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Discorsi Achaan Chah

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Discorsi

Achaan Chah

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AJAHN CHAH nasce il 17 giugno 1918 da una famiglia agiata e numerosa in un villaggio rurale della Thailandia nordorientale, è deceduto dopo una lunga malatia il 16 gennaio 1992. E' stato uno dei massimi esponenti della tradizione buddhista theravada della foresta. Ha intrapreso gli studi religiosi giovanissimo, e a vent'anni ha preso gli ordini monastici iniziando la pratica della meditazione sotto la guida dei grandi maestri della foresta. Per molti anni ha vissuto come asceta, dormendo in foreste e caverne e nei luoghi di cremazione, e infine si è stabilito in un boschetto accanto al villaggio natale, raccogliendo presto intorno a sé numerosissimi discepoli. Grande maestro e meditante, fu l'ispiratore di un vitale comunità monastica che si è diffusa dalla Thailandia in Inghilterra, America, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera e Italia.

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Il sentiero della pace del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2002. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Traduzione di Silvana Ziviani.

Brani estratti da un discorso del Venerabile Ajahn Chah indirizzato ai monaci e ai novizi.

POSSIAMO DIRE CHE IL RETTO SENTIERO DELLA PACE, il sentiero che il Buddha ha scoperto e ci ha indicato, che conduce alla pace della mente, alla purezza e alla realizzazione delle qualità di un samana, è formato da sila (freno morale), samadhi (concentrazione) e pañña (saggezza). E' una strada valida per tutti. Infatti i discepoli del Buddha che divennero illuminati, all'inizio erano delle persone ordinarie, come tutti noi. Anche il Buddha all'inizio era uno come noi. Praticarono e dall'opacità fecero emergere la luce, dalla rozzezza la bellezza e dalle cose vane e inutili grandi benefici per tutti.

Sila, samadhi e pañña sono i nomi dati a tre diversi aspetti della pratica. Praticando sila, samadhi e pañña, in effetti, praticate con voi stessi. La giusta sila esiste qui in questo momento, il giusto samadhi è qui. Perché? Perché il vostro corpo è qui! La pratica di sila riguarda il corpo intero. Quindi, siccome il vostro corpo è qui, le mani, le gambe sono qui, è qui che praticate sila.

Un conto è tenere a mente tutta la lista dei comportamenti sbagliati da evitare, così come elencata nei libri, un altro conto è capire che le potenzialità che questi atteggiamenti hanno di crescere, risiede in voi. Praticare la disciplina morale vuol dire stare attenti ad evitare certe azioni, come uccidere, rubare ed avere una condotta sessuale scorretta. Il Buddha ci ha insegnato a prenderci cura di tutte le nostre azioni, anche delle più semplici.

Forse nel passato avete ucciso degli animali o degli insetti schiacciandoli o non siete stati troppo attenti nel parlare: il parlare sbagliato si ha quando si mente o si esagera la verità, mentre parlare in modo grossolano vuol dire essere aggressivi e offensivi verso gli altri, dicendo in continuazione ‘imbroglione’, ‘idiota’ e così via. Il parlare frivolo si ha quando i discorsi sono solo chiacchiere inutili, senza senso, sconclusionati, che vanno avanti senza voler dire niente. Ci siamo lasciati andare tutti qualche volta a questo genere di discorsi a ruota libera, quindi praticare sila significa sorvegliare se stessi, sorvegliare le proprie azioni e le proprie parole.

Ma chi sorveglia? Chi si prende la responsabilità delle vostre azioni? Quando vi appropriate di qualcosa che non vi appartiene, chi è consapevole di quell'azione? E' la

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mano? Questo è il punto su cui dovete sviluppare la consapevolezza. Chi sa che state per mentire, giurare o dire qualcosa di frivolo? Consapevole di ciò che dice è la bocca, o è colui che conosce il significato delle parole? Contemplate: 'colui che conosce', chiunque sia, deve prendersi la responsabilità della vostra sila. Portate questa consapevolezza a sorvegliare le vostre azioni e le parole. Per praticare sila, usate quella parte della mente che dirige le vostre azioni e che vi porta ad agire bene o male, a cacciare il furfante e a trasformarlo in uno sceriffo. Tenete ferma la mente capricciosa e portatela a servire e a prendersi la responsabilità di tutte le vostre azioni e parole. Osservate ciò e contemplatelo. Il Buddha ci ha esortato ad essere consapevoli delle nostre azioni. Chi è consapevole? Il corpo non ne sa niente; sa solo stare in piedi, camminare e cose del genere. Per poter fare qualsiasi cosa deve aspettare che qualcuno glielo ordini. La stessa cose vale per le mani, per la bocca.

La pratica comporta che si instauri sati - cioè la consapevolezza - in ‘colui che conosce’. ‘Colui che conosce’ è quell’intenzione della mente che prima ci portava ad uccidere esseri viventi, a rubare le cose altrui e a indulgere a una sessualità scorretta, a mentire, a calunniare, a parlare in modo sciocco e frivolo, a comportarci nei modi più sfrenati. E’ ‘colui che conosce’ che ci ha spinto a parlare; esso esiste nella mente. Focalizzate la consapevolezza (sati) - questa costante riflessione consapevole - su ‘colui che conosce’. Lasciate che la conoscenza si prenda cura della vostra pratica.

Usate sati, la consapevolezza, per mantenere la mente riflessiva, concentrata nel momento presente, ottenendo così la calma mentale. Fate che la mente badi a se stessa, e che lo faccia bene.

Mantenere sila - o in altre parole, prendersi cura delle azioni e delle parole - non è poi una cosa così difficile, se la mente sa badare a se stessa. Siate sempre consapevoli, ogni momento e in ogni postura: sdraiati, in piedi, camminando e seduti. Prima di compiere qualsiasi azione, prima di parlare o di impegnarvi in una conversazione, stabilite la consapevolezza, sati; dovete essere raccolti, prima di fare qualsiasi cosa. Non importa quello che direte, l’importante è raccogliersi nella mente. Esercitatevi fino a diventare molto abili. Praticate, in modo da essere sempre al corrente di ciò che capita nella mente; praticate fino a quando la consapevolezza diventi così naturale da essere presente ancora prima di agire o di parlare. E’ questo il modo per stabilire la consapevolezza nel cuore. E’ con ‘colui che conosce’ che sorvegliate voi stessi, perché tutte le azioni vengono da lui. E' qui che hanno origine le intenzioni che produrranno l'azione ed è per questo che la pratica non avrà successo se fate svolgere questo compito a qualcun altro.

Le vostre parole e le vostre azioni, sempre tenute a bada, diventeranno aggraziate e piacevoli sia all’occhio che all’orecchio, mentre voi stessi, sarete perfettamente a vostro agio all’interno di questa disciplina. Se praticate la consapevolezza e il controllo fino a renderli atteggiamenti naturali, la mente diventerà ferma e risoluta nella pratica di sila. Farà costantemente attenzione alla pratica, riuscendo così a

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concentrarsi completamente. In altre parole, la pratica basata sul controllo e la disciplina, in cui vi prendete costantemente cura delle azioni e delle parole, in cui siete completamente responsabili del comportamento esteriore che avete, si chiama sila, mentre samadhi è caratterizzato dalla saldezza della consapevolezza, a sua volta derivato dalla ferma concentrazione nella pratica di sila. Queste sono le caratteristiche di samadhi, come fattore esterno della pratica. Ma vi è un lato più profondo e interiore.

Una volta che la mente sia concentrata nella pratica e che sila e samadhi si siano stabilizzati, sarete in grado di investigare e riflettere su ciò che è salutare e ciò che non lo è, chiedendo a voi stessi "questo è giusto? O non è giusto?", man mano che sperimentate i vari contenuti mentali. Quando la mente entra in contatto con cose visive, con suoni, odori, gusti, con sensazioni tattili o con idee, ‘colui che conosce’ apparirà e stabilirà la consapevolezza del piacere e dispiacere, della felicità e della sofferenza, e di tutti gli oggetti mentali che si vanno sperimentando. Riuscirete finalmente a ‘vedere’ chiaramente e osserverete un’infinità di cose diverse.

Se siete consapevoli, vedrete i vari oggetti che passano nella mente e la reazione che accompagna l’esperienza di essi. ‘Colui che conosce’ li prenderà automaticamente come oggetti di contemplazione. Quando la mente è vigile e la consapevolezza ferma e stabile, noterete facilmente le reazioni che si manifestano per mezzo del corpo, della parola o della mente, man mano che si sperimentano questi oggetti mentali. Tale aspetto della mente che identifica e seleziona il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato, in mezzo agli oggetti mentali che rientrano nel campo della consapevolezza, è pañña, una pañña allo stadio iniziale, che maturerà con l’avanzare della pratica. Tutti questi vari aspetti della pratica sorgono dall’interno della mente. Il Buddha si riferì a queste caratteristiche chiamandole sila, samadhi e pañña.

Continuando la pratica, vedrete sorgere nella mente altri attaccamenti e illusioni. Questo significa che ora state attaccandovi a ciò che è buono e sano. Diventate timorosi di ogni caduta o errore della mente, temendo che il samadhi ne risenta. Nello stesso tempo cominciate ad essere diligenti nella pratica, ad amarla e a coltivarla, lavorandovi con grande energia.

Continuate a praticare così il più a lungo possibile, fino a quando forse raggiungerete il punto in cui non farete altro che giudicare e trovare errori in chiunque incontrate, ovunque andiate. Reagite continuamente con attrazione o avversione al mondo che vi circonda, diventando sempre più incerti sulla correttezza di ciò che fate. E’ come se foste ossessionati dalla pratica. Ma non preoccupatevene; a questo punto è meglio praticare troppo che troppo poco. Praticate molto e dedicatevi a sorvegliare il corpo, la parola e la mente. Di questo esercizio non ne farete mai abbastanza. Tenetevi ancorati agli oggetti mentali rappresentati dalla consapevolezza e dal controllo sul corpo, sulla parola e sulla mente, e dalla discriminazione tra giusto e sbagliato. In questo modo svilupperete sempre più la

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concentrazione e rimanendo costantemente e fermamente ancorati a questo modo di praticare, la mente diventerà essa stessa sila, samadhi e pañña, le caratteristiche della pratica come descritte negli insegnamenti tradizionali.

Man mano che continuate a sviluppare la pratica, queste differenti caratteristiche e qualità, si perfezioneranno nella mente. Tuttavia la pratica di sila, samadhi e pañña, a questo livello non è sufficiente per produrre i fattori di jhana (assorbimento meditativo) - la pratica è ancora troppo grossolana. Eppure la mente è abbastanza raffinata (sempre relativamente alla grossolanità di base!). E tale appare a una normale persona non illuminata, che non abbia curato troppo la propria mente e che non abbia praticato la meditazione e la consapevolezza.

A questo livello si può sentire un certo senso di soddisfazione per riuscire a praticare al massimo delle proprie possibilità e lo vedrete da soli. E’ qualcosa che solo il praticante può sperimentare all’interno della propria mente. E se questo avviene, potete ritenervi già sulla giusta via. State camminando solo all'inizio del sentiero - ai livelli più elementari - ma, per certi versi, questi sono gli stadi più difficili. State praticando sila, samadhi e pañña e dovete continuare a praticarli sempre tutti e tre, poiché se ne manca anche solo uno, la pratica non si svilupperà in modo corretto. Più cresce sila, più solida e concentrata diviene la mente. Più la mente è stabile più consistente diventa pañña, e così via; ogni parte della pratica sostiene e si collega all’altra.

Man mano che approfondite e raffinate la pratica, sila, samadhi e pañña matureranno insieme sgorgando dalla stessa fonte, come infatti si sono raffinate sbozzandosi dallo stesso materiale grezzo. In altre parole, il Sentiero ha inizi grossolani, ma raffinando ed esercitando la mente con la meditazione e la riflessione, tutto diventa via via più raffinato.

Quando la mente è più raffinata, la pratica della consapevolezza si focalizza meglio, poiché è concentrata su un’area più ristretta. Anzi, la pratica diventa molto più facile, quando la mente si concentra sempre di più su se stessa. Ormai non fate più grossi sbagli, ormai, quando la mente è presa in qualche problema, quando sorgono dubbi se è giusto o no agire o dire certe cose, semplicemente fermate la proliferazione mentale e, intensificando gli sforzi nella pratica, continuate a volgere l’attenzione sempre più in profondità in voi stessi. Così la pratica del samadhi diverrà vieppiù ferma e concentrata, mentre la pratica di pañña si rafforza, permettendo di vedere le cose più chiaramente e più naturalmente.

Il risultato è che potrete vedere la mente e i suoi oggetti nitidamente, senza dover fare distinzione fra mente, corpo e parola. Continuando a volgere l’attenzione all’interno di sé e continuando a riflettere sul Dhamma, la facoltà della saggezza gradualmente maturerà fino al punto che potrete contemplare la mente e gli oggetti mentali soltanto, ciò significa che state cominciando a sperimentare il corpo come immateriale. Quando l’intuizione è così sviluppata, non andrete più a tentoni, incerti

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su come interpretare il corpo e il suo modo di essere. La mente sperimenterà le caratteristiche fisiche del corpo come oggetti senza forma con cui essa entra in contatto. Infine, contemplerete solo la mente e gli oggetti mentali, cioè quegli oggetti che arrivano a livello di coscienza.

Esaminando ora la vera natura della mente, osserverete che, nel suo stato naturale, non ha preoccupazioni o ambizioni che la sommergano. E’ come una bandiera che sia stata legata all’estremità di un’asta; se niente la muove rimarrà così, tranquilla. E se si muove significa che c'è del vento, una forza esterna che la fa agitare. Allo stato naturale, la mente fa lo stesso - in essa non vi è né amore né odio, né disapprovazione. Essa è indipendente, in uno stato di purezza che è completamente chiaro, raggiante, non offuscato. Nel suo stato puro la mente è pacifica, senza felicità o sofferenza, - in effetti non sperimenta nessun vedana (sensazione). E’ questo il vero stato della mente.

Lo scopo della pratica, quindi, è guardarsi internamente, cercando e investigando fino a quando troverete la mente originale. La mente originale è detta anche la mente pura. La mente pura è la mente senza attaccamenti. E' in uno stato di perenne conoscenza e attenzione, completamente consapevole di ciò che sta sperimentando. Quando la mente è così non vi sono oggetti mentali piacevoli o spiacevoli che la possano turbare, non li insegue. La mente non ‘diventa’ nulla. In altre parole, nulla può scuoterla. La mente conosce se stessa come purezza. Si è evoluta verso una vera, completa indipendenza; ha raggiunto il suo stato originale.

E come ha potuto raggiungere questo stato originale? Attraverso la facoltà della consapevolezza, riflettendo con saggezza e vedendo che tutte le cose sono solo condizioni che sorgono dal mutuo interagire degli elementi, senza che vi sia nessuno che li controlli. E così capita anche quando sperimentiamo la gioia e la sofferenza. Questi stati mentali sono solo "felicità" e "sofferenza". Non vi è qualcuno che 'ha' la felicità, la mente non ‘possiede’ la sofferenza; gli stati mentali non ‘appartengono’ alla mente. Osservatelo voi stessi. In effetti, queste sono cose che non riguardano la mente, sono separate, distinte da essa. La felicità è solo uno stato di felicità; la sofferenza è solo uno stato di sofferenza. Voi siete solo coloro che sanno questo.

In passato, a causa delle radici dell’avidità, dell’odio e dell’illusione presenti nella mente, essa avrebbe reagito immediatamente quando entravate in contatto con qualcosa di piacevole o spiacevole, e attraverso questa reazione vi sareste 'impadroniti' di quell’oggetto mentale, sperimentandolo come sofferenza o gioia. E così potrà avvenire ancora fino a quando la mente non conoscerà se stessa, fino a quando non sarà chiara e illuminata. Quando la mente non è libera, si lascia influenzare da qualsiasi oggetto mentale le capiti di sperimentare. In altre parole, non ha un rifugio, è incapace di dipendere veramente da se stessa. In questa situazione, quando ricevete una piacevole impressione mentale diventate allegri o

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diventate tristi quando l'oggetto mentale è spiacevole. Così la mente dimentica se stessa.

La mente originale, invece, è al di là del bene e del male, poiché questa è la natura originale della mente. E’ un’illusione essere felici per aver sperimentato un oggetto mentale piacevole. E’ un’illusione essere tristi per aver sperimentato un oggetto mentale spiacevole. Gli oggetti mentali sorgono con il mondo, sono il mondo. Danno l’avvio alla felicità e alla sofferenza, al bene e al male, e a tutto ciò che è soggetto all’impermanenza e all’incertezza. Quando vi separate dalla mente originale, tutto diventa incerto: solo una catena interminabile di nascita e morte, dubbi e apprensioni, sofferenza e fatica, senza la possibilità di fermare, di far cessare tutto ciò. E’ questa la ruota eterna delle rinascite.

Samadhi significa la mente fermamente concentrata, e più praticate più la mente diventa stabile. Più la mente è concentrata, più essa diventa risoluta nella pratica. Più contemplate, più diventate fiduciosi e la mente diventerà così stabile che non potrà più essere smossa da nulla. Sapete perfettamente che nessun oggetto mentale la può scuotere. Gli oggetti mentali sono oggetti mentali; la mente è la mente. La mente sperimenta stati mentali buoni o cattivi, felicità e sofferenza, perché viene illusa dagli oggetti mentali. La mente che non si fa ingannare non può essere turbata da nulla, poiché nello stato di consapevolezza, vede tutte le cose come elementi naturali che sorgono e scompaiono: solo questo! Si può avere questo tipo di esperienza anche quando non si è riusciti a lasciar andare completamente.

Semplificando, lo stato che è sorto, è la mente stessa. Se contemplate seguendo la verità delle cose così come sono, vi accorgerete che esiste un solo sentiero e che è vostro dovere seguirlo. Significa che sapete, fin dall'inizio, che gli stati mentali di felicità e dolore non sono il sentiero da seguire. E' qualcosa che dovete capire da soli: è la verità delle cose così come sono! Siete in grado di capire tutto ciò - siete consapevoli con la giusta visione delle cose - ma allo stesso tempo non siete in grado di lasciar andare completamente i vostri attaccamenti.

Qual è allora il modo giusto di praticare? State nella via di mezzo, che vuol dire prendere nota dei vari stati di gioia e dolore, ma contemporaneamente teneteli a debita distanza sia da un’esagerazione che dall’altra. Questa è la via corretta di praticare: mantenere la consapevolezza anche se non siete in grado di lasciar andare. E’ la via più giusta, poiché, anche se la mente è aggrappata ai vari stati di gioia o sofferenza, vi è sempre la consapevolezza di questo attaccamento. Ciò significa che quando la mente si attacca a stati di felicità, voi non le date importanza e non ne gioite e altrettanto non criticate gli stati di sofferenza. In questo modo potete veramente osservare la mente così com’è. Quando praticate fino al punto di portare la mente oltre la gioia e l’infelicità, automaticamente sorgerà l’equanimità, e voi non dovrete fare altro che contemplarla come un oggetto mentale e seguirla, pian

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pianino. Il cuore sa dove andare per essere oltre le negatività, e anche se non è ancora pronto a trascenderle, le mette da parte e continua a praticare.

Quando sorge la felicità e la mente vi si attacca, prendete proprio questa felicità come oggetto di contemplazione; lo stesso, se la mente si attacca all’infelicità, prendete questa infelicità come oggetto di contemplazione. Finalmente la mente raggiungerà uno stadio in cui sarà pienamente consapevole sia della felicità che dell’infelicità. E questo accadrà quando sarà in grado di mettere da parte sia la felicità che la sofferenza, sia il piacere che la tristezza, quando sarà in grado di mettere da parte il mondo per diventare allora il ‘conoscitore dei mondi’. Una volta che la mente ‘colei che conosce’ - può lasciar andare, è qui che si stabilizzerà ed allora la pratica diventa veramente interessante.

Ogni volta che vi è attaccamento nella mente, continuate a battere su quel punto, senza lasciar andare. Se c’è attaccamento alla felicità, continuate a meditarvi sopra, senza permettere che la mente si allontani da quello stato d’animo. Se la mente si attacca alla sofferenza, afferratevi a ciò, tenendovi ben stretti e contemplando subito quella disposizione d’animo. Anche se la mente è intrappolata in uno stato mentale negativo, riconoscetelo come uno stato d’animo negativo e la mente non ne sarà più distratta. E’ come quando si capita in un cespuglio di rovi; ovviamente non lo fate appositamente, anzi cercate di evitarlo, ma può capitare che vi troviate a camminare tra le spine. E come vi sentite allora? Naturalmente provate avversione. Anche se lo sapete, non potete fare a meno di essere 'in mezzo alle spine'. La mente continua ancora a inseguire i vari stati di felicità e sofferenza, ma non indulge in essi. Il vostro è un continuo sforzo per eliminare ogni attaccamento dalla mente, per eliminare e per ripulire la mente da tutto ciò che è esteriore, mondano.

Alcuni vogliono pacificare la mente, ma essi stessi non sanno che cos’è la pace. Non sanno che cos’è una mente tranquilla! Vi sono due tipi di tranquillità mentale: uno è la pace che viene per mezzo del samadhi, l’altro è la pace che viene da pañña. La mente che è calma per mezzo di samadhi è una mente ancora in preda all’illusione. La pace che si raggiunge per mezzo del solo samadhi, dipende dal fatto che la mente è separata dagli oggetti mentali. Quando non sperimenta alcun oggetto mentale, allora è calma, e perciò uno si attacca alla felicità collegata a questa pace. Tuttavia, quando c’è il contatto con i sensi, la mente vi si precipita dentro subito, poiché ha paura degli oggetti mentali. Ha paura della felicità e della sofferenza; ha paura della lode e della critica, ha paura delle forme, dei suoni, degli odori e dei gusti. Chi ha la pace per mezzo di samadhi ha paura di tutto e non vuole essere coinvolto in niente e con nessuno. La gente che pratica samadhi in questo modo, vorrebbe isolarsi in una grotta, dove può sperimentare in pieno la beatitudine del samadhi, senza mai doverne uscire fuori. Appena trovano un posto isolato, vi si intrufolano e vi si nascondono.

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Questo tipo di samadhi porta con sé molta sofferenza: per loro è difficile uscirne fuori e avvicinarsi agli altri. Non vogliono vedere forme o udire suoni. Non vogliono sperimentare completamente nulla! Devono vivere in appositi luoghi particolarmente tranquilli, dove nessuno possa disturbarli con la presenza o con le parole.

Questo tipo di pace non è utile allo scopo. Quando avete raggiunto un normale livello di calma, allontanatevene. Il Buddha non ci ha insegnato a praticare samadhi nell’illusione. Se vi accorgete di praticare in questa maniera, smettete subito. Se la mente ha raggiunto la calma, usate questa calma come base di contemplazione. Contemplate la pace della concentrazione e usatela per collegare la mente con i vari oggetti mentali che sperimenta, riflettendoci poi sopra. Contemplate le tre caratteristiche di aniccam (impermanenza), dukkham (sofferenza) e anatta (non-sé). Riflettete e quando avrete contemplato abbastanza, potete ristabilire senza pericolo la calma del samadhi, sedendo in meditazione e poi, una volta riottenuta la calma, riprendete la contemplazione. Man mano che acquistate conoscenza, usatela per combattere le negatività e allenare la mente.

La pace che viene per mezzo di pañña è un’altra cosa, perché quando la mente lascia lo stato di calma, la presenza di pañña la salva dal timore per le forme, i suoni, gli odori, i gusti, le sensazioni tattili e le idee. Vuol dire che ogni volta che c’è un contatto sensoriale, la mente è subito consapevole dell’oggetto mentale e lo lascia perdere - la consapevolezza è abbastanza acuta per poterlo fare immediatamente. Questa è la pace che arriva per mezzo di pañña.

Quando praticate in questo modo, la mente diventa molto più raffinata di quando sviluppavate solo samadhi. La mente diventa potentissima e non cerca più di scappare. E’ questa energia che allontana ogni timore. Prima avevate paura di ogni esperienza, ma ora conoscete gli oggetti mentali per quello che sono e non ne siete quindi più spaventati. Conoscete la vostra stessa forza mentale e non ne siete più intimoriti. Quando vedete una forma, la contemplate; quando udite un suono, lo contemplate. Diventate abili nella contemplazione degli oggetti mentali e comunque essi siano, li potete lasciar andare. Vedete chiaramente la felicità e la lasciate andare. Qualsiasi cosa vediate, la lasciate subito andare. In tal modo tutti gli oggetti mentali perdono la loro forza e non possono più trascinarvi con loro. Quando sorgono queste caratteristiche nella mente del praticante, si può cambiare il nome della pratica, chiamandola vipassana, che significa chiara conoscenza in accordo con la verità. E’ tutto qui: conoscenza in accordo con la verità sulle cose così come sono. Questa è pace al più alto livello, la pace di vipassana.

Il vero scopo della pratica, quindi, non è sviluppare samadhi, sedendosi in meditazione e aggrappandosi a quello stato di beatitudine che procura. Dovete anzi evitare questo stato. Il Buddha ha detto che dovete combattere apertamente la vostra battaglia, non nascondervi in una trincea cercando di evitare le pallottole del nemico. Quando è il momento di lottare, dovete saltar fuori con le armi in pugno,

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dovete per forza uscire dal nascondiglio. Non potete più stare lì a poltrire quando è tempo di battaglia. Questa è la pratica. Non dovete permettere che la mente si nasconda, acquattandosi nell’ombra.

Ho spiegato la pratica a grandi linee, affinché non abbiate ad impantanarvi nel dubbio, affinché non vi siano esitazioni sul modo di praticare. Quando c’è la felicità, osservate quella felicità; quando c’è la sofferenza, osservate quella sofferenza. E così stabilizzati nella consapevolezza, provate a lasciarle andare entrambe, a metterle da parte. Ora che le avete osservate e quindi le conoscete, continuate a lasciarle andare. Non è importante che meditiate seduti o camminando, se continuate a pensare non fa niente. La cosa importante è essere sempre e continuamente consapevoli della propria mente. Se vi trovate invischiati in troppe proliferazioni mentali, raccoglietele tutte insieme, e contemplatele come se fossero un tutt’uno. Ne taglierete l’energia alla radice dicendo: "Tutti questi pensieri, queste idee e immaginazioni sono semplicemente delle proliferazioni mentali e basta. Tutto ciò è aniccam, dukkham e anatta. In nessuno di loro risiede la certezza". E poi lasciatele subito perdere.

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Addestrarsi con tutto il cuore del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Dal libro "Everything Is Teaching Us" Traduzione di Chandra Livia Candiani.

Vivevamo con la febbre, affrontavamo la morte e siamo sopravvissuti tutti. Ma non è mai stato un problema.

IN OGNI CASA E IN OGNI COMUNITÀ, che si viva in città, in campagna, nella foresta, o sulle montagne, siamo tutti uguali nell’esperire la felicità e la sofferenza. Molti di noi mancano di un luogo che faccia da rifugio, un campo o un giardino dove si possano coltivare le qualità positive del cuore. Viviamo questa povertà spirituale perché non abbiamo un vero impegno; non abbiamo una chiara comprensione di cosa sia questa vita e di cosa sia necessario fare. Dall’infanzia, alla giovinezza, fino alla maturità, impariamo solo a inseguire il godimento e il piacere sensoriale. Non pensiamo mai che un pericolo ci possa minacciare nel corso della vita, mentre ci facciamo una famiglia e via dicendo.

Se non abbiamo un terreno da coltivare e una casa in cui vivere, siamo privi di un rifugio esterno e la nostra vita è colma di difficoltà e di angoscia. Oltre a questo, c’è la mancanza interiore di non avere sīla e il Dhamma nella nostra vita, il non andare ad ascoltare gli insegnamenti e il non praticare il Dhamma. Come risultato, c’è poca saggezza nella nostra esistenza e ogni cosa regredisce e degenera. Il Buddha, il nostro supremo Maestro, nutriva mettā (gentilezza amorevole) per ogni essere. Portò all’ordinazione figli e figlie di buona famiglia, per praticare, e realizzare la verità, per rendere saldo e diffondere il Dhamma, per mostrare alle persone come vivere felici nella vita quotidiana. Insegnò il modo appropriato per guadagnarsi da vivere, per essere moderati e parsimoniosi nel gestire le finanze, per agire con avvedutezza in tutte le proprie faccende.

Ma quando siamo mancanti su entrambi i fronti, esternamente nel sostegno materiale alla sopravvivenza e internamente in quello spirituale, col passare del tempo e il crescere del numero delle persone, l’illusione, la povertà e le difficoltà diventano per noi la causa di una crescente estraneità nei confronti del Dhamma. Non ci interessa cercare il Dhamma, a causa delle nostre condizioni di difficoltà. Anche se nelle vicinanze c’è un monastero, non abbiamo voglia di andare ad ascoltare gli insegnamenti, perché siamo ossessionati dalla povertà, dai problemi e dalle difficoltà della sopravvivenza. Ma il Buddha insegnò che, per quanto poveri, non dovremmo

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permettere che si impoverisca il nostro cuore e che la nostra saggezza soffra la fame. Anche se i nostri campi vengono inondati da una piena, insieme alla nostra casa e al nostro villaggio, al punto da non poter più fare niente, il Buddha ci ha insegnato a non permettere che si inondi e si sommerga il nostro cuore. Un cuore inondato significa perdere la visione e la conoscenza del Dhamma.

C’è l’ogha, l'inondazione, della sensualità, la piena del divenire, quella delle visioni e dell’ignoranza. Queste quattro inondazioni oscurano e aggrovigliano il cuore degli esseri. Sono peggiori dell’acqua che alluviona i nostri campi, i paesi, le città. Anche se l’acqua continua nel corso degli anni a sommergere i nostri campi, o il fuoco brucia la nostra casa, abbiamo pur sempre la nostra mente. Se la nostra mente ha sīla e il Dhamma, possiamo utilizzare la nostra saggezza e trovare il modo di guadagnarci il sostentamento per vivere. Possiamo comprare un nuovo terreno e ricominciare da capo.

Quando abbiamo i mezzi di sopravvivenza, la casa e i nostri possessi, la mente può essere a suo agio e integra, e possiamo avere energia spirituale per aiutare e assistere gli altri. Condividere cibo e vestiti, dare alloggio a chi ne ha necessità, sono atti di gentilezza amorevole. Secondo me, dare con lo spirito della gentilezza amorevole è un’azione migliore che vendere con lo spirito del profitto. Chi ha mettā non desidera niente per sé. Desidera solo che gli altri vivano felici.

Se veramente addestriamo la mente e ci impegniamo nel modo retto, penso che non incontreremo serie difficoltà. Non vivremo un’estrema povertà, non saremo come lombrichi. Abbiamo pur sempre uno scheletro, occhi e orecchie, braccia e gambe. Possiamo mangiare della frutta, non dobbiamo mangiare la terra come un verme. Se vi lamentate della povertà, se affondate nel fango sentendo quanto siete sfortunati, il lombrico vi dirà: “Non dispiacerti così tanto. Non hai ancora braccia, gambe e ossa? Io non li ho, ma non mi sento povero.” Il lombrico ci farà vergognare.

Un giorno venne a trovarmi un allevatore di maiali. Si lamentava: “Oddio, quest’anno è stato proprio troppo! Il prezzo del mangime è alto. Quello del maiale è basso. Sto perdendo la camicia!” Ascoltai i suoi lamenti e poi dissi: “Non si senta troppo infelice, signore. Se fosse un maiale allora sì che avrebbe motivo per dispiacersi. Quando il prezzo del maiale è alto, i maiali vengono macellati. Quando è basso, vengono macellati lo stesso. I maiali sì che hanno di che lamentarsi. Le persone non dovrebbero lamentarsi. Provi a pensarci seriamente.”

Si preoccupava solo di quanto avrebbe guadagnato. I maiali hanno molte più preoccupazioni, ma noi non ci pensiamo. Noi non veniamo uccisi; quindi possiamo trovare ancora un modo per farcela.

Io credo veramente che se ascoltate il Dhamma, lo contemplate e lo comprendete, potete metter fine alla sofferenza. Sapete cosa è giusto fare, cosa avete bisogno di fare, cosa avete bisogno di usare e di spendere. Potete vivere la vostra vita in accordo con silā e il Dhamma, applicando la saggezza alle faccende del mondo. Ma molti di noi sono lontani da tutto questo. Non abbiamo moralità o il Dhamma nella nostra

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vita, che si riempie così di discordia e di attrito. C’è discordia tra marito e moglie, tra figli e genitori. I figli non ascoltano i genitori, proprio a causa della mancanza di Dhamma in famiglia. Le persone non sono interessate ad ascoltare il Dhamma e a imparare qualcosa e così, anziché imparare il buon senso e la destrezza, restano intrappolati nell’ignoranza e il risultato sono vite di sofferenza.

Il Buddha insegnò il Dhamma e spiegò il percorso della pratica. Non voleva complicarci la vita. Voleva che migliorassimo, che diventassimo migliori e più accorti. E’ solo che non ascoltiamo. Non è molto bello. E’ come un bambino che non vuole fare il bagno in inverno perché fa troppo freddo. Il bambino comincia ad avere così tanto cattivo odore che i genitori non riescono a dormire di notte, dunque lo afferrano e gli fanno un bagno. Questo fa ammattire il bambino che piange e urla ai genitori.

I genitori e il bambino vedono la situazione in modo diverso. Per il bambino, è un disagio troppo grande fare un bagno d’inverno. Per i genitori, l’odore del bambino è insopportabile. Le due prospettive non si conciliano. Il Buddha non voleva semplicemente lasciarci così come siamo. Voleva che fossimo diligenti e che lavorassimo intensamente in modi positivi e benefici, e che fossimo entusiasti verso il retto sentiero. Anziché essere pigri, dobbiamo fare degli sforzi. Il suo insegnamento non ci rende insulsi o inutili. Ci insegna come sviluppare e applicare la saggezza a qualsiasi cosa facciamo, lavorando, coltivando, badando a una famiglia, gestendo le nostre finanze, consapevoli di tutti gli aspetti di queste faccende. Se viviamo nel mondo, dobbiamo fare attenzione e conoscere le vie del mondo. Altrimenti, finiamo in terribili difficoltà.

Noi viviamo in un posto in cui il Buddha e il suo Dhamma ci sono familiari. Ma allora ci facciamo l’idea che tutto quello che dobbiamo fare sia andare ad ascoltare gli insegnamenti e poi prenderla alla leggera, vivendo la nostra vita tale e quale a prima. E’ un grave fraintendimento. In questo modo, come avrebbe fatto il Buddha a raggiungere una qualche conoscenza? Non ci sarebbe mai stato un Buddha.

Egli parlò di vari tipi di ricchezze: la ricchezza dell’esistenza umana, la ricchezza del regno celeste, la ricchezza del Nibbāna. Quelli che hanno il Dhamma, anche se vivono nel mondo, non sono poveri. E anche se lo sono, non ne soffrono. Se viviamo in accordo col Dhamma, non proviamo angoscia quando ricordiamo quel che abbiamo fatto. Creiamo solo buon kamma. Se creiamo cattivo kamma, allora, più tardi, il risultato sarà l’infelicità. Se non abbiamo creato kamma negativo, non soffriremo questi risultati in futuro. Ma se non cerchiamo di cambiare le nostre abitudini e di smettere con le azioni sbagliate, le nostre difficoltà non avranno mai fine, sorgeranno angosce mentali o preoccupazioni materiali. Dunque, dobbiamo ascoltare e contemplare, e allora possiamo vedere da dove vengono le difficoltà. Avete mai trasportato nei campi qualcosa su un bastone sopra le spalle? Quando il carico è troppo pesante sul davanti, non è difficile da trasportare? E non è lo stesso, quando è troppo pesante dietro? Qual è il modo equilibrato e quale non lo è? Lo potete scoprire facendolo. Lo stesso vale per il Dhamma. Ci sono la causa e l’effetto,

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c’è il senso comune. Se il peso è bilanciato, è più facile da trasportare. Possiamo vivere le nostre vite in modo equilibrato, con un atteggiamento di moderazione. Le relazioni familiari e il lavoro possono essere più armoniose. Anche se non siete ricchi, potete avere la mente serena; non c’è bisogno di soffrirne.

Se una famiglia non lavora duramente, finisce in una situazione difficile e quando vede che gli altri hanno di più, prova avidità, gelosia e risentimento e può essere indotta a rubare. Allora, il paese diventa un luogo infelice. E’ meglio lavorare a vantaggio di se stessi e della propria famiglia per questa vita e anche per le future. Se i vostri bisogni materiali vengono soddisfatti grazie ai vostri sforzi, la vostra mente è felice e rilassata, e questo conduce ad ascoltare gli insegnamenti di Dhamma, a imparare riguardo al giusto e allo sbagliato, alla virtù e all’azione biasimevole, e a continuare a cambiare la propria vita orientandola al meglio. Imparate a capire come le azioni sbagliate creino solo avversità e rinuncerete a tali azioni e continuerete a migliorare. Il vostro modo di lavorare cambierà e cambierà la vostra mente. Passerete dall’ essere una persona ignorante a essere una persona che sa conoscere. Da una persona con cattive abitudini a una persona dal buon cuore. Potrete insegnare quel che sapete ai figli e ai nipoti. Così, facendo quel che è giusto nel presente, si crea beneficio per il futuro. Ma chi non ha saggezza non fa nulla di benefico nel presente e finisce solo nelle avversità. Se diventa povero, pensa solo a giocare d’azzardo. E alla fine, si mette a rubare.

Non siamo ancora morti, dunque questo è il momento giusto per parlare di questi argomenti. Se non ascoltate il Dhamma finché siete esseri umani, non avrete altre occasioni. Pensate che si possa insegnare il Dhamma agli animali? La vita degli animali è molto più dura della nostra, è più difficile se si è nati rospo o rana, maiale o cane, cobra o vipera, scoiattolo o coniglio. Quando la gente li vede, pensa solo a ucciderli o a fargli male, a catturarli o ad allevarli per essere mangiati.

Come umani abbiamo un’opportunità. E’ molto meglio! Siamo ancora vivi e dunque ora è il momento giusto per osservare e correggersi. Se la situazione è difficile, per il momento cercate di tollerare la difficoltà, e vivete in modo retto finché un giorno supererete la difficoltà. Questo è praticare il Dhamma.

Desidero rammentarvi quanto sia necessario avere una buona mente e vivere la propria vita in modo etico. Avendo già compiuto molte azioni fino ad ora, dovreste dare uno sguardo ed esaminare se sono buone o no. Se avete seguito delle vie sbagliate, rinunciateci. Rinunciate a un modo di vivere errato. Guadagnatevi da vivere in modo buono e decente, che non faccia del male agli altri, né a voi stessi, né alla società. Se praticate il retto modo di guadagnarvi da vivere, potete vivere con una mente serena.

Noi monaci e monache dipendiamo dai laici per tutti i bisogni materiali. E ci affidiamo alla contemplazione per poter spiegare il Dhamma ai laici perché possano comprenderlo e averne beneficio e migliorare la loro vita. Potete imparare a

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riconoscere e a eliminare qualsiasi causa d’infelicità e di conflitto. E sforzarvi di andare d’accordo, di avere armonia nelle relazioni anziché sfruttarvi o farvi del male.

In quest’epoca, le situazioni sono difficili. Non è facile andare d’accordo. Anche quando poche persone si riuniscono per un breve incontro, non funziona. Si guardano in faccia tre volte, e sono già pronti a uccidersi a vicenda. Perché succede così? Semplicemente perché le persone non hanno silā o il Dhamma nella loro vita.

All’epoca dei nostri genitori, era molto diverso. Anche solo il modo di guardarsi delle persone dimostrava affetto e amicizia. Ora, non è più così. Se uno straniero arriva verso sera in paese, sono tutti sospettosi: “Come mai arriva qui di notte?” Perché dovremmo aver paura di una persona che arriva in paese? Se arriva un cane sconosciuto, nessuno gli attribuisce un secondo fine. Allora, una persona è peggio di un cane? “E’ uno straniero, una persona strana.” Cos’è uno straniero? Quando qualcuno arriva in paese, dovremmo essere contenti: ha bisogno di un riparo e dunque può stare con noi e possiamo prendercene cura e aiutarlo. Avremo compagnia.

Ma oggigiorno, non c’è più tradizione di ospitalità e di buona volontà. C’è solo paura e sospetto. Mi viene da dire che in alcuni paesi non ci sono più esseri umani, ma solo animali. Sospettano di tutto, sono possessivi con ogni cespuglio e ogni centimetro di terra, perché non c’è moralità, non c’è spiritualità. Quando non c’è silā e non c’è Dhamma, viviamo vite di disagio e di paranoia. Le persone di notte vanno a dormire e d’improvviso si svegliano, preoccupate di cosa possa succedere o di qualche rumore che hanno avvertito. Le persone nei paesi non vanno d’accordo e non si fidano le une delle altre. Genitori e figli non si fidano reciprocamente. Marito e moglie non si fidano. Che sta succedendo?

Tutto questo è il risultato di essere lontani dal Dhamma e di vivere senza il Dhamma. Ovunque guardi, è così e la vita è difficile. Se arrivano persone in paese e chiedono riparo per la notte, ora gli viene detto di andare a cercare un hotel. Ora, è tutta questione di soldi. In passato, nessuno li avrebbe mandati via a quel modo. L’intero villaggio avrebbe fatto a gara per offrire ospitalità. Avrebbero invitato i vicini e tutti avrebbero portato cibo e bevande da condividere con gli ospiti. Ora, non è più possibile. Le persone dopo aver cenato, guardano verso la porta.

Da qualunque parte nel mondo, adesso è così che vanno le cose. Questo significa che il non spirituale prospera e soppianta il resto. In generale, non siamo felici e non ci fidiamo per lo più di nessuno. In quest’epoca, c’è chi uccide i suoi genitori. Marito e moglie si tagliano la gola. C’è molta sofferenza nella società ed è semplicemente per questa mancanza di silā e di Dhamma. Dunque, cercate di capirlo e non trascurate i principi della virtù. Grazie alla virtù e alla spiritualità, la vita umana può essere felice. Senza, diventiamo come animali.

Il Buddha nacque nella foresta. Essendo nato nella foresta, è nella foresta che studiò il Dhamma. E insegnò il Dhamma nella foresta, iniziando col Discorso della messa in moto della Ruota del Dhamma. Entrò nel Nibbāna nella foresta.

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E’ importante per chi tra noi vive nella foresta comprendere la foresta. Vivere nella foresta non significa che la nostra mente diventi selvaggia, come quella degli animali selvatici. La nostra mente può elevarsi e diventare spiritualmente nobile. E’ questo che disse il Buddha. In città, si vive nella distrazione e nella confusione. Nella foresta c’è pace e tranquillità. Possiamo contemplare le cose con chiarezza e sviluppare la saggezza. Questa pace e tranquillità diventano i nostri amici e i nostri aiutanti. Questo ambiente dispone alla pratica del Dhamma e perciò lo eleggiamo a nostra dimora; scegliamo come rifugio montagne e grotte. Osservando i fenomeni naturali, nasce la saggezza. Impariamo dagli alberi e da tutto il resto e li comprendiamo e si crea uno stato di gioia. I suoni della natura non ci disturbano. Sentire i richiami degli uccelli è un grande godimento. Non reagiamo con avversione e non nutriamo pensieri nocivi. Non parliamo con asprezza e non agiamo aggressivamente verso niente e nessuno. Ascoltare i rumori della foresta allieta la mente; anche durante l’ascolto dei suoni, la mente è tranquilla.

I rumori delle persone invece non sono suoni tranquilli. Anche quando le persone si parlano amabilmente, alla mente non arriva una profonda tranquillità. I suoni che le persone amano, come la musica, non sono tranquilli. Causano eccitazione e piacere, ma in essi non c’è pace. Quando le persone sono insieme e cercano in questo modo il piacere, di solito parlano in modo disattento e aggressivo, litigioso e le condizioni disturbanti continuano a crescere.

Così sono i suoni umani. Non portano vero agio e felicità, a meno che non siano parole di Dhamma. Generalmente, quando le persone vivono insieme in società, parlano dei loro interessi, turbandosi a vicenda, offendendosi e accusandosi e l’unico risultato è la confusione e il turbamento. Senza il Dhamma, le persone tendono naturalmente a essere così. I suoni degli esseri umani ci conducono nell’illusione. I suoni della musica e le parole delle canzoni agitano e confondono la mente. Osservatelo. Considerate le sensazioni piacevoli che provengono dall’ascolto della musica. Le persone pensano che sia una cosa meravigliosa, che diverte moltissimo. Riescono a stare in piedi sotto il sole cocente, mentre ascoltano una musica o assistono a uno spettacolo di danza. Riescono a stare lì finché non sono cotti a puntino, ma continuano a pensare che si stanno divertendo. Ma poi, se qualcuno gli parla con durezza, li critica o li insulta, ritornano infelici. Ecco cosa succede normalmente con i suoni ordinari degli esseri umani. Ma se i suoni umani diventano i suoni del Dhamma, se la mente è Dhamma e parliamo la lingua del Dhamma, è una cosa degna di ascolto, qualcosa su cui riflettere, da studiare e contemplare.

