non è del tutto sistematica, in quanto non pretende di possedere la verità su tutto, e

non è affatto immutabile; anzi, nei suoi poco più di cinquant'anni di esistenza, ha già subito tre mutamenti

radicali, oltre al normale sviluppo continuo che caratterizza tutte le scienze empiriche.

Non resta che concludere questa lunga discussione augurandoci che la Scuola trovi la volontà e il coraggio

di cominciare a navigare in acque meno familiari e tranquille, ma immensamente più ricche.