Quel tipo di suono è positivo, non in modo eccessivo, sbilanciato, ma in un modo che procura felicità e tranquillità. I normali suoni umani, in generale, portano solo confusione, turbamento, rovello. Fanno sorgere sensualità, rabbia e confusione e spingono le persone a essere avide e ingorde, a voler ferire e distruggere gli altri. I suoni della foresta non sono così. Il canto di un uccello non ci suscita sensualità o rabbia.

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Dovremmo usare il nostro tempo per averne un beneficio ora, nel presente. Questa era l’intenzione del Buddha: beneficio in questa vita, beneficio nelle vite future. In questa vita, fin dall’infanzia abbiamo bisogno d’impegnarci per studiare, imparare se non altro quel tanto per riuscire a guadagnarci il sostentamento per noi stessi ed eventualmente per farci una famiglia e non vivere in povertà. Ma, generalmente, non abbiamo un atteggiamento tanto responsabile. Ricerchiamo piuttosto il godimento. Dovunque ci sia una festa, un divertimento, o un concerto, ci mettiamo in marcia, anche se si avvicina il tempo della mietitura. Gli anziani trascinano i nipoti ad ascoltare il cantante famoso.

“Dove stai andando nonna?”

“Porto i bambini al concerto.”

Non so se sia la nonna a portare i bambini o i bambini a portare lei. Non importa quanto lungo o difficile possa essere il tragitto. Ci continuano ad andare. Dicono di volerci portare i bambini, ma la verità è che vogliono andarci loro. In questo consiste per loro un divertimento. Se li invitate al monastero ad ascoltare il Dhamma e a imparare cosa è giusto e cosa sbagliato, rispondono: “Vai tu, io voglio stare a casa a riposare.” Oppure: “Ho mal di testa, mi fa male la schiena, mi dolgono le ginocchia, proprio non mi sento bene…” Ma se tratta di un cantante famoso o di una commedia entusiasmante, si precipitano a prendere i bambini e non c’è più niente che li infastidisca.

Così è la gente. Fanno un sacco di sforzi, il cui risultato è solo di procurarsi sofferenza e difficoltà. Vanno in cerca di oscurità, confusione e intossicazione sul sentiero dell’illusione. Il Buddha ci insegna come creare beneficio per noi in questa vita, il supremo beneficio, il benessere spirituale. Va fatto ora, in questa vita. Dovremmo cercare la conoscenza che ci aiuta a farlo, in modo da poter vivere bene la nostra vita, facendo buon uso delle nostre risorse, lavorando con diligenza all’interno di un retto modo di vivere.

Dopo l’ordinazione, iniziai la mia pratica, a studiare e poi a praticare e così sorse la fede. All’inizio della mia pratica, riflettevo sulla vita degli esseri nel mondo. Mi sembravano tutte vite strazianti e degne di compassione. Ma cosa era tanto pietoso? I ricchi sarebbero presto morti e avrebbero dovuto lasciarsi alle spalle le loro grandi case e i figli e i nipoti a lottare per la proprietà. Quando vedevo succedere queste cose, pensavo: mmmm… Mi colpiva. Provavo pietà per i ricchi come per i poveri, per i saggi e gli stolti; tutti quelli che vivono in questo mondo sono nella stessa barca.

Riflettere sul nostro corpo, sulla condizione del mondo e sulla vita degli esseri senzienti, fa provare stanchezza e imparzialità. Pensando alla vita monastica, al fatto di aver scelto questa vita per vivere e praticare nella foresta, e sviluppare un costante atteggiamento di disincanto e di equanimità, la nostra pratica progredirà. Pensando costantemente ai fattori della pratica, emerge il rapimento. I peli del corpo si drizzano. Nasce una sensazione di gioia riflettendo sul nostro modo di vivere, paragonando la vita di prima a quella di adesso.

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Il Dhamma mi riempiva il cuore di queste sensazioni. Non sapevo con chi parlarne. Ero sveglio e all’erta in qualunque situazione mi trovassi. Vuol dire che avevo una certa conoscenza del Dhamma. La mia mente era luminosa e capivo moltissime cose. Sentivo beatitudine e un profondo senso di soddisfazione e di letizia nel mio modo di vivere.

In breve, mi sentivo diverso dagli altri. Ero un adulto, un uomo normale, ma ero in grado di vivere nella foresta. Non avevo rimpianti né un senso di perdita. Quando vedevo gli altri con le loro famiglie, pensavo che quello sì era spiacevole. Mi guardavo attorno e pensavo: ma quanti riescono a vivere così? Avevo una vera fede e fiducia nel sentiero di pratica che avevo scelto e questa fede mi ha sostenuto fino a questo momento.

Nei primi tempi di Wat Pah Pong, c’erano quattro o cinque monaci che vi vivevano con me. Affrontavamo tantissime difficoltà. Dal mio punto di vista attuale, molti di noi buddhisti sono parecchio insufficienti nella pratica. Oggigiorno, entrando in un monastero si vedono solo i kuti (le capanne dei monaci), la sala del tempio, i terreni del monastero e i monaci. Ma il vero cuore della via del Buddha (Buddhasāsanā) non lo troverete. Ne ho parlato spesso; è molto triste.

Un tempo, avevo un compagno di Dhamma che si interessava di più allo studio che alla pratica. Seguiva gli studi di pali e dell’Abhidhamma, e andò perciò a vivere a Bangkok e alla fine completò i suoi studi e ricevette un certificato e dei titoli di studio che attestavano la sua erudizione. Ora è un nome rinomato. Qui, io non ho nomi rinomati. Ho studiato al di fuori dei modelli, contemplando le cose e praticando, riflettendo e praticando. Così, non mi sono guadagnato il bollino di marca come gli altri. In questo monastero, ci sono monaci ordinari, persone che non hanno molta erudizione, ma che sono molto determinate a praticare.

Arrivai in questo posto su invito di mia madre. Era stata lei a prendersi cura di me e a sostenermi fin dalla nascita, ma non avevo ancora avuto occasione di ripagare la sua gentilezza e così pensai che un modo potesse essere quello di venire qui a Wat Pah Pong. Avevo un certo legame con questo posto. Quand’ero bambino, ricordo di aver sentito dire da mio padre che Ajahn Sao (un monaco della tradizione della foresta altamente rispettato, considerato un Arahant e il maestro di Ajahn Mun) era venuto a stare qui. Mio padre era andato ad ascoltare il Dhamma da lui. Ero piccolo, ma il ricordo era rimasto in me e rimase per sempre nella mia memoria.

Mio padre non prese mai l’ordinazione, ma mi raccontò che era andato a porgere il suo rispetto a questo monaco dedito alla meditazione. Era la prima volta che vedeva un monaco mangiare dalla sua ciotola, mescolando tutto insieme nella ciotola dell’elemosina, riso, curry, dolce, pesce, tutto quanto. Non l’aveva mai visto fare e così si chiese che genere di monaco fosse. Me lo raccontò quand’ero molto piccolo; mi disse che era un monaco dedito alla meditazione.

Poi, mi parlò di come si ricevevano gli insegnamenti di Ajahn Sao. Non era il modo consueto d’insegnare; semplicemente diceva quel che aveva in mente. Questo era il

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monaco praticante che venne a stare qui un tempo. Così, quando iniziai io stesso a praticare, questo ricordo conservò sempre per me qualcosa di speciale. Quando ripensavo al mio paese, ripensavo sempre a questa foresta. Poi, giunto il tempo di far ritorno, venni a stare qui.

Invitai a risiedere anche un monaco di grado molto elevato del distretto di Piboon. Ma rispose che non poteva. Venne per un po’ e disse: “Questo non è il mio posto.” Lo disse alle persone del luogo. Un altro Ajahn venne per un po’ e poi andò via. Ma io rimasi.

A quei tempi, questa foresta era davvero fuori mano. Era lontana da tutto e vivere qui era proprio difficile. C’erano alberi di mango piantati dagli abitanti del paese e spesso i frutti maturavano e marcivano. C’erano anche le patate dolci che pure spesso marcivano sul terreno. Ma non osavo raccoglierne alcuna. La foresta era fittissima. Quando arrivavate qui con la vostra ciotola, non c’era alcun posto su cui posarla. Dovetti chiedere agli abitanti del paese di ripulire degli spazi nella foresta. Era una foresta in cui la gente non si arrischiava a entrare, ne avevano tantissima paura.

Nessuno sapeva veramente cosa facessi qui. Ci ammalammo di malaria, quasi fino a morirne. Ma non andammo mai all’ospedale. Avevamo già il nostro rifugio sicuro: affidarci al potere spirituale del Buddha e del suo insegnamento. Di notte, il silenzio era totale. Non arrivò mai nessuno. L’unico rumore che si sentiva era quello degli insetti. I kuti erano molto distanti l’uno dall’altro nella foresta.

Una notte, verso le nove, sentii qualcuno che camminava per uscire dalla foresta. Un monaco era molto malato, con la febbre alta, e temeva di morire. Non voleva morire da solo nella foresta. Gli dissi: “Va bene. Cerchiamo qualcuno che non sia malato che si prenda cura di chi lo è; come può una persona malata prendersi cura di un altro malato?” Era così. Non avevamo medicine.

Avevamo del borapet ( un’amarissima pianta medicinale). La bollivamo per berla. Quando si parlava di ‘preparare una bevanda calda ’ nel pomeriggio, non c’erano dubbi, si parlava di borapet. Tutti avevano la febbre e tutti bevevano borapet. Non avevamo altro e non chiedevamo altro a nessuno. Se un monaco si ammalava seriamente, gli dicevo: “Non temere. Non preoccuparti. Se muori, ti cremerò personalmente. Ti cremerò qui nel monastero. Non avrai bisogno di andare da nessun altra parte.” E’ così che dicevo e queste parole gli davano forza di mente. C’era molta paura da affrontare.

Le condizioni erano molto rudi. I laici non ne sapevano granché. Ci portavano plah rah (pesce fermentato, un ingrediente base della dieta locale) ma era fatto con del pesce cattivo e quindi non lo mangiavamo; io lo rimestavo e lo osservavo ben bene per vedere con cosa era fatto e lo lasciavo lì.

A quei tempi, la vita era molto dura; oggi non abbiamo questo tipo di condizioni, nessuno le conosce. Ma una certa eredità è rimasta nella pratica attuale, nei monaci di quel periodo che sono tuttora qui. Dopo il ritiro delle piogge, potevamo andare in

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tudong (pratica ascetica basata sul peregrinare) proprio qui all’interno del monastero. Ci incamminavamo e ci fermavamo nel profondo della quieta foresta. Di tanto in tanto, ci riunivamo, davo qualche insegnamento, e poi ognuno tornava nella foresta a meditare, camminando e sedendo. Praticavamo così nella stagione secca; non avevamo bisogno di andare in giro in cerca di una foresta per praticare, perché avevamo qui le giuste condizioni. Mantenevamo le pratiche di tudong proprio qui sul posto.

Ora, dopo le piogge, tutti vogliono andare da qualche parte. Il risultato è che la loro pratica si interrompe. E’ importante seguirla in modo stabile e sincero, in modo da conoscere i propri inquinanti. Questo modo di praticare è buono e autentico. In passato era molto più duro. E’ come il detto secondo cui noi pratichiamo per non essere più una persona: la persona deve morire per poter essere un monaco. Aderiamo rigorosamente al vinaya e ognuno ha sinceramente vergogna delle sue azioni. Quando si facevano le pulizie, si trasportava l’acqua o si spazzava il terreno, non si sentivano i monaci parlare. Mentre si lavavano le ciotole, il silenzio era totale. Ora, ci sono giorni in cui devo mandare qualcuno a dire di smettere di parlare e scoprire a cosa si debba tanto trambusto. Mi chiedo se stiano facendo a pugni; c’è così tanto rumore che non riesco a immaginare cosa stia succedendo. E dunque devo ogni volta proibire di chiacchierare.

Non so di cosa abbiano bisogno di parlare. Quando hanno mangiato a sazietà, diventano trascurati a causa del piacere. Continuo a ripetere: “Quando tornate dalla questua, non parlate!” Se qualcuno vi chiede perché non volete parlare, rispondete: “Non ci sento bene.” Altrimenti, diventate come un branco di cani che abbaiano. La chiacchiera fa sorgere emozioni e potete anche finire per fare a pugni, specialmente in quel periodo della giornata in cui si ha fame, i cani sono affamati e gli inquinanti sono attivi.

Questo è quello che ho notato. Le persone non entrano nella pratica con tutto il cuore. Ho visto le cose cambiare nel corso degli anni. Quelli che si addestravano nel passato ottenevano dei risultati e potevano prendersi cura di se stessi, ma ora sentir parlare delle difficoltà farebbe scappare le persone dallo spavento. Non è neanche immaginabile. Se rendete le cose facili, allora tutti sono interessati, ma qual è il punto? Il motivo per cui in passato siamo riusciti a ottenere un qualche beneficio è che ci si addestrava tutti insieme con tutto il cuore.

I monaci che allora vivevano qui praticavamo veramente la tolleranza al massimo grado. Capivamo le cose insieme, dall’inizio alla fine. Avevano una certa comprensione della pratica. Dopo aver praticato per un certo periodo insieme, pensavo fosse giusto mandarli al loro paese di provenienza per fondare un monastero.

Chi è arrivato dopo non può immaginare com’era allora per noi. Non so chi possa parlarne. La pratica era rigorosissima. Pazienza e tolleranza erano le cose più importanti su cui basarsi. Nessuno si lamentava delle condizioni. Nessuno diceva

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niente, se c’era solo riso da mangiare. Mangiavamo in completo silenzio, senza mai discutere se il cibo fosse gustoso o meno. L’unica bevanda calda era il borapet.

Uno dei monaci andò nella Tailandia centrale e bevve del caffè. E qualcuno gliene offrì un po’ da portare qui. E così una volta, abbiamo avuto del caffè. Ma non c’era zucchero. Nessuno se ne lamentò. Dove avremmo potuto trovare dello zucchero? Così potevamo dire di aver davvero bevuto del caffè, senza però poterne addolcire il sapore con lo zucchero. Il nostro sostentamento dipendeva dagli altri e volevamo essere persone facili da sostenere, dunque non chiedevamo niente a nessuno. Perciò, facevamo a meno di tutto e sopportavamo qualsiasi condizione ci si presentasse.

Un anno, i nostri sostenitori laici sig. Puang e sig.ra Daeng vennero qui per essere ordinati monaci. Venivano dalla città e non avevano mai vissuto così, facendo a meno di quasi tutto, tollerando le difficoltà, mangiando come noi, praticando sotto la guida di un Ajahn e svolgendo gli obblighi delineati nelle regole dell’addestramento. Ma ne avevano sentito parlare dal nipote che viveva qui e così decisero di venire per essere ordinati monaci. Appena ordinati, un amico gli portò caffè e zucchero. Vivevano nella foresta per praticare la meditazione, ma avevano l’abitudine di alzarsi presto al mattino e di preparare il caffè col latte da bere prima di fare qualsiasi cosa. Quindi stiparono i loro kuti di zucchero e caffè. Ma qui c’erano i canti del mattino e la meditazione e subito dopo i monaci si preparavano per andare alla questua e dunque loro non avevano tempo di farsi il caffè. Dopo un po’ cominciò a essere chiaro che le cose stavano così. Il sig. Puang camminava su e giù, pensando a cosa fare. Non aveva nessun posto in cui fare il suo caffè e non arrivava nessuno a farglielo e a offrirglielo e così finì per portarlo tutto nella cucina del monastero e a lasciarvelo.

Venire a stare qui, scoprire le effettive condizioni del monastero e il modo di vivere dei monaci dediti alla meditazione, lo buttò veramente giù. Era un uomo anziano e un parente importante per me. Si smonacò quello stesso anno; era giusto per lui, perché le sue faccende non si erano ancora risolte.

Dopo di allora, per la prima volta avemmo del ghiaccio qui. E una volta ogni tanto faceva la sua comparsa dello zucchero. La sig.ra Daeng era andata a Bangkok. Quando raccontò del modo in cui vivevamo, si metteva a piangere. Le persone che non avevano visto la vita dei monaci dediti alla meditazione non s’immaginavano com’era. Mangiare una volta al giorno faceva fare progressi o rimanere indietro? Non so come definirlo.

Nella questua, le persone facevano dei pacchettini di salsa di chili da metterci nelle ciotole in aggiunta al riso. Riportavamo al monastero qualsiasi cosa ricevessimo e la mangiavamo condividendola con gli altri. Non dicevamo mai se avessimo cose che ci piacevano o se il cibo fosse gustoso o no; mangiavamo solo per saziarci, ecco tutto. Era veramente semplice. Non c’erano piatti o tazze, tutto finiva nella ciotola dell’elemosina.

Nessuno veniva a farci visita. Di sera, ognuno andava al suo kuti a praticare. Nemmeno i cani resistevano qui. I kuti erano distanti gli uni dagli altri come pure dal

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luogo di riunione. Quando avevamo fatto tutto, alla fine della giornata, ci separavamo ed entravamo nella foresta per raggiungere i nostri kuti. Così, i cani avevano paura di non avere alcun luogo sicuro in cui stare. Allora, seguivano i monaci nella foresta, ma quando i monaci salivano nei kuti, i cani venivano lasciati soli e avevano paura e allora cercavano di seguire un altro monaco, ma anche quel monaco scompariva nel suo kuti.

Quindi, anche i cani non ce la facevano a vivere qui. Questa era la nostra vita di pratica meditativa. Talvolta ci ripenso: nemmeno i cani la sopportavano, ma noi ancora viviamo qui! Piuttosto drastico. E mi viene un po’ di malinconia.

Ogni genere di ostacolo… vivevamo con la febbre, ma affrontavamo la morte e siamo sopravvissuti tutti. Oltre ad affrontare la morte, dovevamo vivere in condizioni difficili come sopravvivere con un cibo povero. Ma non è mai stato un problema. Quando ripenso a quel periodo a confronto con le condizioni attuali, sono due situazioni lontanissime.

Prima, non avevamo ciotole o piatti. Veniva messo tutto insieme nella ciotola dell’elemosina. Ora, non si può più farlo. Così, se mangiano cento monaci, ci vogliono cinque persone che dopo lavino i piatti. Certe volte, stanno ancora lavando quando è ora del discorso di Dhamma. Queste cose creano complicazioni. Non so cosa fare a questo riguardo; lascio a voi di usare la vostra saggezza per riflettere.

Non c’è una fine. Quelli a cui piace lamentarsi troveranno sempre qualcosa per farlo, a prescindere da quanto buone diventino le condizioni. Il risultato è che i monaci sono diventati estremamente attaccati ai sapori e ai profumi. Certe volte, casualmente li sento parlare del loro pellegrinaggio ascetico. “Ragazzi, il cibo era veramente ottimo lì! Sono andato in tudong nel sud, sulla costa, e ho mangiato un sacco di gamberetti! E i grossi pesci dell’oceano!” E’ di questo che parlano. Quando la mente è presa da questi argomenti, è facile attaccarsi e immergersi nel desiderio del cibo. La mente senza controllo vaga e resta bloccata in quel che vede, nei suoni, nel profumo, nel gusto, nelle sensazioni fisiche e nelle idee e praticare il Dhamma diventa difficile. E’ difficile per un Ajahn insegnare alle persone a seguire il retto sentiero, quando sono attaccati al gusto. E’ come allevare un cane. Se gli date solo riso, crescerà forte e sano. Ma mettetegli per un paio di giorni del curry saporito in cima al riso e non guarderà neanche più il solo riso.

Quel che vediamo, i suoni, gli odori e i gusti sono la rovina della pratica del Dhamma. Possono causare molto danno. Se ognuno di noi non contempla l’uso dei nostri quattro beni primari, le vesti, il cibo che si elemosina, la dimora e le medicine, la via del Buddha non può fiorire. Potete osservare e vedere che quanto più sviluppo materiale e progresso c’è nel mondo, tanto più cresce la confusione e la sofferenza degli esseri umani. E se va avanti per molto, diventa impossibile trovare una soluzione. Perciò dico che quando andate al monastero, vedete i monaci, il tempio, i kuti, ma non vedete il Buddhasāsanā. Il sāsanā in questo modo è in declino. E’ facile notarlo.

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Il sāsanā, cioè l’insegnamento genuino e diretto che insegna alle persone a essere oneste e rette, a nutrire gentilezza amorevole gli uni per gli altri, è andato perduto e il disordine e l’angoscia ne hanno preso il posto. Quelli che hanno condiviso con me nel passato anni di pratica hanno mantenuto la loro diligenza, ma dopo venticinque anni qui, noto come la pratica sia diventata negligente. Ora le persone hanno paura di mettersi sotto pressione e di praticare troppo. Ne hanno timore. Pensano si tratti dell’estremo dell’auto-mortificazione. In passato puntavamo su quello. Certe volte, i monaci digiunavano per giorni o per una settimana. Volevano vedere la loro mente e addestrarla: se è caparbia, la frusti. Mente e corpo funzionano insieme. Quando non siamo ancora abili nella pratica, se il corpo è troppo grasso e a suo agio, la mente perde il controllo. Quando si accende un fuoco e soffia il vento, il fuoco si propaga e brucia la casa. Succede così. Prima, quando parlavo di mangiare poco, di dormire poco e di parlare poco, i monaci capivano e lo prendevano a cuore. Ma ora un discorso del genere è sgradevole per la mente dei praticanti. “Possiamo trovare il nostro modo. Perché dobbiamo soffrire e praticare così austeramente? E’ l’estremo dell’auto-mortificazione; non è il sentiero del Buddha.” Appena qualcuno dice così, tutti sono d’accordo. Hanno fame. Cosa dirgli, dunque? Continuo a cercare di correggere questo atteggiamento, ma sembra che le cose ora stiano così.

Dunque, tutti voi per favore rendete la vostra mente forte e ferma. Oggi vi siete riuniti da diversi monasteri affiliati per dimostrarmi rispetto come vostro maestro, per ritrovarci come amici nel Dhamma, e dunque vi offro qualche insegnamento sul sentiero della pratica. La pratica del rispetto è Dhamma supremo. Quando c’è vero rispetto, non ci può essere disarmonia, le persone non litigano e non si uccidono a vicenda. Dimostrare rispetto a un maestro spirituale, ai nostri precettori e insegnanti, ci fa fiorire; il Buddha ne ha parlato come qualcosa di propizio.

Alle persone che vengono dalla città piace mangiare funghi. Chiedono: “Da dove vengono i funghi?” E qualcuno gli risponde: “Crescono nella terra.” Allora, prendono un cesto e vanno a passeggiare in campagna, aspettandosi che i funghi se ne stiano lì in fila di fianco alla strada perché loro li colgano. Ma camminano e camminano, risalgono le colline e attraversano campi, senza vedere nessun fungo. Una persona del paese è passata prima a raccogliere i funghi sapendo dove cercarli; sa in quali posti e in che bosco andare per trovarli. Ma l’unica esperienza dei funghi di quelli di città è nel loro piatto. Hanno sentito dire che crescono nella terra e si fanno l’idea che sia facile trovarli, ma non è così.

Lo stesso vale per addestrare la mente nel samadhi. Ci facciamo l’idea che sia facile. Ma, quando ci sediamo, ci fanno male le gambe, la schiena, ci sentiamo stanchi, abbiamo caldo e prurito. Allora ci scoraggiamo, pensiamo che il samadhi sia tanto lontano da noi quanto il cielo dalla terra. Non sappiamo cosa fare e ci lasciamo sommergere dalle difficoltà. Ma se riceviamo un addestramento, a poco a poco diventerà più facile.

Dunque, voi che venite qui per praticare il samadhi sentite che è difficile. Anche a me creava delle difficoltà. Mi sono formato con un Ajahn e quando ci sedevamo, aprivo

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gli occhi per guardare: “Oh! Ajahn è pronto a concludere la seduta?” Richiudevo gli occhi e cercavo di resistere un po’ di più. Mi sentivo come se stessero per uccidermi e riaprivo gli occhi, ma lui sembrava così a suo agio seduto lì. Un’ora, due ore, io ero in agonia ma l’Ajahn non si muoveva. Così, dopo un po’, cominciai ad aver paura delle sedute. Quando arrivava il momento di praticare il samadhi, mi sentivo spaventato.

Quando ci è nuovo, addestrarsi nel samadhi è difficile. Tutto è difficile quando non sappiamo come farlo. Questo è il nostro ostacolo. Ma addestrandosi, può cambiare. Quel che è buono può alla fine sconfiggere e superare quel che non lo è. Tendiamo a diventare pusillanimi mentre lottiamo, è una reazione normale, attraverso cui passiamo tutti. Dunque, è importante addestrarsi per un certo tempo. E’ come creare un sentiero attraverso la foresta. All’inizio, è un percorso accidentato, con molti ostacoli, ma continuando a ripassarci, puliamo la via. Dopo un po’, abbiamo tolto i rami e i ceppi e il terreno diventa saldo e liscio perché è stato calpestato ripetutamente. Allora, abbiamo un buon sentiero per attraversare la foresta.

Lo stesso vale per quando addestriamo la mente. Perseverando, la mente diventa illuminata. Per esempio, noi della campagna cresciamo a riso e pesce. Quando veniamo a imparare il Dhamma, ci viene chiesto di rinunciare a nuocere: non dobbiamo uccidere creature viventi. Cosa fare? Ci sentiamo veramente nei guai. Il nostro mercato è nei campi. Se gli insegnanti ci chiedono di non uccidere, non mangeremo. Basta questo per non sapere più dove girarci. Come ci nutriremo? Sembra non esserci via d’uscita per noi della campagna. Il nostro mercato sono i campi e la foresta. Per nutrirci dobbiamo catturare gli animali e ucciderli.

Per molti anni, ho cercato di insegnare alle persone dei modi per affrontare questo problema. Le cose stanno così: i contadini mangiano il riso. Per lo più le persone che lavorano nei campi coltivano e mangiano riso. Com’è per un sarto di città? Mangia le macchine da cucire? Mangia vestiti? Cominciamo col considerare questo punto. Siete un contadino e dunque mangiate riso. Se qualcuno vi offrisse un altro lavoro, vi rifiutereste dicendo: “Non posso farlo, non avrei riso da mangiare.”?

Siete capaci di fabbricare i fiammiferi che usate in casa? No, e come fate allora a procurarveli? Solo quelli che li fabbricano li possono usare? E le ciotole in cui mangiate? Qui nei paesi, qualcuno sa come si fabbricano? Ma le persone le hanno in casa? Dove ve le procurate?

Ci sono un sacco di cose che non sappiamo come fare, ma guadagniamo soldi per comprarle. Questo è usare l’intelligenza per trovare un modo. Anche in meditazione dobbiamo fare così. Troviamo dei modi per evitare azioni sbagliate e praticare quel che è giusto. Considerate il Buddha e i suoi discepoli. Un tempo erano esseri ordinari, ma hanno sviluppato se stessi per progredire attraverso gli stadi dall’Entrata nella Corrente fino all’arahant. L’hanno fatto attraverso l’addestramento. La saggezza cresce in modo graduale. Sorge un senso di vergogna verso l’agire scorretto.

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Una volta ho insegnato a un tipo saggio. Era un sostenitore laico che veniva per praticare e prendere i precetti nei giorni di osservanza, ma continuava ad andare a pescare. Cercavo di dargli ulteriori insegnamenti, ma non riuscivo a risolvere questo problema. Diceva di non uccidere i pesci; che i pesci semplicemente arrivavano e inghiottivano il suo amo.

Ho tenuto duro, continuando a insegnargli finché non arrivò a sentire un certo pentimento. Provava vergogna, ma continuava a farlo. Poi, la sua razionalizzazione cambiò. Buttò l’amo nell’acqua e annunciò: “Qualunque pesce abbia concluso il suo kamma di essere vivente, venga e mangi il mio amo. Se il vostro tempo non è arrivato, non mangiatelo.” Aveva cambiato la sua scusa, ma il pesce arrivò e abboccò. Alla fine, cominciò a osservarli, con le loro bocche prese nell’amo, e provò pietà. Ma lo stesso non riusciva a risolversi. “Bèh, gli ho detto di non abboccare, se non era arrivato il loro momento, che ci posso fare se continuano a farlo?” E poi proseguì: “Ma stanno morendo per causa mia.” Ci pensò e ripensò, finché infine riuscì a smettere.

Ma poi c’erano le rane. Non sopportava di smettere di catturarle per mangiarsele. “Non farlo!” gli dicevo. “Osservale bene… se proprio non riesci a smettere di ucciderle, non te lo proibirò, ma per favore guardale prima di farlo.” Così, prese una rana e la osservò. Osservò il muso, gli occhi, le gambe. “Ragazzi, ma questa assomiglia a mio figlio: ha braccia e gambe. Ha gli occhi aperti, mi guarda…” Si sentì addolorato. Ma continuò a ucciderle. Le osservava tutte in questo modo e poi le uccideva, sentendo che stava facendo qualcosa di brutto. La moglie lo esortava, dicendogli che non avrebbero avuto niente da mangiare se non uccideva le rane.

Alla fine, non ce la fece più. Le catturava, ma non gli rompeva le zampe più, prima gliele spezzava in modo che non potessero saltare via. Ma ancora non riusciva a lasciarle andare. “Béh, mi prendo cura di loro, gli do da mangiare. Le allevo; non so poi quello che ne facciano gli altri.” Invece lo sapeva eccome. Gli altri continuavano a ucciderle per mangiarle. Dopo un po’, riuscì ad ammetterlo con se stesso. “Béh, in ogni caso ho tagliato del cinquanta per cento il mio kamma negativo. Le uccide qualcun altro.”

Stava quasi per ammattire, ma ancora non riusciva a lasciar andare. Continuava a tenersi in casa le rane. Non gli spezzava più le zampe, ma lo faceva sua moglie. “E’ colpa mia. Anche se non lo faccio io, loro lo fanno a causa mia.” Alla fine, ci rinunciò del tutto. Ma allora, cominciò a lamentarsi la moglie: “Cosa faremo? Cosa mangeremo?”

Era davvero in trappola adesso. Quando andò al monastero, l’Ajahn gli fece un discorso su cosa dovesse fare. Tornato a casa, la moglie gli fece un discorso su cosa dovesse fare. L’Ajahn gli disse di smettere e la moglie lo istigava a continuare. Che fare? Che sofferenza. Nati in questo mondo, ci tocca soffrire così…

Alla fine, anche la moglie dovette lasciar andare. E così smisero di uccidere le rane. Lui si mise a lavorare i suoi campi, a prendersi cura dei suoi bufali. Poi, prese

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l’abitudine di liberare pesci e rane. Quando vedeva dei pesci presi nelle reti, li liberava. Una volta, a casa di un amico, vide delle rane in un vaso e le liberò. Arrivò la moglie dell’amico per preparare la cena. Tolse il coperchio al vaso e vide che le rane se ne erano andate. Immaginò cos’era successo. “E’ quel tipo col cuore dedito ai meriti.”

Riuscì a catturare una rana e ne fece una pasta di chili. Sedettero a tavola e quando lui stava per immergere il suo riso nel chili, lei disse: “Ehi! Cuore dedito ai meriti! Non dovresti mangiare quello! E’ pasta chili di rana.”

Era troppo. Quanto dolore nel semplice essere vivi e cercare di nutrirsi! Pensandoci su, non riusciva a trovare nessuna via d’uscita. Era già anziano, allora decise di prendere i voti.

Preparò il necessario per l’ordinazione, si rasò la testa ed entrò in casa. Appena la moglie lo vide con la testa rasata, iniziò a urlare. Lui la supplicò: “Dalla nascita, non ho mai avuto occasione di prendere i voti. Per favore, dammi la tua benedizione. Voglio farmi monaco, ma mi smonacherò e tornerò di nuovo a casa.” Così, la moglie cedette.

Fu ordinato nel monastero locale e dopo la cerimonia, chiese al precettore cosa dovesse fare. Il precettore gli rispose: “Se stai facendo sul serio, devi andare a praticare la meditazione. Segui un maestro di meditazione; non stare qui nei dintorni delle case.” Lui capì e decise di seguire il consiglio. Dormì una notte al tempio e al mattino si mise in viaggio, chiedendo dove trovare Ajahn Tongrat (un noto insegnante di meditazione quando Ajahn Chah era giovane).

Si prese in spalla la ciotola e si mise in cammino, un nuovo monaco che non riusciva ancora a indossare proprio bene la veste. Ma riuscì ad arrivare da Ajahn Tongrat.

“Venerabile Ajahn, non ho altro scopo nella vita. Voglio offrire a te il mio corpo e la mia esistenza.”

Ajahn Tongrat rispose: “Molto bene! Tantissimi meriti! A momenti non mi trovavi. Stavo per andarmene. Dunque, fai le prostrazioni e siediti lì.”

Il nuovo monaco chiese: “Adesso che sono ordinato, cosa devo fare?”

Erano seduti accanto a un vecchio ceppo d’albero. Ajahn Tongrat lo indicò e disse: “Rendi te stesso come questo ceppo. Non fare nient’altro, solo renditi simile a questo ceppo.” Gli insegnò la meditazione in questo modo.

Poi, Ajahn Tongrat se ne andò per la sua strada e il monaco rimase lì a riflettere sulle sue parole. “Ajahn mi ha detto di rendermi simile a questo ceppo. Cosa devo fare?” Ci pensò continuamente, quando camminava, quando sedeva, quando si sdraiava per dormire. Pensò a come il ceppo era stato un seme, a come era diventato albero, e poi sempre più grande e vecchio e alla fine fosse stato tagliato e fosse rimasto solo quel ceppo. Ora che era un ceppo, non sarebbe più cresciuto, e niente sarebbe sbocciato da

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lui. Continuò a dibattere su questo tema nella sua mente, continuando a rifletterci, finché non diventò il suo oggetto di meditazione. Lo ampliò fino ad applicarlo a tutti i fenomeni e riuscì a rivolgersi all’interno e ad applicarlo a se stesso. “Tra un po’, probabilmente sarò come questo ceppo, una cosa inutile.”

Comprenderlo gli diede la determinazione per non smonacarsi.

La sua mente a questo punto era pacificata; le condizioni si erano messe in modo da portarlo a quello stadio. Quando la mente è così, non c’è niente che possa fermarla. Siamo tutti nella stessa barca. Rifletteteci e cercate di applicarlo alla vostra pratica. Nascere esseri umani è pieno di difficoltà. E non è così solo per noi ora, lo sarà anche in futuro. I giovani cresceranno, gli adulti diventeranno vecchi, i vecchi si ammaleranno, e poi moriranno. Continuerà a essere così, il ciclo dell’incessante trasformazione che non ha mai termine.

Il Buddha ci ha insegnato dunque a meditare. Nella meditazione, prima di tutto dobbiamo praticare il samadhi, che significa rendere la mente ferma e in pace. Come l’acqua in un bacino. Se continuiamo a introdurvi delle cose e ad agitarla, sarà sempre scura. Se permettiamo sempre alla mente di pensare e di preoccuparsi di qualcosa, non possiamo mai vedere niente con chiarezza. Se lasciamo che l’acqua nel bacino si calmi e diventi ferma, allora possiamo vedere ogni sorta di cose che vi si riflettono. Quando la mente è calma e ferma, la saggezza è capace di vedere le cose. La luce illuminante della saggezza supera ogni altro tipo di luce.

Qual era il consiglio del Buddha su come praticare? Insegnava a praticare come la terra; a praticare come l’acqua; a praticare come il fuoco; a praticare come il vento.

Praticare come le ‘cose antiche ’, le cose di cui già siamo fatti: l’elemento solido della terra, l’elemento liquido dell’acqua, l’elemento caldo del fuoco, l’elemento in movimento dell’aria.

Se scaviamo la terra, la terra non se ne preoccupa. Può venire spalata, dissodata, annaffiata. Vi possiamo seppellire quel che è marcio. Ma la terra resta indifferente. L’acqua può essere bollita o ghiacciata o usata per lavare qualcosa di sporco; non ne viene influenzata. Il fuoco può bruciare qualcosa di bello e di profumato oppure di brutto e di sudicio; al fuoco non importa. Quando soffia il vento, soffia su ogni genere di cose, fresche e andate a male, belle e brutte, senza preoccuparsene.

Il Buddha usava questa analogia. L’aggregazione che noi siamo è il semplice insieme degli elementi della terra, dell’acqua, del fuoco, del vento. Se cerchi di trovarvi una persona, non la trovi. Ci sono solo questi aggregati di elementi. Ma per tutta la nostra vita, non pensiamo mai di separarli in questo modo per vedere cosa ci sia veramente; pensiamo solo: “Questo sono io, questo è mio.” Abbiamo sempre visto ogni cosa in termini di un ‘sé’, non vedendo mai che c’è solo terra, acqua, fuoco e vento; non c’è alcuna persona. Contemplate questi elementi per vedere che non c’è un essere o un individuo, ma solo terra, acqua, fuoco e vento.

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E’ profondo, vero? E’ nascosto nel profondo; le persone guardano, ma non riescono a vederlo. Siamo abituati a contemplare le cose in termini di sé e altro per tutto il tempo. E quindi, la nostra meditazione non è ancora molto profonda. Non raggiunge la verità e noi non andiamo al di là del modo in cui le cose sembrano essere. Restiamo intrappolati nelle convenzioni del mondo e restare intrappolati nel mondo significa restare nel ciclo della trasformazione: ottenere le cose e poi perderle, morire e nascere, nascere e morire, soffrire nel regno della confusione. Quello che ci auspichiamo e a cui aspiriamo non va a finire nel modo in cui volevamo, perché vediamo le cose in modo errato.

I nostri avidi attaccamenti sono così. Siamo ancora lontani, molto lontani dal vero sentiero del Dhamma. Dunque, mettetevi subito al lavoro. Non dite: “Quando sarò più vecchio, comincerò ad andare al monastero.” Cosa significa invecchiare? I giovani invecchiano quanto i vecchi. E’ dalla nascita che si sta invecchiando. Ci piace dire: “Quando sarò più vecchio, quando sarò più vecchio…” Ehi, i ragazzi sono più vecchi, più vecchi di com’erano. Questo significa ‘invecchiare’. Tutti voi, provate a osservarlo. Tutti abbiamo questo fardello; è per tutti un compito su cui lavorare. Pensate ai vostri genitori o ai nonni. Sono nati, sono invecchiati e alla fine sono morti. Ora non sappiamo dove sono andati.

Il Buddha perciò voleva che ricercassimo il Dhamma. Quel che più conta è questo tipo di conoscenza. Ogni forma di conoscenza o di studio che non sia in accordo con la via buddhista è una conoscenza che coinvolge dukkha. La nostra pratica del Dhamma dovrebbe portarci al di là della sofferenza; se non riusciamo a trascendere pienamente la sofferenza, dovremmo almeno poterla trascendere un po’, ora, nel presente. Per esempio, quando qualcuno ci parla con asprezza, se non ci adiriamo, abbiamo trasceso la sofferenza. Se ci arrabbiamo, non abbiamo trasceso dukkha.

Quando qualcuno ci parla con asprezza, se riflettiamo sul Dhamma, vedremo che sono solo mucchietti di terra. Sì, mi sta criticando, sta criticando un mucchietto di terra. Un mucchio di terra critica un altro mucchio di terra. L’acqua critica l’acqua. Il vento critica il vento. Il fuoco il fuoco.

Ma se realmente vediamo le cose in questo modo, probabilmente gli altri ci prenderanno per matti. “Non gli importa niente di niente. Non ha sentimenti.” Quando muore qualcuno, non saremo angosciati e non piangeremo, e di nuovo ci daranno dei pazzi. Dove possiamo stare?

Deve andare così. Dobbiamo praticare allo scopo di comprendere per noi stessi. Andare al di là della sofferenza non dipende dalle opinioni che gli altri hanno di noi, ma dal nostro stato mentale individuale. Non importa quel che gli altri dicono, noi sperimentiamo la verità per noi stessi. Allora, possiamo dimorare tranquilli.

Ma generalmente non andiamo tanto lontano. I più giovani vanno al monastero un paio di volte, poi tornati a casa, gli amici li prendono in giro: “Ehi, Dhamma Dhammo!” Si sentono imbarazzati e non hanno più voglia di tornare qui. Alcuni di loro mi hanno detto di essere venuti qui per ascoltare gli insegnamenti e di averne

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ricavato una certa comprensione, e così hanno smesso di bere e di andarsene a zonzo con la gente. Ma i loro amici li sminuivano: “Sei stato al monastero e adesso non vuoi più uscire a bere con noi. Cosa c’è che non va?” Così, si sentivano in imbarazzo e finivano per rifare le stesse cose di prima. E’ difficile restare saldi.

Dunque, anziché aspirare troppo in alto, praticate la pazienza e la tolleranza. Esercitare la pazienza e il contenimento in famiglia è già molto buono. Non litigate e lottate, e se ci riuscite, per il momento, avete già trasceso la sofferenza ed è positivo. Quando accade qualcosa, ricordate il Dhamma. Pensate a quello che le vostre guide spirituali vi hanno insegnato. Vi insegnano a lasciar andare, a rinunciare, a trattenervi, a smontare le cose; il Dhamma che venite ad ascoltare è solo per risolvere i vostri problemi.

Di quali problemi stiamo parlando? Come va con la famiglia? Avete dei problemi coi figli, coi coniugi, gli amici, il lavoro e via dicendo? Tutte queste cose vi fanno venire spessissimo mal di testa, vero? E’ di questi problemi che stiamo parlando; gli insegnamenti vi dicono che potete risolvere i problemi della vita quotidiana col Dhamma.

Siamo nati esseri umani. Deve essere possibile vivere con una mente felice. Facciamo il nostro lavoro secondo le nostre responsabilità. Se le cose si fanno difficili, pratichiamo la tolleranza. Guadagnarsi da vivere in modo retto è una sorta di pratica del Dhamma, la pratica di una vita etica. Vivere felicemente e armoniosamente è già una buonissima cosa.

Ma noi di solito sprechiamo le occasioni. Non fatelo! Se venite qui nei giorni di osservanza per prendere i precetti e tornando a casa litigate, è uno spreco. Capite quel che sto dicendo, gente? E’ uno spreco fare così. Significa che non vedete il Dhamma neanche un pochettino, non c’è alcun profitto. Vi prego di comprenderlo.

Per oggi avete ascoltato il Dhamma abbastanza a lungo.

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Il Dhamma va ad Occidente del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2003. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Traduzione di Sara Bellettato.

(Seattle, USA, 1979: conversazione con un ex-monaco)

DOMANDA: Un mio amico andò a praticare con un maestro Zen, e gli chiese: "Quando il Buddha sedeva sotto l’albero della Bodhi, che faceva?". Il maestro Zen rispose: "Praticava lo zazen!" e il mio amico: "Non ci credo!". Il maestro Zen gli chiese: "Che vuol dire, non ci credi?" e il mio amico rispose: "Ho posto la stessa domanda a Goenka, e lui mi ha detto 'Quando il Buddha sedeva sotto l’albero della Bodhi, stava praticando la vipassana’ e così ognuno dice che il Buddha stava praticando qualunque cosa egli stesso stesso pratichi".

AJAHN CHAH: Quando il Buddha sedeva all’aperto, sedeva sotto l’albero della Bodhi. Non è così? Quando sedeva sotto qualche altro albero, sedeva sotto l’albero della Bodhi. Non c’è niente di sbagliato in quelle spiegazioni. "Bodhi" significa il Buddha stesso, colui che sa. Va benissimo dire "Sedere sotto l’albero della Bodhi", ma ci sono molti uccelli che stanno su quell’albero, e molte persone sono sedute là vicino. Ma sono tutti molto lontani da una simile conoscenza, da tale verità. Sì, possiamo dire "Sedere sotto l’albero della Bodhi"; le scimmie giocano fra i rami, e le persone vi si siedono vicino, ma questo non significa che abbiano una comprensione profonda. Quelli che comprendono più in profondità si rendono conto che il vero significato dell’ "albero della Bodhi" è il Dhamma assoluto.

In questo senso, è certamente un bene per noi provare a sedere vicino all’albero della Bodhi. Così potremo diventare dei Buddha. Ma non c’è bisogno di discutere con gli altri su questo argomento. Quando qualcuno dice che il Buddha stava praticando una certa cosa sotto l'albero della Bodhi e un altro lo contesta, noi non dobbiamo farci coinvolgere. Dovremmo considerare tutto questo dal punto di vista del significato ultimo, cioè capire la verità. Vi è anche l’idea convenzionale di "Albero della Bodhi", che è ciò di cui parla la maggior parte della gente, ma quando ci sono due specie di albero della Bodhi, le persone finiscono per litigare e avere le discussioni più accese, e infine, non c’è alcun albero della Bodhi.

Si parla del paramathadhamma, il livello della verità ultima. In questo caso, possiamo anche provare a stare sotto l’albero della Bodhi. E’ una cosa buona, così saremo dei Buddha. Non è qualcosa su cui litigare. Quando qualcuno dice che il Buddha sotto l’albero della Bodhi stava praticando un certo tipo di meditazione, e qualcun altro dice che non è esatto, non abbiamo bisogno di farci coinvolgere. Noi

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aspiriamo al paramathadhamma, che significa dimorare nella completa consapevolezza. Questa verità ultima pervade tutto. Non vi preoccupate se il Buddha sedeva sotto l’albero della Bodhi o stava facendo altre pratiche in altre posture. È solo l’analisi intellettuale che le persone hanno sviluppato. Uno ha una propria visione della questione, e un altro ne ha una idea differente, non c’è bisogno di farsi coinvolgere in discussioni su questo argomento.

Dove è che il Buddha è entrato nel Nibbana? Nibbana significa "estinzione senza alcun residuo". Finito. L'essere estinti deriva dalla conoscenza, conoscenza delle cose così come sono veramente. Questo è il modo in cui le cose giungono a compimento, e questo è il paramathadhamma. Ci sono delle spiegazioni diverse secondo i livelli della convenzione e della liberazione, che sono entrambi vere, ma le loro verità sono diverse. Ad esempio, diciamo che tu sei una persona. Ma il Buddha direbbe : "Non è così. Non c’è nulla che si possa chiamare ‘persona’". Così dobbiamo riassumere i diversi modi di parlare e spiegare in termini di convenzione e liberazione .

Possiamo spiegarlo così: prima eri un bambino, e ora sei cresciuto. Sei una persona nuova, o sei la stessa persona di prima? Se sei lo stesso di prima, come è potuto accadere che tu sia diventato adulto? Se sei una nuova persona, da dove sei venuto? Ma parlare di una persona vecchia o di una persona nuova, non tocca veramente il nocciolo della questione. Questo problema illustra chiaramente le limitazioni del linguaggio e della comprensione convenzionali. Se c’è qualcosa che è detto ‘grande’, ci sarà anche qualcosa di ‘piccolo’. Se c’è il ‘piccolo’, ci sarà anche il ‘grande’. Noi possiamo parlare di piccolo e grande, giovane e vecchio, ma in realtà non c’è niente che sia veramente tale, in qualsivoglia senso assoluto. Non possiamo dire veramente che qualcuno o qualcosa è grande. Il saggio non accetta queste definizioni e non le riconosce come reali, ma quando le persone ordinarie sentono una tale affermazione, che il ‘grande’ e il ‘piccolo’ non sono propriamente veri, sono confuse, perché sono attaccate ai concetti di ‘grande’ e ‘piccolo’.

Piantate un alberello e guardatelo crescere. Dopo un anno è alto un metro. Dopo un altro anno è due metri. E’ lo stesso albero? O è un albero diverso? Se è lo stesso albero, come è cresciuto? E se è diverso, come è venuto dall’albero più piccolo che c’era prima? Dalla prospettiva di una persona che è illuminata nel Dhamma e vede correttamente, non c’è nessun albero nuovo o vecchio, né piccolo, né grande. Uno guarda l’albero, e pensa che sia alto. Un altro lo guarda, e pensa che non sia poi così alto. Ma non c’è alcun ‘alto’ che esista di per sé. Non si può dire che qualcuno è grande o piccolo, che qualcuno è cresciuto e qualcun altro è giovane. Le cose finiscono qui, e anche i problemi allo stesso tempo finiscono. Non abbiamo bisogno di restare invischiati a queste distinzioni convenzionali, e non avremo dubbi sulla pratica.

Ho sentito di persone che venerano le loro divinità sacrificando animali. Uccidono anatre, polli e mucche per offrirli ai loro dei, pensando che questo faccia loro piacere. Questa è errata comprensione. Pensano di stare accumulando meriti, invece è

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esattamente l’opposto, stanno in effetti accumulando una gran quantità di cattivo kamma. Uno che esamini realmente la questione, non la penserà più così. Ve ne siete accorti, ci avete fatto caso? Ho paura che la gente in Thailandia stia diventando così. Non sta applicando la vera investigazione...

D: Cioè la vimamsa?

AJAHN CHAH: Significa capire cause e risultati.

D: E poi gli insegnamenti parlano di chanda, la soddisfazione; viriya, lo sforzo, l'applicazione di energia; citta… (i quattro iddhipada, le "basi per l’ottenimento").

AJAHN CHAH: Quando c’è soddisfazione, è associata con qualcosa che è corretto? Lo sforzo è corretto? Vimamsa deve essere presente con questi altri fattori.

D: Citta e vimamsa sono diverse?

AJAHN CHAH: Vimamsa è investigazione. Significa abilità, o saggezza. È un fattore mentale. Possiamo dire che chanda è mente, viriya è mente, citta è mente, vimamsa è mente. Sono tutti aspetti della mente, e possono tutti essere riassunti come "mente", ma qui in questo caso sono distinti con lo scopo di evidenziare questi diversi fattori mentali. Se c’è soddisfazione, potremmo non sapere se sia giusta o meno. Se c’è sforzo, non sappiamo se sia giusto o no. E ciò che chiamiamo "mente", è la vera mente? Ci deve essere vimamsa per distinguere tutte queste cose. Investigando gli altri fattori con saggio discernimento, la nostra pratica gradualmente migliora, e noi possiamo comprendere il Dhamma.

Ma il Dhamma di per sé non porta grandi benefici, se non pratichiamo la meditazione. Non capiremo veramente di che cosa si tratta. Questi fattori sono sempre presenti nella mente di un vero praticante. Quindi, anche se dovesse andare fuori strada, sarà consapevole di ciò e sarà in grado di correggersi. In questo modo, il sentiero della sua pratica è senza interruzioni.

Le persone potrebbero guardarvi e pensare che il vostro stile di vita, il vostro interesse nel Dhamma non hanno senso. Altri potrebbero dire che se volete praticare il Dhamma dovreste prendere i voti. Farsi o non farsi monaci non è il punto focale. È il modo in cui praticate. Così come è stato detto, ognuno dovrebbe essere il testimone di sé stesso. Non prendete gli altri come testimoni. Questo significa imparare ad aver fiducia in voi stessi. Allora non c’è nessuna perdita. La gente può persino pensare che voi siate pazzi, ma non fateci caso. Essi non sanno nulla del Dhamma.

Le parole degli altri non possono misurare la vostra pratica. E voi non comprenderete il Dhamma grazie a quello che vi dicono gli altri. Voglio dire, il vero Dhamma. Gli insegnamenti che gli altri vi possono dare sono per mostrarvi il cammino, ma non costituiscono una vera conoscenza. Quando le persone incontrano il Dhamma, lo realizzano proprio dentro di sé. A riguardo il Buddha ha detto: "Il Tathagata è solamente uno che indica la via". Quando qualcuno prende i voti, io dico: "La nostra

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responsabilità finisce qui: gli acariya che dovevano recitare hanno recitato i loro canti. Io ti ho dato i precetti e i voti per l’ordinazione. Il nostro lavoro finisce qui. Il resto sta a te, pratica correttamente."

Gli insegnamenti possono essere dei più profondi, ma coloro che ascoltano potrebbero non capire. Ma non vi preoccupate. Non siate perplessi sulla profondità o sulla mancanza di profondità. Semplicemente praticate con tutto il cuore, e potrete arrivare alla vera comprensione. Ciò vi condurrà proprio nello stesso luogo di cui parlano. Non basatevi sulle percezioni della gente ordinaria. Avete sentito la storia dei ciechi e dell’elefante? È un buon esempio.

Supponete che ci sia un elefante, e un gruppo di ciechi cerca di descriverlo. Uno ne tocca una zampa, e dice che l’elefante è come una colonna. Un altro ne tocca un orecchio, e dice che assomiglia a un ventaglio. Un altro ancora tocca la coda, e dice "no, non è un ventaglio, assomiglia piuttosto a una scopa". Un altro ne tocca la spalla, e dice che è un’altra cosa ancora, del tutto diversa da quello che dicono gli altri.

È così, non c’è soluzione, non c’è fine. Ogni persona cieca tocca una parte dell’elefante, e si fa un’idea completamente diversa di cosa sia. Ma si tratta sempre dello stesso elefante. E nella pratica, è proprio così. Con poca comprensione ed esperienza, avrete delle idee limitate. Potete passare da un maestro all’altro, cercando spiegazioni ed istruzioni, cercando di capire se i loro insegnamenti sono corretti o scorretti e come questi insegnamenti siano reciprocamente compatibili. Alcuni monaci sono continuamente in viaggio da un maestro all’altro, con la loro ciotola e l'ombrello. Cercano di giudicare e misurare, così quando si siedono per meditare, sono costantemente confusi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. "Questo maestro ha detto così, ma l’altro maestro ha detto colà…. Uno insegna in un modo, ma i metodi dell’altro sono diversi. Non sembrano accordarsi…" Questo può portare una gran quantità di dubbi.

Potreste sentir dire che alcuni maestri sono veramente validi, e così andreste a ricevere gli insegnamenti di maestri thailandesi, maestri Zen, e altri. Mi sembra che abbiate probabilmente avuto già abbastanza insegnamenti, ma la tendenza è quella di voler sentire sempre di più, di confrontare, per finire di nuovo immersi nei dubbi. E ogni maestro che viene dopo, accrescerà ancora di più la vostra confusione. C’è una storia di un ricercatore errante dei tempi del Buddha, che era in questa situazione. Andava da un maestro all’altro, ascoltando le diverse spiegazioni e imparando i loro metodi. Cercava di imparare la meditazione, ma questo non faceva che accrescere la sua perplessità. I suoi viaggi alla fine lo portarono al maestro Gotama, e descrisse al Buddha la sua situazione.

Il Buddha gli disse: "Il tuo comportamento non farà cessare dubbi e confusione. Ora lascia andare il passato, qualunque cosa tu abbia o non abbia fatto, che fosse giusta o sbagliata, liberatene adesso. Il futuro non è ancora arrivato. Non speculare in nessun modo su di esso, chiedendoti cosa succederà. Lascia andare tutte queste idee

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disturbanti. Sono solamente idee. Lascia andare il passato e il futuro, guarda al presente, e conoscerai il Dhamma. Potresti conoscere le parole dei vari maestri, ma ancora non conosci la tua stessa mente. Il momento presente è vuoto, osserva solamente il sorgere e il cessare dei sankhara. Osserva come siano impermanenti, insoddisfacenti, e privi di un sé. Osserva che sono effettivamente così. E allora non ti preoccuperai del passato o del futuro. Capirai chiaramente che il passato è passato e il futuro non è ancora arrivato. Contemplando il presente, ti accorgerai che il presente è il risultato del passato, e i risultati delle azioni passate si vedono nel presente.

Il futuro non è ancora arrivato, qualunque cosa avverrà nel futuro, sorgerà e svanirà nel futuro, non c’è alcun motivo di preoccuparsene ora, poiché non è ancora accaduta. Quindi, contempla il presente. Il presente è la causa del futuro. Se vuoi un buon futuro, fai il bene nel presente, aumentando la tua consapevolezza di ciò che fai nel presente. Il futuro è il risultato di questo. Il passato è la causa, e il futuro è il risultato del presente.

Conoscendo il presente, si conosce il passato e il futuro. Allora possiamo lasciare andare il passato e il futuro, sapendo che sono concentrati nel momento presente."

Comprendendo ciò, il ricercatore errante si convinse a praticare come lo consigliava il Buddha, riconducendo ogni cosa all’origine. Vedendo sempre più chiaramente, raggiunse molti tipi di conoscenza, vedendo l’ordine naturale delle cose con la sua stessa saggezza. I suoi dubbi ebbero fine. Lasciò da parte il passato e il futuro, e ogni cosa divenne evidente nel presente. Questo era eko dhammo, il Dhamma unico. Non era più necessario per lui trasportare la sua ciotola per le elemosine attraverso montagne e foreste, alla ricerca della comprensione. Se andava da qualche parte, ci andava naturalmente, non spinto dal desiderio di qualcosa. Se stava fermo, stava in modo naturale, non spinto dal desiderio.

Praticando in quel modo, divenne libero dal desiderio. Non c’era nulla da aggiungere o da togliere alla sua pratica. Dimorava nella pace, senza ansia per il passato o per il futuro. Questa era la via che aveva insegnato il Buddha.

Ma questa non è solo una storia accaduta molto tempo fa. Anche noi oggi possiamo realizzare tutto questo, se pratichiamo correttamente. Possiamo conoscere il passato e il futuro, perché sono racchiusi proprio qui, nel momento presente. Se osserviamo il passato, non saremo in grado di capire, perché non è là che risiede la verità. Se osserviamo il futuro, non saremo in grado di capire. La verità esiste qui, nel presente.

Il Buddha ha detto: "Io sono giunto da solo all’illuminazione, con il miei stessi sforzi, senza alcun maestro". Avete mai letto questa storia? Un adepto di un’altra setta gli chiese: "Chi è il tuo maestro?". E il Buddha rispose: "Io non ho alcun maestro, ho raggiunto da solo l’illuminazione". Ma quell'uomo scosse la testa e se ne andò. Pensò che il Buddha stesse inventando una storia, e non era assolutamente interessato a ciò che diceva. Quel viandante pensava che non fosse possibile ottenere alcunché senza un maestro o una guida.

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Succede così: voi studiate con un maestro spirituale, e lui vi dice di lasciare andare avidità e rabbia. Vi spiega che sono dannose, e che avete bisogno di liberarvene. Così voi praticate, e alla fine ci riuscite. Ma l’esservi liberati da avidità e rabbia non è accaduto solo perché il maestro ve lo ha spiegato; voi stessi avete dovuto effettivamente impegnarvi e metterlo in pratica. Attraverso la pratica, voi imparate qualcosa per voi stessi. Vedete l’avidità che è nella vostra mente, e la lasciate andare. Vedete la rabbia nella vostra mente, e la lasciate andare. Il maestro non vi libera al vostro posto da esse, lui vi dice di liberarvene, ma voi non ve ne liberate solo perché lui ve ne parla. Voi stessi praticate e realizzate tutto questo. Voi stessi capite queste cose, per voi stessi.

È come se il Buddha vi prendesse e vi portasse all’inizio del sentiero, e vi dicesse: "Questo è il cammino. Percorrilo." Ma lui non vi aiuta a camminare. Dovete farlo da soli. Quando percorrete il sentiero, e praticate il Dhamma, voi incontrate il vero Dhamma, che è al di là di qualunque cosa vi possa venir spiegata da chicchessia. Quindi, ognuno si illumina con i propri sforzi, comprendendo passato, futuro e presente, comprendendo cause e risultati. Così si pone fine al dubbio.

Parliamo di lasciar andare, di sviluppare, rinunciare e coltivare. Tuttavia quando si realizza il frutto della pratica, non c’è niente altro da aggiungere né togliere. Il Buddha ha insegnato che questo è il punto a cui vogliamo arrivare, ma le persone non si vogliono fermare a qui. I loro dubbi ed i loro attaccamenti li tengono in movimento, li tengono confusi e impediscono loro di fermarsi. E così, quando uno è arrivato, mentre gli altri sono da un’altra parte, questi ultimi non saranno in grado di comprendere minimamente quello che dice. Potranno capire le sue parole a livello intellettuale, ma questa non è vera comprensione o conoscenza della verità. Di solito, quando parliamo della pratica, parliamo di entrare e lasciare, accrescere (le cose positive) e rimuovere (le cose negative). Ma il risultato finale è che si finisce di avere a che fare con tutte queste cose. C’è il sekha puggala, la persona che ha bisogno di esercitarsi in questo, e c’è l’asekha puggala, la persona che non ha più bisogno di esercitarsi in nulla. E stiamo parlando della mente: quando la mente ha raggiunto questo livello (di piena realizzazione), con c’è più nulla da praticare. Perché? Perché quella persona non ha più bisogno di alcun metodo convenzionale di insegnamento e pratica. Si parla di qualcuno che si è liberato degli impedimenti.

La persona sekha deve esercitarsi, praticando i vari gradini del sentiero, dall’inizio, fino al livello più alto. Quando ha portato a termine questo percorso, viene chiamata asekha, che significa che non ha più bisogno di esercizio, perché è tutto finito. Le cose in cui esercitarsi sono finite. I dubbi sono finiti. Non ci sono qualità da sviluppare. Non ci sono impedimenti da rimuovere. Queste persone vivono nella pace. Qualunque cosa, il bene e il male non li toccano, essi sono stabili, indipendentemente da ciò che capita loro.Stiamo parlando della mente vuota. Adesso sarete veramente confusi!

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Non comprendete assolutamente questa cosa. "Se la mia mente è vuota, come posso camminare?". Proprio perché la mente è vuota. "Se la mente è vuota, come posso mangiare? Avrò desiderio di mangiare, se la mia mente è vuota?". Non c’è molto beneficio a parlare del vuoto in questi termini, quando la gente non ha praticato nel modo giusto. Non sarò in grado di capire.

Quelli che usano queste parole, hanno cercato di darci delle indicazioni che possano guidarci verso la comprensione della verità. Ad esempio, questi sankhara che siamo andati accumulando e che abbiamo portato con noi dal momento della nostra nascita fino ad ora - il Buddha ha detto che in verità non sono il nostro sé, non sono nostri, non ci appartengono. Perché ha detto una cosa del genere? Non c’è altro modo di esprimere la verità. Ha parlato così per le persone che hanno discernimento, cosicché possano raggiungere la saggezza. Questa è una cosa che dobbiamo contemplare con attenzione.

Alcuni sentiranno le parole: "Niente è mio" e avranno l’idea di buttare via tutti i loro averi. Con una comprensione solo superficiale, le persone discuteranno del significato di queste parole, e su come metterle in pratica. "Questo non è il mio sé" non significa che dovete mettere fine alla vostra vita o buttare via le vostre cose. Significa che dovete rinunciare all’attaccamento. C’è il livello della realtà convenzionale e il livello della realtà ultima. Supposizione e liberazione. Al livello convenzionale, ci sono il signor A, il signor B il signor M, il signor N e così via. Usiamo queste convenzioni per convenienza, per comunicare nella realtà quotidiana. Il Buddha non ha insegnato che non dovremmo usare queste cose, ma che non ci dovremmo attaccare a esse. Dovremmo renderci conto che sono vuote.

È difficile parlarne.

Dobbiamo far affidamento sulla pratica e comprendere attraverso la pratica. Se volete avere la conoscenza e la comprensione con lo studio, o chiedendo agli altri, non comprenderete realmente la verità. È qualcosa che dovete vedere e conoscere da voi stessi, attraverso la pratica. Rivolgetevi all’interno, per conoscere dentro di voi. Non rivolgetevi sempre all’esterno. Ma quando si parla di pratica, le persone diventano polemiche. Le loro menti sono pronte alla discussione, perché hanno imparato questo o quell’altro approccio alla pratica, e hanno un attaccamento a ciò che hanno imparato. Non hanno compreso la verità attraverso la pratica.

Avete notato i thailandesi che abbiamo incontrato l’altro giorno? Hanno fatto delle domande irrilevanti, come: "Perché mangiate dalla vostra ciotola delle elemosine?". Ho visto come erano lontani dal Dhamma. Hanno avuto una istruzione moderna, così io non potevo dire molto. Ma ho lasciato il monaco americano a parlare con loro. Forse desideravano ascoltarlo. I thailandesi di oggi non sono molto interessati al Dhamma, e non lo capiscono. Perché dico questo? Se qualcuno non ha studiato una cosa, è ignorante di quella cosa. Loro hanno studiato altro, ma sono ignoranti del

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Dhamma. Io ammetto di essere ignorante delle cose che loro hanno imparato. Il monaco occidentale ha studiato il Dhamma, così può dire loro qualcosa in proposito.

Tra i thailandesi, oggi, c’è sempre meno interesse nelle ordinazioni, nello studio, nella pratica. Non so perché. Forse perché sono impegnati con il lavoro, perché il paese si sta sviluppando materialmente, o per qualunque altra ragione ci possa essere. Non lo so.

Nel passato, quando si prendevano i voti, si rimaneva almeno per qualche anno, quattro o cinque ritiri delle piogge. Adesso, restano una settimana o due. Alcuni addirittura prendono i voti al mattino e si smonacano la sera stessa. Così vanno le cose al giorno d’oggi. La gente dice cose come quelle che un amico mi ha detto: "Se tutti prendessero i voti come vorresti tu, per almeno qualche ritiro delle piogge, non ci sarebbe progresso nel mondo. Le famiglie non crescerebbero. Nessuno costruirebbe nulla."

Io gli ho risposto: "Tu pensi come un lombrico. Un lombrico vive nella terra, e mangia la terra. Mangia e mangia, comincia a preoccuparsi che non ci sarà più sporcizia da mangiare. È circondato dalla sporcizia, e la terra è tutto intorno a lui, ma lui si preoccupa di rimanere senza".

Questo è pensare da lombrichi. La gente si preoccupa del progresso del mondo, che il mondo finisca. Questa è una visione da lombrichi. Non sono lombrichi, ma ragionano come i lombrichi. Questa è mancata comprensione del regno animale, è vera ignoranza.

C’è una storia che racconto spesso, di una tartaruga e di un serpente. La foresta era in fiamme, e entrambi cercavano di scappare. La tartaruga si stava incamminando, quando vide strisciare il serpente accanto a lei, e si impietosì. Per quale motivo? Il serpente non aveva zampe. La tartaruga pensò che non potesse scappare dal fuoco, e lo voleva aiutare. Ma con l’avvicinarsi dell’incendio, il serpente scappò velocemente, mentre la tartaruga, anche con le sue quattro zampe, non ce la fece e morì.

Quella era l’ignoranza della tartaruga. Pensava che se si hanno le zampe ci si può muovere. E se non si hanno le zampe, non si può andare da nessuna parte. E così, era preoccupata che il serpente potesse morire perché non aveva le zampe. Ma il serpente non era per niente preoccupato, poiché sapeva che avrebbe potuto fuggire il pericolo facilmente.

Questo è un modo di parlare alle persone con le idee confuse. Proveranno pena per voi, se non siete come loro e non avete le loro idee e conoscenze. Ma chi è ignorante? Io stesso sono ignorante, a mio modo. Ci sono cose di cui non conosco nulla, e riguardo ad esse sono ignorante.

Trovarsi in situazioni diverse, può essere fonte di tranquillità. Io però non avevo capito quanto insensato fossi e quanto mi sbagliassi. Ogni volta che qualcosa

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disturbava la mia mente, cercavo di correre lontano, di scappare. Ciò che facevo, invece, era fuggire la pace. Stavo continuamente scappando lontano dalla pace. Non volevo vedere questa o conoscere quell'altra, non volevo pensare a certe cose o avere esperienza di altre. Non mi rendevo conto che questi erano ostacoli. Pensavo solo di aver bisogno di ritirarmi e di stare lontano dalle persone e dalle situazioni, cosicché non avrei avuto contatto con niente che mi disturbasse e non avrei udito alcun discorso spiacevole. Più riuscivo ad allontanarmi, meglio era.

Dopo molti anni, fui costretto, dall’ordine naturale delle cose, a cambiare atteggiamento. Essendo monaco da un po’ di tempo, finii con l’avere sempre più discepoli e sempre più persone che mi cercavano. La vita e la pratica nella foresta attraevano sempre più persone, e così, mentre il numero di discepoli cresceva, io fui costretto a cominciare ad affrontare le cose. Non potevo più scappare. Le mie orecchie dovevano udire, i miei occhi vedere. E fu allora, come Ajahn, che cominciai ad avere più conoscenza, che mi portò molta saggezza, e molta capacità di lasciar andare. Accadevano moltissime cose di tutti i tipi, e io imparai a non attaccarmi, imparai a lasciar andare continuamente, e questo mi rese molto più abile di prima.

Quando sopraggiungeva la sofferenza, andava tutto bene. Non aggiungevo altra sofferenza cercando di scappare. Prima, nella mia meditazione, desideravo solo la tranquillità. Pensavo che l’ambiente esterno fosse utile solo quando mi aiutasse a raggiungere la tranquillità. Non immaginavo che avere la retta visione fosse la causa della tranquillità.

Ho detto spesso che ci sono due tipi di tranquillità. I saggi le hanno divise in pace attraverso la saggezza e pace attraverso samatha. Nella pace attraverso samatha, l’occhio deve stare lontano dalle visioni, l’orecchio dai suoni, il naso dagli odori, e così via. Così, senza sentire, senza sapere, ecc, uno può diventare tranquillo. Questo tipo di pace può andare bene, a suo modo. Ha qualche valore? Si, ma non è il massimo. Ha vita breve. Non ha un fondamento affidabile. Quando i sensi incontrano oggetti spiacevoli, questo tipo di pace cambia, perché non vuole che cose spiacevoli siano presenti. E così la mente è continuamente in lotta con questi oggetti, e non nasce alcuna saggezza, perché la persona sente sempre che non è in pace, a causa di quei fattori esterni.

D’altra parte, se decidete di non scappare, ma di guardare direttamente le cose, vi rendete conto che la mancanza di tranquillità non è dovuta a oggetti o situazioni esterne ma accade a causa della cattiva comprensione. Insegno spesso questo ai miei discepoli. Dico loro: "Quando siete seriamente intenzionati a trovare la tranquillità nella vostra meditazione, potete cercare il posto più tranquillo e remoto, dove non verrete a contatto con il benché minimo suono o visione, dove non c’è assolutamente nulla che vi disturbi. In quei luoghi, la mente si calma perché non c’è nulla a provocarla. E quando avete questa esperienza, esaminate la mente per vedere quanta forza ha quando uscite da quel luogo, e ricominciate ad avere esperienza del contatto sensoriale, osservate come diventate compiaciuti o dispiaciuti, provate appagamento

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o repulsione, e come la mente si turba. E capirete che questo tipo di tranquillità non è reale.

Qualunque cosa accada nel vostro campo di esperienza, è semplicemente ciò che è. Quando qualcosa da piacere, decidiamo che è buona, e quando qualcosa da dispiacere, diciamo che non è buona. Questa è solo la nostra mente discriminante, che da dei significati agli oggetti esterni. Comprendendo ciò, avremo una base per investigare queste cose e vederle così come sono veramente. Quando c’è tranquillità nella meditazione, non c’è bisogno di pensare molto. Questa sensibilità ha una certa capacità di conoscere, che ha origine nella mente tranquilla. Questo non è pensare, è dhammavicaya, il fattore di investigare il Dhamma.

Questo genere di tranquillità non viene disturbato dall’esperienza e dal contatto sensoriale. E sorge la domanda: se questa è tranquillità, perché esistono ancora dei processi mentali che continuano? C’è qualcosa che accade dentro la tranquillità, non è qualcosa che accade nel modo comune, reattivo, in cui rendiamo qualcosa più grande di quanto non sia in realtà. Quando qualcosa accade nella tranquillità, la mente la riconosce con estrema chiarezza. Nasce la saggezza, e la mente può contemplare ancora più chiaramente. Noi vediamo esattamente come accadono le cose; quando conosciamo la loro natura, la tranquillità pervade tutto. Quando gli occhi vedono forme, e le orecchie odono suoni, noi riconosciamo immagini e suoni per quello che sono. In questa seconda forma di tranquillità, quando gli occhi vedono le forme, la mente è in pace. Quando le orecchie odono i suoni, la mente è in pace, non è turbata. Di qualunque cosa noi facciamo esperienza, la mente non ne viene scossa.

Da dove ci arriva questo genere di tranquillità? Viene dall’altro tipo di tranquillità, dalla samatha ignorante. La prima causa l’insorgere della seconda. È insegnato che la saggezza viene dalla tranquillità. La conoscenza viene dalla non conoscenza; la mente conosce da quello stato di non conoscenza, dall’imparare a investigare quello stato. Ci saranno sia tranquillità che saggezza. E allora, ovunque noi siamo e qualunque cosa stiamo facendo, vediamo la realtà delle cose. Sappiamo che il sorgere e il cessare dell’esperienza nella mente è proprio così. Non c’è niente altro da fare, niente da correggere o da risolvere. Non c’è ulteriore ragionamento, non c’è alcun posto in cui andare, nessuna via di fuga. Possiamo solo scappare attraverso la saggezza, conoscendo le cose così come sono, e passare oltre.

Nel passato, quando fondai Wat Pah Pong e la gente cominciava a venire per visitarmi, alcuni discepoli dicevano: "Luang Por sta sempre a fare amicizia con la gente. Non è più un buon posto per restare". Ma non era che io andassi a cercare la gente. Avevamo fondato un monastero, e le persone venivano per fare onore al nostro stile di vita. Non potevo negare ciò che dicevano, ma in realtà io stesso stavo guadagnando molto in saggezza, e venivo a conoscenza di un sacco di cose. Ma i discepoli non ne avevano idea. Si limitavano a guardarmi e a pensare che la mia pratica stesse degenerando. C’erano molto andirivieni e disturbo. Non avevo modo di

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convincerli del contrario, ma col passar del tempo, superai molti ostacoli, e infine giunsi alla conclusione che la vera tranquillità nasce dalla retta visione. Se non la abbiamo, allora non farà differenza il luogo in cui siamo, non saremo in pace e la saggezza non sorgerà.

La gente prova a praticare qui (in America). Io non critico nessuno, ma da ciò che posso vedere, sila non è molto ben sviluppata. Beh, questa è una convenzione. Potete cominciare prima a praticare samadhi. È come camminare e trovarsi davanti un bastone. Uno lo può raccogliere prendendolo da entrambe le estremità, un altro lo può prendere da una sola, ma è sempre lo stesso pezzo di legno, e prendendolo da entrambe le parti, lo si può spostare. Quando c’è un po' di calma che deriva dalla pratica di samadhi, allora la mente sarà in grado di vedere le cosa con chiarezza e acquistare saggezza, e vedere il danno che deriva da alcuni comportamenti. La persona sarà cauta e contenuta. Potete spostare il tronco prendendolo dalle estremità, ma la cosa importante è che siate fermamente determinati nella pratica. Se cominciate con sila, questo contenimento vi porterà la calma. Se cominciate con samadhi, porterà saggezza. Quando c’è saggezza, aiuta a sviluppare maggiormente samadhi. E samadhi porta a perfezionare sila. Sono sinonimi, e si sviluppano insieme. In conclusione, il risultato finale è che sono due aspetti della stessa cosa, sono indivisibili.

Non possiamo distinguere samadhi e classificarla separatamente. Non possiamo incasellare la saggezza come qualcosa di separato. Inizialmente le distinguiamo. Ci sono i due livelli: convenzionale e della liberazione. Al livello della liberazione, non ci attacchiamo al bene e al male. Usando convenzioni, distinguiamo buono e cattivo, e aspetti diversi della pratica. È necessario farlo, ma non è ancora il livello supremo. Se comprendiamo l’uso delle convenzioni, possiamo comprendere la liberazione. Quindi possiamo capire i modi in cui termini diversi vengono usati per condurre le persone alla stessa cosa.

E così, in quei giorni imparai a ad avere a che fare con le persone, e con ogni tipo di situazione. Venendo a contatto con tutte quelle cose, dovetti rendere stabile la mia mente. Basandomi sulla saggezza, fui in grado di vedere chiaramente, senza venire turbato da ciò con cui venivo a contatto. Qualunque cosa gli altri dicessero, non mi toccava, poiché le mie convinzioni erano ferme. Quelli che diventeranno insegnanti, avranno bisogno di essere fermamente convinti di quello che sanno, senza venire turbati da ciò che la gente dirà. Richiede una buona dose di saggezza, e qualunque saggezza uno abbia, può comunque aumentare. Mettiamo da parte tutte le nostre vecchie convinzioni così come ci si rivelano, e continuiamo a ripulire la mente.

Dovete veramente rendere la mente stabile. Spesso non c’è agio per la mente né per il corpo. Capita quando si vive in comunità; è qualcosa di naturale. A volte dobbiamo affrontare la malattia, ad esempio. Io ne ho avuto molta esperienza. Come vi comportereste con questo? Tutti desiderano vivere comodamente, avere buon cibo e riposare sufficientemente. Ma non possiamo sempre avere tutto questo. Non

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possiamo semplicemente indulgere nei nostri desideri. Ma possiamo creare qualche beneficio in questo mondo, con i nostri sforzi virtuosi. Possiamo creare benessere per noi stessi e per gli altri, in questa vita e nella prossima. Questi sono i risultati del rendere pacifica la mente.

Venire qui (in Inghilterra e negli Stati Uniti) è la stessa cosa. È solo una breve visita, ma cercherò di aiutare come posso, e di offrire insegnamenti e guida. Ci sono ajahn e studenti qui, e cercherò di aiutarli. Anche se non ci sono ancora dei monaci che siano venuti a vivere qui, questa è una cosa positiva. Questa visita può preparare le persone ad avere dei monaci qui. Se venissero troppo presto, sarebbe difficile. Poco a poco le persone possono familiarizzare con la pratica e con le abitudini del bhikkhusangha. Quindi, la sasana potrà fiorire anche qui. Quindi, per il momento, dovete prendervi cura della vostra mente e renderla retta.

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Essere accurati del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Dal libro "Everything Is Teaching Us" Traduzione di Chandra Livia Candiani. In un boschetto di bambù, le vecchie foglie si ammucchiano attorno agli alberi, poi si decompongono e diventano concime. Eppure non ha affatto un bell’aspetto.

IL BUDDHA HA INSEGNATO a contemplare il corpo nel corpo. Cosa significa? Tutti conosciamo le parti del corpo, i capelli, le unghie, i denti e la pelle. Come si contempla dunque il corpo nel corpo? ‘Contemplare il corpo nel corpo ’ significa riconoscere tutte le sue parti come impermanenti, insoddisfacenti e prive di un sé. Non è necessario entrare nei dettagli e meditare sulle singole parti. E’ come avere della frutta in un cesto. Se abbiamo già contato i frutti, sappiamo cosa contiene il cesto, e quando ne abbiamo bisogno, possiamo prendere e portare via il cesto e con esso verranno anche tutti i frutti. Sappiamo che i frutti sono lì e non abbiamo bisogno di contarli di nuovo.

Avendo meditato sulle trentadue parti del corpo e avendole riconosciute come non stabili o impermanenti, non abbiamo più bisogno di sforzarci a separarle e a meditare nei dettagli. Proprio come col cesto di frutta, non dobbiamo tirar fuori ogni volta i frutti e contarli e ricontarli. Ma semplicemente portiamo il cesto con noi, camminando con consapevolezza e attenzione, curando di non inciampare e di non cadere.

Quando contempliamo il corpo nel corpo, che significa vedere il Dhamma nel corpo, conoscendo il nostro corpo e quello degli altri come fenomeni impermanenti, non sono necessarie spiegazioni dettagliate. Qui seduti, siamo costantemente in contatto con la consapevolezza, conosciamo le cose per quello che sono, e la meditazione diventa allora molto semplice. Lo stesso vale per quando meditiamo sulla parola Buddho, se comprendiamo cosa veramente significhi, non abbiamo bisogno di ripeterla. Significa avere piena conoscenza e ferma consapevolezza. Questa è meditazione.

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Ma spesso la meditazione non è ben compresa. Pratichiamo in gruppo, ma non sappiamo veramente di cosa si tratti. Alcuni pensano che sia qualcosa di molto difficile. "Vengo al monastero, ma non riesco a stare seduto. Non ho molta pazienza. Mi fanno male le gambe, ho mal di schiena, mi fa male dappertutto." E così ci rinunciano e non vengono più, pensando di non riuscirci.

Ma in effetti, il samadhi non è sedersi. Non è camminare. Non è sdraiarsi né stare in piedi. Sedersi, camminare, chiudere gli occhi, sono solo azioni. Avere gli occhi chiusi non significa necessariamente che state praticando il samadhi. Potrebbe voler semplicemente dire che siete assonnati e offuscati. Se siete seduti con gli occhi chiusi ma vi state addormentando, se la testa vi ciondola e la bocca si apre, non è sedersi in samadhi. E’ sedersi con gli occhi chiusi. Samadhi e occhi chiusi sono due cose diverse. Il vero samadhi può essere praticato sia con gli occhi aperti che chiusi. Potete sedervi, camminare, stare in piedi o sdraiarvi.

Samadhi significa che la mente è stabilmente focalizzata con omnicomprensiva consapevolezza, contenimento, e attenzione. Siete costantemente consapevoli del giusto e dello sbagliato, in costante osservazione di tutte le condizioni che sorgono nella mente. Quando vi capita improvvisamente di pensare a qualcosa, di sentire avversione o desiderio, ne siete consapevoli. Alcuni si scoraggiano: "Non ci riesco. Appena mi siedo, la mente comincia a pensare a casa mia. E’ male (in tailandese: bahp)." Hey! Se quello fosse il male, il Buddha non sarebbe mai diventato Buddha. Passò cinque anni a lottare con la sua mente, pensando a casa sua e alla sua famiglia. Si risvegliò solo dopo sei anni.

Alcuni pensano che questo improvviso emergere di pensieri sia sbagliato o sia male. Magari sentite l’impulso di uccidere qualcuno. Ma dopo un istante ne siete consapevoli, capite che uccidere è sbagliato, vi fermate e vi contenete. C’è qualcosa di male in questo? Cosa pensate? Oppure vi viene l’idea di rubare qualcosa, subito seguita dal forte richiamo che è sbagliato, e dunque vi trattenete dall’agire, è kamma negativo? Non è che ogni volta che avete un impulso istantaneamente accumulate kamma negativo. Altrimenti, come potrebbe esserci una via alla liberazione? Gli impulsi non sono altro che impulsi. I pensieri sono solo pensieri. All’inizio, non avete creato ancora niente. Solo dopo, se agite col corpo, la parola, o la mente, allora create qualcosa. Avijja (l’ignoranza) ha preso il controllo. Se avete l’impulso di rubare e poi siete consapevoli di voi stessi e del fatto che sarebbe sbagliato, questa è saggezza, ed è presente invece vijja (la conoscenza). L’impulso mentale non viene agito.

Questa è consapevolezza tempestiva, la saggezza che sorge e informa la nostra esperienza. Se c’è un primo impulso mentale di voler rubare e poi lo mettiamo in atto, questo è il dhamma dell’illusione; le azioni del corpo, della parola e della mente che seguono l’impulso porteranno risultati negativi.

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E’ così che funziona. Il semplice avere dei pensieri non è kamma negativo. Se non avessimo nessun pensiero, come si svilupperebbe la saggezza? Alcuni vogliono solo sedersi con la mente completamente vuota. E’ una comprensione errata.

Quello di cui parlo è il samadhi accompagnato da saggezza. In effetti, il Buddha non chiedeva moltissimo samadhi. Non voleva jhana e samapatti. Considerò il samadhi come uno dei fattori del sentiero. Sila, samadhi e pañña sono componenti o ingredienti, come gli ingredienti usati in cucina. Usiamo le spezie per rendere il cibo saporito. Il punto non sono le spezie in se stesse, ma il cibo che mangiamo. Praticare il samadhi è lo stesso. Gli insegnanti del Buddha, Uddaka e Alara, mettevano moltissimo l’accento sulla pratica dei jhana e sull’ottenere vari tipi di poteri, come la chiaroveggenza. Ma se vi spingete così lontano è difficile smettere. In certi posti, si insegna una profonda tranquillità, sedersi beatamente nella quiete. I meditanti finiscono per intossicarsi col loro stesso samadhi. Se hanno sila, si intossicano del loro sila. Se camminano sul sentiero, restano intossicati dal sentiero, abbagliati dalla bellezza e dalle meraviglie che sperimentano, e non raggiungono la vera destinazione.

Il Buddha disse che questo è un sottile errore. Ma tuttavia a livello grossolano, è una cosa giusta. In realtà, quel che il Buddha voleva era che avessimo una giusta dose di samadhi, senza restarci intrappolati. Dopo essersi addestrati e aver sviluppato il samadhi, il samadhi dovrebbe sviluppare la saggezza.

Il samadhi a livello di samatha, la tranquillità, è come un sasso che copre l’erba. Nel samadhi che è sicuro e stabile, anche quando gli occhi sono aperti, la saggezza è presente. Quando la saggezza è sorta, include e conosce (‘governa’) tutte le cose. Quindi, il Maestro non vuole raffinati livelli di concentrazione e di cessazione, perché diventano una deviazione e si dimentica il sentiero.

Dunque, non è necessario essere attaccati allo stare seduti o a qualsiasi altra postura. Il samadhi non sta nell’avere gli occhi chiusi, gli occhi aperti, o nel sedersi, stare in piedi, camminare o sdraiarsi. Il samadhi pervade tutte le posture e le attività. Le persone anziane, che spesso non possono stare sedute, possono contemplare benissimo e praticare facilmente il samadhi; anche loro possono sviluppare molta saggezza.

E come sviluppano la saggezza? Tutto può risvegliarli. Quando aprono gli occhi, non vedono le cose con la stessa limpidezza di un tempo. Hanno problemi ai denti che finiscono per cadere. Spessissimo il corpo duole. E proprio questo è il luogo dello studio. Per questo, la meditazione è realmente facile per gli anziani. E’ difficile per i più giovani. I loro denti sono forti e così gustano il cibo. Dormono profondamente. Le loro facoltà sono intatte e il mondo per loro è divertente ed eccitante e restano così più facilmente preda dell’illusione. Gli anziani quando masticano qualcosa di duro, sentono subito male. E proprio in quel momento i devaduta (i messaggeri divini) gli parlano; ogni giorno gli insegnano qualcosa. Quando aprono gli occhi, la

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loro vista è confusa. Al mattino, gli duole la schiena. Alla sera le gambe. E’ così! E’ un eccellente oggetto di studio. I più vecchi tra voi diranno di non poter meditare. Su cosa volete meditare? Da chi imparerete la meditazione?

Questo è contemplare il corpo nel corpo e la sensazione nella sensazione. Lo state vedendo o state scappando via? Credere di non poter praticare perché si è troppo vecchi è solo una visione errata. La questione è: le cose vi sono chiare? Le persone anziane hanno molti pensieri, molte sensazioni, molto disagio e dolore. Accade di tutto! Se meditano, possono veramente testimoniarlo. Per questo dico che la meditazione è facile per loro. Possono praticarla al meglio. E’ come quelli che dicono: "Quando sarò vecchio, andrò al monastero." Se lo comprendete, è proprio vero. Osservatelo in voi. Quando sedete, è vero; quando camminate è vero. Ogni cosa è un problema, ogni cosa presenta degli ostacoli, e tutto insegna. Non è così? Adesso potete alzarvi e andarvene facilmente? Quando vi alzate: "Ohi!" O non ci avete fatto caso? E: "Ohi!" quando camminate. Ogni cosa vi pungola.

Quando siete giovani, potete alzarvi e camminare, andarvene per la vostra strada. Ma in realtà non sapete niente. Quando siete vecchi, ogni volta che vi alzate: "Ohi!" Non è così che dite? "Ohi! Ohi!" Ogni volta che vi muovete, imparate qualcosa. E allora perché dite che è difficile meditare? Dove altro volete guardare? E’ tutto a posto. I devaduta vi stanno dicendo qualcosa. E’ chiarissimo. I sankhara vi dicono che non sono stabili né permanenti, che non sono voi né vostri. Ve lo dicono ogni momento.

Ma noi la pensiamo diversamente. Non pensiamo che sia giusto. Nutriamo delle visioni errate e le nostre idee sono lontane dalla verità. In realtà, gli anziani possono vedere l’impermanenza, la sofferenza e l’assenza di un sé e far sorgere equanimità e disincanto, perché l’evidenza è proprio lì, dentro di loro tutto il tempo. Penso che sia una buona cosa.

Avere la sensibilità interiore che è sempre consapevole del giusto e dello sbagliato è chiamato Buddho. Non è necessario ripetere continuamente "Buddho". Avete già contato la frutta nel cesto. Ogni volta che vi sedete, non dovete affrontare il problema di tirar fuori la frutta e contarla di nuovo. Potete lasciarla nel cesto. Ma chi ha un errato attaccamento continuerà a contare. Si fermerà sotto un alberò, tirerà fuori la frutta, la conterà e la rimetterà nel cestino. E se ne andrà verso il prossimo luogo di sosta e ricomincerà da capo. Ma non farà che ricontare la stessa frutta. Questa è proprio brama. Ha paura che senza contare ci saranno degli errori. Noi abbiamo paura che se non continuiamo a dire "Buddho", cadremo in errore. Come potremo sbagliarci? E’ solo chi non sa quanti frutti ci sono che ha bisogno di contare. Una volta che lo sapete, potete stare tranquilli e lasciare la frutta nel cestino. Quando vi sedete, semplicemente sedete. Quando vi sdraiate, semplicemente vi sdraiate perché la vostra frutta è tutta lì con voi.

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Praticare la virtù e creare meriti, noi lo chiamiamo "Nibbana paccayo hotu" può essere una condizione per realizzare il Nibbana. Come condizione per realizzare il Nibbana, è positivo fare offerte. E’ positivo mantenere i precetti. E praticare la meditazione. E ascoltare gli insegnamenti di Dhamma. Possono diventare condizioni per realizzare il Nibbana.

Ma in realtà cos’è il Nibbana? Nibbana significa non afferrare. Nibbana significa non dare un significato alle cose. Nibbana significa lasciare andare. Fare offerte e azioni meritorie, osservare i precetti morali, e meditare sulla gentilezza amorevole, tutto questo serve a liberarsi dalle contaminazioni e dalla brama, per rendere vuota la mente, vuota di autoriferimento, vuota di concetti di sé e di altro, una mente che non desideri niente, che non desideri essere né diventare niente.

Nibbana paccayo hotu: fai che diventi una causa per il Nibbana. Praticare la generosità significa rinunciare, lasciar andare. Ascoltare gli insegnamenti ha lo scopo di acquisire la conoscenza per rinunciare e lasciar andare, per sradicare l’attaccamento a quel che è buono e a quel che è cattivo. All’inizio, meditiamo per diventare consapevoli di quello che è sbagliato e negativo. Quando lo riconosciamo, ci rinunciamo e pratichiamo quello che è buono. Poi, quando una certa bontà è raggiunta, non restateci attaccati. Restate a metà strada nel bene, o al di sopra del bene, non state sotto il bene. Se restiamo sotto il bene, allora il bene ci comanda a bacchetta e diventiamo suoi schiavi. Diventiamo suoi servi e ci forza a creare ogni sorta di kamma e di azione biasimevole. Può portarci a qualsiasi cosa, e il risultato sarà lo stesso tipo d’infelicità e di circostanze sfortunate in cui ci trovavamo prima.

Rinunciate al male e sviluppate i meriti, rinunciate al negativo e sviluppate il positivo. Coltivando i meriti, rimanete al di sopra dei meriti. Rimanete al di sopra del merito e del demerito, del bene e del male. Continuate a praticare con una mente che rinuncia, lascia andare e si libera. Anche in questo caso, non importa cosa facciate: se lo fate con una mente che lascia andare, allora è una causa per realizzare il Nibbana. Liberi dal desiderio, liberi dalle contaminazioni, liberi dalla brama, ogni cosa allora si fonde col sentiero, cioè con la Nobile Verità, saccadhamma. Con le quattro Nobili Verità, la saggezza che conosce tanha, la causa di dukkha. Kamatanha, bhavatanha, vibhavatanha (il desiderio sensoriale, il desiderio di diventare, il desiderio di non essere): sono questi l’origine, la causa. Se andate in quel luogo, se desiderate qualcosa o volete essere qualsiasi cosa, nutrite dukkha, fate esistere dukkha, perché è questo che dà nascita a dukkha. Queste sono le cause. Se creiamo le cause di dukkha, dukkha accadrà. La causa è tanha: l’irrequieta, ansiosa brama. Si diventa schiavi del desiderio e si crea ogni sorta di kamma e di azioni negative a causa di questo e così nasce la sofferenza. In parole semplici, dukkha è figlio del desiderio. Il desiderio è il padre di dukkha. Quando ci sono i genitori, dukkha può nascere. Se non ci sono i genitori, dukkha non può accadere, non ci saranno figli.

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E’ qui che la meditazione andrebbe focalizzata. Dovremmo vedere tutte le forme di tanha, che ci fanno nascere i desideri. Ma parlare di desiderio può creare confusione. Qualcuno può farsi l’idea che ogni tipo di desiderio, come il desiderio di cibo o di mezzi di sostentamento, sia tanha. Ma questo tipo di desiderio può essere ordinario e naturale. Se avete fame e desiderate del cibo, potete mangiare il vostro pasto ed è tutto. E’ molto normale. E’ un desiderio che sta dentro dei confini e non ha effetti negativi. Questo tipo di desiderio non è sensualità. Quando si tratta di sensualità, diventa qualcosa di più di un desiderio. In quel caso, c’è brama di avere più cose da consumare, c’è la ricerca di sapori, del godimento in modi che procurano sofferenza e turbamento, come il bere liquori e birra.

Dei turisti mi hanno parlato di un posto dove si mangia il cervello di scimmie vive. Mettono una scimmia in mezzo al tavolo e le aprono il cranio. Poi estraggono il cervello per mangiarlo. Questo è un modo di mangiare da demoni o da spiriti famelici. Non è nutrirsi in modo naturale e normale. In questo modo, mangiare diventa tanha. Dicono che il sangue delle scimmie li rende forti. Così catturano questi animali e quando li mangiano, bevono liquori e birra. Non è un normale nutrirsi. E’ da spiriti e demoni, e lo scopo è la brama sensuale. E’ mangiare braci, mangiare fuoco, mangiare di tutto dappertutto. E’ questo tipo di desiderio che è chiamato tanha. Non c’è moderazione. Parlare, pensare, vestirsi, tutto quello che queste persone fanno tende all’eccesso. Se mangiare, dormire, e le altre attività necessarie vengono svolte con moderazione, non c’è in esse niente di negativo. Dovreste essere consapevoli di voi stessi riguardo a queste attività dunque; allora, non diventeranno causa di sofferenza. Se sappiamo come essere moderati e frugali nei nostri bisogni, possiamo essere sereni.

Praticare la meditazione e creare meriti e virtù non sono cose molto difficili, purché le comprendiamo bene. Cos’è un’azione negativa? Cos’è il merito? Merito è qualcosa di buono e di bello, non fare del male a noi stessi e agli altri, col pensiero, la parola e l’azione. Allora, c’è felicità. Non si crea niente di negativo. Il merito è questo. Questa è la bravura.

Lo stesso vale per le offerte e la carità. Quando diamo, cosa cerchiamo di dare via? Il dare ha lo scopo di distruggere l’auto-importanza, la credenza in un sé oltre che l’egoismo. L’egoismo è un’intensa, estrema sofferenza. Le persone egoiste vogliono sempre essere migliori degli altri e avere più degli altri. Un semplice esempio è che dopo aver mangiato non vogliono lavarsi i piatti. Lo fanno fare a qualcun altro. Se mangiano in un gruppo lo lasciano fare agli altri. Appena finito di mangiare, se ne vanno. Questo è egoismo, non si è responsabili, e si scarica un peso sugli altri. E’ l’equivalente di una persona che non si cura di se stessa, che non si aiuta e in realtà non si ama. Nel praticare la generosità, cerchiamo di ripulire il cuore da questo atteggiamento. Questo si chiama creare meriti attraverso il dare, per avere una mente compassionevole e aver cura di tutti gli esseri viventi senza eccezioni.

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Se riuscissimo a essere liberi anche solo di questo, dell’egoismo, saremmo come il Buddha, che non cercava il suo vantaggio, ma il bene di tutti. Se noi seguiamo il sentiero e nel nostro cuore crescono frutti come questo, certamente possiamo progredire. Con questa libertà dall’egoismo, tutte le nostre attività, le azioni virtuose, la generosità e la meditazione condurranno alla liberazione. Chiunque pratichi così sarà libero e andrà oltre, oltre ogni convenzione e apparenza.

I principi fondamentali della pratica non sono al di là della nostra comprensione. Nel praticare la generosità, per esempio, se manchiamo di saggezza, non ci sarà alcun merito. Senza comprensione, pensiamo che la generosità significhi semplicemente dare qualcosa. "Quando ho voglia di dare, do. Se mi sento di rubare, rubo. Se poi mi sento generoso, allora do qualcosa." E’ come avere una botte piena d’acqua. La tirate fuori con un secchio e la riversate dentro. Di nuovo la tirate fuori e la riversate, e ancora la cavate e la riversate di nuovo dentro. Quando vuoterete la botte? Ci sarà mai fine? Potete immaginare che questa pratica possa realizzare il Nibbana? La botte sarà mai vuota? Una volta tirate su e una volta ributtate dentro, riuscite a immaginare una fine?

Andare avanti e indietro in questo modo è vatta, la ciclicità. Se si parla di un vero lasciar andare, di rinunciare al bene come al male, allora c’è solo il tirare fuori. Anche se restano solo poche gocce, voi le tirate su. Non versate dentro più niente e continuate a tirar fuori. Anche se avete a disposizione solo un piccolo secchio, fate del vostro meglio e così facendo verrà il momento in cui la botte sarà vuota. Se tirate su un secchio e ne riversate dentro un altro, pensateci. Quando la botte sarà vuota? Il Dhamma non è qualcosa di distante. E’ proprio qui, nella botte. Potete praticarlo a casa. Provate. Riuscite a vuotare una botte d’acqua così? Domani fatelo per tutto il giorno e osservate cosa accade.

"Rinunciare al male, praticare il bene, purificare la mente." Prima di tutto, smettere le azioni negative, e allora si comincia a coltivare il bene. Cos’è il bene, cos’è meritevole? Dov’è? E’ come un pesce nell’acqua. Se tiriamo via tutta l’acqua, prenderemo il pesce, ecco una spiegazione semplice. Se continuiamo a togliere e a rimettere l’acqua, il pesce resta nel vaso. Se non interrompiamo qualsiasi forma di azione negativa, non vedremo i meriti, e non vedremo cosa è vero e giusto. Tirando fuori e rimettendo dentro, estraendo e riversando, restiamo esattamente come siamo. Andando avanti e indietro in questo modo, non facciamo che sprecare tempo e tutto quel che facciamo non ha senso. Ascoltare gli insegnamenti non ha senso. Fare offerte non ha significato. Tutti i nostri sforzi di praticare sono vani. Non comprendiamo i principi della via del Buddha, e dunque i nostri sforzi non danno i frutti desiderati.

Quando il Buddha insegnò la pratica, non parlava di qualcosa di esclusivo per chi aveva preso l’ordinazione. Parlava di come praticare bene, in modo corretto. Supatipanno significa quelli che praticano bene. Ujupatipanno significa quelli che

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praticano correttamente. Ñayapatipanno significa quelli che praticano per la realizzazione del sentiero, per l’adempimento e il Nibbana. Samicipatipanno sono quelli che praticano rivolti alla verità. Può essere chiunque. Questi sono il Sangha dei veri discepoli (savaka) del Signore Buddha. I laici possono essere savaka. Portare queste qualità a piena maturazione rende una persona un savaka. Chiunque può essere un vero discepolo del Buddha e realizzare l’illuminazione.

Molti di noi buddhisti non hanno questa piena comprensione. La nostra conoscenza non va così lontano. Facciamo le nostre varie attività, pensando che ne ricaveremo un qualche merito. Pensiamo che ascoltare gli insegnamenti o fare offerte sia meritevole. E’ quello che ci hanno detto. Ma chi fa offerte per ‘guadagnarsi’ meriti crea un kamma negativo.

E’ comprensibile. Chi dà per ottenere meriti accumula istantaneamente un kamma negativo. Se date per lasciar andare e liberare la mente, questo porta merito. Se date per avere in cambio qualcosa, è kamma negativo.

Ascoltare gli insegnamenti per comprendere realmente la via del Buddha è difficile. Il Dhamma è difficile da capire quando la pratica che si segue, mantenere i precetti, sedere in meditazione, dare, è fatta per avere qualcosa in cambio. Vogliamo i meriti, vogliamo qualcosa. Ma, se qualcosa può essere ottenuto, chi è che lo ottiene? Noi. E di chi è quando la perdiamo? La persona che non ha alcunché non perde niente. E quando va persa, chi ne soffre?

Non pensate che vivere la propria vita per ottenere qualcosa vi procuri sofferenza? Altrimenti, potete continuare come prima alla ricerca di qualcosa da ottenere. Ma è solo svuotando la mente, che otteniamo tutto. Dimensioni più elevate, il Nibbana e tutti i loro frutti. Nel fare offerte non abbiamo attaccamenti o mire; la mente è vuota e rilassata. Possiamo lasciar andare e mettere giù. E’ come portare un peso e lamentarsi che è pesante. E se qualcuno vi dicesse di metterlo giù, voi rispondeste: "Se lo faccio, non avrò più niente." Sì, ora avete qualcosa, avete la pesantezza. Ma non avete la leggerezza. Dunque, volete la leggerezza o volete continuare a portare pesi? Uno dice di posarli a terra, l’altro che ha paura di restare senza niente. E’ un discorso tra sordi.

Noi vogliamo la felicità, vogliamo la serenità, la tranquillità e la pace. Questo significa che vogliamo la leggerezza. Trasportiamo un peso e qualcuno, vedendoci, ci consiglia di metterlo giù. Noi diciamo che non possiamo se no resteremmo senza niente. Ma l’altra persona replica che se lo facciamo, potremo avere qualcosa di meglio. Hanno difficoltà a comunicare a vicenda.

Se facciamo offerte e buone azioni per ottenere qualcosa non funziona. Quel che otteniamo è il divenire e la nascita. Non è una causa per realizzare il Nibbana. Il Nibbana è rinunciare e dare via. Se cerchiamo di ottenere, di aggrapparci, di dare un significato alle cose, non è una causa per realizzare il Nibbana. Il Buddha voleva

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che mettessimo l’attenzione proprio qui, a questo luogo vuoto del lasciar andare. Questo è il merito. Questa l’abilità.

Praticando un qualsiasi merito o virtù, una volta compiuto, dovremmo sentire di aver fatto quel che ci spettava. Non dovremmo più farcene carico. Lo si fa allo scopo di rinunciare agli inquinanti e alla brama. E non allo scopo di creare altri inquinanti, altra brama, e attaccamento. Dove andremo allora? Non andremo da nessuna parte. La nostra pratica è corretta e vera.

Molti di noi buddhisti, anche se seguiamo queste forme di pratica e di apprendimento, abbiamo difficoltà a comprendere questo tipo di discorso. E’ perché Mara, e cioè l’ignoranza, la brama, il desiderio di ottenere, di avere e di essere, ottenebra la mente. Noi conosciamo solo una felicità temporanea. Per esempio, quando siamo pieni d’odio verso qualcuno, la nostra mente ne è trascinata e non trova pace. Non facciamo che pensare a quella persona, immaginando cosa fare per colpirla. Il pensiero non ci dà tregua. Poi, magari un giorno ci capita di andare a casa sua, e imprecargli contro e dirgliene quattro. E ci dà un certo sollievo. Ma mette fine alle nostre contaminazioni? Troviamo un modo di sfogarci e ci sentiamo meglio. Ma non ci siamo liberati dall’afflizione della rabbia, non è vero? C’è una qualche gioia nella contaminazione e nella brama, ma è fatta così. Continuiamo a conservare dentro di noi la contaminazione e quando ci sono le condizioni, prenderà fuoco anche più di prima. In questo modo, gli inquinanti avranno mai fine?

E’ come quando a qualcuno muore il o la consorte o un figlio o si subisce una grave perdita finanziaria. E la persona beve per alleviare la sofferenza. O va al cinema. Ma la allevia davvero? In realtà, il dolore aumenta; ma al momento si riesce a dimenticare quel che è successo e lo si considera un modo per curare l’infelicità. E’ come avere un taglio sulla pianta del piede che vi rende doloroso camminare. Qualsiasi cosa tocchiate fa male e così ve ne andate in giro lamentandovi del disagio. Ma se vedeste una tigre venire verso di voi, fareste un balzo e vi mettereste a correre senza pensare minimamente al taglio. La paura della tigre è molto più forte del dolore al piede ed è come se il dolore fosse sparito. La paura lo rende più piccolo.

O magari avete dei problemi al lavoro o a casa che vi sembrano molto grandi. Allora vi ubriacate e in quello stato di più forte illusione, quei problemi non vi turbano più così tanto. Pensate di averli risolti e di aver dissolto la vostra infelicità. Ma quando tornate sobri, rispuntano i vecchi problemi. Cosa ne è della vostra soluzione? Continuate a sopprimere i problemi bevendo e loro continuano a riemergere. Finite con la cirrosi epatica, ma senza liberarvi dei problemi e un bel giorno morite.

C’è una sorta di serenità e di felicità in tutto questo: la felicità degli stolti. E’ il modo in cui gli sciocchi fermano la sofferenza. Ma non c’è nessuna saggezza. Queste diverse condizioni di confusione sono mescolate nel cuore che ha una sensazione di benessere. Se si permette alla mente di seguire i suoi umori e le sue tendenze, prova

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una certa felicità. Ma questa felicità conserva sempre in sé dell’infelicità. Ogni volta che emerge, la sofferenza e la disperazione peggioreranno. E’ come avere una ferita. Se la curiamo superficialmente, ma all’interno è ancora infetta, non è guarita. Per un po’ sembra che vada bene, ma quando l’infezione si propaga, bisogna tagliare. Se l’infezione interna non viene mai curata, continueremo a trattare la superficie senza nessun risultato. Quel che vediamo dall’esterno per un po’ può andar bene, ma all’interno resta tutto come prima.

Questa è la via del mondo. Le questioni mondane non hanno mai fine. Quindi le leggi del mondo nelle varie società tentano continuamente di risolverle. Vengono costantemente create nuove leggi per affrontare diverse situazioni e problemi. Qualcosa si sistema per un po’, ma resta sempre il bisogno di ulteriori leggi e soluzioni. Non c’è mai una risoluzione interna, solo un miglioramento superficiale. L’infezione continua a esistere all’interno e c’è bisogno di tagliare sempre più in profondità. Le persone sono buone solo in superficie, nelle parole e nell’apparenza. Le loro parole sono buone e le loro facce gentili, ma la loro mente non è così buona.

Quando prendiamo un treno e incontriamo un conoscente, diciamo: "Oh, che piacere vederti! Ti ho pensato tantissimo ultimamente! Volevo proprio venirti a trovare!" Ma sono solo parole. Non diciamo sul serio. Siamo buoni alla superficie, ma dentro non così tanto. Diciamo così, ma appena andiamo a fumare una sigaretta o a bere un caffè con quella persona, ce la svigniamo in fretta. Poi, se nel futuro la rincontriamo, ripetiamo le stesse cose: "Ehi, che bello vederti! Dov’eri finito? Volevo venire a trovarti, ma non ho avuto tempo." Ecco come vanno le cose.

Il Grande Maestro ha insegnato il Dhamma e il vinaya. E’ completo ed esauriente. Niente lo supera, e niente in esso ha bisogno di cambiamenti o aggiustamenti, perché è l’insegnamento supremo. E’ completo e dunque è qui che possiamo fermarci. Non c’è niente da aggiungere o da sottrarre, perché ha la natura di non poter essere accresciuto né diminuito. E’ giusto. E’ vero.

Dunque, noi buddhisti ascoltiamo gli insegnamenti del Dhamma e studiamo per apprendere queste verità. Quando le conosciamo, la nostra mente entra nel Dhamma; il Dhamma entra nella nostra mente. Quando la mente di qualcuno entra nel Dhamma, quella persona ha benessere, ha una mente in pace. La mente ha allora il modo di risolvere le difficoltà e non può corrompersi. Quando dolore e malattia affliggono il corpo, la mente ha molti modi per risolvere la sofferenza. Può risolverla in modo naturale, considerandola un fatto naturale, e non cadendo in depressione o nella paura. Quando otteniamo qualcosa, non ci perdiamo nel piacere. Perdendola, non restiamo eccessivamente turbati, ma capiamo che la natura di tutte le cose è che essendo apparse, poi decadono e scompaiono. Con questo atteggiamento, possiamo seguire il nostro cammino nel mondo. Siamo lokavidu, conosciamo il mondo con chiarezza. Poi samudaya, la causa della sofferenza, non si crea più, e non nasce tanha. C’è vijja, la conoscenza delle cose così come sono ed essa illumina il mondo.

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Fa luce su lode e biasimo. Su guadagno e perdita. Chiarisce fama e discredito. Rende chiari la nascita, l’invecchiamento, la malattia, e la morte nella mente del praticante.

Questa è una persona che ha raggiunto il Dhamma. Questi non lotta più con la vita e non è più costantemente in cerca di soluzioni. Risolve quel che può essere risolto, agendo in modo appropriato. E’ così che ha insegnato il Buddha: ha insegnato a chi era possibile insegnare. Quelli a cui era impossibile insegnare li ha lasciati perdere. Anche se non li ha esclusi, si sono esclusi da soli e così li ha abbandonati. Forse vi fate l’idea che il Buddha mancasse di metta abbandonando le persone. Ehi! Se buttate via un mango andato a male, mancate di metta? E’ solo che non potete utilizzarlo, tutto lì. Non c’era modo di raggiungere quelle persone. Il Buddha è apprezzato come un essere dalla suprema saggezza. Non riunì tutti e tutto insieme in modo confuso. Aveva l’occhio divino, e riusciva a vedere le cose come veramente sono. Era il conoscitore del mondo.

Come conoscitore del mondo, vide il pericolo nel cerchio del samsara. E lo stesso vale per noi che siamo suoi discepoli. Se conosciamo le cose così come sono, ne risulterà benessere. Dove sono esattamente le cose che ci causano felicità e sofferenza? Pensateci bene. Sono solo cose che noi stessi creiamo. Ogni volta che creiamo l’idea che qualcosa sia noi o nostra, è un’occasione di sofferenza. Le cose possono portarci dolore o benessere, a seconda della nostra comprensione. Per questo, il Buddha ci ha insegnato a prestare attenzione a noi stessi, alle nostre azioni e alle creazioni della nostra mente. Tutte le volte che sentiamo un amore o un’avversione estremi verso qualcuno o qualcosa, tutte le volte che siamo particolarmente ansiosi, entriamo in una grande sofferenza. E’ importante, dunque prestate attenzione. Investigate le sensazioni d’intenso amore o di avversione, e fate un passo indietro. Se vi avvicinate troppo, queste sensazioni vi morderanno. Lo capite? Se vi aggrappate a queste cose e le accarezzate, esse mordono e tirano calci. Quando date dell’erba a un bufalo, dovete fare attenzione. Se state attenti, quando scalcia non vi colpirà. Dovete nutrirlo e prendervene cura, ma dovete essere abbastanza svegli da non farvi colpire. L’amore per i figli, per i parenti, la ricchezza e i possedimenti vi morderà. Lo capite? Quando lo nutrite, non avvicinatevi troppo. Quando lo innaffiate, non fatevi troppo vicino. Tenetelo al laccio quando ne avete bisogno. Questa è la via del Dhamma, riconoscere l’impermanenza, il carattere insoddisfacente e la mancanza di un sé, riconoscere il pericolo e fare attenzione ed esercitare il contenimento in modo consapevole.

Ajahn Tongrat non insegnava molto; ci diceva sempre: "State veramente attenti! Veramente attenti!" E’ così che insegnava: "State davvero attenti! Se non lo siete, ve la vedrete brutta!" E’ proprio così. Anche se lui non l’avesse detto, è proprio così. Se non siete veramente attenti, passerete dei guai. Cercate di capire. Non c’entrano gli altri. Il problema non è che gli altri ci amino o ci odino. Non esiste qualcuno da

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qualche parte che ci fa creare kamma e sofferenza. Dobbiamo mettere l’attenzione sui nostri averi, la casa, la famiglia. O cosa pensate? In questi giorni, dove avete provato sofferenza? Dove siete stati coinvolti nell’amore, nell’odio, nella paura? Verificate, prendetevi cura di voi stessi. Fate attenzione a non farvi mordere. Se non mordono, magari tirano calci. Non pensate che queste cose non mordano o non tirino calci. Se venite morsi, assicuratevi che sia un piccolo morso. Non fatevi fare a pezzi. Non ditevi che non c’è pericolo. I possedimenti, la ricchezza, la fama, gli affetti, tutto questo può dare calci e mordere se non siete consapevoli. Se siete consapevoli, sarete sereni. Siate prudenti e contenuti. Quando la mente inizia ad aggrapparsi alle cose e ne fa un dramma, dovete fermarla. Polemizzerà con voi, ma dovete opporvi energicamente. State nel mezzo mentre la mente va e viene. Mettete da parte da un lato l’indulgenza sensuale e dall’altro l’auto-tormento. L’amore da un lato e l’odio dall’altro. Felicità e sofferenza. Restate nel mezzo non permettendo alla mente di andare in nessuna delle due direzioni.

Come i nostri corpi: terra, acqua, fuoco e aria, dov’è la persona? Non c’è nessuna persona. Questi diversi elementi stanno insieme e gli diamo il nome di persona. E’ una falsità. Non è reale. E’ vero solo a livello convenzionale. Quando è il momento, gli elementi tornano al loro precedente stato. Siamo stati con loro solo per un po’ e dobbiamo lasciare che facciano ritorno. La parte terra, torna a essere terra. La parte acqua acqua. La parte fuoco torna fuoco. La parte aria aria. O cercherete di seguirli e di tenervi qualcosa? Noi facciamo affidamento su di essi per un po’; quando giunge per loro il tempo di andare, lasciateli andare. Quando arrivano, lasciateli arrivare. Tutti questi fenomeni (sabhava) appaiono e scompaiono. Ecco tutto. Comprendiamo che tutte queste cose fluiscono, costantemente appaiono e scompaiono.

Fare offerte, ascoltare gli insegnamenti, praticare la meditazione, tutto quello che facciamo dovrebbe essere fatto allo scopo di sviluppare la saggezza. Sviluppare la saggezza ha per scopo la liberazione, la libertà da tutte queste condizioni e fenomeni. Quando siamo liberi, a prescindere dalla situazione in cui ci troviamo, non c’è sofferenza. Se abbiamo figli, non soffriamo. Se lavoriamo, non c’è sofferenza. Se abbiamo una casa, non dobbiamo soffrire. Come un loto nell’acqua. "Cresco nell’acqua, ma non soffro a causa dell’acqua. Non posso annegare o bruciare, perché vivo nell’acqua." Quando l’acqua cala e rifluisce non nuoce al loto. L’acqua e il loto possono esistere insieme senza conflitto. Sono insieme ma separati. Quel che c’è nell’acqua nutre il loto e lo fa bello.

Lo stesso per noi. La ricchezza, la casa, la famiglia e tutti gli inquinanti della mente non ci contaminano più, ma invece ci aiutano a sviluppare le parami, le perfezioni spirituali. In un boschetto di bambù, le vecchie foglie s’ammucchiano ai piedi degli alberi e quando piove, si decompongono e diventano concime. I germogli crescono e gli alberi si rinforzano grazie al concime e abbiamo una fonte di cibo e di reddito. Eppure non ha affatto un bell’aspetto. Dunque, fate attenzione, nella stagione secca, se accendete dei fuochi nel bosco, bruceranno tutto il futuro concime che si

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trasformerà in fuoco che brucerà i bambù. Non avrete germogli di bambù da mangiare. Se bruciate il bosco, bruciate il concime dei bambù. Se bruciate il concime, bruciate gli alberi e il boschetto morirà.

Capite? Voi e le vostre famiglie potete vivere nella gioia e nell’armonia con la vostra casa e i vostri averi, liberi dal pericolo di alluvioni e di incendi. Se una famiglia subisce alluvioni o incendi è solo a causa dei componenti della famiglia. Come il concime dei bambù. A causa sua il boschetto può restare bruciato oppure crescere in bellezza.

Le cose cresceranno meravigliosamente e poi non più e poi di nuovo. Crescere e degenerare, poi crescere di nuovo e di nuovo degenerare, questa è la via dei fenomeni mondani. Se conosciamo crescita e degenerazione per quel che sono possiamo vederne la conclusione. Le cose crescono e raggiungono un limite. Le cose degenerano e raggiungono un limite. Ma noi restiamo costanti. E’ come quando ci fu un incendio nella città di Ubon. Le persone lamentarono la distruzione e versarono lacrime su lacrime. Ma dopo l’incendio, le cose vennero ricostruite e le nuove costruzioni ora sono più grandi e molto migliori di quelle di prima, e le persone si godono la città più di prima.

E’ così con i cicli di perdita e sviluppo. Tutto ha dei limiti. Il Buddha voleva che contemplassimo sempre. Mentre continuiamo a vivere dovremmo pensare alla morte. Non considerarla qualcosa di lontano. Se siete poveri, non cercate di danneggiare o di sfruttare gli altri. Affrontate la situazione e lavorate sodo per aiutarvi. Se state bene, non diventate distratti a causa della ricchezza e dell’agio. Non è difficile perdersi in qualunque cosa. Una persona abbiente può diventare indigente in pochi giorni. Una persona povera può diventare ricca. Tutto dipende dal fatto che le condizioni sono impermanenti e instabili. Perciò, il Buddha disse: " Pamado maccuno padam: la disattenzione è la via diretta alla morte." Chi è disattento è come morto. Non siate disattenti! Tutti gli esseri e tutti i sankhara sono instabili e impermanenti. Non nutrite alcuna forma di attaccamento a essi! Felice o triste, in crescita o in decadimento, alla fine tutto giunge allo stesso posto. Comprendetelo, per favore.

Vivendo nel mondo con questa prospettiva possiamo essere liberi dal pericolo. Qualsiasi cosa guadagniamo o conquistiamo nel mondo grazie al nostro buon kamma, è pur sempre del mondo e soggetto a decadenza e perdita, dunque non lasciatevi trasportare via. E’ come uno scarafaggio che raspa la terra. Può farne un mucchietto molto più grande di lui, ma resta sempre un mucchietto di fango. Se lavora sodo, crea un buco profondo nel terreno, ma non è che un buco nel fango. Se un bufalo ci lascia cadere dello sterco, sarà più grosso del mucchietto di terra dello scarafaggio, ma ugualmente non è qualcosa che raggiunga il cielo. Non è che fango. Lo stesso sono le conquiste mondane. Non importa quanto duramente lavorino gli scarafaggi, sono semplicemente alle prese col fango, facendo buchi e mucchietti.

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Le persone che hanno un buon kamma mondano hanno l’intelligenza per riuscire nel mondo. Ma per quanto possano avere buoni risultati, vivono pur sempre nel mondo. Tutte le cose che fanno sono mondane e hanno dei limiti, come lo scarafaggio che gratta via la terra. Il buco può essere profondo, ma è nella terra. Il mucchietto di terra può essere alto, ma non è che fango. Riuscire, ottenere un sacco di cose, non è che riuscire e ottenere nel mondo.

Vi prego di capirlo e di cercare di sviluppare il non attaccamento. Se non guadagnate molto, siate contenti, comprendendo che è solo mondano. Se guadagnate molto, comprendete che è solo mondano. Contemplate queste verità e non siate distratti. Vedete entrambi i lati delle cose, non fermatevi su un lato. Quando qualcosa vi piace, trattenete una parte di voi, perché il piacere non durerà. Quando siete felici, non buttatevi totalmente da quella parte, perché presto vi troverete dalla parte opposta nell’infelicità.

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Il Giusto Controllo del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2003. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Traduzione di Silvana Ziviani.

. . . PONI SOTTO CONTROLLO E FAI ATTENZIONE alle sei facoltà dei sensi: dell’occhio che vede le forme, dell’orecchio che ode i suoni, e così via. Questo è ciò che andiamo insegnando instancabilmente e in vari modi. Questo è sempre il punto su cui tornare. Cerchiamo di essere sinceri con noi stessi: siamo veramente consapevoli di quello che accade? Quando l’occhio vede qualcosa, vi è piacere? Indaghiamo realmente su ciò? Se investigassimo, scopriremmo che è proprio questo piacere che causa sofferenza. Anche l’avversione è fonte di sofferenza. In pratica queste due reazioni hanno lo stesso effetto. Indagando possiamo vederne i difetti. Se c’è piacere, va visto solo come piacere. Se c’è avversione va vista soltanto come avversione. Questo è il modo per domarle.

Per esempio, di solito diamo molta importanza alla testa. Nella nostra cultura, da quando nasciamo, ci viene insegnato che la testa è di estrema importanza. Se qualcuno la tocca o la colpisce, siamo pronti a morire. Se qualcuno ci batte su altre parti del corpo non ne facciamo una tragedia, ma data l’importanza speciale che diamo alla testa, se qualcuno la tocca ci arrabbiamo per davvero.

La stessa cosa riguardo ai sensi. Il rapporto sessuale eccita la mente della gente, ma in realtà non è molto diverso dal mettere le dita nel naso. Mettere le dita nel naso vi pare qualcosa di speciale? Tuttavia gli esseri viventi hanno questa propensione verso l’altra "entrata"; sia essa animale o umana, le danno un’importanza tutta speciale. Se è un dito che si introduce nel naso, nessuno si eccita per questo, però la sola vista di quell’altra ci infiamma. Perché? Questo è il divenire. Se non vi attribuiamo troppa importanza, corrisponde a mettere un dito nel naso. Qualsiasi cosa avvenga lì dentro, non vi eccitate; semplicemente ne tirerete fuori del muco e tutto finisce lì.

Ma quanto è lontano il vostro pensiero da questo modo di percepire? La normale, semplice verità è tutta qui. Se vediamo in questo modo, non creiamo alcun ‘divenire’, e senza il ‘divenire’ non avremo alcuna rinascita: non ci sarà felicità o sofferenza, non ci sarà piacere. Quando vedremo quella parte per ciò che è, non ci sarà un avido attaccamento... ma gli esseri con una visione mondana vogliono mettervi sopra qualcosa. Questo è ciò che vogliono. Vogliono avere a che fare con un posto sporco. Avere a che fare con un posto pulito non è interessante, per cui corrono lì veloci. E non devono neppure essere pagati per farlo!

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Per favore, consideratelo bene. La gente si lascia invischiare da una realtà che è solo convenzionale. Questo è un punto importante, su cui dobbiamo praticare. Se contempliamo i buchi del naso, delle orecchie e del resto, vediamo che sono tutti uguali: solo orifizi pieni di sostanze sporche. Ce ne sono di puliti? Perciò vanno considerati alla luce del Dhamma. E’ qui che bisogna aver paura, non altrove. E’ qui che gli esseri umani perdono la testa!

Proprio questa è una causa, un punto basilare per la pratica. Non credo che ci sia bisogno di porre un’infinità di domande o analizzare più di tanto. Il guaio è che non prestiamo abbastanza attenzione a questo aspetto.

Talvolta vedo dei monaci che partono muniti di un grande glot (ombrello con zanzariera), e che vanno di qua e di là sotto il sole, vagando in tutto il paese. Quando li osservo, penso quanto deve essere faticoso.

“Dove stai andando?”

“Sto cercando la pace”.

Non posso dar loro alcuna risposta. Non so dove potrebbero trovarla. Non li critico; anch’io sono stato così. Cercavo la pace, sempre pensando che fosse in qualche altro posto. Be’, in un certo senso era vero. Quando andavo in qualcuno di questi luoghi, mi sentivo un po’ meglio. Sembra che tutti siamo così!. Pensiamo sempre che la pace e il benessere si trovino altrove. Una volta mentre stavo viaggiando, vidi il cane della casa dei Pabhakaro. Avevano un grosso cane, e gli volevano molto bene. Lo tenevano quasi sempre fuori. Gli davano da mangiare all'esterno e dormiva sempre all’aperto, ma certe volte voleva entrare, per cui cominciava a grattare alla porta e ad abbaiare. Questo dava fastidio al proprietario che lo faceva entrare e poi richiudeva la porta. Il cane gironzolava un po’ per casa, poi si stancava e voleva uscire di nuovo: ritornava alla porta, grattando e abbaiando. Il proprietario si rialzava e lo faceva uscire. Per un po’ era felice di stare fuori, poi però voleva rientrare, abbaiando alla porta.

Quando stava fuori, gli pareva che stare dentro fosse meglio. Quando era dentro per un po’ si divertiva ma poi, annoiato, voleva uscir fuori. La mente della gente è così, come quella dei cani. Sono sempre dentro e fuori, qui e là, senza capire quale è il luogo dove possono essere felici.

Se fossimo consapevoli di essere così, allora cercheremmo con ogni sforzo di calmare qualsiasi pensiero o sensazione sorgesse nella mente, riconoscendo che sono soltanto dei pensieri e delle sensazioni. E’ importante vedere come ci attacchiamo spasmodicamente ad essi.

Perciò, anche se viviamo in un monastero, siamo molto lontani dalla giusta pratica, molto lontani! Quando sono andato all’estero ho visto un bel po’ di cose. La prima volta ne trassi una certa saggezza per un verso e la seconda volta per un altro verso. Nel mio primo viaggio, presi nota di ciò che sperimentavo in un diario. Ma la

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seconda volta ho tralasciato di scrivere. Pensai: la mia gente sarà in grado di comprendere le cose che scrivo?

Viviamo nel nostro Paese e non ci sentiamo perfettamente a nostro agio. Quando qualche thailandese va all’estero pensa di avere avuto un buon kamma per esserci potuto andare; ma andando per un breve periodo in un posto estraneo, dovreste chiedervi se siete veramente in grado di stare alla pari con chi vi ha vissuto per generazioni. Invece andiamo e pensiamo che sia fantastico, e che siamo persone veramente fortunate ad avere un kamma così buono. I monaci stranieri sono nati là, e ciò significa che hanno un kamma migliore del nostro? Queste sono le idee che la gente coltiva a causa dell’attaccamento e della bramosia. Significa solo che quando la gente entra in contatto con le cose, si eccita. A loro piace essere eccitati. Ma quando la mente è eccitata non è in uno stato normale. Vediamo cose che non abbiamo visto e sperimentiamo cose che non abbiamo sperimentato ed è così che si diventa anormali.

Sul piano della conoscenza scientifica, riconosco che gli occidentali sono avanzati, ma per quanto riguarda la conoscenza buddhista, ho qualcosa da dir loro. Ma certamente per quanto riguarda la scienza e lo sviluppo materiale non possiamo competere con loro…

Alcuni hanno un sacco di difficoltà e sofferenza, ma continuano a fare le stesse cose che li fanno soffrire. Sono quelli che non si decidono a praticare e a farla finita con questo disagio; sono quelli che non vedono chiaramente. La loro pratica non è ferma e continua. Quando sorgono sensazioni buone o cattive, non capiscono cosa sta succedendo. “Respingo tutto ciò che non mi piace” e “Accetto tutto ciò che mi piace": questa è l’opinione (presunzione) del bramino. . Per esempio, alcune persone sono veramente facili da trattare se dite cose per loro piacevoli. Ma quando dite qualcosa con cui non sono d’accordo, allora diventa molto difficile. Questo è il massimo della presunzione (ditthi). Sono pieni di attaccamento e pensano che sia realmente un bene essere coerenti con esso.

Perciò sono pochi quelli che percorrono questa strada. E la stessa cosa accade a noi che viviamo qui: pochi hanno una retta visione, Samma ditthi. E così contempliamo il Dhamma e pensiamo che non sia giusto. Non siamo d’accordo. Perchè se fossimo d’accordo con esso e sentissimo che è giusto, lasceremmo perdere e abbandoneremmo tutto. Non siamo d’accordo con l’insegnamento e vogliamo vedere le cose in modo differente. Vogliamo cambiare il Dhamma, affinché sia diverso da quello che è. Vogliamo correggere il Dhamma e facciamo del nostro meglio per riuscirci.

Questo viaggio mi ha fatto pensare a molte cose… Ho incontrato alcuni che praticavano yoga. E’ stato molto interessante vedere come riuscivano a prendere tutte quelle posture: se ci provassi io, sicuramente mi slogherei una gamba. Sentono che le loro giunture e i muscoli non vanno bene e così cercano di scioglierli. Hanno bisogno

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di farlo ogni giorno per sentirsi bene. Io però ho pensato che facendo così si stavano procurando parecchio dolore facendo così. Se non lo fanno non si sentono bene, per cui sono costretti all'esercizio quotidiano. A me sembra che si stiano creando dei problemi inutili e che non se ne rendano conto.

La gente è così: prende subito l’abitudine a fare qualcosa. Una volta ho incontrato un cinese. Era da quattro o cinque anni che non si sdraiava per dormire. Stava sempre seduto e si sentiva bene così. Si faceva il bagno una volta all’anno. Eppure il suo corpo era forte e sano. Non aveva bisogno di correre o fare esercizi fisici; se li avesse fatti, probabilmente non si sarebbe sentito bene; perché si era abituato in un altro modo.

Perciò è solo la ripetizione abituale che ci fa sentire bene con certe cose. Possiamo persino aumentare o diminuire i disagi di una malattia per mezzo di ripetuti esercizi. E’ così che succede. Perciò il Buddha ci insegnò ad essere completamente consapevoli di noi stessi: non facciamoci sfuggire nulla; cercate di non lasciatevi afferrare dall'attaccamento. Non lasciatevi esaltare dalle cose. Per esempio stiamo bene qui nel nostro Paese, in compagnia dei nostri amici spirituali e dei nostri maestri. In realtà, però non c’è nulla di veramente piacevole in ciò. E’ come quando dei pesciolini vivono in un grande lago: nuotano a loro agio. Se mettessimo un pesce grande in un piccolo stagno, si sentirebbe stretto. Quando stiamo qui, nel nostro Paese, ci sentiamo comodi, con il cibo e la casa che abbiamo e anche con tutto il resto. Se andiamo altrove, ognicosa è diversa, e allora ci sentiamo come il grande pesce nel piccolo lago.

Qui in Thailandia abbiamo la nostra cultura e ci sentiamo soddisfatti quando tutti si comportano secondo le nostre abitudini. Se arriva qualcuno che le sovverte, non ne siamo affatto contenti. Ora siamo pesciolini in un grande lago. Se un grande pesce dovesse però vivere in un laghetto, come si sentirebbe?

Lo stesso avviene per gli abitanti di altri paesi. Quando sono a casa loro e tutto è familiare, si sentono a loro agio, nel loro ambiente: pesciolini in un grande lago. Se vengono in Thailandia e si devono adattare a condizioni e usi diversi, si sentirebbero forse oppressi, come il grande pesce nel piccolo lago. Tutto è diverso: il cibo, il modo di vivere. Ora il grande pesce è andato a finire nel piccolo lago e non può più muoversi liberamente.

Anche le abitudini e gli attaccamenti delle persone variano. Alcuni si attaccano a destra, altri a sinistra. Perciò la cosa migliore per noi è essere consapevoli. Essere consapevoli delle consuetudini ovunque si vada. Se pratichiamo la consuetudine del Dhamma, ci adatteremo facilmente agli usi della società, sia all’estero che a casa. Se invece non capiamo le consuetudini del Dhamma, allora non sapremo come cavarcela. Le consuetudini del Dhamma sono il punto di incontro di tutte le culture e tradizioni.

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Ho udito le parole del Buddha che diceva: “Quando non capite il linguaggio di qualcuno, quando non capite il loro modo di parlare, quando non capite il loro modo di agire in quel Paese, non dovreste mostrarvi altezzosi e darvi delle arie”. Posso affermare per esperienza che queste parole sono il giusto modello a cui attenersi sempre e ovunque. Mi ritornarono in mente quando stavo viaggiando all’estero e le ho messe in pratica in questi due anni in cui sono stato fuori dal mio paese. Sono molto utili.

Prima mi aggrappavo strettamente, ora mi aggrappo ma non così forte. Prendo su qualcosa per guardarlo, poi lo poso. Prima prendevo su le cose e le trattenevo. Le tenevo strette. Ora le tengo, ma non strette. Perciò dovete permettermi di parlarvi duramente o arrabbiarmi con voi, perché lo faccio “tenendo ma non stringendo”, prendendo su e poi lasciando andare. Vi prego di tenere sempre presente questa considerazione.

Se comprendiamo il Dhamma del Buddha potremo essere veramente felici e contenti. Per questo apprezzo gli insegnamenti del Buddha e pratico per unificare le due usanze: quella del mondo e quella del Dhamma.

Durante questo viaggio ho compreso qualcosa che vorrei condividere con voi. Ho sentito che avrei fatto qualcosa di benefico, benefico per me, per gli altri e per l’insegnamento; benefico per la gente in generale e per il nostro sangha, per ognuno di voi. Non sono andato per turismo, non sono andato a visitare altri paesi solo per curiosità. Sono andato per un giusto scopo, per me e per gli altri, per questa vita e per la prossima, per lo scopo ultimo. Quando si arriva a ciò, tutto diventa uguale. Chi ha saggezza vedrà le cose proprio così.

Chi ha saggezza cammina sempre sulla via giusta, trovando un significato per il suo andare e venire. Vi darò un’analogia. Andando in qualche posto potreste incontrare una persona cattiva. In questo caso, alcuni reagirebbero con avversione. Ma uno che ha il Dhamma se incontra una tale persona, pensa “Ho trovato il mio maestro”. Attraverso di quella, si può capire com’è una persona buona. Anche quando si incontra una persona buona, si trova un maestro, perché essa fa capire com’è una persona cattiva.

E’ bene vedere una bella casa, e allora potremo capire com’è una brutta casa. E’ bene vedere una brutta casa, e allora potremo capire com’è una bella. Quando c’è il Dhamma, non scartiamo alcuna esperienza, neanche la più banale (in questo modo non scartiamo neanche una piccola parte del Dhamma). Perciò il Buddha disse: “O Bhikkhu, considerate questo mondo come un carro reale, ornato e ingioiellato, da cui gli sciocchi vengono incantati, ma che non ha alcuna importanza per il saggio.”.

Quando stavo studiando il Nak Tam Ek (livello basilare dello studio del Dhamma), spesso riflettevo su questo detto. Mi sembrava molto utile. Ma solo quando cominciai a praticare, il suo significato mi divenne chiaro. “O Bhikkhu”: si rivolge a tutti noi seduti qui. “considerate questo mondo”: il mondo umano, l’akasaloka, i mondi degli

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esseri senzienti, tutti i mondi. Se uno conosce chiaramente il mondo, non c’è bisogno di fare nessuna meditazione speciale. Se uno sa che “il mondo è così”, secondo la realtà, non avrà bisogno di nient’altro. Il Buddha conosceva chiaramente il mondo. Conosceva il mondo per quello che era realmente. Conoscere il mondo chiaramente, è conoscere i livelli più sottili del Dhamma e dal mondo non essere più invischiati o preoccupati. Non saremo più influenzati dai dhamma mondani, perchè non ci saranno più.

Gli esseri con una visione mondana sono governati dai dhamma terreni e sono sempre in uno stato di conflitto (perchè sono vie sempre in conflitto).

Perciò qualunque cosa troviamo o vediamo, la dobbiamo contemplare attentamente. Ci dilettiano della vista, dei suoni, degli odori, dei gusti, delle sensazioni tattili e delle idee. Ora vi chiedo di contemplare tutto ciò. Voi sapete cosa è. Sono le forme che l’occhio vede, come per esempio quelle di uomini o di donne. Certamente sapete anche cosa sono i suoni, e così pure gli odori, i gusti e il contatto fisico. Poi ci sono le impressioni mentali e le idee, perchè ogni volta che abbiamo un contatto attraverso i sensi fisici, sorge anche un’attività mentale. Tutto converge qui.

Possiamo camminare un intero anno o un’intera vita insieme al Dhamma senza comprenderlo. Ci viviamo insieme tutta la vita senza conoscerlo. I nostri pensieri vanno troppo lontano. I nostri scopi sono troppo grandi; desideriamo troppo. Per esempio, un uomo vede una donna o una donna vede un uomo. I due provano un grande interesse. Perché gli diamo troppa importanza. Quando vediamo una persona attraente del sesso opposto tutti i nostri sensi ne vengono coinvolti. Vogliamo vedere, sentire, toccare, osservarne i movimenti, insomma fare ogni sorta di cose. Ma se ci sposiamo, vediamo che non è poi una gran cosa. Dopo un po’ sentiremmo forse il bisogno di mettere una certa distanza tra noi due (perfino farsi monaco!), ma non possiamo.

E’ come un cacciatore che insegue un cervo. Quando vede il cervo, è tutto eccitato. Tutto quello che riguarda il cervo lo interessa, le orecchie, la coda, tutto. Il cacciatore è completamente su di giri. Il suo corpo è leggero e vigile. Ha paura soltanto che il cervo scappi.

La stessa cosa quando un uomo vede una donna che gli piace, o una donna vede un uomo: ogni cosa è così eccitante: la vista, la voce... ci fissiamo talmente su questo che nessuno può distoglierci, pensiamo e guardiamo quanto più possiamo fino al punto che il nostro cuore ne è dominato interamente. Proprio come il cacciatore che quando vede il cervo è eccitato e si preoccupa che l'animale non lo veda. Tutti i suoi sensi sono all’erta, e da questo ricava un gran piacere. Il suo solo timore è che il cervo scappi, ma cosa sia il cervo veramente, lui non lo sa. Lo insegue, alla fine gli spara e lo uccide. Il suo lavoro è finito. Raggiungendo il posto dove la bestia è caduta, la guarda: “Oh, è morta!”. Ora non è più eccitato: c’è solo della carne morta. Forse si cuocerà un po’ di carne e la mangerà, poi avrà la pancia piena e non saprà che altro

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fare. Osservando le varie parti del cervo non è più eccitato a quella vista. L’orecchio è solo un orecchio. Tira la coda ed è solo una coda. Ma quando era vivo, ah che roba! Allora non era indifferente. Vedere il cervo, osservarne ogni movimento, era completamente avvincente ed emozionante, non poteva neanche pensare di andarsene.

Siamo anche noi così, vero? La forma di una persona attraente dell’altro sesso è così. Fino a che non l’abbiamo catturata, la vediamo incredibilmente bella. Ma se finiamo per viverci insieme, ce ne stanchiamo. Come il cacciatore che ha ucciso il cervo e ora può liberamente toccarne le orecchie o tirargli la coda. Non ne rimane un granché, nessun eccitamento una volta che l’animale è morto. Quando ci sposiamo possiamo appagare i nostri desideri, ma non è più una gran cosa e finiamo per cercare una via d’uscita.

Questo perché non consideriamo le cose da tutti i punti di vista. Credo che se contemplassimo veramente, non ci troveremmo un granché, non molto di più di ciò che ho appena descritto. Il fatto è che noi ingrandiamo le cose più di quanto non siano in realtà. Quando vediamo un corpo, sentiamo che saremmo in grado di consumarne tutte le parti, le orecchie, gli occhi, il naso… Dal modo sfrenato in cui corrono i nostri pensieri, ci facciamo persino l’idea che quella persona, da cui siamo attratt,i non debba neanche cacare. Non lo so, ma può darsi che la pensino così in Occidente… ci facciamo l’idea che non faccia la cacca, o forse solo un po’… Vogliamo mangiarci tutto. Diamo troppa importanza: non è una cosa realistica! E’ come un gatto che si avvicina furtivamente a un topo. Prima di prenderlo, il gatto è vigile e concentrato. Quando gli balza addosso e lo uccide perde ogni entusiasmo. Il topo giace lì morto, e il gatto non sente più alcun interesse e se ne va per la sua strada.

E’ tutto qui. L’immaginazione rende la cosa più grande di quello che è. E’ qui che ci roviniamo, a causa della nostra immaginazione. A proposito della sensualità, i monaci qui devono dominarsi più degli altri. Kama significa concupiscenza, ma in questo contesto significa desiderare le cose che ci attirano, significa sensualità. E’ difficile liberarsene.

Quando Ananda chiese al Buddha: “Quando il Tathagata sarà entrato nel Nibbana, come praticheremo la consapevolezza? Come dovremo comportarci con le donne? Che è un argomento così estremamente difficile. Come ci consiglia il Venerabile di praticare la consapevolezza a questo proposito?”.

Il Buddha replicò: “Ananda! E’ meglio che tu non veda affatto le donne.” Ananda ne fu sorpreso; come è possibile non vedere gli altri? Ci pensò su poi chiese di nuovo al Buddha: “Se si presentano dei casi in cui è impossibile evitare di vederle, come ci consiglia di praticare, il Venerabile?”

“In questi casi, Ananda, non parlare. Non parlare!”

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Ananda considerò la risposta, ma pensò ‘Talvolta ci capita di camminare in una foresta e perdere la strada. In questo caso dobbiamo parlare con chiunque ci capiti di incontrare’. Perciò chiese: “Se c’è assoluto bisogno di parlare, come pensa il Venerabile che dobbiamo agire?”

“Ananda! Parla con consapevolezza!”

Sempre e in ogni situazione, la consapevolezza è la virtù di gran lunga più importante. Il Buddha istruì Ananda su come comportarsi in caso di necessità. Anche noi dovremmo contemplare cosa dobbiamo fare in un tal caso. Quando la mente è in uno stato impuro, e ha pensieri lascivi, non parlate affatto. Ma noi di solito non agiamo così. Anzi, più la mente è impura più vogliamo parlare. Più la mente è lasciva, più vogliamo fare domande, guardare, parlare. Sono due strade incompatibili.

Perciò ho paura, ho veramente una gran paura. Voi non siete spaventati, ma è possibile che stiate peggio di me. “Non ho alcuna paura su questo punto. Non ci sono problemi!” Per me è necessario rimanere con la paura. Capita mai che un vecchio sia lascivo? Comunque a scanso di equivoci, nel mio monastero io tengo i due sessi il più possibile separati. A meno di una stretta necessità, non ci dovrebbe essere alcun contatto tra di loro.

Quando praticavo da solo nella foresta, talvolta vedevo delle scimmie che copulavano sugli alberi, e sentivo nascere il desiderio. Allora mi sedevo li a guardare e pensare, e sentivo la lascivia: “Non sarebbe un male andare da loro, essere una scimmia come loro!” Ecco cosa può fare il desiderio sensuale: perfino una scimmia lo può suscitare.

In quei giorni, le donne laiche non potevano venire a sentire il Dhamma da me. Avevo troppa paura di quello che avrebbe potuto succedere. Non è che avessi qualcosa contro di loro; semplicemente mi sentivo troppo insensato. Ora se parlo alle donne, parlo a quelle più anziane. Devo sempre stare in guardia. Ho fatto esperienza di quanto sia pericoloso per la mia pratica. Mentre parlavo non aprivo troppo gli occhi e non mi agitavo per intrattenerle. Avevo troppa paura di agire in quel modo.

State attenti! Ogni samana si trova ad affrontare questa situazione e deve esercitare il controllo. E’ una cosa molto importante.

… se non fosse possibile, ma tutto è possibile. Veramente, tutti gli insegnamenti del Buddha sono sensati e veri sotto ogni punto di vista. Ci sono cose che mai avreste immaginato che fossero come in realtà sono. E’ strano… All’inizio non riponevo nessuna fiducia nel fatto di sedere a occhi chiusi in meditazione. Mi chiedevo che valore potesse mai avere, a che scopo uno lo faceva? Poi c’era la meditazione camminata: camminavo da un albero all’altro, avanti e indietro, avanti e indietro, e mi annoiavo e allora pensavo: ‘ma che cammino a fare? Camminare avanti e indietro non ha nessun senso.’ E’ così che pensavo. Invece la meditazione camminata è molto importante. Sedere a praticare samadhi ha molta importanza. Ma certe volte ci sono

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alcuni temperamenti che hanno le idee confuse a proposito della meditazione seduta o camminata.

Non possiamo meditare sempre in una sola postura. Ci sono quattro posture: in piedi, in movimento, seduti e distesi. Gli insegnamenti parlano di rendere le posture armoniose e uguali. Da ciò potreste ricavare l’idea che uno dovrebbe stare in piedi, camminare, sedere o giacere per un uguale numero di ore nella stessa postura. Quando sentite questi insegnamenti, non riuscite a capire cosa vogliano dire, perché usano il linguaggio del Dhamma, non il linguaggio ordinario. “Va bene, starò seduto per due ore, starò in piedi per due ore, poi mi sdraierò per due ore…” Forse pensate che dovreste fare così. E’ quello che ho pensato anch’io. Ho cercato di praticare in quel modo, ma non ho risolto nulla.

Questo capita perché non si ascolta nel modo giusto, si travisano le parole, udendo semplicemente il loro suono. “Rendere le posture uguali” si riferisce alla mente, e a nient’altro. Significa rendere la mente luminosa e chiara in modo che nasca la saggezza, che vi sia la conoscenza di tutto ciò che avviene in ogni postura e in ogni situazione. In qualsiasi postura siate, conoscete i fenomeni e gli stati mentali per quello che sono: impermanenti, insoddisfacenti e impersonali. La mente rimane stabile in questa consapevolezza, continuamente e in ogni postura. Quando la mente sente avversione, quando sente attrazione, non perdete la strada, ma riconoscete queste condizioni per quello che sono. La consapevolezza è ferma e continua; lasciate andare con determinazione e continuità. Non vi fate ingannare dalle condizioni buone. Non vi fate ingannare dalle condizioni cattive. Rimanete sulla retta via, la vostra è una retta pratica. Questo è ciò che si intende per “rendere le posture uguali”. Si riferisce all’interno non all’esterno; si parla della mente.

Se con la mente rendiamo le posture uguali, quando veniamo lodati, non ci sentiamo esilerati. Quando veniamo calunniati non ce la prendiamo. Non andiamo su e giù a causa loro, ma rimaniamo fermi dove siamo. E perché? Perché vediamo il pericolo insito in queste cose. Lo vediamo sia nella lode che nel biasimo e siamo stabilmente consapevoli di esso come insito nei fenomeni buoni e in quelli cattivi. Questo significa rendere le posture uguali. Manteniamo continuamente questa consapevolezza interiore sia che osserviamo fenomeni interni che esterni.

Nel modo usuale di sperimentare le cose, abbiamo una reazione positiva quando qualcosa ci sembra buono e una reazione negativa quando ci sembra cattivo. In tal modo le posture non sono uguali, armoniche. Se sono armoniche è perché abbiamo sempre consapevolezza. Sappiamo quando ci attacchiamo alle cose buone o a quelle cattive; questa è la cosa migliore. Anche se ancora non possiamo lasciar andare, siamo sempre consapevoli di questi stati mentali. Se siamo continuamente consapevoli di noi stessi e dei nostri attaccamenti, arriviamo a capire che tutto questo aggrapparsi non può essere la Via. Lo sappiamo, ma cinquanta volte su cento, non riusciamo a lasciare la presa. Però, anche se non siamo in grado di lasciare andare, capiamo che il lasciar andare ci porterebbe pace. Vediamo i difetti e il pericolo nelle

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cose piacevoli e spiacevoli, nella lode e nel biasimo, con una continua consapevolezza.

Perciò cerchiamo di rimanere sempre consapevoli sia quando veniamo lodati che quando veniamo criticati. La gente ‘normale’ quando viene criticata o calunniata, non lo sopporta; si sente profondamente ferita. Quando vengono lodati, invece, si sentono contenti e eccitati. Nel mondo è una cosa naturale. Ma chi sta praticando sa che dove c’è lode c’è pericolo, e anche dove c’è biasimo c’è pericolo. Sa che attaccarsi a uno dei due porta cattivi risultati. Sono tutti nocivi se ci attacchiamo ad essi e diamo loro importanza. Quando abbiamo questo tipo di presenza mentale conosciamo i fenomeni man mano che accadono. Sappiamo che se sviluppiamo attaccamento ad essi, ci sarà una vera sofferenza. Se non abbiamo presenza mentale, allora ci aggrappiamo a tutto quello che crediamo buono o cattivo, ed ecco nata la sofferenza. Se invece facciamo attenzione, vediamo questo attaccamento; vediamo come ci teniamo aggrappati a ciò che è buono o cattivo, e come ciò causa sofferenza. All’inizio ci afferriamo alle cose, ma poi con la consapevolezza ne vediamo i difetti. E come avviene? Proprio perché attaccandoci freneticamente sperimentiamo sofferenza e conseguentemente cercheremo una via d’uscita per essere liberi. Ci chiediamo così: “Cosa devo fare per essere libero?”.

L’insegnamento buddhista ci dice di non aggrapparci, di non tener stretto nulla. Ma noi non lo capiamo completamente. Il punto è di tenere, ma non stretto, di tenere senza attaccamento, di stringere senza attaccamento. Per esempio, vedo davanti a me questo oggetto. Sono curioso di sapere cos’è, perciò lo raccolgo e lo guardo: è una torcia. Ora lo posso mettere giù. Questo è tenere, ma non stretto. Se ci dicessero di non aggrapparci completamente a niente, che cosa potremmo fare? Non sapremmo cosa fare. Penseremmo che non dobbiamo praticare la meditazione seduta o camminata. Perciò all’inizio dobbiamo tenere e stringere, ma senza forte attaccamento. Potreste dire che si incomincia con tanha, che finirà per diventare parami. Per esempio siete venuti a Wat Pah Pong; prima di farlo, dovete aver avuto il desiderio di farlo. Se non aveste avuto desiderio non sareste venuti. Possiamo dire che siete venuti a causa del desiderio: è come aggrapparsi. Poi andrete via: è come non attaccarsi. E’ un po’ come quando uno non è sicuro di un certo oggetto, lo tira su, lo osserva un secondo e lo rimette giù. Questo è tenere senza aggrapparsi, o più semplicemente conoscere e lasciar andare. Prendere su per osservarlo, conoscerlo e lasciarlo andare; conoscere e rimetterlo giù. Le cose potrebbero essere buone o cattive ma voi le conoscete soltanto e le lasciate andare. Siete consapevoli di tutti i fenomeni, buoni e cattivi, e li lasciate andare. Non vi afferrate ad essi con ignoranza. Li tenete con saggezza e poi li rimettete giù.

In questo modo le posture possono essere eque e armoniose. Significa che la mente è capace, la mente è consapevole e da qui nasce la saggezza. Quando la mente ha saggezza, cosa ci può essere di più? Prende le cose senza nuocere, non si tiene aggrappata strettamente, le conosce e le lascia andare. Quando sentiamo un suono,

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pensiamo: “il mondo dice che è una cosa buona” e lo lasciamo andare. Il mondo potrebbe dire “E’ una cosa cattiva” ma noi lo lasciamo andare lo stesso. Conosciamo il bene e il male. Chi non conosce il bene e il male, vi si attacca e ne ottiene solo sofferenza. Chi ha la conoscenza, non ha questo tipo di attaccamenti.

Poniamo la domanda: a che scopo viviamo? Cosa vogliamo ottenere dal nostro lavoro? Viviamo in questo mondo, ma a che scopo ci viviamo? Lavoriamo: ma cosa vogliamo ottenere dal lavoro? Nella concezione mondana, uno lavora perché vuole ottenere alcune cose e considera questo atteggiamento una sequenza logica di causa e effetto. Ma l’insegnamento del Buddha va oltre. Ci dice: fate il vostro lavoro senza desiderare nulla. A livello mondano facciamo una cosa per ottenerne un’altra, facciamo questo per ottenere quello, facciamo sempre qualcosa per ottenere qualcos’altro. Questo è il modo di agire a livello mondano. Il Buddha ci ha detto “lavorate per amore del lavoro, senza volere null’altro.” Ogni volta che lavoriamo con il desiderio di ottenere qualcosa, soffriamo. Controllatelo voi stessi.

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Liberi dal dubbio del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Dal libro "Everything Is Teaching Us" Traduzione di Chandra Livia Candiani.

La tranquillità è stabilità; il flusso è saggezza. Pratichiamo la meditazion per calmare la mente e renderla stabile; allora, può fluire.

STARE O ANDARE NON È IMPORTANTE; importante è il nostro pensiero. Lavorate, dunque, insieme, collaborate e vivete in armonia. Questo dovrebbe essere il lascito da creare qui a Wat Pah Nanachat Bung Wai, il Monastero internazionale della Foresta del distretto di Bung Wai. Non lasciate che diventi Wat Pah Nanachat Wun Wai, il Monastero internazionale della Foresta per la Confusione e il Disagio [Uno dei giochi di parole preferiti da Ajahn Chah]. Chiunque venga a stare qui dovrebbe collaborare a creare questo lascito.

Tutti vogliamo riuscirci, ma in qualche modo ancora non ce la facciamo; le nostre capacità non sono abbastanza mature. Le nostre pāramī (perfezioni spirituali) non sono perfette. E’ come un frutto che sta ancora maturando sull’albero. Non potete forzarlo a essere dolce, non è ancora maturo, è piccolo e aspro, semplicemente perché non ha ancora finito di crescere. Non potete costringerlo a essere più grosso, a essere dolce, a essere maturo, dovete lasciarlo crescere secondo la sua natura. Col passare del tempo e il mutare delle condizioni, le persone possono giungere alla maturità spirituale. Col passare del tempo, il frutto crescerà, maturerà e si farà dolce spontaneamente. Con questo atteggiamento, potete sentirvi a vostro agio. Ma se siete impazienti e insoddisfatti, continuate a chiedere: "Perché questo mango non è ancora dolce? Perché è aspro?" E’ aspro perché non è ancora maturo. Così è la natura del frutto.

Così sono le persone nel mondo. Mi viene in mente l’insegnamento del Buddha sui quattro tipi di loto. Alcuni sono immersi nel fango, alcuni sono cresciuti fuori dal fango, ma sono sott’acqua, altri sono sulla superficie dell’acqua e altri ancora sono saliti fuori dall’acqua e sono sbocciati. Il Buddha era capace di trasmettere i suoi insegnamenti a tanti esseri così diversi perché capiva i differenti livelli del loro sviluppo spirituale. Dovremmo pensarci e non sentirci angustiati per quel che accade qui. Considerate voi stessi come qualcuno che vende una medicina. E’ vostra responsabilità pubblicizzarla e metterla a disposizione. Se qualcuno si ammala, è

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probabile che venga e la compri. Allo stesso modo, se le qualità spirituali delle persone maturano a sufficienza, un giorno probabilmente svilupperanno la fede. Non è qualcosa a cui possiamo forzarli. Vedendola in questo modo, ci sentiremo bene.

Vivere qui in questo monastero ha certo un senso profondo. Non è privo di benefici. Cercate tutti di praticare insieme in armonia e amicizia. Quando incontrate degli ostacoli o provate sofferenza, ricordate le virtù del Buddha. Qual è la conoscenza realizzata dal Buddha? Cosa insegnò il Buddha? Cosa rivela il Dhamma? Come pratica il Sangha? Ricordarsi costantemente delle qualità dei Tre Gioielli procura un profondo beneficio.

Non è importante se siete tailandesi o venite da altri paesi. E’ importante vivere in armonia e lavorare insieme. Le persone vengono da tutto il mondo per visitare questo monastero. Quando arrivano a Wat Pah Pong, li esorto a stare qui, a visitare il monastero, a praticare. State creando un lascito. E sembra che questo nutra la fede del popolo e lo allieti. Dunque, non dimenticate voi stessi. Dovreste guidare le persone anziché esserne guidati. Fate del vostro meglio per praticare bene e per stabilizzarvi saldamente, e i buoni risultati arriveranno.

Avete ora dei dubbi sulla pratica che desiderate sciogliere?

Domanda: Quando la mente non pensa granché, ma è in uno stato buio e appannato, dovremmo fare qualcosa per ravvivarla? O semplicemente sederci con quello stato?

Ajahn Chah: Ti succede sempre o solo quando siedi in meditazione? Com’è esattamente questa oscurità? E’ mancanza di discernimento?

Domanda: Quando siedo in meditazione, non sono sonnolento, ma la mente è offuscata, è come densa o opaca.

Ajahn Chah: Dunque, vorresti rendere la mente saggia, giusto? Cambia la postura e fai moltissima meditazione camminata. Ecco cosa puoi fare. Cammina per tre ore alla volta, finché ti senti veramente stanco.

Domanda: Faccio la meditazione camminata un paio di ore al giorno, e di solito mentre la faccio, ci sono un sacco di pensieri. Ma quel che mi preoccupa è questo stato di oscurità quando siedo. Devo solo cercare di esserne consapevole o ci sono degli strumenti per contrastarlo?

Ajahn Chah: Penso che forse le tue posture non sono equilibrate. Quando cammini, hai un sacco di pensieri. Dunque, dovresti fare molta contemplazione discorsiva; allora la mente può ritirarsi dal pensiero. Non ci resta bloccata. Ma non preoccuparti. Per ora, aumenta il tempo della meditazione camminata. Concentrati su di essa. E se la mente divaga, falla uscire allo scoperto e pratica una contemplazione, come per esempio l’investigazione del corpo. L’hai mai praticata con continuità anziché come riflessione occasionale? Quando sperimenti questo stato ottenebrato, ne soffri?

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Domanda: Mi sento frustrato a causa del mio stato mentale. Non sto sviluppando né samadhi, né saggezza.

Ajahn Chah: Quando sei in questa condizione mentale, la sofferenza sorge a causa della non conoscenza. C’è dubbio, come per esempio sul perché la mente sia così. Il principio importante in meditazione è qualunque cosa accada, di non dubitare. Il dubbio non fa che accrescere la sofferenza. Se la mente è chiara e sveglia, non dubitarne. Continua a praticare diligentemente senza lasciarti prendere da reazioni a quello stato. Prendi nota e sii consapevole del tuo stato mentale, e non avere dubbi. E’ solo così com’è. Quando nutri dei dubbi e cominci ad aggrapparti a essi e a dargli significato, allora arriva l’oscurità.

Quando pratichi, questi stati sono solo situazioni che incontri durante il percorso. Non hai bisogno di nutrire dei dubbi. Notali con consapevolezza e continua a lasciar andare. C’è sonnolenza? La tua seduta tende di più alla sonnolenza o a uno stato di veglia?

(Nessuna risposta)

Forse è più difficile ritornare alla consapevolezza se eri immerso nella sonnolenza! Se ti succede, medita con gli occhi aperti. Non chiuderli. Piuttosto, focalizza lo sguardo su un punto, come la fiamma di una candela. Non chiudere gli occhi! Ecco un modo per evitare l’ostacolo dell’assopimento.

Quando siedi, puoi chiudere gli occhi di tanto in tanto e se la mente è chiara, priva di torpore, puoi continuare a sedere con gli occhi chiusi. Se è appannata e sonnolenta, apri gli occhi e focalizzati su un punto. E’ simile alla meditazione coi kasiņa. In questo modo, rendi la mente sveglia e tranquilla. La mente sonnolenta non è tranquilla; è oscurata dall’impedimento ed è nel buio.

Bisognerebbe dire qualcosa anche del sonno. Semplicemente, non si può andare avanti senza dormire. E’ la natura del corpo. Se stai meditando e ti sopraffa una sonnolenza intollerabile, estrema, allora dormi. Questo è un modo di domare l’impedimento quando ti sopraffa.

Altrimenti, continua a praticare, con gli occhi aperti, se hai questa tendenza alla sonnolenza. Dopo un po’, chiudi gli occhi e verifica il tuo stato mentale. Se c’è chiarezza, puoi praticare con gli occhi chiusi. Poi, dopo un po’, fai una pausa. Ci sono persone che lottano continuamente contro il sonno. Si costringono a non dormire, e il risultato è che quando siedono sono trascinati dal sonno e non fanno che crollare, sedendo in uno stato inconsapevole.

Domanda: Ci si può concentrare sulla punta del naso?

Ajahn Chah: Va bene. Qualunque cosa ti si confà, con qualunque cosa tu ti senta a tuo agio e ti aiuti a fissare la mente, a focalizzarti, va bene.

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Le cose stanno così: se ci attacchiamo agli ideali, e prendiamo le istruzioni che ci vengono date troppo alla lettera, può diventare difficile comprendere. Quando facciamo una meditazione di base, come per esempio la consapevolezza del respiro, prima di tutto dovremmo essere determinati a fare ora questa pratica, e a fare della consapevolezza del respiro il nostro fondamento. Ci focalizziamo sul respiro in tre punti, quando passa dalle narici, nel torace e nell’addome. Quando l’aria entra, prima di tutto, passa dal naso, poi nel torace, poi, come punto finale, nell’addome. Nel lasciare il corpo, il punto iniziale è l’addome, quello mediano il torace e finale il naso. Semplicemente, lo notiamo. Questo è un modo per cominciare a controllare la mente, ponendo la consapevolezza su questi punti all’inizio, in mezzo e alla fine delle ispirazioni e delle espirazioni.

Prima d’iniziare, dovremmo sederci e lasciare che la mente si rilassi. E’ come cucire a macchina dei vestiti. Quando stiamo imparando a usare la macchina, ci sediamo davanti a essa per conoscerla e metterci a nostro agio. In questo caso, ci sediamo e respiriamo. Senza fissare la consapevolezza su niente in particolare, semplicemente prendiamo nota che stiamo respirando. Notiamo se il respiro è rilassato o no e se è lungo o corto. Dopo averlo notato, cominciamo a focalizzarci sull’inspirazione e l’espirazione nei tre punti.

Pratichiamo così finché diventiamo abili e l’esperienza scorre in modo facile. Lo stadio successivo consiste nel focalizzare la consapevolezza solo sulla sensazione del respiro sulla punta del naso o sul labbro superiore. A questo punto, non ci interessa se il respiro sia lungo o corto, ci limitiamo a focalizzarci sulla sensazione del suo entrare e uscire.

Fenomeni diversi possono entrare in contatto coi sensi o possono sorgere dei pensieri. Lo chiamiamo pensiero iniziale (vitakka). Nella mente emerge un’idea, riguardo la natura dei fenomeni composti (sankhārā), riguardo al mondo o a qualsiasi altra cosa. Una volta che la mente ha fatto sorgere un pensiero, vorrà restarne coinvolta e fondersi con esso. Se è un oggetto salutare, lascia che la mente lo faccia emergere. Se non è salutare, interrompilo immediatamente. Se è salutare, lascia che la mente lo contempli, e nasceranno contentezza, soddisfazione e felicità. La mente sarà luminosa e chiara; mentre il respiro entra ed esce e la mente fa sorgere questi pensieri iniziali. Poi, diventa pensiero discorsivo (vicāra). La mente sviluppa familiarità con l’oggetto, esercitandosi e fondendosi con esso. A questo punto, non c’è sonnolenza.

Dopo un intervallo di tempo appropriato dedicato a questo, riporta l’attenzione al respiro. Mentre continui così, nascerà il pensiero iniziale e poi quello discorsivo. Se contempli in modo appropriato un oggetto, come la natura dei sankhārā, la mente sperimenterà una tranquillità più profonda e nascerà il rapimento. C’è vitakka e vicāra e questo conduce alla felicità della mente. Non ci sarà né annebbiamento, né sonnolenza. Se si pratica così, la mente non sarà buia. Sarà lieta ed estatica.

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Questo rapimento, dopo un po’, comincerà a diminuire e a svanire, dunque puoi far di nuovo emergere il pensiero iniziale. La mente diventerà ferma e salda con esso, priva di distrazioni. Poi, torna di nuovo al pensiero discorsivo, in modo che la mente diventi una con esso. Quando pratichi una meditazione che si confà al tuo temperamento e la pratichi bene, allora ogni volta che fai emergere l’oggetto, sorge il rapimento: i peli del corpo si drizzano e la mente è estatica e soddisfatta.

Quand’è così, non può esserci ottundimento o sonnolenza. Non avrai alcun dubbio. Avanti e indietro tra il pensiero iniziale e quello discorsivo, iniziale e discorsivo, ancora e ancora, e sorge il rapimento. Allora, nasce sukha (la beatitudine).

Questo accade nella pratica seduta. Dopo esserti seduto per un po’, puoi alzarti e fare meditazione camminata. La mente può restare uguale nella camminata. Non è sonnolenta, ha vitakka e vicāra, vitakka e vicāra, e poi il rapimento. Non ci sarà nessuno dei nīvarana e la mente sarà pura. [I nīvarana sono i cinque ostacoli: desiderio, rabbia, irrequietezza e agitazione, indolenza e torpore, dubbio.] Qualunque cosa accada, non preoccuparti; non hai bisogno di dubitare di alcuna esperienza, che sia di luce, di beatitudine o qualsiasi altra cosa. Non nutrire dubbi su queste condizioni della mente. Se la mente è buia, se è luminosa, non fissarti su queste condizioni, non attaccarti a esse. Lascia andare, lasciale da parte. Continua a camminare, continua a notare cosa sta succedendo, senza restarne intrappolato o infatuato. Non soffrire di queste condizioni della mente. Non nutrire dubbi a questo riguardo. Sono solo quel che sono, seguono il corso dei fenomeni mentali. Certe volte, la mente sarà gioiosa. Certe volte triste. Ci può essere felicità o sofferenza; ci può essere impedimento. Anziché dubitare, comprendi che le condizioni della mente sono così; qualunque cosa si manifesti, sta sorgendo perché le cause sono maturate. In questo momento, si manifesta questa condizione; è questo che dovresti riconoscere. Anche se la mente è oscura, non dovresti esserne turbato. Se diventa limpida, non rallegrartene troppo. Non dubitare di queste condizioni della mente, o delle tue reazioni a esse.

Fai la meditazione camminata finché non sei veramente stanco, poi siediti. Quando siedi, determina la mente a sedersi, non divagare. Se ti senti sonnolento, apri gli occhi e concentrati su qualche oggetto. Cammina finché la mente non si separa dai pensieri e si fa silenziosa, allora siediti. Se ti senti chiaro e sveglio, puoi chiudere gli occhi. Se torna di nuovo la sonnolenza, apri gli occhi e osserva un oggetto.

Non cercare di farlo per tutto il giorno e tutta la notte. Quando hai bisogno di dormire, dormi. Come col cibo: una volta al giorno, mangiamo. Arriva il momento e diamo cibo al corpo. Il bisogno di sonno è uguale. Quand’è il momento, riposa. Quando hai riposato a sufficienza, alzati. Non lasciare che la mente languisca nell’annebbiamento, ma alzati e mettiti al lavoro, comincia a praticare. Fai moltissima meditazione camminata. Se cammini adagio e la mente diventa torpida, cammina veloce. Impara a trovare il passo giusto per te.

Domanda: Vitakka e vicāra sono la stessa cosa?

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Ajahn Chah: Sei seduto e all’improvviso il pensiero di qualcuno ti balza in mente, questo è vitakka, il pensiero iniziale. Poi, prendi il pensiero di quella persona e cominci a pensarci dettagliatamente. Vitakka lo prende, vicāra lo investiga. Per esempio, afferriamo l’idea della morte e poi cominciamo a considerarla: "Io morirò, gli altri moriranno, ogni essere vivente morirà; quando moriranno, dove andranno…?" Poi fermati! Fermati e riporta indietro il pensiero. Quando comincia a correre, fermalo di nuovo; e torna alla consapevolezza del respiro. Certe volte, il pensiero discorsivo vagabonderà senza far ritorno, allora devi fermarlo. Fallo, finché la mente non è limpida e chiara.

Se pratichi vicāra con un oggetto che ti si confà, i peli del corpo potrebbero rizzarsi, gli occhi lacrimare, potrebbe nascere uno stato di estremo piacere, e molte altre cose mentre sorge il rapimento.

Domanda: Questo può accadere con qualsiasi tipo di pensiero o succede solo in uno stato di tranquillità?

Ajahn Chah: Accade quando la mente è tranquilla. Non è la comune proliferazione mentale. Siedi con la mente calma e arriva il pensiero iniziale. Per esempio, penso a mio fratello che è appena morto. O penso ad altri parenti. Questo succede quando la mente è tranquilla, la tranquillità non è qualcosa di stabile, ma per il momento la mente è tranquilla. Dopo che è sorto questo pensiero iniziale, entro in quello discorsivo. Se è una fila di pensieri appropriata e salutare, porta ad agio della mente e felicità e c’è rapimento con le esperienze che lo accompagnano. Il rapimento proviene dal pensiero iniziale e discorsivo che hanno luogo in uno stato di calma. Non abbiamo bisogno di dargli nomi, come primo jhāna, secondo jhāna, e così via. La chiamiamo semplicemente tranquillità.

Il fattore successivo è la beatitudine (sukha). Lasciamo cadere il pensiero iniziale e discorsivo, mentre la tranquillità si approfondisce. Perché? Lo stato mentale diventa più raffinato e sottile. Vitakka e vicāra sono relativamente grossolani e svaniscono. Resta solo il rapimento accompagnato da beatitudine e dalla unificazione della mente. Quando raggiunge la sua pienezza, non c’è più niente, la mente è vuota. Questa è la concentrazione di assorbimento.

Non abbiamo bisogno di fissarci o di dimorare in nessuna di queste esperienze. Progrediranno naturalmente da una alla successiva. All’inizio, c’è il pensiero iniziale e discorsivo, il rapimento, la beatitudine e l’unificazione. Poi ci si libera del pensiero iniziale e discorsivo che lasciano il posto al rapimento, alla beatitudine, all’unificazione. Poi viene abbandonato il rapimento, successivamente la beatitudine, e infine restano solo l’unificazione e l’equanimità. Questo significa che la mente diviene sempre più tranquilla e i suoi oggetti costantemente diminuiscono finché non resta altro che unificazione ed equanimità.

Quando la mente è tranquilla e concentrata, può accadere. E’ il potere della mente, lo stato della mente che ha raggiunto la tranquillità. Quand’è così, non c’è alcuna

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sonnolenza. Non può penetrare nella mente; scompare. Per quanto riguarda gli altri impedimenti, come il desiderio sensuale, l’avversione, il dubbio, irrequietezza e agitazione, semplicemente non saranno presenti. Anche se possono continuare a essere latenti nella mente del meditante, in questo stadio non sorgeranno.

Domanda: Dovremmo chiudere gli occhi in modo da escludere l’ambiente esterno o dovremmo invece considerarlo quando lo vediamo? E’ importante tenere gli occhi aperti o chiusi?

Ajahn Chah: Quando siamo all’inizio del nostro addestramento, è importante evitare troppi input sensoriali, dunque è meglio chiudere gli occhi. Non vedendo oggetti che possono distrarci e influenzarci, costruiamo la forza della mente. Una volta che la mente è forte, possiamo aprire gli occhi e qualsiasi cosa vediamo non ci suggestionerà. Non avrà importanza avere gli occhi aperti o chiusi.

Quando riposi, normalmente chiudi gli occhi. Sedere in meditazione con gli occhi chiusi è la dimora di un praticante. Proviamo gioia e ci rilassiamo. E’ una base importante per noi. Ma quando non siamo seduti in meditazione, saremo capaci di avere a che fare con le cose? Sediamo con gli occhi chiusi e questo ci avvantaggia. Quando apriamo gli occhi e lasciamo la meditazione formale, possiamo entrare in contatto con qualsiasi cosa ci capiti. Le cose non ci sfuggiranno di mano. Non ci succederà di non sapere cosa fare. Semplicemente ci occuperemo delle cose. E’ quando ritorniamo a sederci che sviluppiamo una maggiore saggezza.

In questo modo, sviluppiamo la pratica. Quando raggiunge la sua pienezza, avere gli occhi aperti o chiusi, fa lo stesso, non è importante. La mente non cambierà, non devierà. In ogni momento del giorno, mattina, pomeriggio, o notte, lo stato della mente sarà lo stesso. Stiamo fermi. Niente può scuotere la mente. Quando sorge la felicità, riconosciamo: "non è certa", e passa. Sorge l’infelicità e noi riconosciamo: "non è certa", ed è così. Vi viene l’idea di volervi smonacare. Non è certo. Ma pensate che lo sia. Prima, volevate essere ordinati monaci, e ne eravate così sicuri. Ora, siete sicuri di volervi smonacare. E’ tutto incerto, ma non lo vedete a causa dell’oscurità della mente. La mente vi dice delle bugie: "Stando qui, perdo solo il mio tempo." Se vi smonacate e tornate nel mondo, lì non sprecherete il tempo? Non ci pensate. Smonacarsi per andare a lavorare nei campi e nei giardini, per coltivare fagioli o allevare maiali e capre, non è una perdita di tempo?

C’era una volta, un grande stagno pieno di pesci. Col passare del tempo, la piovosità diminuì e lo stagno si abbassò. Un giorno, un uccello si posò in riva allo stagno. Disse ai pesci: "Mi dispiace veramente per voi pesci. Qui avete acqua a sufficienza solo per bagnarvi la schiena. Sapete, che non lontano da qui c’è un grande lago, profondo parecchi metri, dove i pesci nuotano felici?"

I pesci, nelle acque basse dello stagno, sentendo questa notizia, si entusiasmarono. Dissero all’uccello: "Sembra magnifico, ma come facciamo ad arrivare fin là?"

L’uccello rispose: "Nessun problema. Posso trasportarvi nel becco, uno alla volta."

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I pesci discussero tra di loro. "Qui, non è più un granché. L’acqua non arriva nemmeno a ricoprirci la testa. Dobbiamo andarcene." Dunque, si misero in fila, per essere presi dall’uccello.

L’uccello sollevò un pesce. Appena fuori di vista, atterrò e si mangiò il pesce. Poi, tornò allo stagno e disse agli altri: "Il vostro amico in questo momento sta nuotando felice nel lago e chiede quando lo raggiungerete."

Ai pesci sembrava un’idea fantastica. Non vedevano l’ora di andare, quindi iniziarono a spingersi per arrivare in cima alla fila.

L’uccello fece così fuori tutti i pesci. Poi, tornò allo stagno per vedere se ne trovava qualche altro. C’era solo un granchio. L’uccello iniziò con la sua pubblicità del lago.

Il granchio era scettico. Chiese all’uccello come fare per arrivarci. L’uccello rispose che l’avrebbe trasportato nel becco. Ma quel granchio aveva una certa saggezza. Disse all’uccello: "Facciamo così. Mi siederò sulla tua schiena con le zampe introno al tuo collo. Se mi giocherai un tiro, ti soffocherò con le mie chele."

L’uccello si sentì frustrato, ma volle provarci lo stesso, pensando che magari sarebbe riuscito in qualche modo a mangiarsi il granchio. Così, il granchio salì sulla sua schiena e presero il volo.

L’uccello volò intorno, cercando un buon posto su cui atterrare. Ma non appena cercò di scendere, il granchio cominciò a stringergli la gola con le chele. L’uccello non riusciva nemmeno a gridare. Emise solo un suono secco e gracchiante. Così, alla fine, dovette rinunciare e riportare il granchio allo stagno.

Spero che tu abbia la saggezza del granchio! Se sei come i pesci, darai ascolto alle voci che ti dicono che meraviglia sarà far ritorno nel mondo. Questo è un ostacolo che chi ha ricevuto l’ordinazione incontra. Sii accorto.

Domanda: Perché è difficile osservare con chiarezza gli stati mentali spiacevoli, mentre quelli piacevoli è facile osservarli? Quando provo felicità o piacere, riesco a vedere che è qualcosa di impermanente, ma quando sono triste, è più difficile vederlo.

Ajahn Chah: Tu cerchi di risolvere la cosa pensando in termini di attrazione e avversione, ma in realtà è l’illusione la radice predominante. Senti che l’infelicità è difficile da osservare, mentre la felicità è più facile. Questo è solo il modo in cui funzionano le tue afflizioni. L’avversione è difficile da lasciar andare, vero? E’ una sensazione forte. Tu dici che la felicità è facile da lasciar andare. Non è in realtà facile; è solo che non è così schiacciante. Piacere e felicità sono cose che alle persone piacciono e con cui si sentono a loro agio. Non sono facili da lasciar andare. L’avversione è dolorosa, ma le persone non sanno come lasciarla andare. La verità è che sono uguali. Se contempli pienamente e arrivi a un certo punto, riconoscerai ben presto che sono uguali. Se avessi una bilancia per pesarli, vedresti che sono pari. Ma noi tendiamo verso il piacevole.

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Dici che puoi lasciar andare facilmente la felicità, mentre è difficile lasciar andare l’infelicità? Pensi che sia facile rinunciare alle cose che ci piacciono, ma ti chiedi perché è difficile rinunciare a quel che non ci piace. Ma se non sono positive, perché è difficile rinunciarci? Non è così. Ripensaci. Sono identiche. E’ solo che la nostra tendenza verso di esse non è uguale. Quando c’è infelicità, ci sentiamo infastiditi, vogliamo che se ne vada in fretta e così ci sembra che sia difficile liberarcene. Di solito, la felicità non ci infastidisce, dunque ci sentiamo ben disposti e pensiamo di poterla lasciar andare con facilità. Non è così; è solo che non ci opprime e non ci serra il cuore, ecco tutto. L’infelicità ci opprime. Noi pensiamo che una abbia più valore o più peso dell’altra, ma in verità sono pari. E’ come il caldo e il freddo. Il fuoco può bruciarci vivi. Possiamo anche restare congelati dal freddo e morire ugualmente. Uno non è meglio dell’altro. Lo stesso vale per la felicità e la sofferenza, ma col pensiero noi gli diamo un valore diverso.

O considera la lode e la critica. Pensi che la lode sia facile da lasciar andare e la critica no? Sono identiche. Ma quando veniamo lodati, non ci sentiamo turbati; ci fa piacere, ma non è una sensazione chiara. La critica è dolorosa, perciò ci sembra difficile da lasciar andare. E’ difficile anche lasciar andare la lode, ma siamo parziali nei suoi confronti e non abbiamo lo stesso desiderio di liberarcene velocemente. Il piacere che proviamo nell’essere lodati e la frecciata che sentiamo quando veniamo criticati sono uguali. Sono la stessa cosa. Ma quando la mente incontra queste due situazioni, abbiamo nei loro confronti reazioni diverse. Non ci accorgiamo di chiuderci ad alcune.

Cerca di comprendere. Nella nostra meditazione, incontreremo ogni tipo di afflizioni mentali. La prospettiva corretta è di essere pronti a lasciar andare qualsiasi cosa, sia piacevole che dolorosa. Anche se desideriamo la felicità e non desideriamo la sofferenza, riconosciamo che hanno lo stesso valore. Sono cose di cui faremo esperienza.

Nel mondo, le persone aspirano alla felicità. Non desiderano la sofferenza. Il Nibbāna è al di là del desiderarlo o non desiderarlo. Capisci? Non c’è desiderio coinvolto nel Nibbāna. Non c’è il desiderio di felicità, il desiderio di essere liberi dalla sofferenza, il desiderio di trascendere felicità e sofferenza, non c’è nessuna di queste cose. E’ pace.

Io penso che non si realizzi la verità facendo assegnamento sugli altri. Dovresti comprendere che saranno i tuoi sforzi, la pratica continua, energica, a sciogliere tutti i tuoi dubbi. Non saremo liberi dal dubbio chiedendo agli altri. Porremo fine al dubbio solo grazie ai nostri inflessibili sforzi.

Ricordalo! E’ un principio importante nella pratica. E’ quel che fai che ti istruirà. Arriverai a conoscere quel che è giusto e quel che è sbagliato. "Il bramino raggiungerà la fine del dubbio attraverso la pratica incessante." Non importa dove si vada, tutto può essere risolto attraverso i nostri incessanti sforzi. Ma non riusciamo a perseverare. Non tolleriamo le difficoltà; ci è difficile affrontare la nostra sofferenza

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e non scappare. Se la affrontiamo e la sosteniamo, acquisiamo conoscenza e automaticamente la pratica ci istruisce, insegnandoci cosa è giusto e cosa sbagliato e il modo in cui le cose veramente sono. La nostra pratica ci mostrerà gli errori e i risultati negativi del pensiero errato. Succede veramente così. Ma è difficile trovare persone che lo capiscano. Tutti vogliono il risveglio istantaneo. Correndo di qua e di là seguendo i propri impulsi, si finisce in una situazione ancora peggiore. Stai attento.

Ho insegnato spesso che la tranquillità è stabilità; il flusso è saggezza. Pratichiamo la meditazione per calmare la mente e renderla stabile; allora può fluire.

All’inizio, impariamo com’è l’acqua ferma e com’è l’acqua che scorre. Dopo aver praticato per un po’, vediamo come si sostengano a vicenda. Dobbiamo calmare la mente, renderla come l’acqua ferma. Poi essa scorre. Sta ferma e anche scorre: non è facile da contemplare.

Riusciamo a capire che l’acqua ferma non scorre. Capiamo che l’acqua che scorre non è ferma. Ma quando pratichiamo, afferriamo entrambe. La mente di un vero praticante è come acqua ferma che scorre o acqua corrente ferma. Qualsiasi cosa accada nella mente di un praticante del Dhamma è come lo scorrere di acqua ferma. Dire solo che scorre non è corretto. Che è solo ferma nemmeno. Di solito, l’acqua ferma è ferma e l’acqua corrente scorre. Ma quando abbiamo esperienza di pratica, la nostra mente sarà in questa condizione di acqua ferma che scorre.

E’ una cosa che non abbiamo mai visto. Quando vediamo acqua che scorre, semplicemente scorre via. Quando vediamo acqua ferma, non scorre. Ma all’interno della mente, è realmente così: acqua ferma che scorre. Nella pratica del Dhamma, ci sono il samadhi, o tranquillità, e la saggezza mescolate insieme. Abbiamo la moralità, la meditazione e la saggezza. Allora, ovunque sediamo, la mente è ferma e fluisce. Acqua ferma che scorre. Lo stesso vale per la stabilità meditativa e la saggezza, la tranquillità e la visione profonda. Il Dhamma è così. Se hai raggiunto il Dhamma, farai di continuo quest’esperienza. Essere tranquilli e avere saggezza: fluire, ma fermi. Fermi, ma fluire.

Quando questo accade nella mente di chi pratica, è qualcosa di diverso e di strano; è diverso dalla mente ordinaria che abbiamo sempre conosciuto. Prima, quando scorreva, scorreva. Quand’era ferma, non fluiva, era solo ferma, la mente è in questo senso paragonabile all’acqua. Ora, è entrata in una condizione che è simile ad acqua ferma che scorre. Che si sia in piedi, si cammini, si sia seduti o sdraiati, è come acqua che scorre ma è ferma. Rendendo così la mente, c’è sia tranquillità che saggezza.

Qual è lo scopo della tranquillità? A che scopo la saggezza? Hanno l’unico scopo di liberarci dalla sofferenza, nient’altro. Al presente, soffriamo, viviamo con dukkha, senza comprenderlo e perciò attaccandoci a esso. Ma se la mente è come l’ho descritta, allora ci saranno molte forme di conoscenza. Si conoscerà la sofferenza, la causa della sofferenza, la cessazione della sofferenza, e il cammino di pratica per

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raggiungere la fine della sofferenza. Sono le Nobili Verità. Si riveleranno da sole quando la mente è acqua ferma che fluisce.

Quando è così, non importa cosa facciamo, non ci sarà disattenzione; l’abitudine alla negligenza diminuirà fino a scomparire. Qualunque cosa sperimenteremo, non cadremo nella disattenzione, perché la mente aderirà fermamente e naturalmente alla pratica. Avrà timore di perdere la pratica. Continuando a praticare e a imparare dall’esperienza, berremo sempre di più il Dhamma, e la nostra fede continuerà a crescere.

Succede così a chi pratica. Non dovremmo essere quel genere di persone che non fanno che seguire gli altri: se i nostri amici non praticano, anche noi non la facciamo, perché se no ci sentiremmo imbarazzati. Se loro smettono, smettiamo. Se fanno la pratica, la facciamo anche noi. Se l’insegnante ci dice di fare qualcosa, lo facciamo. Se smette, smettiamo. Non è una via molto veloce verso la realizzazione.

Qual è il senso del nostro addestramento qui? E’ che quando restiamo da soli, siamo in grado di portare avanti la pratica. Quindi, ora, mentre viviamo qui insieme, quando al mattino e alla sera ci si riunisce per praticare, veniamo e pratichiamo con gli altri. Costruiamo l’abitudine, cosicché il modo di praticare venga interiorizzato nel cuore, e poi saremo capaci di vivere ovunque e continuare a praticare nello stesso modo.

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Una pace incrollabile del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2004. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Traduzione di Silvana Ziviani.

Il seguente discorso fu informalmente offerto dal Ven. Ajahn Chah a un monaco studioso, venuto a rendergli omaggio.

LA VERA RAGIONE PER STUDIARE IL DHAMMA, gli insegnamenti del Buddha, è quella di trovare un modo per trascendere la sofferenza e realizzare la pace e la felicità. Sia che studiamo i fenomeni fisici o mentali, la mente (citta) o i fattori psicologici (cetasika), siamo sulla retta via solo quando poniamo la liberazione dalla sofferenza come il nostro scopo ultimo. La sofferenza esiste per sue precise cause e condizioni.

Cercate di capire che la mente, quando è tranquilla, si trova nel suo stato naturale, normale. Appena si muove, diventa condizionata (sankhara). Quando la mente è attratta da qualcosa, diventa condizionata. Quando sorge l’avversione, diventa condizionata. Il desiderio di muoversi qua e là nasce dal condizionamento. Se la nostra consapevolezza non riesce a tenere il passo con queste proliferazioni mentali man mano che nascono, la mente si metterà a inseguirle e ne sarà condizionata. Ogni volta che la mente si muove, in quel momento preciso, diventa una realtà convenzionale.

Perciò il Buddha ci ha detto di contemplare queste fluttuanti condizioni mentali. Ogni volta che si muove, la mente diventa instabile e impermanente (anicca), insoddisfacente (dukkha) e non può essere considerata un sé (anatta). Queste sono le tre caratteristiche universali di ogni fenomeno condizionato. Il Buddha ci ha insegnato ad osservare e contemplare questi movimenti della mente.

La stessa cosa vale per l’insegnamento dell’origine dipendente (paticca-samuppada): la comprensione errata (avijja) è la causa e condizione del sorgere delle formazioni volitive kammiche (sankhara); che sono la causa e condizione del sorgere della coscienza (viññana); che è la causa e condizione del sorgere di mente e materia (nama-rupa), e così via per tutta la sequenza che abbiamo studiato nelle Scritture. Il Buddha ha separato ogni anello della catena per rendere più facile lo studio. E’ un’accurata descrizione della realtà, ma quando questo processo avviene per davvero nella vita reale, gli studiosi non sono in grado di tener dietro a quello che succede. E’ come cadere dalla cima di un albero e schiantarsi al suolo. Non abbiamo la più pallida idea di quanti rami abbiamo passato cadendo. Allo stesso modo, quando la

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mente è improvvisamente colpita da un’impressione mentale, se è gradevole, allora si lascia trasportare dal buon umore. La considera buona senza rendersi conto della catena di condizioni che l’hanno resa possibile. Il processo avviene seguendo le linee impostate teoricamente, ma contemporaneamente va oltre i limiti della teoria stessa.

Non c’è niente che ci avverta: “Questa è illusione. Queste sono formazioni volitive kammiche e questa è coscienza”. Il processo non permette allo studioso di seguire l'evento man mano che avviene come si seguirebbero le varie voci di una lista. Sebbene il Buddha abbia analizzato e spiegato la sequenza dei vari momenti mentali dettagliatamente, per me corrisponde più al cadere da un albero. Mentre precipitiamo non abbiamo la possibilità di valutare di quanti metri e centimetri siamo caduti. Quello che sappiamo è che abbiamo toccato terra con un tonfo e che fa male!

Lo stesso vale per la mente. Quando inciampa in qualcosa, ciò che sentiamo è il dolore. Da dove viene tutta questa sofferenza, dolore, angoscia e disperazione? Non viene certo da una teoria scritta in un libro! Non c’è nessun libro in cui vengono scritti i dettagli della nostra sofferenza. Il dolore non corrisponde alla teoria, anche se i due viaggiano insieme sulla stessa strada. Perciò la sola erudizione non può stare al passo con la realtà. Ed è per questo che il Buddha ci ha insegnato a coltivare la chiara comprensione per conto nostro. Qualsiasi cosa nasca, nasce in questa comprensione. Quando colui che conosce, conosce secondo verità, allora la mente e i fattori psicologici vengono riconosciuti come non nostri. Alla fine tutti questi fenomeni devono essere abbandonati e gettati via come se fossero spazzatura. Non dobbiamo attaccarci ad essi e tanto meno dargli importanza.

TEORIA E REALTA’

Il Buddha non ci ha insegnato a guardare la mente e i fattori mentali perché ci attaccassimo ai concetti. La sua sola intenzione era che li riconoscessimo come impermanenti, insoddisfacenti e senza un sé. E poi dobbiamo lasciarli andare. Metterli da parte. Siatene consapevoli e conosceteli nel momento che sorgono. Questa mente è già stata condizionata. E’ già stata addestrata e condizionata a girare su se stessa e a stare lontana da uno stato di pura consapevolezza. Man mano che gira, crea fenomeni condizionati che la influenzano ulteriormente e in tal modo la proliferazione va avanti, producendo il bene, il male e ogni altra cosa sotto il sole. Il Buddha ci ha insegnato a lasciar perdere tutto. All’inizio però dovete familiarizzarvi con la teoria in modo che, in un secondo tempo, sarete in grado di lasciar andare ogni cosa. E’ un processo del tutto naturale. La mente è semplicemente così. I fattori psicologici sono semplicemente così.

Prendete, ad esempio, l’Ottuplice Nobile Sentiero. Quando la saggezza (pañña) vede le cose correttamente attraverso l’intuizione profonda, questa Retta Visione porta a Retta Intenzione, Retta Parola, Retta Azione, e così via. Sono tutte condizioni psicologiche che sorgono da questa pura conoscenza consapevole.Tale conoscenza è come una lampada che illumina il sentiero in una notte buia. Se la conoscenza è

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giusta e corrisponde alla verità, si diffonderà e illuminerà tutti gli altri tratti del sentiero.

Qualunque cosa sperimentiamo, sorge dall’interno di questa conoscenza. Se non esistesse questa mente, non esisterebbe neanche il conoscere. Sono tutti fenomeni della mente. Non c’è un essere, una persona, un sé, un noi. Non c’è un noi né un loro. Il Dhamma è semplicemente il Dhamma. E’ un processo naturale, privo di un sé. Non appartiene a noi né a nessun altro. Non è una cosa. Qualsiasi cosa uno sperimenti fa parte di una delle cinque categorie fondamentali (khanda): corpo, sensazioni, memoria/percezione, pensieri e coscienza. Il Buddha ci ha detto di lasciar andare tutto.

La meditazione è come un bastoncino di legno. La visione profonda (vipassana) è un’estremità del bastoncino e la tranquillità (samatha) l’altra. Se prendiamo in mano un bastoncino, abbiamo solo un’estremità o tutte e due? Quando uno raccoglie un bastone, prende tutte e due le estremità. Qual è vipassana e quale è samatha allora? Dove finisce una e comincia l’altro? Tutte e due sono la mente. All'inizio la mente diviene tranquilla, e la pace le deriva dalla serenità di samatha. Concentriamo e unifichiamo la mente in stati di pace meditativa (samadhi). Tuttavia se la pace e l’immobilità del samadhi scompaiono, al suo posto sorge la sofferenza. Perché? Perché la pace indotta dalla sola meditazione samatha è basata sempre sull’attaccamento. E questo attaccamento può causare sofferenza. Il Buddha vide attraverso la propria esperienza che questo tipo di pace mentale non era quella ultima. Le cause che sottendevano il processo di esistenza (bhava) non erano ancora state portate a cessazione (nirodha): sussistevano ancora le condizioni per la rinascita. Il suo lavoro spirituale non era ancora completo. Perché? Perché c’era ancora sofferenza. Perciò, partendo dalla serenità di samatha, continuò a contemplare, a investigare e ad analizzare la natura condizionata della realtà fino a che si sentì libero da ogni attaccamento, anche da quello alla tranquillità. La tranquillità è sempre parte del mondo dell’esistenza condizionata e della realtà convenzionale. Attaccarsi a questa pace è attaccarsi alla realtà condizionata, e finché ci attacchiamo rimarremo impantanati nell’esistenza e nella rinascita. Godere della pace di samatha porta a ulteriori esistenze e rinascite. Una volta che l’agitazione e l’irrequietezza della mente si calmano, ci si attacca alla pace che ne risulta.

Il Buddha esaminò le cause e le condizioni che sottendono l’esistenza e la rinascita. Fino a che non penetrò completamente il problema e non capì la verità, continuò a sondare sempre più in profondità con la mente calma, riflettendo su come tutte le cose, che siano calme oppure no, vengono all’esistenza. La sua indagine fu portata avanti con decisione fino a quando gli fu chiaro che tutto ciò che viene all’esistenza è come un pezzo di ferro incandescente. Le cinque categorie dell’esperienza umana (khanda) sono pezzi di ferro incandescente. Quando del ferro diventa incandescente, si può forse toccarlo senza bruciarsi? C’è una parte di esso che sia fredda? Provate a toccarlo in cima, ai lati o sotto. C’è anche una minima parte fredda? Impossibile.

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Quel pezzo di ferro arroventato è tutto incandescente. Possiamo attaccarci perfino alla tranquillità. Se ci identifichiamo con quella pace, considerando che c’è qualcuno che è calmo e sereno, ciò rinforza il senso di un sé o anima indipendenti. Questo senso del sé è parte della realtà convenzionale. Pensare: “Sono calmo, sono agitato, sono buono, sono cattivo, sono felice o sono infelice” ci intrappola ulteriormente nell’esistenza e nella rinascita. E’ ulteriore sofferenza. Se la felicità svanisce, allora ci sentiamo infelici. Quando l’angoscia svanisce, siamo di nuovo felici. Presi in questo ciclo infinito, non facciamo che passare continuamente dal paradiso all’inferno.

Prima dell’illuminazione, il Buddha riconobbe che anche il suo cuore seguiva questo modello di comportamento. Seppe così che non erano ancora cessate le condizioni che lo portavano a una continua esistenza e rinascita, quindi il suo compito non era ancora terminato. Concentrandosi sulla condizionalità della vita, la contemplò secondo natura: “A causa di ciò c’è la nascita, a causa della nascita c’è la morte e tutto il movimento di nascita e morte”. Così il Buddha prese a contemplare questi oggetti per poter scoprire la verità sui cinque khanda. Ogni cosa fisica e mentale, ogni cosa concepita e pensata, tutto, senza eccezioni, è condizionato. Una volta compreso ciò, ci insegnò a lasciar andare. Una volta compreso ciò, ci insegnò ad abbandonare tutto. Ci spinse a vedere tutto alla luce di questa verità. Se non lo facciamo, soffriremo. Non saremo in grado di lasciar andare. Ma una volta vista la verità, riconosceremo che queste cose ci ingannano. Come insegnò il Buddha: “La mente non ha sostanza, non è una cosa”.

La mente quando è nata non apparteneva a nessuno. Non muore come qualcosa appartenente a qualcuno. E’ una mente libera, radiosa e splendente, non intrappolata in problemi o discussioni. La ragione per cui sorgono i problemi è che la mente si fa ingannare dalle cose condizionate, da questa percezione ingannevole di un sé. Perciò il Buddha insegnò ad osservare questa mente. All’inizio che cosa c’è? In verità, non c’è proprio nulla. Non sorge con le cose condizionate e non muore con esse. Quando la mente trova qualcosa di bello non cambia per diventare bella. Quando la mente trova qualcosa di brutto non diventa anch’essa brutta. E’ così che avviene quando si ha una chiara percezione diretta della propria natura. C’è la comprensione che tutto è essenzialmente privo di qualsiasi sostanza.

Con tale intuizione profonda il Buddha vide che tutto è impermanente, insoddisfacente e senza un sé. Il Buddha vuole che anche noi comprendiamo la stessa cosa. Allora il “conoscere” conoscerà secondo verità. Pur conoscendo la felicità e l’angoscia, rimarrà impassibile. L’emozione della felicità è una forma di nascita. La tendenza a diventare tristi è una forma di morte. Quando c’è morte, c’è nascita, e quello che nasce deve morire. Tutto ciò che sorge e passa è preso in un’eterna spirale di divenire. Quando la mente del meditatante arriverà a questo stato di comprensione, non si chiederà più se c’è un ulteriore divenire e rinascita. E non ci sarà neanche più il bisogno di chiederlo ad altri.

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Il Buddha indagò pienamente i fenomeni condizionati e perciò fu in grado di lasciarli andare. Furono abbandonati i cinque khanda e il conoscere era soltanto un’osservazione imparziale. Se sperimentava qualcosa di positivo, non diventava positivo insieme a quello. Semplicemente osservava e rimaneva vigile e attento. Se sperimentava qualcosa di negativo non diventava negativo. E perché? Perché la sua mente si era liberata da quelle cause e condizioni. Aveva penetrato la Verità. Non esistevano più le condizioni per la rinascita. Questo è un conoscere certo e affidabile. Questa è una mente veramente in pace. Questo è ciò che non nasce, non si ammala, non invecchia e non muore. Non è né causa né effetto, né dipende da causa ed effetto. E’ indipendente dal processo del condizionamento causale. Allora le cause cessano anch’esse senza lasciare condizionamenti residui. Una mente così è oltre la nascita e la morte, sopra e oltre la felicità e il dolore, sopra e oltre il bene e il male. Che dire? E’ al di là delle limitazioni del linguaggio che tenta di descriverla. Tutte le condizioni di sostegno sono cessate e ogni tentativo di descriverla non farebbe che portare all’attaccamento. Allora le parole diventano la teoria della mente.

Le descrizioni teoriche della mente e del suo funzionamento sono precise, ma il Buddha capì che questo tipo di conoscenza era relativamente inutile. Intellettualmente capiamo qualcosa e ci crediamo, ma non è di alcun beneficio. Non porta alla pace della mente. La conoscenza del Buddha porta al lasciar andare. Ha come risultati l’abbandono e la rinuncia. Perché è proprio questa mente che ci trascina a immischiarci in ciò che è giusto e sbagliato. Se siamo saggi ci lasciamo coinvolgere solo in ciò che è giusto. Se siamo sciocchi ci lasciamo coinvolgere da ciò che è sbagliato. Una mente del genere è il mondo, e il Beato, per esaminare le cose di questo mondo, ricorse alle cose di questo mondo. Avendo infine conosciuto il mondo così com’è, fu chiamato: “Colui che comprende chiaramente il mondo”.

Sempre riguardo a samatha e vipassana, la cosa importante è sviluppare questi stati nel proprio cuore. Solo coltivandoli veramente in noi stessi sapremo cosa davvero sono. Possiamo andare a studiare tutto ciò che i libri dicono a proposito dei fattori psicologici della mente, ma questo tipo di conoscenza intellettuale non serve ad eliminare concretamente il desiderio egoistico, la rabbia e l'illusione. Studiamo solo la teoria riguardante il desiderio egoistico, la rabbia e l’illusione, che descrive semplicemente le varie caratteristiche di queste contaminazioni mentali: “Il desiderio egoistico ha questo significato; la rabbia vuol dire ciò; l’illusione si chiama così”.Se conosciamo solo le loro qualità a livello teorico, possiamo parlarne solo a quel livello. Li conosciamo, siamo intelligenti, ma quando questi inquinanti appaiono in pratica nella nostra mente, corrispondono alla teoria o no? Per esempio, quando sperimentiamo qualcosa di sgradevole, reagiamo e diventiamo di cattivo umore? Ci attacchiamo ad esso? Riusciamo a lasciar andare? Se sorge l’avversione e la riconosciamo, continuiamo a rimanerci attaccati? Oppure, nel momento che la vediamo, la lasciamo andare? Se troviamo che vediamo qualcosa che non ci piace e tratteniamo questa avversione nel cuore, sarebbe allora meglio tornare a studiare tutto daccapo. Perché così non va bene. La pratica non è ancora perfetta. Quando

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raggiunge la perfezione, il lasciar andare avviene semplicemente. Guardatelo sotto questa luce.

Dobbiamo guardare profondamente e veramente nei nostri cuori per poter sperimentare i frutti di questa pratica. Cercare di spiegare la psicologia della mente in termini di infiniti momenti di coscienza separati e delle loro diverse caratteristiche non è, secondo me, un modo di portare avanti la pratica. C’è ben altro da vedere. Se studiamo queste cose, allora conosciamole a livello assoluto, con una comprensione chiara e penetrante. Senza la chiarezza della comprensione intuitiva, come potremmo mai venirne a capo? Non se ne vedrà mai la fine. Non completeremo mai i nostri studi.

Perciò praticare il Dhamma è estremamente importante. E’ così che ho studiato: praticando. Non sapevo niente di momenti-pensiero o fattori psicologici. Osservavo solo la qualità del conoscere. Se sorgeva un pensiero di odio, mi chiedevo il perché. Se sorgeva un pensiero d’amore, mi chiedevo il perché. Questa è la via. Che differenza fa se lo etichettiamo come pensiero o fattore psicologico? Penetrate il più possibile dentro di esso fino a che sarete in grado di risolvere questa sensazione di amore o odio, di farla svanire completamente dal cuore. Quando riuscii a smettere di odiare e amare in ogni circostanza, fui in grado di trascendere la sofferenza. E allora non importa quello che succede, il cuore e la mente sono liberati e in pace. Nulla rimane. Tutto è cessato.

Praticate in questo modo. Se gli altri vogliono parlare della teoria, che lo facciano, sono affari loro. Ma per quanto se ne discuta, al lato pratico tutto si riduce a quest’unico punto. Quando qualcosa nasce, nasce proprio lì. Che sia tanto o poco, nasce sempre lì. Quando cessa, la cessazione avviene lì. E dove altro potrebbe? Il Buddha chiamò questo punto "il conoscere”, e quando questo conoscerà bene le cose così come stanno, in accordo con la verità, allora capiremo il significato della mente. Le cose ci ingannano continuamente. Mentre le studiate, in quel preciso momento, vi ingannano. Come altro potrei esprimermi? Anche se sapete di cosa si tratta, vi ingannano lo stesso, proprio nel punto in cui le conoscete. Questa è la situazione. Il problema è questo: secondo me il Buddha non intendeva che noi conoscessimo soltanto il nome di queste cose. Lo scopo dell’insegnamento del Buddha è trovare il modo di liberarsi di queste cose, scoprendo le cause che le sottendono. SILA, SAMADHI E PAÑÑA

Ho cominciato a praticare il Dhamma senza saperne molto. Sapevo solo che la via verso la liberazione cominciava con la virtù (sila - sila è un termine usato in vari modi; tra gli altri significati ha anche quello di vivere una vita etica, di seguire i precetti morali, e di controllare il proprio comportamento in modo da non danneggiare gli altri o se stessi. Qui la traduciamo con “virtù”). La virtù è lo splendido inizio del cammino. La profonda pace di samadhi (l'energia mentale

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focalizzata nella concentrazione meditativa) ne è la parte mediana. La saggezza (pañña) ne è la fine eccelsa. Sebbene nella pratica li possiamo suddividere in tre diversi momenti, man mano che li osserviamo sempre più in profondità, vediamo che queste tre qualità si fondono in un unico elemento. Per sostenere la virtù dobbiamo essere saggi. Alle persone di solito consigliamo di mantenere una base etica, praticando per prima cosa i cinque precetti, in modo che la loro moralità si consolidi. Tuttavia, per perfezionare la virtù ci vuole molta saggezza. Dobbiamo considerare le nostre parole e azioni, e analizzarne le conseguenze. Questo è ciò che fa la saggezza. Dobbiamo contare sulla saggezza per coltivare la virtù.

In teoria la virtù viene per prima, poi viene samadhi e infine la saggezza, ma quando le ho analizzate meglio, ho visto che la saggezza è il fondamento di ogni altro aspetto della pratica. Per comprendere fino in fondo le conseguenze di ciò che diciamo e facciamo – specialmente le conseguenze dannose – abbiamo bisogno che la saggezza sorvegli, guidi e analizzi il meccanismo di causa ed effetto. Ciò purificherà le parole e le azioni. Una volta familiarizzati con i comportamenti etici e non etici, sapremo come metterli in pratica. Abbandoniamo ciò che è male e coltiviamo ciò che è bene. Abbandoniamo ciò che è sbagliato e coltiviamo ciò che è giusto. Questa è la virtù. Man mano che lo facciamo, il cuore diventa sempre più saldo e risoluto. Un cuore saldo e fermo è libero dall’apprensione, dal rimorso e dalla confusione riguardo alle proprie azioni e parole. Questo è samadhi.

Questa salda unificazione della mente costituisce un’altra importante fonte di energia nella nostra pratica di Dhamma, permettendo una contemplazione più profonda degli oggetti, dei suoni, ecc. man mano che li sperimentiamo. Una volta che la mente si è stabilizzata in una ferma e salda consapevolezza ed è in pace, possiamo impegnarci in un'indagine approfondita della realtà di corpo, sensazioni, percezioni, pensieri, coscienza, oggetti visibili, suoni, odori, gusti, sensazioni fisiche e oggetti mentali. Siccome tutte queste cose sorgono in continuazione, noi li indaghiamo in continuazione con la sincera determinazione di non perdere la consapevolezza. Sapremo così cosa sono veramente queste cose. Sorgono seguendo una loro verità naturale. Man mano che la comprensione aumenta, nasce la saggezza. Una volta che c’è la chiara comprensione di come stanno veramente le cose, il nostro vecchio modo di percepire viene sradicato e la conoscenza intellettuale si trasforma in saggezza. E’ così che la virtù, la concentrazione e la saggezza si fondono e funzionano all’unisono.

Man mano che la saggezza cresce, impavida e forte, il samadhi a sua volta diventa sempre più saldo. Più il samadhi è saldo, più la virtù diventa incrollabile e totale. La perfezione della virtù alimenta il samadhi e l’aumento di vigore del samadhi conduce alla maturazione della saggezza. Questi tre aspetti della pratica convergono e si intersecano. Uniti, formano l’Ottuplice Nobile Sentiero, la via del Buddha. Quando la virtù, il samadhi e la saggezza raggiungono il loro culmine, questo Sentiero ha il potere di sradicare ciò che inquina la purezza della mente (kilesa - contaminazioni; qualità mentali che contaminano, inquinano, macchiano il cuore: desiderio egoistico

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o sensuale, rabbia, illusione, e qualunque stato mentale basato su di essi). Quando sorge il desiderio sensuale, quando la rabbia e l’ignoranza mostrano la faccia, solo il Sentiero è in grado di eliminarne ogni traccia.

La pratica di Dhamma si svolge nel contesto delle Quattro Nobili Verità: sofferenza (dukkha), origine della sofferenza (samudaya), cessazione della sofferenza (nirodha) e il Sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza (magga). Questo Sentiero consiste di virtù, samadhi e saggezza, che sono il contesto entro il quale si addestra il cuore. Il loro vero significato non lo si trova nelle parole, ma giace profondo nel nostro cuore. E’ così che sono virtù, samadhi e saggezza. Si alternano continuamente. Il Nobile Ottuplice Sentiero comprende tutto ciò che sorge: ogni cosa visibile, suono, odore, gusto, sensazione fisica o oggetto mentale. Tuttavia, se i fattori dell’Ottuplice Nobile Sentiero sono deboli e incerti, le contaminazioni si impadroniranno della mente. Se invece il Nobile Sentiero è forte e coraggioso, vincerà e distruggerà le contaminazioni inquinanti. Se gli inquinanti sono coraggiosi e potenti mentre il Sentiero è debole e fragile, questi conquisteranno il Sentiero. Conquisteranno il nostro cuore. Se la conoscenza non è abbastanza veloce e pronta nel momento in cui sperimentiamo le forme, le sensazioni, le percezioni, i pensieri, essi si impossesseranno di noi e ci devasteranno. Il Sentiero e gli inquinanti procedono insieme. Man mano che nel cuore si sviluppa la pratica del Dhamma, queste due forze devono contendersi ogni passo della via. E’ come se all’interno della mente ci fossero due persone che discutono, ma in effetti sono il Sentiero del Dhamma e gli inquinanti che si sfidano per conquistare il dominio sul cuore. Il Sentiero alimenta e guida la nostra capacità di contemplazione. Finché siamo in grado di contemplare correttamente, gli inquinanti perderanno terreno. Ma se tentenniamo, lasciando che le contaminazioni si raggruppino e riprendano forza, il Sentiero sarà sbaragliato mentre gli inquinanti riprenderanno il dominio. Le due parti continueranno a combattersi fino a quando non ci sarà un vincitore e la partita sarà conclusa.

Se concentriamo i nostri sforzi per sviluppare la via del Dhamma, gli inquinanti verranno gradualmente e costantemente sradicati. Una volta perfettamente coltivate, le Quattro Nobili Verità prenderanno dimora nel nostro cuore. Sotto qualsiasi forma la sofferenza si presenti, ha sempre la sua causa. Questa è la Seconda Nobile Verità. E quale è la causa? Virtù debole. Samadhi debole. Saggezza debole. Quando il Sentiero non è stabile, le contaminazioni dominano la mente. E quando esse dominano, allora entra in gioco la Seconda Nobile Verità, che genera ogni sorta di sofferenza. Una volta che soffriamo, scompaiono quelle qualità che sarebbero in grado di smorzare la sofferenza. Le condizioni che fanno sorgere il Sentiero sono virtù, samadhi e saggezza. Quando hanno raggiunto la loro piena maturità, il Sentiero del Dhamma non si ferma più e avanza incessantemente per superare l’attaccamento e la bramosia che ci riempiono di tanta angoscia. La sofferenza non può sorgere, perché il Sentiero sta distruggendo gli inquinanti. E’ a questo punto che avviene la cessazione della sofferenza. Perché il Sentiero è in grado di portare alla cessazione della sofferenza? Perché virtù, samadhi e saggezza hanno raggiunto la perfezione e il

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Sentiero ha preso un avvio irrefrenabile. Tutto converge qui. Chi pratica così, secondo me, non ha alcun bisogno di teorie sulla mente. Se la mente se ne libera, allora diventa completamente sicura e certa. Ora, qualsiasi cammino intraprenda, non dobbiamo pungolarla troppo perché mantenga la giusta direzione.

Consideriamo le foglie di un albero di mango. Come sono? Basta esaminare una singola foglia per saperlo. Anche se ce ne sono diecimila sappiamo come sono tutte le altre soltanto guardandone una. Sono sostanzialmente le stesse. Altrettanto si può dire per il tronco. Basta osservare il tronco di un solo albero di mango per sapere le caratteristiche di tutti gli altri alberi di mango. Osservatene uno solo. Tutti gli altri alberi di mango non sono sostanzialmente diversi. Anche se ce ne fossero centomila, quando ne conoscete uno, li conoscete tutti. Questo è ciò che il Buddha ha insegnato.

Virtù, samadhi e saggezza costituiscono il Sentiero del Buddha. Ma la via non è l’essenza del Dhamma. Il Sentiero non è fine a se stesso, non è il traguardo ultimo indicato dal Beato. E' la strada che vi conduce verso la meta. E’ come la strada che avete percorso per venire da Bangkok a questo Monastero, Wat Nong Pah Pong. Il vostro traguardo non era la strada, ma il monastero e avevate bisogno della strada per il viaggio. La strada su cui avete viaggiato non è il monastero. E’ solo un modo per arrivarci. Ma se volete arrivare al monastero dovete seguire la strada. E’ la stessa cosa per virtù, samadhi e saggezza. Possiamo dire che non sono l’essenza del Dhamma, ma che sono la strada per arrivarci. Quando si è completamente padroni di virtù, samadhi e saggezza, il risultato è una profonda pace della mente. Questa è la destinazione. Quando siamo arrivati a questa pace, anche se sentiamo un rumore, la mente rimane tranquilla. Una volta raggiunta questa pace, non c'è altro da fare. Il Buddha ha insegnato a lasciar andare tutto. Qualsiasi cosa succeda, non c’è niente di cui preoccuparsi. E' allora che conosceremo da noi stessi, veramente, incontestabilmente, e non ci limiteremo più a credere a ciò che gli altri ci dicono.

Il principio essenziale del Buddhismo è vuoto di ogni fenomeno. Non dipende da miracolosi poteri psichici, capacità paranormali o altre cose strane o mistiche. Il Buddha non dette importanza a queste cose. Questi poteri esistono ed è possibile svilupparli, ma questa parte del Dhamma è ingannevole, e per tale motivo il Buddha non le dette importanza e non la incoraggiò. Egli lodò soltanto coloro che erano stati in grado di liberarsi dalla sofferenza.

Tuttavia ci vuole esercizio; gli strumenti e l’attrezzatura per compiere il lavoro sono generosità, virtù, samadhi e saggezza. Dobbiamo usarli per esercitarci bene. Combinati formano il Sentiero che porta verso l’interiorità, e la saggezza è il primo passo. Questo Sentiero non può progredire se la mente è incrostata di contaminazioni, ma se siamo intrepidi e forti, il Sentiero eliminerà queste impurità. Però se sono gli inquinanti ad essere intrepidi e forti distruggeranno il Sentiero. La pratica del Dhamma semplicemente implica una incessante battaglia tra queste due forze, fino a

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che si raggiungerà la fine del cammino. Esse sono impegnate in una strenua lotta fino alla fine.

I PERICOLI DELL’ATTACCAMENTO

Usare gli strumenti della pratica comporta fatica e sfide difficili. Dobbiamo contare sulla pazienza, la tolleranza e la rinuncia. Dobbiamo fare tutto da soli, sperimentare da soli, realizzare da soli. Quelli che hanno studiato molto, tuttavia, tendono a fare un sacco di confusione. Per esempio quando si siedono in meditazione, non appena la mente sperimenta un pochino di tranquillità, subito cominciano a pensare: “Ehi, questo deve essere il primo jhana!” (jhana: profonda unificazione della mente in meditazione. La vetta del samadhi. Il Buddha ne ha insegnato otto livelli). E’ così che lavora la loro mente. Ma questi pensieri, quando sorgono, rovinano quella tranquillità appena sorta. Poi passano a pensare che hanno raggiunto il secondo jhana. Non pensate e non speculate su tutto. Non ci sono manifesti che annunciano il livello di samadhi che state sperimentando. La realtà è completamente diversa. Non ci sono segnalazioni come i cartelli stradali che vi indicano “questa strada va verso Wat Nong Pah Pong”. Non è così che io vedo la mente. Non fa proclami.

Sebbene un certo numero di esimi sapienti abbia dato la descrizione del primo, secondo, terzo e quarto jhana, ciò che è scritto non è altro che pura informazione esteriore. Se veramente la mente entra in questi profondi stati di pace, non sa niente di queste descrizioni. Sa, ma ciò che sa non ha niente a che fare con la teoria che studiamo. Se i dotti si tengono stretti alle loro teorie e le trasferiscono nella loro meditazione, sedendo e pensando: “Hmm... che sarà questo? E’ già il primo jhana?” ecco, la pace è finita e non sperimenteranno più niente che abbia un vero valore. E perché? Perché c’è desiderio, e una volta che c’è attaccamento cosa succede? La mente esce immediatamente dallo stato meditativo. Perciò è importante che abbandoniamo completamente ogni forma di pensiero e di speculazione. Bisogna lasciarli completamente andare. Considerate solo il corpo, la parola e la mente e scavate a fondo nella pratica. Osservate il lavorìo della mente, ma non trascinatevi dentro anche i libri di Dhamma. Altrimenti diventa tutto una gran confusione, perché niente in quei libri corrisponde esattamente alla realtà delle cose così come sono.

La gente che studia molto, che è piena di conoscenze teoriche, generalmente non riesce bene nella pratica di Dhamma. Si impantana al livello della pura informazione. La verità è che il cuore e la mente non possono essere misurati su parametri esterni. Se la mente diventa tranquilla, lasciatela semplicemente essere tranquilla. Esistono dei livelli di pace molto profondi. Personalmente io non ne so molto di teoria. Ero monaco già da tre anni, ma continuavo a chiedermi cosa fosse veramente il samadhi. Cercavo di pensarci e di raffigurarmelo durante la meditazione, ma la mente diventava sempre più agitata e distratta, ancora più di quanto lo fosse prima. Anzi, aumentò pure il numero dei pensieri. Quando non meditavo stavo più calmo. Ragazzi, era veramente difficile, esasperante! Ma, sebbene incontrassi tanti ostacoli, non gettai

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mai la spugna. Semplicemente continuai. Quando non cercavo di fare qualcosa in particolare, la mente era relativamente a suo agio. Ma ogni volta che decidevo di concentrare la mente in samadhi, ne perdevo completamente il controllo. Mi chiedevo: “Ma che capita? Perché succede questo?”.

Più tardi cominciai a capire che la meditazione è paragonabile al processo del respiro. Se decidiamo di intervenire sul respiro, rendendolo leggero, profondo o solo ‘giusto’, vedremo che è difficile perfino respirare. Tuttavia se ce ne andiamo a fare una passeggiata e neppure siamo consapevoli dell’inspirazione ed espirazione, è una cosa rilassante. Perciò riflettei: “Ah, Forse è così che funziona! Quando, durante il giorno, ci si muove nelle faccende normali senza concentrare l’attenzione sul respiro, il respiro causa sofferenza? No, ci si sente semplicemente rilassati". Ma se io mi sedevo e prendevo la forte determinazione di rendere la mente tranquilla, contemporaneamente davo spazio all’attaccamento e all’avidità. Quando cercavo di controllare il respiro per farlo diventare leggero o profondo, semplicemente mettevo in moto più stress di quanto ne avessi prima. Perché? Perché la forza di volontà che stavo usando era macchiata di attaccamento e avidità. Non sapevo ciò che stava capitando. Tutta quella frustrazione e fatica erano causate dal fatto che portavo nella meditazione l’attaccamento.

UNA PACE INCROLLABILE

Una volta stavo in un monastero della foresta distante poco meno di un chilometro da un villaggio. Una sera, sul tardi, i paesani festeggiavano e stavano facendo molto chiasso, mentre io praticavo la meditazione camminata. Dovevano essere circa le 11 di sera e mi sentivo un po’ strano. Già da mezzogiorno avevo questa strana sensazione. La mente era quieta, quasi senza pensieri. Mi sentivo rilassato e completamente a mio agio. Continuai a fare meditazione camminata fino a che mi sentii stanco; allora andai a sedermi nella capanna con il tetto di paglia. Mi stavo sedendo, quando in modo sorprendente, senza neppure avere il tempo di incrociare le gambe, la mia mente sentì il bisogno di immergersi in uno stato di profonda pace. Tutto avvenne per conto suo. Appena seduto, la mente divenne completamente tranquilla. Era solida come una roccia. Non è che non sentissi i canti e la musica dei paesani, potevo sentirli, ma potevo anche completamente chiudere fuori la percezione del suono.

Era strano. Se non facevo attenzione al suono, c’era una pace perfetta, non sentivo niente. Ma se volevo sentire, lo potevo fare e non mi disturbava affatto. Era come se nella mia mente ci fossero due oggetti vicini, che però non si toccavano. Potevo constatare che la mente e il suo oggetto di consapevolezza erano separati e distinti, proprio come questa sputacchiera e quel bricco dell’acqua. Poi compresi: quando la mente è in samadhi, se dirigete l’attenzione verso l’esterno potete udire i suoni, ma se la lasciate dimorare nella sua vacuità, allora è perfettamente silenziosa. Quando il suono veniva percepito potevo vedere che il conoscere e il suono erano

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completamente diversi. Riflettei: “Se non fosse così com’è, in che altro modo potrebbe essere?” E' così che era. Le due cose erano completamente separate. Continuai a indagare in questo modo fino a che la mia comprensione si approfondì ancora di più: “Ah, questo è importante. Quando si interrompe l’apparente continuità dei fenomeni, vi è solo pace”. La precedente illusione di continuità (santati) si era trasformata in pace mentale (santi). Così continuai a meditare, mettendoci un grande sforzo. In quel momento la mente era concentrata solo sulla meditazione, indifferente a tutto il resto. Se a quel punto avessi smesso di meditare, sarebbe stato solo perché l’avevo completata. Potevo prendermela con calma, ma non per pigrizia, stanchezza o noia. Niente affatto. Tutto ciò era assente dal cuore. C’era solo un equilibrio interiore perfetto, proprio quello giusto.

Infine feci una pausa, ma fu solo la postura esterna che cambiò. Il cuore rimase fermo, immobile, infaticabile. Avevo l’intenzione di riposare, per cui presi un cuscino. Mentre mi piegavo, la mente rimase calma come prima. Poi, proprio mentre la testa toccava il cuscino, la consapevolezza della mente cominciò a fluire verso l’interno; non sapevo dove andasse, continuava a scorrere sempre più in profondità. Era come una corrente elettrica che passava attraverso un cavo fino all’interruttore. Quando raggiunse l’interruttore, il corpo esplose con un boato assordante. Durante tutto ciò la conoscenza era perfettamente lucida e sottile. Una volta passato quel punto, la mente fu libera di penetrare profondamente dentro. Arrivò fino a un punto in cui non c’era assolutamente niente. Nessuna cosa del mondo esteriore avrebbe potuto penetrare qui. Niente avrebbe potuto raggiungerlo. Rimasi un po’ così dentro, poi la mente si ritirò, per scorrere di nuovo fuori. Quando però dico che si ritirò non intendo dire che la feci defluire. Io ero soltanto un osservatore, un testimone, che conosceva. La mente uscì sempre di più fino a che ritornò “normale”.

Appena ripresi il mio solito stato di coscienza, mi domandai: “Cosa è successo?!”. Subito giunse la risposta, “Queste cose avvengono per i fatti loro. Non devi cercare alcuna spiegazione”. La mente rimase soddisfatta di questa risposta.

Dopo un po’ la mente ricominciò a fluire di nuovo verso l’interno. Non facevo nessuno sforzo cosciente per dirigere la mente. Fece tutto da sola. Mentre si muoveva sempre più profondamente all’interno, ad un tratto toccò di nuovo quell’interruttore. Questa volta il mio corpo esplose in un’infinità di minuscole particelle. Di nuovo la mente fu libera di penetrare profondamente dentro se stessa. Silenzio assoluto. Era andata ancora più in profondità di prima. Assolutamente nessuna cosa esterna poteva raggiungerla. La mente rimase lì per un po’, per il tempo che volle, e poi si ritirò e rifluì fuori. Seguiva un suo impulso e tutto avveniva da sé. Io non influenzavo né dirigevo la mente in alcun modo, non la facevo fluire dentro né la ritraevo fuori. Io conoscevo e guardavo soltanto.

Di nuovo la mente ritornò al suo normale stato di coscienza, e io non mi chiesi né pensai a ciò che era accaduto. Mentre meditavo, una volta ancora la mente si volse

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verso l’interno. Questa volta l’intero cosmo esplose e si disintegrò in minutissime particelle. La terra, il suolo, le montagne, i campi e le foreste – tutto il mondo – si disintegrò nell’elemento spazio. La gente era sparita. Tutto era sparito. Questa terza volta non rimase assolutamente nulla.

La mente, rivolta all’interno, rimase lì per quanto tempo volle. Non posso dire che capisco esattamente in che modo vi rimase. E’ difficile descrivere ciò che accadde. Non vi sono termini di paragone a cui riferirmi. Nessuna similitudine è calzante. Questa volta la mente rimase all’interno per un tempo molto più lungo che dianzi, e venne fuori da quello stato dopo un bel po’. Quando dissi che ne uscì, non intendo dire che la feci uscire io o che stavo controllando ciò che avveniva. La mente fece tutto da sola. Io ero soltanto un osservatore. Alla fine ritornò nuovamente al suo stato di coscienza normale. Come descrivere ciò che avvenne per tre volte? Chi può saperlo? Che termini si potrebbero usare per descriverlo?

IL POTERE DI SAMADHI

Tutto ciò che vi ho detto finora riguarda la mente, che segue la via della natura. Non è stata una descrizione teorica della mente o di stati psicologici. Non ce n’era bisogno. Se c’è fede o fiducia, ci arrivate e lo fate veramente. Non giocherellate soltanto, anzi mettete in gioco la vostra stessa vita. E quando la pratica raggiunge lo stadio che ho appena descritto, il mondo intero è completamente a soqquadro. Dopo, la comprensione della realtà è completamente diversa. La visione delle cose è completamente trasformata. Se qualcuno vi vedesse in quel momento, penserebbe che siete impazzito. Se un’esperienza simile avvenisse a uno che non sa dominarsi, potrebbe diventare veramente matto, perché niente è più come prima. La gente sembra diversa da prima; ma solo voi la vedete così. Tutto, assolutamente tutto cambia. I pensieri sono trasformati: gli altri la pensano in un modo, voi in un altro. Loro parlano delle cose in un certo modo, voi in un altro. Loro scendono lungo un sentiero, voi salite per un’altra via. Non siete più come gli altri esseri umani. Questo modo di vedere le cose non diminuisce, anzi persiste e va avanti. Provateci. Se è veramente nel modo in cui l’ho descritto, non dovete cercare molto lontano. Guardate all’interno del vostro cuore. Questo cuore è fedele, coraggioso, incrollabile, audace. Questo è il potere del cuore, la sua fonte di forza e di energia. Il cuore ha questa forza potenziale. Questo è il potere e la forza di samadhi.

A questo punto è sempre e solo il potere e la purezza che la mente attinge dal samadhi. Questo livello di samadhi, è un samadhi al suo culmine. La mente ha raggiunto la vetta del samadhi; non è solo una semplice concentrazione momentanea. Se in quel momento passaste alla meditazione vipassana, la contemplazione sarebbe ininterrotta e porterebbe a profonde intuizioni. Oppure potreste usare quell’energia concentrata in altri modi. Da questo punto in poi si possono sviluppare poteri psichici, compiere miracoli o si può usarla in qualsiasi altro modo. Gli asceti e gli eremiti hanno usato l’energia di samadhi per rendere santa l’acqua, fare talismani o

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incantesimi. Sono tutte cose possibili a questo stadio, e a modo loro possono essere benefiche; ma è come il beneficio dell’alcool. Lo bevete e vi ubriacate.

Questo livello di samadhi è un punto di arrivo. Il Buddha si fermò lì e si riposò. E’ la base per la vipassana e la contemplazione. Tuttavia non c’è bisogno di un samadhi così profondo per osservare le condizioni che ci circondano; perciò continuate diligentemente a contemplare il processo di causa ed effetto. Per farlo concentriamo la pace e la chiarezza della mente sull’analisi delle cose visibili, dei suoni, degli odori, dei sapori, delle sensazioni fisiche, dei pensieri e degli stati mentali che sperimentiamo. Esaminate gli stati d’animo e le emozioni, sia positive che negative, sia piacevoli che sgradevoli. Esaminate tutto. E’ come se qualcuno, salito su un albero di manghi ne scuotesse i frutti facendoli cadere, mentre noi da sotto li raccogliamo. Quelli marci, non li raccogliamo. Raccogliamo solo quelli sani. Non è stancante, perché non siamo noi che saliamo sull’albero. Noi ci limitiamo a raccogliere i frutti stando sotto l’albero.

Capite il significato di questa similitudine? Tutto ciò che viene sperimentato da una mente pacificata porta ad una comprensione più vasta. Non si creano più concettualizzazioni e proliferazioni su ciò che viene sperimentato. Ricchezza, fama, biasimo, lode, felicità e infelicità vengono da sé. E noi stiamo in pace. Siamo saggi. Anzi è addirittura divertente. E’ divertente rovistare in mezzo a tutto questo e metterlo in ordine. Ciò che la gente chiama bene, male, cattivo, qui, lì, felicità, infelicità, tutto va raccolto insieme e usato a nostro beneficio. Qualcun altro è salito sull’albero di mango e sta scuotendo i rami per farne cadere i frutti verso di noi. Noi semplicemente ci divertiamo a coglierli senza paura. E comunque di cosa dovremmo aver paura? E’ qualcun altro che sta in cima all’albero e scuote per noi. Ricchezza, fama, lode, critiche, felicità, infelicità e tutto il resto non sono che manghi che cadono a terra, e noi li esaminiamo con cuore sereno. E allora sapremo quali sono quelli buoni e quelli marci.

LAVORARE IN ARMONIA CON LA NATURA

Quando cominciamo a usare la pace e la serenità che abbiamo sviluppato durante la meditazione per contemplare queste cose, allora sorge la saggezza. Questo è ciò che chiamo saggezza. Questo è vipassana. Non è qualcosa di inventato e costruito. Se siamo saggi, vipassana si svilupperà naturalmente. Non c’è bisogno di etichettare ciò che accade. Se c’è solo un piccolo lampo di comprensione intuitiva, la chiamiamo “piccola vipassana”. Quando la visione si chiarisce un po’ di più, la chiamiamo “media vipassana”. Se la conoscenza è completamente in armonia con la Verità, la chiamiamo la “vipassana ultima”. Personalmente preferisco usare la parola saggezza (pañña) invece di vipassana. Se pensiamo di andarci a sedere ogni tanto e praticare la “meditazione vipassana”, avremo parecchie difficoltà. La comprensione deve nascere dalla pace e dalla tranquillità. Tutto il processo si svolgerà naturalmente, da solo. Non possiamo forzarlo.

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Il Buddha ci ha insegnato che questo processo matura secondo un suo ritmo. Quando abbiamo raggiunto questo livello di pratica, lasciamo che si sviluppi a seconda delle nostre capacità innate, delle attitudini spirituali e dei meriti che abbiamo accumulato nel passato. Però non smettiamo mai di applicarci con impegno nella pratica, anche se il progresso, lento o veloce, è comunque fuori dal nostro controllo. E’ come piantare un albero. L’albero sa a che velocità deve crescere. Se vogliamo che cresca più velocemente di quanto non faccia, è una pura illusione. Se vogliamo che cresca più lentamente, riconosciamo che anche questa è un’illusione. Una volta fatto il lavoro, il risultato verrà da sé, proprio come quando si pianta un albero. Per esempio, mettiamo che vogliamo piantare una pianticella di peperoncino. Il nostro compito è di scavare un buco, piantare il virgulto, annaffiarlo, concimarlo e proteggerlo dagli insetti. Questo è il nostro lavoro, la parte che dobbiamo fare noi. E’ a questo punto che interviene la fede. Che la pianta di peperoncino cresca o no non dipende da noi. Non è affar nostro. Non possiamo tirare la pianta, strattonarla in modo che cresca più in fretta. Non è così che lavora la natura. Il nostro compito è di innaffiarla e concimarla. Praticare il Dhamma in questo modo rende pacifici i nostri cuori.

Se realizziamo l’Illuminazione durante questa vita, bene. Se dobbiamo attendere la prossima, non fa niente. Abbiamo fede e un'incrollabile fiducia nel Dhamma. Il fatto di progredire velocemente o lentamente dipende dalle nostre capacità innate, dalle attitudini spirituali e dai meriti accumulati. Praticare così rende tranquillo il cuore. E’ come se guidassimo un carro a cavalli. Non mettiamo il carro davanti ai cavalli. O è come arare una risaia, stando davanti e non dietro al bufalo che tira l’aratro. Ciò che voglio dire è che la mente si proietta oltre se stessa. Diventa impaziente di avere risultati veloci. Non è questo il modo di fare. Non camminate davanti al bufalo. Dovete camminare dietro al bufalo.

E’ come quella pianta di peperoncino che facciamo crescere. Datele acqua e concime e sarà lei stessa a fare il lavoro di assorbirli. Quando le termiti e le formiche vengono a infestarla, le cacciamo. Basta questo affinché la pianta cresca bella con le sue proprie forze, e una volta che cresce bene, non forzatela a produrre fiori perché riteniamo che sia il tempo della fioritura. Non è affar nostro. Creerà solo inutili disagi. Lasciatela fiorire a tempo debito. E appena i fiori sbocciano, non aspettatevi che subito portino frutti. Non basatevi sulla coercizione. E’ una causa di sofferenza! Quando capiamo tutto questo, capiamo anche quali sono, o non sono, le nostre responsabilità. Ognuno ha il proprio compito da adempiere. La mente sa quale è il suo ruolo nel lavoro che va fatto. Se la mente non capisce il suo ruolo, cercherà di forzare la pianticella a produrre peperoncini lo stesso giorno che la piantiamo. La mente insisterà perché cresca, fiorisca e produca i frutti tutto in un sol giorno.

Questa non è altro che la Seconda Nobile Verità: l’attaccamento causa la sofferenza. Se siamo consci di questa Verità e la contempliamo, capiremo che cercare di forzare i risultati della nostra pratica di Dhamma è una pura illusione. E’ sbagliato. Capendone il funzionamento, saremo in grado di lasciar andare e di permettere alle cose di

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maturare a seconda delle nostre capacità innate, delle attitudini spirituali che possediamo e dei meriti che abbiamo accumulato. Noi continuiamo a fare la nostra parte. Non preoccupatevi che ci voglia troppo tempo. Anche se ci volessero centinaia o migliaia di vite per realizzare l’Illuminazione, e allora? Per quante vite ci vorranno, noi continueremo a praticare con cuore sereno, a nostro agio, al nostro ritmo. Una volta che la mente è "entrata nella corrente", non c’è più niente da temere. Vuol dire che non esiste nemmeno la possibilità che venga compiuta la più piccola azione cattiva. Il Buddha ha detto che la mente di un sotapanna – uno che ha ottenuto il primo grado di illuminazione - è entrata nella corrente del Dhamma che fluisce verso l’illuminazione. Un sotapanna non dovrà più sperimentare gli stati più miseri di esistenza, non cadrà più nell’inferno. E come potrebbe infatti cadere nell’inferno quando ormai la mente ha abbandonato il male? Ha visto il pericolo di produrre un kamma cattivo. Anche se cercate di forzarlo a fare o a dire qualcosa di cattivo, ne sarebbe incapace, ed è per questo che non corre più il pericolo di cadere nell’inferno o negli stati di esistenza più bassi. La sua mente fluisce nella corrente del Dhamma.

Una volta che siete nella corrente, sapete quali sono le vostre responsabilità. Capite che lavoro va fatto. Sapete come praticare il Dhamma. Sapete quando metterci sforzo e quando rilassarvi. Comprendete la mente e il corpo, i processi fisici e mentali, e rinunciate alle cose che vanno lasciate andare, abbandonandole in continuazione senza la minima ombra di dubbio.

CAMBIARE LA PROPRIA VISIONE

Nella mia pratica di Dhamma non ho mai tentato di padroneggiare una vasta gamma di cose. Anzi, ho puntato solo ad una. Ho raffinato questo cuore. Mettiamo che stiamo osservando un corpo. Se troviamo che siamo attratti da un corpo, allora analizziamolo. Osservatelo bene: capelli, peli, unghie, denti e pelle (Kesa, Loma, Naka, Danta, Taco: la contemplazione di queste cinque parti del corpo costituisce la prima tecnica meditativa assegnata dal maestro al nuovo monaco o monaca). Il Buddha ci ha insegnato a contemplare accuratamente e ripetutamente queste parti del corpo. Visualizzatele separatamente, dividetele, toglietene la pelle e inceneritele. Questo va fatto. Rimanete con questa meditazione fino a che si consolida fermamente, senza alcuna indecisione. Guardate tutti allo stesso modo. Per esempio, quando la mattina i monaci e i novizi vanno al villaggio per l’elemosina, chiunque vedano, sia un altro monaco o un altra persona, cerchino di immaginare lui o lei come un corpo morto, un cadavere ambulante che cammina sulla strada davanti a loro. Rimanete concentrati su questa percezione. E’ così che si incrementa lo sforzo. E questo porta alla maturità e allo sviluppo. Quando vedete una giovane donna che vi attrae, immaginatela come un cadavere ambulante, con il corpo putrefatto, esalante puzza di decomposizione. Vedete tutti sotto questa luce. E non fateli avvicinare troppo! Non permettete all’infatuazione di prendere piede nel vostro cuore. Se li percepite putridi e puzzolenti, vi assicuro che l’infatuazione non continuerà. Contemplate fino ad essere sicuri di quello che vedete, fino a che la visione non sia

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chiara, fino a che non ne diventiate esperti. Per qualsiasi via poi vi incamminate, non andrete più fuori strada. Metteteci tutto il cuore. Ogni volta che vedete qualcuno, sarà come vedere un cadavere. Sia maschio che femmina, guardatene il corpo come se fosse morto. E non dimenticate di vedere il vostro come morto. In fondo è tutto quello che rimarrà di essi. Cercate di sviluppare questo modo di vedere il più completamente possibile. Esercitatevi finché diventa sempre più parte della vostra mente. Vi assicuro che, al lato pratico, è un gran divertimento. Ma se vi affannate a leggerlo nei libri, incontrerete serie difficoltà. Dovete farlo. E fatelo con assoluta sincerità. Fatelo fino a che questa meditazione non diventa parte di voi. Fate della realizzazione della Verità il vostro scopo. Se siete motivati dal desiderio di trascendere la sofferenza, allora sarete sul sentiero giusto.

In questi tempi ci sono molti insegnanti di vipassana e una vasta gamma di tecniche. Vi dirò solo: fare vipassana non è facile. Non possiamo semplicemente saltarci dentro. Non funzionerà se non si parte da un alto livello di moralità. Scopritelo voi stessi. La disciplina morale e i precetti sono necessari, perché se il nostro comportamento, le nostre azioni e la nostra parola non sono impeccabili, non riusciremo mai a star ritti sulle nostre due gambe. La meditazione senza moralità è come cercare di evitare una parte importante del Sentiero. Allo stesso modo, certe volte sentiamo dire: “Non c’è bisogno di sviluppare la tranquillità; lasciala perdere e passa direttamente alla meditazione vipassana”. A dire cose di questo tipo sono quegli individui superficiali, che cercano sempre scappatoie. Dicono che non bisogna preoccuparsi della disciplina morale. Non è un giochetto sostenere e raffinare la propria virtù, anzi è una sfida. Se potessimo tralasciare tutti gli insegnamenti sul comportamento morale, sarebbe tutto più facile, vero? Ogni volta che incontriamo una difficoltà non faremmo altro che evitarla, saltandola a pié pari. Naturalmente tutti vorremmo poter evitare le difficoltà.

Una volta incontrai un monaco che mi disse che lui era un vero meditante. Mi chiese il permesso di stare con noi e si informò sul programma e sul livello di disciplina monastica. Gli spiegai che in questo monastero vivevamo secondo il Vinaya, il codice di disciplina monastica del Buddha, e che se voleva venire a stare qui doveva rinunciare al suo denaro personale e al rifornimento personale di cibo. Mi disse che la sua pratica era “non attaccamento a tutte le convenzioni”. Gli risposi che non capivo di cosa stesse parlando. “E se io stessi qui, tenendo il denaro ma senza attaccarmi ad esso? Il denaro è solo una convenzione.” Gli dissi che certo, non c’era problema. “Se puoi mangiare il sale e non trovarlo salato, allora puoi usare il denaro senza attaccarti ad esso”. Stava dicendo cose senza senso. In effetti era troppo pigro per seguire tutti i dettagli del Vinaya. Ve lo ripeto, è difficile. “Quando puoi mangiare il sale e onestamente assicurarmi che non è salato, allora ti prenderò sul serio. E se mi dici che non è salato allora te ne darò un sacco intero da mangiare. Provaci soltanto. Veramente non avrà il gusto di sale? Il non attaccamento alle convenzioni non è soltanto questione di essere abili con le parole. Se parli così, non puoi stare con me”. Allora se ne andò.

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Dobbiamo cercare di praticare e mantenere la virtù. I monaci devono esercitarsi con le pratiche ascetiche (Dhutanga: pratiche ascetiche raccomandate dal Buddha come un “mezzo per scuotersi di dosso le contaminazioni”. Comprendono 13 strette osservanze che aiutano a coltivare il senso di accontentarsi, di rinuncia e di sforzo energico), mentre la gente a casa dovrebbe praticare i cinque precetti (Cinque precetti: le cinque linee guida basilari per esercitarsi a compiere solo azioni virtuose del corpo e della parola: astenersi dall’uccidere, astenersi dal rubare, avere una condotta sessuale responsabile, astenersi dal mentire, seminare discordia e dalla parola dura o frivola, astenersi dall’assumere intossicanti). Bisogna tentare di essere impeccabili in tutto ciò che si dice e si fa. Bisogna coltivare la bontà con tutte le nostre forze, e continuare a rinforzarla man mano.

Quando cominciate a coltivare la serenità di samatha, non commettete l’errore di provarci una volta o due e poi di rinunciarci perché trovate che la mente non si tranquillizza. Non è il modo giusto di fare. Dobbiamo coltivare la meditazione per un lungo periodo di tempo. Perché dobbiamo metterci tanto? Provate a pensarci. Per quanti anni abbiamo permesso alla mente di vagare dappertutto? Per quanti anni non abbiamo praticato la meditazione samatha? Ogni volta che la mente ci imponeva di seguirla su una certa via, noi ci precipitavamo dietro di essa. Per calmare questa mente vagante, per fermarla, per pacificarla, non basteranno un paio di mesi di meditazione. Considerate questo punto.

Quando cominciate ad esercitare la mente affinché sia in pace in ogni situazione, dovete capire che all’inizio, quando sorge un’emozione inquinante, la mente non sarà affatto in pace. Sarà distratta e fuori controllo. Perché? Perché c’è attaccamento. Non vogliamo che la mente pensi. Non vogliamo sperimentare nessuna disattenzione o emozione. Non volere equivale ad attaccamento, attaccamento per la non esistenza. Più vogliamo non sperimentare certe cose, più le invitiamo e le facciamo entrare in noi. “Non voglio queste cose e allora perché continuano a venire da me? Non voglio che vada in questo modo e allora perché va in questo modo?”. Eccoci al punto! Vogliamo che le cose vadano in un certo modo, perché non capiamo la nostra stessa mente. Non ci vuole un’eternità per capire che baloccarsi con queste cose è un errore. Infine quando consideriamo bene la cosa, ci arriviamo: “Oh, queste cose vengono perché sono io a farle venire!”.

Volere non sperimentare qualcosa, volere stare in pace, volere non essere distratti o agitati, tutto ciò è attaccamento. E’ una palla di ferro incandescente. Ma non fa niente. Continuate con la pratica. Ogni volta che sperimentate uno stato d’animo o un’emozione esaminateli nei termini delle loro qualità di impermanenza, insoddisfazione e non sé e cacciateli in una di queste tre categorie. Poi riflettete e indagate: queste emozioni inquinanti sono quasi sempre accompagnate da un’eccessiva quantità di pensieri. Quando ci lasciamo guidare da uno stato d’animo, la proliferazione mentale gli tiene dietro. Il pensiero e la saggezza sono due cose diametralmente opposte. Il pensiero non fa che reagire allo stato d’animo e a seguirlo,

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e vanno avanti così senza una fine in vista. Ma se la saggezza è all’opera, essa fermerà la mente. La mente si ferma e non va più in giro. C’è solo la conoscenza e il riconoscere ciò che si è appena sperimentato: quando sorge questa emozione, la mente è così; quando questo stato d’animo sorge, è in quest’altra maniera. Incrementiamo solo il “conoscere”. Alla fine realizziamo: “Ehi, tutto questo pensare, tutto questo inutile chiacchiericcio, questo preoccuparsi e giudicare, è tutto insensato e immaginario. Tutto è impermanente, insoddisfacente e non-me o mio”. Cacciatelo in una di queste tre caratteristiche onnicomprensive e acquietate l’agitazione. In tal modo lo tagliate alla radice. Più tardi, seduti in meditazione, si rifarà sentire. Tenetelo d’occhio, spiatelo.

E’ come allevare bufali d’acqua. Ci sono: il contadino, qualche pianta di riso e il bufalo. Naturalmente il bufalo vuole mangiare quelle piante di riso. Ai bufali piace mangiare le piante di riso, vero? La vostra mente è un bufalo. Le emozioni inquinanti sono come le pianticelle di riso. il conoscere è il contadino. La pratica del Dhamma è proprio così. Non diversa. Fate voi stessi il paragone. Quando sorvegliate un bufalo, cosa fate? Lo liberate, gli permettete di andarsene in giro libero, ma contemporaneamente lo tenete d’occhio. Se si avvicina troppo alle piante di riso, lo richiamate. Quando il bufalo vi sente, si allontana da esse. Ma non siate distratti, non dimenticatevi del bufalo. Se avete un bufalo ostinato che non fa attenzione ai vostri richiami, prendete un bastone e dategli una forte randellata sul dorso. Vedrete che non oserà avvicinarsi più alle pianticelle di riso. Ma non lasciatevi andare a fare una siesta. Se vi sdraiate e sonnecchiate, quelle piante di riso faranno parte del passato. La pratica del Dhamma è la stessa cosa; controllate la mente; il conoscere stesso fa da sorvegliante alla mente.

“Quelli che sorvegliano accuratamente la loro mente saranno liberati dalle trappole di Mara (la personificazione buddhista delle forze antagoniste all’Illuminazione)”. Eppure anche questa mente che conosce è sempre la mente, e allora chi osserva la mente? Una tale idea vi può procurare parecchia confusione. La mente è una cosa, il conoscere è un’altra; eppure il conoscere trae origine da quella stessa mente. Che vuol dire conoscere la mente? Com’è imbattersi negli stati d’animo e nelle emozioni? Com’è stare senza alcuna emozione inquinante? Ciò che sa cosa sono queste cose è ciò che intendiamo per “conoscere”. Il conoscere segue attentamente la mente, ed è da questo conoscere che nasce la saggezza. La mente è ciò che pensa e rimane impigliata nelle emozioni, una dopo l’altra, proprio come il nostro bufalo. Qualsiasi direzione essa prenda, state all’erta. Come potrebbe sfuggirvi? Se gironzola intorno alle piante di riso, urlatele dietro. Se non ascolta, prendete un bastone e giù una randellata! E’ così che frustrate l’attaccamento.

Addestrare la mente non è quindi diverso. Quando la mente sperimenta un’emozione e subito vi si aggrappa, è compito del conoscere fare da insegnante. Esamina lo stato d’animo per vedere se è positivo o negativo. Spiega alla mente come funziona la legge di causa ed effetto. E quando essa si aggrappa di nuovo a qualcosa che ritiene

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gradevole, il conoscere deve di nuovo insegnare alla mente, di nuovo deve spiegare la legge di causa ed effetto, fino a che la mente riesce a mettere tutto da parte. Questo porta alla pace della mente. Quando infine scopre che tutto ciò che afferra e a cui si aggrappa è di per sé indesiderabile, semplicemente la smette. Non le interessano più quelle cose, perché incontra uno sbarramento di rimproveri e rabbuffi. Opponetevi alla bramosia della mente con determinazione. Sfidatela apertamente, fino a che l’insegnamento penetrerà nel cuore. E’ così che addestrate la mente.

Fin dal tempo in cui mi sono ritirato nella foresta a meditare, ho praticato in questo modo. Quando addestro i miei discepoli, lo faccio in questa stessa maniera. Perché voglio che vedano la verità, piuttosto che leggere cosa dicono le scritture; voglio che vedano se i loro cuori sono liberi dal pensiero concettuale. Quando avviene la liberazione, ne siete consapevoli; e quando non c’è ancora la liberazione, contemplate il processo per cui una cosa è causa di un’altra. Contemplate fino a che sapete e conoscete tutto ciò ripetutamente e completamente. Una volta che l’avete penetrato attraverso una conoscenza diretta, se ne andrà per i fatti suoi. Quando interviene qualcos’altro e vi sentite impantanati, allora indagate. Non smettete finché quello non ha lasciato la presa. Continuate a indagare proprio in quel punto. Personalmente, è così che mi sono esercitato, perché il Buddha ha detto che dovete arrivare alla conoscenza da soli. Tutti i saggi conoscono la verità da soli. Dovete anche voi scoprirla nelle profondità del vostro cuore. Conoscete voi stessi.

Se avete fiducia in ciò che conoscete e se vi fidate di voi, vi sentite a vostro agio anche se altri vi criticano o vi lodano. Siete a vostro agio qualsiasi cosa dicano gli altri. Perché? Perché conoscete voi stessi. Se uno vi riempie di lodi, ma voi non ne siete pienamente meritevoli, ci credete veramente a quello che vi dicono? Naturalmente no. Andate avanti semplicemente con la vostra pratica del Dhamma. Quando uno che non ha fiducia in ciò che sa viene lodato, tende a crederci e questo distorce la sua percezione. Allo stesso modo, quando qualcuno vi critica, fatevi un bell’esame di coscienza e ditevi: “No, ciò che hanno detto non è vero. Mi accusano di aver sbagliato, ma non è così. Le loro accuse non sono valide”. Se la situazione è questa, a che pro’ arrabbiarsi con loro? Le loro parole non sono sincere. Però se siete in errore proprio come loro vi accusano, allora la critica è corretta. Se così è, a che pro’ arrabbiarsi con loro? Quando riuscite a pensare in questa maniera, vedrete che la vita è veramente pacifica e confortevole. Niente di ciò che avviene è sbagliato. Tutto è Dhamma. E’ così che io ho praticato.

SEGUIRE LA VIA DI MEZZO

E’ il sentiero più breve e più diretto. Se veniste a discutere con me alcuni punti del Dhamma, io non prenderei parte alla discussione. Invece di confutare, vi offrirei alcune riflessioni da tenere presenti. Cercate di capire ciò che il Buddha ha insegnato: lasciate andare tutto. Lasciate andare con conoscenza e consapevolezza. Senza conoscenza e consapevolezza, il lasciar andare non è molto diverso da quello dei buoi

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e dei bufali. Se non ci mettete il cuore, il lasciar andare non è quello giusto. Lasciate andare perché avete capito la realtà convenzionale. Questo è non-attaccamento. Il Buddha ha insegnato che negli stadi iniziali della pratica del Dhamma dovete lavorare molto, sviluppare completamente le cose e attaccarvi molto. Attaccarvi al Buddha. Attaccarvi al Dhamma. Attaccarvi al Sangha. Attaccarvi con fermezza, profondamente. Questo è ciò che il Buddha ha insegnato. Attaccarvi con sincerità e perseveranza e mantenere la presa.

Durante la mia ricerca, ho provato tutti i metodi possibili di contemplazione. Ho sacrificato la mia vita al Dhamma perché avevo fede nella realtà dell’Illuminazione e del Sentiero che vi conduce. Queste cose esistono veramente, proprio come ha detto il Buddha. Ma per realizzarle è necessario praticare, praticare rettamente. Bisogna spingersi fino al massimo delle proprie possibilità. Ci vuole il coraggio di esercitarsi, di riflettere e di cambiare radicalmente. Ci vuole il coraggio di fare veramente tutto ciò che è necessario. E come lo fate? Addestrando il cuore. I pensieri in testa ci dicono di andare in una certa direzione, ma il Buddha ci dice di andare in un’altra. Perché è necessario addestrarci? Perché il cuore è completamente ricoperto da incrostazioni inquinanti. Un cuore non ancora trasformato dall’esercizio è così. E’ inaffidabile, per cui non credeteci. Non è ancora virtuoso. Come possiamo avere fiducia in un cuore che non ha purezza e chiarezza? Perciò il Buddha ci mise in guardia dal confidare in un cuore impuro. Inizialmente il cuore è solo al servizio delle contaminazioni, e quando i due stanno a lungo assieme, il cuore si guasta e si corrompe. Per questo il Buddha ci ha detto di non riporre fiducia nel cuore.

Se consideriamo attentamente la nostra disciplina monastica, vedremo che tutto si riduce ad esercitare il cuore. E ogni volta che addestriamo il cuore ci sentiamo agitati e infastiditi. Non appena proviamo agitazione o fastidio, cominciamo a lamentarci “Ragazzi, questa pratica è veramente difficile! E’ quasi impossibile”. Ma il Buddha non la pensava così. Egli pensava che quando l’addestramento ci procura agitazione e disagio, vuol dire che siamo sulla strada giusta. Ma noi non la pensiamo così. Pensiamo che siano segni di qualcosa di sbagliato. Questo malinteso fa sembrare la pratica molto difficile. All’inizio sentiamo agitazione, siamo nervosi e allora pensiamo di essere fuori strada. Tutti vogliono star bene, ma non si chiedono se sia corretto o meno. Quando andiamo contro le contaminazioni e sfidiamo la nostra bramosia, è normale che soffriamo. Ci sentiamo agitati, sconvolti, a disagio e infine lasciamo perdere. Pensiamo di essere sulla strada sbagliata. Il Buddha invece avrebbe detto che siamo su quella giusta. Stiamo affrontando le nostre impurità e sono loro che ci procurano agitazione e disagio. Ma pensiamo invece di essere noi stessi agitati e a disagio. Il Buddha invece ci ha detto che sono le impurità che saltano su e si agitano. E’ la stessa cosa per tutti.

Per questo la pratica del Dhamma è così impegnativa. Le persone non esaminano le cose con chiarezza. Generalmente perdono il Sentiero, andando o nella direzione dell’auto-indulgenza o dell'auto-punizione. Si bloccano su uno di questi due estremi.

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Da una parte ci sono quelli a cui piace indulgere in tutto ciò che il cuore desidera. Fanno tutto ciò che si sentono di fare. Gli piace sedere comodi. Gli piace sdraiarsi e stirarsi comodamente. Tutto quello che fanno, ha lo scopo di farli stare comodi e a loro agio. Questo è ciò che considero auto-indulgenza: attaccarsi alla sensazione confortevole. Con un tale atteggiamento come può progredire la pratica del Dhamma?

Se non riusciamo più a indulgere in comodità, sensualità e benessere, ci irritiamo. Ci sentiamo defraudati, ci arrabbiamo e perciò ne soffriamo a causa di questi sentimenti. Questo è uscire dal Sentiero in direzione dell’auto-punizione. Questa non è la via del saggio, né la via di chi è calmo. Il Buddha ci mise in guardia dal cadere in uno di questi due estremi: dell’auto-indulgenza o dell’auto-punizione. Quando sperimentate un piacere, siatene consci con consapevolezza. Quando sperimentate rabbia, malevolenza e irritazione, rendetevi conto che non state seguendo le orme del Buddha. Non è la via per chi cerca la pace, ma la strada della gente comune. Un monaco che cerca la pace non percorre queste vie. Procede diritto nel mezzo, lasciando l’auto-indulgenza a sinistra e l’auto-punizione a destra. Questa è la corretta pratica del Dhamma.

Se intraprendete questa pratica monastica, dovete camminare sulla Via di Mezzo, senza lasciarvi dominare dalla felicità o dall'infelicità. Lasciatele perdere. Invece sembra proprio che ci spingano da una parte all’altra. Sembriamo il battaglio di una campana, spinto avanti e indietro da un lato all’altro. Nella Via di Mezzo si lascia andare sia la felicità che l’infelicità; la giusta pratica è quella che sta nel mezzo. Quando ci colpisce il desiderio di felicità e non riusciamo a soddisfarlo, proviamo dolore.

Camminare lungo la Via di Mezzo del Buddha è impegnativo e arduo. Ci sono solo quei due estremi, il buono e il cattivo. Se crediamo in quello che essi ci dicono, dobbiamo seguire i loro ordini. Se ci arrabbiamo con qualcuno, immediatamente andiamo a cercare un bastone per picchiarlo. Niente tolleranza e pazienza. Se amiamo qualcuno vogliamo accarezzarlo dalla testa ai piedi. Ho ragione? Questi due estremi non considerano affatto la parte in mezzo. Non è ciò che il Buddha ci ha raccomandato. Egli ci ha insegnato a lasciar gradualmente perdere tutto ciò. La sua pratica segue un sentiero che porta fuori dall’esistenza, lontano dalla rinascita – un sentiero libero dal divenire, dalla nascita, dalla felicità, dall’infelicità, dal bene e dal male.

La gente che brama l’esistenza non vede ciò che sta nel mezzo. Escono dal Sentiero puntando verso la felicità e poi, ignorando completamente il mezzo, passano all’altro lato, all’insoddisfazione e all’irritazione. Non fanno altro che evitare il centro. Questo punto sacro è per loro invisibile, mentre passano correndo da una parte all’altra. Non si fermano lì dove non c’è né esistenza né rinascita. Non gli piace, per cui non si

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soffermano. O scendono da casa e vengono morsi da un cane o volano in alto e sono beccati da un avvoltoio. Questa è l’esistenza.

L’umanità è cieca a ciò che non ha esistenza, che non ha rinascita. Il cuore umano è cieco a questo, perciò non fa che passargli accanto o evitarlo. La Via di Mezzo del Buddha, il Sentiero della retta pratica del Dhamma, trascende l’esistenza e la rinascita. La mente che è al di là sia della purezza che dell'impurità è libera. Questo è il sentiero del saggio che sta in pace. Se non lo percorriamo non saremo mai dei saggi pacifici. Questa pace non avrà mai occasione di fiorire. Perché? A causa dell’esistenza e della rinascita. Perché c’è nascita e morte. Il sentiero del Buddha non ha né nascita né morte. Non ha alti e bassi. Non ha felicità o sofferenza. Non ha bene o male. E’ un sentiero diretto. E’ il sentiero della quiete e della calma. E’ pacifico, libero dal piacere e dal dolore, dalla felicità e dall’angoscia. Questo è il modo di praticare il Dhamma. Quando si sperimenta ciò, la mente può fermarsi. Può smettere di porre domande. Non c’è più bisogno di andare in cerca di risposte. Ecco perché il Buddha disse che il Dhamma è qualcosa che il saggio conosce da solo, direttamente. Non c’è bisogno di chiederlo a nessuno. Capiamo perfettamente da noi stessi, senza ombra di dubbio, che le cose sono esattamente come il Buddha ha detto che sono. DEDIZIONE ALLA PRATICA

Vi ho raccontato alcuni episodi della mia pratica. Io non ho grandi conoscenze. Non ho studiato molto. Quello che ho studiato è questo mio cuore e questa mia mente e ho imparato in modo naturale attraverso l’esperienza, i tentativi e gli sbagli. Quando mi piaceva qualcosa, esaminavo quello che mi stava accadendo e a che cosa portava quel desiderio. Inevitabilmente mi spingeva verso una sofferenza futura. La mia pratica era quella di osservare me stesso. Man mano che la comprensione e l’intuizione profonda si approfondivano, riuscii a conoscere me stesso.

Praticate con una irremovibile dedizione! Se volete praticare il Dhamma, cercate di non pensare troppo. Se durante la meditazione vi accorgete che vi state sforzando per raggiungere risultati specifici, allora è meglio che smettiate. Quando la mente si assesta nella pace e cominciate a pensare: “Ecco finalmente! Ci sono, vero? E’ proprio così”, allora fermatevi. Prendete tutte le vostre conoscenze analitiche e teoriche, fatene un fagotto e riponetele in un baule. E non tiratele fuori per discuterle o insegnarle. Non è questo il tipo di conoscenza che penetra all’interno. Sono altri tipi di conoscenza.

Quando si vede qualcosa nella realtà, non sempre corrisponde alla descrizione fattane per iscritto. Per esempio, mettiamo che scriviamo la parola “desiderio sensuale”. Quando il desiderio sensuale invade veramente il cuore, è impossibile che la parola scritta trasmetta lo stesso significato della realtà. Lo stesso accade con la “rabbia”. Possiamo scrivere la parola in maiuscole su un cartello, ma quando veramente siamo

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arrabbiati l’esperienza non ha niente a che fare con le parole. Non abbiamo neanche il tempo di leggerle quelle parole, prima che il cuore sia inghiottito dalla rabbia.

Questo è un punto molto importante. Gli insegnamenti teorici hanno la loro importanza, ma bisogna che penetrino nel cuore. Devono essere interiorizzati. Non possiamo conoscere veramente il Dhamma se non lo interiorizziamo. Non lo vediamo realmente. Anch’io non facevo eccezione. Non ho una vasta conoscenza, ma ho studiato abbastanza da passare alcuni esami di teoria buddhista. Un giorno ebbi occasione di ascoltare un discorso di Dhamma tenuto da un maestro di meditazione. Mentre ascoltavo cominciai ad avere pensieri poco rispettosi. Non sapevo come ascoltare un vero discorso di Dhamma. Non riuscivo a capire che cosa stesse dicendo quel monaco errante. Era come se il suo insegnamento provenisse da una sua esperienza diretta, come se fosse in contatto con la verità.

Col passare del tempo, man mano che acquisivo una certa padronanza diretta della pratica, vidi da me la verità di cui parlava quel monaco. Compresi in che modo comprendere. E così sulla sua scia sorse una comprensione diretta. Il Dhamma stava mettendo radici nel mio cuore e nella mia mente. Ci volle molto, molto tempo prima che capissi che tutto quello che aveva detto quel monaco errante, proveniva da ciò che aveva visto lui stesso. Il Dhamma che insegnava proveniva direttamente dalla sua esperienza, non da un libro. Parlava secondo la sua comprensione e la sua intuizione profonda. Quando io stesso percorsi il Sentiero, feci l’esperienza di tutti i dettagli che aveva descritto e dovetti ammettere che aveva ragione. Perciò andai avanti.

Cercate di afferrare ogni occasione per praticare il Dhamma. Che sia un momento tranquillo o no, non preoccupatevi di questo. La cosa più importante è mettere in moto la ruota della pratica e creare le cause per la futura liberazione. Se avete fatto un buon lavoro, non c’è bisogno di preoccuparsi dei risultati. Non angosciatevi pensando che non state ottenendo alcun risultato. L’angoscia non è pace. D’altronde se non fate il lavoro, come potete aspettarvi dei risultati? Come potete credere di poter vedere? Solo chi cerca può scoprire. Solo chi mangia, si sazia. Tutto ciò che ci circonda è falso. Continuare a rendersene conto, anche per decine di volte, è già un bene. Quel tizio continua a raccontarci sempre le stesse bugie e storielle. Se ci rendiamo conto che sta mentendo, non è poi così male, ma certe volte ci vuole parecchio tempo prima di accorgercene. Quel tizio proverà a raggirarci ancora e ancora.

Praticare il Dhamma vuol dire mantenere la virtù, sviluppare samadhi e coltivare la saggezza nel cuore. Ricordatevi e riflettete sulla Triplice Gemma: il Buddha, il Dhamma e il Sangha. Abbandonate completamente tutto, senza eccezioni. Le nostre stesse azioni sono le cause e le condizioni che matureranno già in questa vita. Perciò impegnatevi sinceramente nella pratica.

Anche se dobbiamo sederci su una sedia per meditare, possiamo lo stesso tenere fissa l’attenzione. All’inizio non la terremo su molte cose, solo sul respiro. Se preferite, potete ripetere mentalmente le parole “Buddha”, “Dhamma” o “Sangha” insieme ad

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ogni respiro. Mentre tenete fissa l’attenzione cercate di non controllare il respiro. Se il respiro sembra laborioso o difficile, significa che non abbiamo il giusto approccio. Fino a che non ci sentiremo a nostro agio con il respiro, sembrerà sempre o troppo superficiale o troppo profondo, troppo sottile o troppo grossolano. Ma una volta che ci rilassiamo nel respiro, trovandolo piacevole e comodo, chiaramente consapevoli di ogni ispirazione ed espirazione, allora possiamo dire che ne abbiamo compreso il senso. Se non lo facciamo nel modo corretto, perderemo il respiro. Se questo dovesse accadere allora è meglio smettere per un po’ e rimettere a fuoco la consapevolezza.

Se durante la meditazione sentite l'impulso di sperimentare fenomeni psichici o se la mente diventa luminosa e radiante, o se avete visioni di palazzi celesti, ecc. non abbiate paura. Siate semplicemente consapevoli di ciò che state sperimentando e continuate a meditare. Ogni tanto, può accadere che dopo un po’ il respiro rallenti fino a scomparire. Vi sembra di non sentire più il respiro e vi allarmate. Non preoccupatevi, non c’è niente di cui essere spaventati. Che il respiro sia cessato, lo pensate soltanto; in effetti il respiro è sempre lì, ma lavora a un livello molto più sottile del solito. Dopo un po’ il respiro tornerà normale da solo.

All’inizio concentratevi solo per rendere calma e tranquilla la mente. Dovreste arrivare a un tale livello di meditazione da essere in grado di entrare volontariamente in uno stato di pace, sia che siate seduto in poltrona, o che siate in battello o in qualsiasi altro luogo. Quando salite in treno accomodatevi e portate subito la mente in uno stato di pace. Ovunque siate potete sempre sistemarvi in qualche modo. Questa capacità dimostra che vi state familiarizzando con il Sentiero. Poi cominciate ad indagare. Utilizzate il potere di questa mente tranquilla per indagare nella vostra esperienza. Alcune volte riguarda ciò che udite, altre ciò che vedete, odorate, gustate, provate col corpo o percepite e pensate col cuore o con la mente. Qualsiasi esperienza sensoriale si presenti, che vi piaccia o no, prendetela come un oggetto di contemplazione. Siate semplicemente consci di quello che state sperimentando. Non proiettate significati o interpretazioni sull’oggetto di consapevolezza sensoriale. Se è buono, sapete solo che è buono; se è cattivo, sapete solo che è cattivo. Questa è una realtà convenzionale. Buono o cattivo, è tutto comunque impermanente, insoddisfacente e non-sé. Tutto è inaffidabile. Non c’è niente per cui vale la pena provare attaccamento o aggrapparsi. Se riuscite a mantenere questa capacità di calmare e indagare, sorgerà naturalmente la saggezza. Qualunque cosa venga sperimentata, percepita, allora andrà a finire sotto queste tre categorie: impermanenza, insoddisfazione, non-sé. Questa è la meditazione vipassana. La mente è ormai tranquilla e quando affiorano stati mentali impuri, cacciateli in uno di questi tre bidoni dell’immondizia. Questa è l’essenza della vipassana: ridurre tutto a impermanenza, insoddisfazione, non-sé. Buono, cattivo, orribile o comunque sia, buttatelo via. In breve, dal bel mezzo delle tre caratteristiche universali fiorirà la comprensione e l’intuizione profonda, anche se questa sarà ancora debole. A questo stadio iniziale la saggezza è ancora fluttuante e debole, ma cercate di mantenere la pratica in modo continuativo. E’ difficile da rendere a parole, ma è un po’ come se

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qualcuno volesse conoscermi: dovrebbe venire a vivere qui. Gradualmente con il contatto quotidiano arriveremmo a conoscerci.

RISPETTO PER LA TRADIZIONE

E’ tempo ormai che cominciamo a meditare. Meditare per capire, per abbandonare, per lasciare andare e per trovare la pace.

Un tempo ero un monaco errante. Viaggiavo per incontrare i maestri e per cercare la solitudine. Non andavo in giro a offrire discorsi di Dhamma. Andavo ad ascoltare i discorsi di Dhamma dei più grandi maestri del tempo. Non andavo da loro a insegnare. Ascoltavo tutti i consigli che essi mi offrivano. Perfino quando monaci più giovani e inesperti cercavano di dirmi cosa era il Dhamma, ascoltavo pazientemente. Raramente discutevo il Dhamma. Non vedevo l’utilità di lasciarmi coinvolgere in lunghe discussioni. Quando accettavo un insegnamento lo interiorizzavo subito, direttamente, proprio dove sottolineava la rinuncia e il lasciar andare. Quello che facevo lo facevo seguendo rinuncia e lasciar andare. Non abbiamo bisogno di diventare esperti delle scritture. Ogni giorno che passa diventiamo più vecchi e ogni giorno siamo accecati da un miraggio, perdendo di vista la realtà. Praticare il Dhamma è una cosa ben diversa che studiarlo.

Non critico nessuna delle molte tecniche e stili di meditazione. Nessuna è sbagliata fintanto che ne comprendiamo lo scopo e il significato. Però, secondo me, chiamarci meditanti buddhisti e non seguire strettamente il codice monastico di disciplina (vinaya) non funziona. Perché? Perché cerchiamo di evitare una fase vitale del Sentiero. Tralasciare la virtù, il samadhi o la saggezza non va bene. Alcuni potrebbero dirvi di non attaccarvi alla serenità della meditazione samatha: “Non preoccuparti di samatha; vai direttamente alla pratica vipassana di saggezza e intuizione profonda”. Secondo come la vedo io, se cerchiamo di volgerci direttamente verso la vipassana, troveremo che sarà impossibile arrivare alla fine del viaggio.

Non abbandonate la pratica e le tecniche di meditazione di eminenti Maestri della Foresta, quali i venerabili Ajahn Sao, Mun, Taungrut e Upali. La via che hanno insegnato, se la pratichiamo come essi hanno fatto, è totalmente affidabile e vera. Se seguiamo le loro orme avremo una chiara comprensione diretta in noi stessi. Ajahn Sao mantenne una virtù impeccabile. Mai disse che avremmo potuto lasciarla da parte. Se questi grandi Maestri della Foresta hanno raccomandato di praticare la meditazione e la disciplina monastica in un certo modo, dobbiamo cercare di seguirli, se non altro per rispetto verso di loro. Se hanno detto di farlo, facciamolo. Se hanno detto di smetterla perché è sbagliato, allora smettiamola. E lo facciamo perchè abbiamo fede. Lo facciamo mettendoci un'incrollabile sincerità e determinazione. Lo facciamo finché vedremo il Dhamma nel nostro stesso cuore, fino a che saremo il Dhamma. Così hanno insegnato i Maestri della Foresta. Di conseguenza i loro discepoli hanno sviluppato un gran rispetto, ammirazione e affetto per loro, perché, seguendo le loro orme, hanno visto ciò che i loro maestri videro.

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Provateci. Fatelo proprio come ve l’ho indicato. Se lo fate veramente, vedrete il Dhamma, sarete il Dhamma. Se cominciate veramente la ricerca cosa mai potrà fermarvi? Le contaminazioni mentali potrete superarle se le avvicinate con la giusta strategia: siate capaci di rinunciare, siate parchi con le parole, accontentatevi di poco, e abbandonate tutte le idee e le opinioni che provengono dall’arroganza e dall’egocentrismo. Allora sarete in grado di ascoltare chiunque, anche se quello che dicono è sbagliato. A maggior ragione sarete anche in grado di ascoltare pazientemente coloro che dicono il vero. Esaminatevi in questo modo. Vi assicuro che è possibile, se ci provate. Ma gli studiosi difficilmente vengono a praticare il Dhamma. Ce ne sono alcuni, ma pochi. E’ un peccato. Il fatto che siate arrivati fino a qui, è già di per sé degno di lode. Significa che avete forza interiore. Alcuni monasteri promuovono solo lo studio. I monaci non fanno altro che studiare, in continuazione, senza fine e non recidono ciò che va reciso. Studiano soltanto la parola “pace”. Ma se riuscite a stare immobili allora scoprirete qualcosa di grande valore. E’ così che dovete portare avanti la vostra ricerca. E’ una ricerca molto importante e completamente immobile. Va diritto al cuore di ciò che avete letto. Ma se gli studiosi non praticano la meditazione, la loro conoscenza mancherà di comprensione. Solo quando mettono in pratica gli insegnamenti, quelle cose che hanno studiato diventeranno allora chiare e vivide.

Perciò cominciate a praticare! Sviluppate questo tipo di comprensione. Provate a stare nella foresta e a vivere a stare in una di queste piccole capanne. Provare per un po’ questo tipo di vita e verificarla da voi stessi sarà di maggior beneficio che solo leggere libri. Poi potrete discutere con voi stessi. Mentre osservate la mente è come se essa lasciasse andare tutto e riposasse nel suo stato naturale. Quando da questo stato naturale di immobilità sorgono increspature e ondeggiamenti sotto forma di pensieri e concetti, vuol dire che si è avviato il processo condizionante dei sankhara. Siate cauti e guardinghi nei riguardi di questo processo di condizionamento. Quando viene smossa, scacciata dal suo stato naturale, la pratica del Dhamma non va più nella direzione giusta. Diventa o auto-indulgenza o auto-punizione. Proprio così. E’ questo che fa sorgere la rete dei condizionamenti mentali. Se lo stato mentale è buono, il condizionamento sarà positivo. Se è cattivo, il condizionamento sarà negativo. Tutto ciò ha origine nella vostra stessa mente.

Vi posso proprio dire che osservare da vicino come lavora la mente è un gran divertimento. Potrei parlare su questo argomento per tutta la giornata. Quando riuscite a vedere il comportamento della mente, vedrete anche come funzionano questi processi e come la mente subisce un continuo lavaggio del cervello da parte delle impurità mentali. Io vedo la mente solo come un unico punto. Gli stati psicologici sono ospiti che vengono a visitare questo punto. Alcuni vengono per una qualche richiesta, altri a intrattenersi in visita. Arrivano nella sala d'aspetto. Esercitate la mente in modo da osservarli e conoscerli con gli occhi di una vigile consapevolezza. E’ così che vi prendete cura del cuore e della mente. Quando un visitatore si presenta fategli cenno di allontanarsi. Se li fate entrare, dove li

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accomodate? C’è un solo posto e ci siete seduti voi. Passate tutta la giornata su quel punto.

Questa è l’incrollabile e ferma consapevolezza del Buddha che vigila e protegge la mente. Siete seduti proprio lì. Fin da quando siete emersi dal ventre di vostra madre, ogni visitatore che si è presentato è arrivato proprio lì. Non importa quante volte vengano, vengono comunque sempre allo stesso punto. Siccome li conosce tutti, la consapevolezza del Buddha è seduta lì sola, ferma e incrollabile. I viaggiatori arrivano cercando di influenzare in qualche modo la mente, di condizionarla o agitarla. Quando riescono a coinvolgere la mente nei loro problemi, sorgono gli stati psicologici. Qualunque sia il problema, ovunque porti, lasciatelo andare, non ha alcuna importanza per voi. Semplicemente riconoscete gli ospiti man mano che arrivano. Una volta entrati si accorgeranno che c’è solo una sedia, e fino a che la occupate voi non avranno un posto dove sedersi. Arrivano pensando di riempirvi le orecchie di pettegolezzi, ma questa volta non c’è posto per loro. E la prossima volta che ritornano troveranno che di nuovo non c’è una sedia libera. Non importa quante volte questi visitatori importuni si faranno vedere, essi incontreranno sempre la stessa persona seduta allo stesso posto. Non vi siete mai mossi da quella sedia. Per quanto tempo continueranno ad andare avanti? Semplicemente parlando con loro riuscite a conoscerli benissimo. Tutte le cose e tutte le persone che avete conosciuto da quando sperimentate il mondo, verranno a farvi visita. Per vedere il Dhamma in modo completo basta osservarli ed esserne consapevoli proprio lì. Discutete, osservate e contemplate per conto vostro.

E’ così che si discute il Dhamma. Io non so parlare di nient’altro. Posso andare avanti a parlare in questo modo, ma alla fine non è altro che parlare e ascoltare. Vi consiglierei perciò di andare a praticare realmente.

CONOSCERE A FONDO LA MEDITAZIONE

Se guardate con i vostri occhi, avrete certe esperienze. C’è il Sentiero che vi guida e vi dirige. Man mano che andate avanti, la situazione cambia e dovete adattare il vostro approccio per rimediare ai problemi che sorgono. Può passare un certo tempo prima che vediate un’indicazione stradale chiara. Se volete intraprendere lo stesso Sentiero che io ho percorso, il viaggio deve senz’altro aver luogo all’interno di voi, nel vostro cuore. Altrimenti, incontrerete numerosi ostacoli.

E’ lo stesso che sentire un suono. Il sentire è una cosa, il suono un’altra, e noi siamo consci di questo senza mischiare le due cose. Contiamo sulla natura affinché ci fornisca il materiale grezzo su cui indagare per la ricerca della Verità. Poi la mente seziona e separa da sé i fenomeni. Cioè la mente semplicemente non viene coinvolta. Quando l’orecchio sente un suono osservate ciò che avviene nella mente e nel cuore. Vi si impigliano, vengono intrappolati e trascinati via dal suono? Si irritano? Perlomeno cercate di conoscere questo. Quando un suono poi viene registrato, non disturberà più la mente. Stando qui, prendiamo le cose più a portata di mano invece di

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quelle lontane. Anche se volessimo sfuggire al suono, non potremmo farlo. L’unico modo per sfuggirlo è esercitare la mente a rimanere ferma di fronte ad esso. Mettetelo giù il suono. Anche se abbandoniamo il suono, possiamo udire lo stesso. Sentiamo, ma lasciamo andare il suono, perchè lo abbiamo già messo giù. Non è che dobbiamo separare forzatamente il suono dalla mente. Se ne separa automaticamente lei stessa, quando abbandoniamo e lasciamo andare. Poi, anche se vogliamo attaccarci al suono, la mente non lo può più fare. Perché, una volta compresa la vera natura delle cose visibili, dei suoni, degli odori, dei sapori e del resto, e quando il cuore vede chiaramente, allora le cose che riguardano i sensi, tutte senza eccezione, ricadono sotto il dominio delle caratteristiche universali di impermanenza, insoddisfazione e mancanza di un sé.

Ogni volta che si sente un suono va compreso nei termini di queste tre caratteristiche universali. Ogni volta che c’è contatto sensoriale con l’orecchio, noi sentiamo, ma è come se non sentissimo. Ciò non significa che la mente non funziona più. La consapevolezza e la mente si intersecano e si fondono per controllarsi a vicenda, sempre, senza sosta. Quando la mente raggiunge questo livello di pratica, non ha importanza che via sceglieremo per svolgere la nostra ricerca. Coltiveremo l’indagine dei fenomeni - uno dei fattori essenziali di illuminazione - e questa analisi proseguirà per conto suo seguendo il proprio impulso.

Discutete il Dhamma con voi stessi. Fate in modo da districare e liberare i sentimenti, i ricordi, le percezioni, i pensieri, le intenzioni, la coscienza. Niente riuscirà a toccarli se lasciate che continuino a svolgere le loro funzioni indisturbati. Per coloro che dominano la propria mente, questo processo di riflessione e indagine scorre automaticamente; non c’è bisogno di dirigerlo intenzionalmente. Verso qualunque direzione la mente si volga, immediatamente è presente la contemplazione.

Se la pratica del Dhamma tocca questi livelli, ci saranno anche altri benefici collaterali. Durante la notte non russeremo, non parleremo nel sonno, non digrigneremo i denti, e non ci gireremo continuamente nel letto. Anche svegliandoci da una profonda dormita, non ci sentiremo sonnolenti. Saremo pieni di energia e vigili come se fossimo sempre rimasti svegli. Un tempo io russavo, ma da quando la mente sta sempre sveglia e vigile, non russo più. Come si può russare da svegli? E’ solo il corpo che si ferma e dorme. La mente è completamente sveglia giorno e notte, sempre. Questa è la pura e sublime consapevolezza del Buddha: di Colui che Conosce, del Risvegliato, del Gaudioso, del perfettamente Radiante. Questa chiara consapevolezza non dorme mai. L’energia si auto-rigenera e mai si intorpidisce o impigrisce. A questo stadio possiamo andare avanti senza dormire per due o tre giorni. Quando il corpo dà segni di esaurimento, ci sediamo in meditazione e immediatamente entriamo in un profondo samadhi per cinque o dieci minuti. Quando usciamo da questo stato ci sentiamo freschi e rinvigoriti come se avessimo dormito tutta la notte. Se non abbiamo eccessive preoccupazioni per il nostro corpo, il sonno ha un’importanza minima. Prendiamo tutte le misure necessarie per curare il corpo,

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ma non mettiamoci in ansia per le sue condizioni fisiche. Che segua le leggi di natura. Non dobbiamo essere noi a dire al corpo cosa deve fare. Se lo dice da solo. E’ come se qualcuno ci stimolasse, ci spronasse a sforzarci sempre di più. Anche se ci sentiamo pigri, è come se ci fosse una voce che ci sprona continuamente a essere diligenti. A questo punto è impossibile ristagnare, perché lo sforzo e il progresso hanno acquisito un innarrestabile impulso. Controllate voi stessi. E’ da parecchio che studiate e imparate; ora è tempo di studiare e imparare su di voi.

All’inizio della pratica del Dhamma è di vitale importanza ritirarsi in isolamento. Quando viviamo da soli in isolamento ricordiamoci le parole del Ven. Sariputta: “L’isolamento fisico è causa e condizione per il sorgere dell’isolamento mentale, di stati di profondo samadhi liberi da ogni contatto sensoriale esterno. Questo isolamento della mente è, a sua volta, causa e condizione per l’isolamento dalle contaminazioni mentali, e per l’illuminazione”. Eppure c’è ancora gente che dice che l’isolamento non è importante: “se il cuore è tranquillo non ha importanza dove si sta”. E’ vero, ma dovremmo considerare che all’inizio è importante l’isolamento fisico in un ambiente adatto. Oggi stesso o al più presto, cercate un cimitero solitario in una foresta remota, lontana da ogni abitazione. Provate a vivere completamente da soli. Oppure cercate una vetta maestosa che incuta timore. Andateci da soli. D'accordo? Vi divertirete un sacco per tutta la notte. Solo allora capirete da voi stessi. Ci fu un tempo che anch’io pensavo che l’isolamento fisico non fosse poi così importante. Era quello che pensavo, ma una volta che lo sperimentai veramente, ebbi modo di riflettere su ciò che aveva detto il Buddha. Il Beato aveva raccomandato ai suoi discepoli di praticare in luoghi remoti lontani dalla società umana. Ciò costituisce la base per un isolamento interno della mente che a sua volta porta al totale isolamento dalle contaminazioni.

Supponiamo che siate una persona con casa e famiglia. Che isolamento potete avere? Quando tornate a casa, appena mettete piede sulla soglia, venite bersagliati dalla confusione e dai problemi. Questo non è isolamento fisico. Allora ve ne andate a fare un ritiro in un luogo remoto e l’atmosfera qui sarà completamente diversa. E’ necessario comprendere l’importanza dell’isolamento fisico e della solitudine negli stadi iniziali della pratica del Dhamma. Poi cercate un maestro di meditazione che vi istruisca, che vi guidi, vi consigli e corregga quei punti in cui la vostra comprensione è errata. Perché è proprio dove non capite bene e sbagliate che credete di essere nel giusto. Una volta che il maestro ve lo abbia spiegato, capite ciò che è sbagliato, e proprio dove il maestro dice che vi eravate sbagliati, proprio lì voi pensavate di essere nel giusto.

Per quanto ne so, c’è un certo numero di monaci buddhisti studiosi che cercano e ricercano basandosi sulle scritture. Non c’è nessuna ragione che ci impedisca di sperimentare. Quando è il momento di aprire i libri e studiare, impariamo in quel modo. Ma quando è il momento di armarsi e di buttarsi nella battaglia potremmo trovarci a combattere in un modo che non corrisponde alla teoria. Se un guerriero va

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in battaglia e combatte secondo quanto ha appreso dai libri, non potrà tener testa al nemico. Quando il guerriero è sincero e la lotta è reale, deve lottare in un modo che va oltre la teoria. E’ proprio così. Le parole del Buddha nelle scritture sono solo linee guida ed esempi da seguire; limitarsi a studiarle potrebbe portarci a non dare la giusta importanza al lato pratico.

La via dei Maestri della Foresta è la via della rinuncia. Su questo Sentiero vi è solo rinuncia. Sradichiamo le opinioni che sorgono dall’egocentrismo. Sradichiamo la stessa essenza del senso del sé. Vi assicuro che questa pratica sarà una sfida radicale per voi: andrà dritta all’essenza, ma per quanto difficile sia, non rinunciate ai Maestri della Foresta e ai loro insegnamenti. Senza una guida adatta, la mente e il samadhi possono essere molto ingannevoli. Possono accadere cose che ci sembravano impossibili. Mi sono sempre avvicinato a questi fenomeni con cautela e attenzione. Quando ero un giovane monaco, all’inizio della mia pratica nei primi anni, non potevo ancora aver fiducia nella mia mente. Però man mano che acquisivo una considerevole esperienza e potevo fidarmi del lavoro della mente, niente costituiva più un problema. Anche se si presentavano strani fenomeni, li lasciavo fare. Se sappiamo come funzionano queste cose, esse cessano da sole. E’ tutto cibo per la saggezza. Col passare del tempo ci troveremo perfettamente a nostro agio.

In meditazione, cose che di solito non sono sbagliate possono invece divenire sbagliate. Per esempio ci sediamo a gambe incrociate con la determinazione e la risoluzione: “Va bene, questa volta niente compromessi. Concentrerò la mente. State a vedere”. Non c’è alcuna possibilità che questo sistema funzioni. Ogni volta che ci provavo era un fallimento. Ma ci piace fare gli spacconi. Per quanto mi risulta, la meditazione va avanti con un suo ritmo. Molte sere, sedendomi per la meditazione, pensavo “Va bene, questa sera non mi muoverò di qui, perlomeno fino all’una di mattina”. Già questo pensiero predisponeva un kamma negativo; infatti non passava tanto tempo che il corpo veniva assalito da un’infinità di dolori, che mi opprimevano fino al punto da pensare che stavo per morire. Però nei periodi in cui la meditazione andava bene non ponevo limiti alla durata della seduta. Non mi dicevo “alle 8 o 9 o 10” o a un’ora qualsiasi, ma semplicemente stavo seduto, continuando con fermezza, lasciando andare con equanimità. Non forzate la meditazione. Non cercate di interpretare ciò che sta accadendo. Non costringete il cuore a rispondere a impossibili richieste di entrare in stato di samadhi; altrimenti diventerà più agitato e imprevedibile del solito. Lasciate che il cuore e la mente si rilassino, comodi e a loro agio.

Lasciate che il respiro fluisca facilmente con un suo proprio ritmo, né troppo corto né troppo lungo. Non cercate di trasformarlo in qualcosa di speciale. Lasciate che il corpo si riposi, comodo e a suo agio. Poi continuate. La mente vi chiederà: “Fino a che ora mediteremo stasera? A che ora smetteremo?” Brontola senza sosta, per cui dovete rimproverarla aspramente, “Ehi ragazza mia, lasciami in pace, smettila”. Questa intrigante che non fa che porre domande va regolarmente messa a tacere,

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perché non sono altro che le contaminazioni che vengono a disturbarvi. Non prestate loro attenzione. Dovete essere duri: “Che io smetta subito o vada avanti tutta la notte, non sono affari tuoi! Se voglio rimanere seduto tutta la notte non deve importare a nessuno, perciò perché vieni qui a mettere il naso nei miei affari di meditazione?” Dovete cacciare via quell’impicciona. Poi potete continuare a meditare quanto volete, secondo quello che ritenete giusto.

Quando permettete alla mente di rilassarsi ed essere a suo agio, diventerà calma. Facendo questo tipo di esperienza, sapete allora riconoscere e valutare il potere dell’attaccamento. Quando riuscirete a stare seduti a lungo, molto a lungo, oltre la mezzanotte, sempre comodi e rilassati, allora vuol dire che state diventando padroni della vostra meditazione. Capirete che veramente l’attaccamento contamina la mente. Alcuni, quando si siedono a meditare, accendono un bastoncino d’incenso e giurano a se stessi “Non mi alzerò fino a quando questo bastoncino d’incenso non sarà finito”. Poi si siedono. Dopo un tempo che a loro pare un’ora aprono gli occhi e realizzano che sono passati solo cinque minuti. Guardano l’incenso, delusi da quanto sia ancora lungo il bastoncino. Chiudono gli occhi e continuano. Ma presto gli occhi si aprono di nuovo a controllare il bastoncino d’incenso. Gente che medita così non arriva da nessuna parte. Non fatelo. Se vi sedete e cominciate a pensare a quel pezzetto d’incenso - “Mi chiedo se sarà finalmente finito” - la meditazione non va avanti. Non date importanza a cose del genere. La mente non deve fare niente di speciale.

Se ci poniamo il compito di sviluppare la mente con la meditazione, non permettete all’avidità inquinante di conoscere le regole del gioco o il vostro scopo. “Come mediterai ora, Venerabile?” domanda. “Per quanto ne avrai? Fino a che ora pensi di andare avanti?” L’avidità continua a imperversare fino a che ci arrendiamo e arriviamo a un accordo. Una volta che diciamo che staremo seduti fino a mezzanotte, quella comincerà a tormentarci. Prima ancora che sia passata un’ora ci sentiremo così agitati e impazienti da non poter continuare. Altri impedimenti ci assaliranno, proprio mentre ci rimproveriamo. “ Ma dai! Pensi che questa seduta ti ucciderà? Hai detto che volevi passare la mente nel samadhi, e invece è ancora instabile e gira a vuoto. Hai fatto una promessa ma non l’hai mantenuta”. Sono pensieri di sconforto e di frustrazione che assalgono la mente e ci sprofondano in un mare di auto-accuse. Non c’è nessun altro da rimproverare o con cui arrabbiarsi e questo rende tutto più difficile. Una volta fatto un giuramento dobbiamo mantenerlo. O lo manteniamo o moriamo. Se facciamo il giuramento di sedere per un certo tempo, non dovremmo poi infrangere la promessa e smettere. Nel frattempo però praticate e maturate in modo graduale. Non c’è nessun bisogno di fare voti sensazionali. Cercate invece di allenare la mente con fermezza e costanza. Di tanto in tanto avrete una meditazione tranquilla, e spariranno tutti i dolori e i disagi del corpo. Il dolore alle caviglie e alle ginocchia smetterà da solo.

Se, mentre proviamo a coltivare la meditazione, cominciano a sorgere strane immagini, visioni o percezioni sensoriali, la prima cosa da fare è controllare lo stato

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della nostra mente. Non omettete questo passo essenziale. La mente deve essere relativamente tranquilla perché possano sorgere queste immagini. Non desiderate che appaiano e non desiderate che non appaiano. Se sorgono, esaminatele, ma non permettete loro di ingannarvi. Ricordatevi che non sono vostre. Sono impermanenti, insoddisfacenti e prive di un sé, proprio come qualsiasi altra cosa. Anche se fossero reali non fermatevi su di esse, prestandovi troppa attenzione. Se si rifiutano ostinatamente di sparire, allora riportate l’attenzione sul respiro con maggior vigore. Prendete tre lunghi respiri e ogni volta esalate liberando completamente i polmoni. Questo può risolvere la cosa. Cercate di rifocalizzare l’attenzione.

Non impossessatevi di questi fenomeni. Non sono altro che quello che sono, e ciò che sono provoca potenzialmente un’illusione. O ci piacciono e ce ne innamoriamo, oppure la mente si intossica di paura. Sono inaffidabili: possono non essere veri o possono non essere affatto quello che sembrano. Se li sperimentate non cercate di interpretarne il significato o proiettare un significato in essi. Ricordatevi che non sono voi, perciò non correte dietro a queste visioni o sensazioni. Invece, andate subito a controllare lo stato presente della mente. Questa è la nostra regola pratica. Se non teniamo conto di questo principio basilare e ci lasciamo trascinare in ciò che crediamo di vedere, va a finire che ci dimentichiamo di noi stessi, cominciamo a parlare a vanvera o anche a dare i numeri. Possiamo perdere la bussola fino al punto da non poterci più relazionare con gli altri a un livello normale. Confidate nel cuore. Qualsiasi cosa accada continuate ad osservare il cuore e la mente. Esperienze meditative strane possono essere benefiche per coloro che hanno saggezza, ma pericolose per quelli che non ce l’hanno. Qualsiasi cosa avvenga non esaltatevi né allarmatevi. Se ci sono esperienze particolari, ci sono e basta.

Un altro modo di praticare il Dhamma è quello di contemplare ed esaminare tutto ciò che vediamo, facciamo e sperimentiamo. La meditazione non ha mai fine. Alcuni credono che quando hanno finito le sessioni di meditazione seduta o camminata, bisogna smettere e riposarsi. Smettono di concentrare la mente sull’oggetto di meditazione o sul tema di contemplazione. Li lasciano perdere completamente. Non praticate così. Indagate su ogni cosa che vedete per capire come è realmente. Contemplate la buona gente del mondo. Contemplate anche quella cattiva. Osservate profondamente il ricco e il potente; il povero e il reietto. Quando vedete un bambino, una persona anziana, un giovane o una giovane, indagate sul significato dell’età. Tutto è materiale di indagine. E’ così che coltivate la mente. La contemplazione che porta al Dhamma è la contemplazione della condizionalità, del processo di causa ed effetto, in tutte le sue manifestazioni: maggiore o minore, bianco o nero, buono o cattivo. In breve, tutto. Quando avete un pensiero, riconoscetelo come un pensiero e contemplate che è solo quello, niente di più. Tutte queste cose vanno a finire nel cimitero dell’impermanenza, dell’insoddisfazione e del non-sé, per cui non attaccatevi morbosamente a nessuna di esse. E’ il cimitero di tutti i fenomeni. Seppelliteli o cremateli per poter sperimentare la Verità.

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Avere un'intuizione profonda nell’impermanenza vuol dire non lasciarsi andare alla sofferenza. Bisogna indagare con saggezza. Per esempio, otteniamo qualcosa che riteniamo buono o piacevole e perciò ne siamo felici. Osservate da vicino e a lungo questa cosiddetta bontà e piacevolezza. Certe volte, dopo un po’ che l’abbiamo, ce ne stufiamo. Vogliamo dar via l’oggetto che l’ha procurata oppure venderlo. Se non c’è nessuno disposto a comprarlo, siamo pronti a buttarlo via. Perché? Cosa c’è dietro a questo modo di fare? Tutto è impermanente, incostante, mutevole, ecco il perché. Se non possiamo venderlo o addirittura nemmeno gettarlo, cominciamo a soffrire. Tutto ruota intorno a questo. Ma una volta che abbiamo compreso perfettamente un tale evento, quando sorgeranno altre situazioni simili, comprenderemo che sono la stessa cosa. Questo è semplicemente il modo in cui sono le cose. Come si suol dire “Quando ne avete visto uno, li avete visti tutti”.

Certe volte vediamo cose che non ci piacciono. Altre volte sentiamo rumori spiacevoli che ci disturbano e perciò ci irritiamo. Esaminate tutto ciò e ricordatevelo. Perché forse in un prossimo futuro potrà capitare che ci piaceranno quegli stessi rumori che oggi ci disturbano. Potremmo addirittura deliziarci di quello che un tempo detestavamo. E’ possibile! Allora, in un lampo di chiarezza e intuizione profonda, capiremo “Aha! Tutto è impermanente, incapace di soddisfare completamente, e senza un sé.”. Buttateli nella tomba comune delle tre caratteristiche universali. E allora cesserà l’attaccamento a ciò che è piacevole, a ciò che possediamo, a ciò che siamo. Giungeremo a vedere che tutto è fondamentalmente la stessa cosa. Allora ogni cosa che vediamo genererà una visione profonda del Dhamma.

Ho detto tutto ciò perché voi possiate ascoltare e pensarci sopra. E’ una chiacchierata, e basta. Quando la gente viene a vedermi, io parlo. Questo argomento non è tale da doversi sedere in circolo e parlarne per ore. Fatelo e basta. Comprendetelo e fatelo. E’ come quando chiamiamo un amico per andare insieme in qualche posto. Lo invitiamo. Ne riceviamo una risposta. Poi usciamo senza farne un problema. Diciamo solo quello che va detto e basta. Sulla meditazione io vi posso dire due o tre cose perché l’ho praticata. Ma può darsi che sbagli, sapete. Il vostro compito è quello di indagare e scoprire voi stessi se ciò che ho detto è vero.

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Rinunciare al bene e al male del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Dal libro "Everything Is Teaching Us" Traduzione di Letizia Baglioni. SI APPICCICA ALLA PELLE ED ENTRA DENTRO LA CARNE; dalla carne penetra nelle ossa. E' come un insetto su un albero che rosicchiando buca la corteccia, il legno, e arriva fino al midollo, finché l'albero muore.

Siamo cresciuti così. Ha messo radici profonde. I nostri genitori ci hanno insegnato la fissazione e l'attaccamento, a dare significato alle cose, a credere fermamente che noi esistiamo come entità indipendenti e che le cose ci appartengono. Fin dalla nascita è questo che ci insegnano. Ce lo sentiamo dire in continuazione, per cui ci entra dentro il cuore e resta lì come una sensazione abituale. Ci hanno insegnato a procurarci cose, accumularle e tenercele strette, a considerarle importanti e nostre. Questo è quello che sanno i genitori, ed è quello che ci insegnano. Perciò ci penetra nella mente, nelle ossa.

Quando cominciamo a interessarci alla meditazione e ascoltiamo l'insegnamento di una guida spirituale, non capiamo bene di che si tratta. Non ci coinvolge veramente. Ci viene insegnato a non vedere e a non fare le cose nel vecchio modo, ma quello che ascoltiamo non arriva fin dentro la nostra mente, ascoltiamo solo con le orecchie. Il fatto è che non conosciamo noi stessi.

Perciò ci sediamo e ascoltiamo l'insegnamento, ma è solo un suono che entra nelle orecchie. Non entra dentro tanto da fare effetto. E' come un incontro di pugilato: si picchia sodo l'avversario, ma quello resta in piedi. Restiamo imprigionati nella nostra falsa auto-immagine. I saggi hanno detto che spostare una montagna è più facile che smuovere la concezione di sé.

Per spianare una montagna si può usare l'esplosivo, e poi spostare la terra. Ma la fissazione ostinata alla concezione di sé... figuriamoci! I saggi possono insegnarci fino al giorno della nostra morte, senza riuscire a scalfirla. Rimane forte e salda. Le nostre idee distorte e le cattive tendenze restano solide e immutate, anche a nostra insaputa. Perciò i saggi hanno detto che eliminare la concezione di sé e trasformare il punto di vista distorto in retta comprensione è una delle cose più difficili a farsi.

Per noi puthujjana (esseri mondani) progredire fino al livello dei kalyanajana (esseri virtuosi) è estremamente difficile. Puthujjana significa uno che è pesantemente

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illuso, che è all'oscuro, che è dentro fino al collo nell'oscurità e nell'illusione. La condizione del kalyanajana è un po' più leggera. Noi insegniamo come alleggerirsi, ma la gente non vuole farlo perché non si rende conto della situazione in cui si trova, del proprio stato di oscuramento. Perciò continua a brancolare in uno stato di confusione.

Se vediamo per terra un mucchio di sterco di bufalo non penseremo che è nostro e non ci verrà voglia di raccoglierlo. Lo lasceremo dove si trova perché sappiamo cos'è. E' qualcosa di molto simile. E' questo che è considerato buono dal punto di vista di chi è impuro. Il male è il cibo delle cattive persone. Se insegnate a persone del genere la bontà non se ne curano, preferiscono restare come sono perché non ci vedono nessun pericolo. Senza vedere il pericolo non è possibile correggere la situazione. Se invece lo riconoscete, pensate: "Oh! Tutto il mio mucchio di sterco non vale quanto un pezzettino d'oro". E a quel punto vorrete l'oro, non vorrete più lo sterco. Se non lo riconoscete, resterete i proprietari di un mucchio di sterco. Anche se vi offriraranno un diamante o un rubino non vi interesserà.

Quello che è 'bene' per l'impuro è uguale. Oro, gioielli e diamanti sono considerati buoni nel regno degli umani. Lo sporco e il marcio sono buoni per le mosche e gli altri insetti. Se ci spruzzate sopra del profumo scapperanno via. Ciò che le persone con una visione distorta considerano buono è lo stesso. Quello è il 'bene' di chi ha una visione distorta, di chi è oscurato. Non ha un buon odore, ma se gli diciamo che puzza ribatterà che profuma. Perciò insegnargli qualcosa non è facile.

Se raccogliete fiori freschi le mosche non se ne curano. Anche a pagarle, non si avvicinerebbero. Ma dove c'è un animale morto, dove c'è qualcosa di marcio, lì invece accorrono. Non ce bisogno di chiamarle, arrivano da sole. La visione distorta è così. Trova piacere in cose del genere. Per lei, quello che puzza e che è marcio profuma. Ci sta dentro fino al collo, è immersa in cose del genere. Quello che sa di dolce per l'ape non è dolce per la mosca. La mosca non ci vede niente di buono o di utile, e non lo desidera.

La pratica ha le sue difficoltà, ma in tutto quello che facciamo si passa prima per il difficile per arrivare al facile. Nella pratica del Dhamma partiamo dalla verità di dukkha, la natura insoddisfacente di tutto ciò che esiste. Ma non appena lo incontriamo ci scoraggiamo. Non vogliamo guardarlo. Dukkha è la verità, ma facciamo di tutto per schivarla. Per lo stesso motivo non ci piace guardare le persone anziane, preferiamo guardare quelle giovani.

Se non vogliamo guardare dukkha non lo comprenderemo mai, anche se rinascessimo mille volte. Dukkha è una nobile verità. Se la affrontiamo, cominceremo a cercare un modo per uscirne fuori. Se siamo diretti in un certo posto e la strada è bloccata, ci daremo da fare per aprire un varco. Lavorando giorno dopo giorno, alla fine arriveremo dall'altra parte. Quando veniamo alle prese con i nostri problemi sviluppiamo la saggezza in modo simile. Se non vediamo dukkha non esaminiamo

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mai fino in fondo i nostri problemi per risolverli, ci passiamo accanto con indifferenza.

Il mio modo di educare la gente comporta un po' di sofferenza, perché la sofferenza è la via del Buddha all'illuminazione. Lui voleva che noi vedessimo la sofferenza, e che vedessimo l'origine, la fine e il sentiero. Questa è la via d'uscita di tutti gli ariya, i risvegliati. Se non passate per questa strada non c'è via d'uscita. L'unica via è conoscere la sofferenza, conoscere la causa della sofferenza, conoscere la cessazione della sofferenza e conoscere il sentiero della pratica che porta alla cessazione della sofferenza. Questo è il modo in cui gli ariya, a partire dall'entrata nella corrente, sono riusciti a venirne fuori. E' necessario conoscere la sofferenza.

Se conosciamo la sofferenza, la vedremo in tutto ciò che sperimentiamo. Certe persone credono di non soffrire granché. La pratica del buddhismo ha lo scopo di liberarci dalla sofferenza. Cosa dobbiamo fare per non soffrire più? Quando si presenta dukkha dobbiamo investigare per riconoscere le cause per cui è sorto. Poi, una volta che le conosciamo, possiamo praticare per eliminare quelle cause. Sofferenza, origine, cessazione: per arrivare alla cessazione occorre comprendere il sentiero della pratica. Allora, una volta percorso il sentiero fino in fondo, dukkha non sorgerà più. Nel buddhismo, la via d'uscita è questa.

Contrastare le nostre abitudini crea un po' di sofferenza. Di solito abbiamo paura di soffrire. Se qualcosa ci fa soffrire non vogliamo saperne. Siamo interessati a ciò che sembra essere buono e bello, mentre crediamo che qualunque cosa comporti sofferenza sia male. Ma in realtà non è così. La sofferenza è saccadhamma, è la verità. Se nel cuore c'è sofferenza, questa diventa la causa che spinge a cercare una via d'uscita. Saremo portati a riflettere. Non dormiremo tanto profondamente, perché ce la metteremo tutta per scoprire cosa sta succedendo veramente, per cercare di capire le cause e le conseguenze.

Le persone felici non sviluppano la saggezza. Sono addormentate. Un po' come un cane che mangia a sazietà. Dopo mangiato non vuole fare più nulla. Può passare tutto il giorno a dormire. Se arriva un ladro non abbaia, è troppo pieno, troppo stanco. Ma se gli date solo un po' di cibo resterà sveglio e all'erta. Se qualcuno cerca di entrare di soppiatto, salterà su e comincerà ad abbaiare. Ci avete mai fatto caso?

Noi esseri umani siamo intrappolati e imprigionati in maniera simile, e abbiamo una quantità di guai, siamo sempre pieni di dubbi, confusione e preoccupazione. Non è da ridere. E' veramente una situazione difficile e spinosa. Quindi c'è qualcosa di cui dobbiamo liberarci. Secondo la via della coltivazione spirituale dobbiamo abbandonare il nostro corpo, abbandonare noi stessi. Dobbiamo risolverci a dare la nostra vita. Possiamo considerare l'esempio dei grandi rinuncianti, come il Buddha. Il Buddha era un nobile di casta guerriera, ma fu capace di lasciarsi tutto alle spalle senza voltarsi indietro. Era erede di ricchezze e potere, ma seppe rinunciarvi.

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Se parliamo del Dhamma profondo, la maggior parte della gente si spaventa. Non osa avvicinarcisi. Perfino se dico: "Non fate il male", molti non riescono a seguire. Quindi ho cercato tanti modi per spiegarlo. Una cosa che dico spesso è che non importa se siamo contenti o scontenti, felici o sofferenti, se piangiamo o cantiamo canzoni, è sempre lo stesso: vivere in questo mondo è come essere in gabbia. Anche se siete ricchi, vivete in una gabbia. Se siete poveri, siete in gabbia. Se cantate e ballate, cantate e ballate in una gabbia. Se guardate un film, lo guardate stando in gabbia.

Che cos'è questa gabbia? E' la gabbia della nascita, la gabbia dell'invecchiamento, la gabbia della malattia, la gabbia della morte. E' così che siamo imprigionati nel mondo. "Questo è mio"; "Quello appartiene a me". Non sappiamo cosa siamo veramente o cosa stiamo facendo. In realtà non facciamo altro che accumulare sofferenza. Non è qualcosa di lontano a procurarci la sofferenza, però noi non guardiamo noi stessi. Per quanta felicità e agiatezza possiamo avere, essendo nati non possiamo evitare di invecchiare, dobbiamo ammalarci e dobbiamo morire. Questo è di per sé dukkha, qui e ora.

Siamo comunque soggetti a dolore o malattia. Può succedere in qualunque momento. E' come aver rubato qualcosa. Potrebbero venire ad arrestarci in qualunque momento, perché abbiamo commesso quell'azione. La nostra situazione è questa. Siamo in pericolo, siamo inguaiati. Viviamo in mezzo ai pericoli: nascita, vecchiaia e malattia governano le nostre esistenze. Non possiamo scappare da nessuna parte per evitarle. Possono venire ad acchiapparci in qualunque momento; trovano sempre l'occasione. Quindi dobbiamo ammettere il fatto e accettare la situazione. Dobbiamo riconoscerci colpevoli. Se lo facciamo, la sentenza non sarà troppo dura. Altrimenti, soffriremo moltissimo. Se ammettiamo la nostra colpa, ce la caveremo con poco. Non resteremo in galera per molto.

Quando il corpo nasce non appartiene a nessuno. E' come questa sala di meditazione. Appena costruita vengono a starci i ragni. Vengono a starci le lucertole. Vengono a starci ogni sorta di insetti e creature che strisciano. Possono venirci a vivere i serpenti. Può venirci a stare di tutto. Non è solo la nostra sala, è la sala di tutto.

Questo corpo è lo stesso. Non è nostro. Altri ci entrano dentro e lo usano. Malattia, dolore e vecchiaia vengono ad abitarci, e noi dobbiamo abitarci insieme a loro. Quando questo corpo arriva al culmine del dolore e della malattia e alla fine si disgrega e muore, non siamo noi a morire. Perciò, non aggrappatevi a niente di tutto questo. Piuttosto, riflettete sulla questione, e a poco a poco il vostro attaccamento si esaurirà. Quando vedrete le cose correttamente, la comprensione distorta finirà.

La nascita ci ha creato questo fardello. Ma in genere non lo si vuole riconoscere. Pensiamo che non essere nati sarebbe il più grande dei mali. Morire e non nascere sarebbe il peggio che possa capitare. Ecco come la vediamo. Di solito pensiamo solo

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a quanto vogliamo avere in futuro. E poi desideriamo ancora: "Nella prossima vita mi auguro di rinascere fra gli esseri divini, o di rinascere come una persona ricca".

Chiediamo un fardello ancora più pesante! Però crediamo che ci farà felici. Comprendere davvero il Dhamma nella sua purezza riesce quindi molto difficile. Ci vuole un serio lavoro di investigazione.

Un modo di pensare del genere è completamente opposto all'insegnamento del Buddha. E' una via pesante. Il Buddha ha detto di lasciarlo andare e gettarlo via. Ma noi pensiamo: "Non riesco a lasciar andare". Così continuiamo a portarcelo dietro, e il peso aumenta. Dal momento che siamo nati abbiamo questa pesantezza.

Facciamo un altro passo: sapete se il desiderio ha un limite? Quand'è che sarà soddisfatto? Se ci pensate, vedrete che tanha, il desiderio cieco, non può essere soddisfatta. Continua a volere sempre di più; anche se ci procura tanta sofferenza da farci quasi morire, tanha continuerà a cercare qualcosa, perché non può essere soddisfatta.

Questo è un punto importante. Se la gente riuscisse a pensare con equilibrio e moderazione... il vestiario, ad esempio. Di quanti vestiti abbiamo bisogno? E il cibo... quanto mangiamo? Al massimo, a ogni pasto potremmo mangiare due portate, e ci basterebbe. Se sappiamo moderarci siamo felici e a nostro agio, ma non è molto comune.

Il Buddha ha dato istruzioni 'per i ricchi'. Il succo di questo insegnamento è contentarsi di ciò che si ha. E' questo che ci fa ricchi. Secondo me, è il tipo di conoscenza che vale la pena di apprendere. La conoscenza insegnata nella via del Buddha è qualcosa che vale la pena studiare, è una materia degna di riflessione.

Poi, il puro Dhamma della pratica va ancora oltre. E' molto profondo. Alcuni di voi forse non sono in grado in capirlo. Come l'affermazione del Buddha che per lui non c'è più nascita, che nascita e divenire si sono esauriti. Sono parole che mettono a disagio. Per dirla chiaramente, il Buddha ha affermato che non dovremmo nascere, perché è sofferenza. Solo su questo il Buddha si è soffermato, la nascita: l'ha contemplata e ne ha compreso la gravità. Essendo nati, ne deriva di conseguenza ogni forma di dukkha. Succede contemporaneamente alla nascita. Quando veniamo al mondo prendiamo occhi, una bocca, un naso. Tutto arriva unicamente in conseguenza della nascita. Ma se ci parlano di morire e non rinascere più, ci pare che sarebbe il massimo della disgrazia. Non vogliamo saperne. Ma l'insegnamento più profondo del Buddha è questo.

Perché ora soffriamo? Perché siamo nati. Per cui ci viene insegnato a mettere fine alla nascita. Non sto parlando solo della nascita del corpo e della morte del corpo. Fin lì è facile capire. Anche un bambino ci arriva. Il respiro si ferma, il corpo muore e resta disteso immobile. Di solito, quando parliamo di morte intendiamo questo. Ma che

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dire di un morto che respira? Di questo non sappiamo nulla. Un morto che può camminare, parlare e sorridere è qualcosa a cui non abbiamo mai pensato. Conosciamo solo il cadavere che ha smesso di respirare. La morte è questo per noi.

Lo stesso per la nascita. Quando diciamo che qualcuno è nato, intendiamo dire che una donna è andata all'ospedale e ha partorito. Ma il momento in cui nasce la mente... ci avete mai fatto caso, quando ve la prendete per qualche problema in famiglia? A volte nasce l'amore. A volte nasce l'avversione. Essere contenti, essere scontenti... ogni tipo di stati. Tutto questo non è altro che nascita.

Noi soffriamo solo per questo. Quando l'occhio vede qualcosa di sgradito, nasce dukkha. Quando l'orecchio ode qualcosa che piace molto, anche allora nasce dukkha. C'è solo sofferenza.

Il Buddha diceva in breve che c'è solo una massa di sofferenza. La sofferenza nasce e la sofferenza cessa. Non c'è altro. Noi ci avventiamo e la afferriamo in continuazione... ci avventiamo sul nascere, ci avventiamo sulla cessazione, senza mai capire davvero.

Quando sorge dukkha lo chiamiamo sofferenza. Quando cessa, lo chiamiamo felicità. E' sempre la stessa roba, che sorge e che cessa. Ci viene insegnato a osservare corpo e mente che sorgono e cessano. Al di fuori di questo non c'è nient'altro. Per dirla in breve, la felicità non esiste, c'è solo dukkha. Riconosciamo la sofferenza come sofferenza quando sorge. Poi, quando cessa, pensiamo che sia felicità. La vediamo e la definiamo così, ma non è vero. E' solo dukkha che cessa. Dukkha sorge e cessa, sorge e cessa; noi ci avventiamo e lo agguantiamo. Compare la felicità, e noi ce ne rallegriamo. Compare l'infelicità, e noi ce ne rattristiamo. In realtà è sempre la stessa cosa, che sorge e cessa. Nel momento del sorgere c'è qualcosa; e quando c'è la cessazione, è sparito. Ed è qui che cominciano i dubbi. Per cui ci viene insegnato che dukkha sorge e cessa e che al di fuori di questo non c'è nulla. A ben vedere, c'è solo sofferenza. Ma noi non lo vediamo chiaramente.

Non riconosciamo chiaramente che c'è solo sofferenza, perché quando si ferma vediamo la felicità. La agguantiamo e restiamo bloccati lì. Non capiamo fino in fondo la verità che tutto semplicemente sorge e cessa.

Il Buddha diceva in breve che c'è solo sorgere e cessare, e al di fuori di questo nient'altro. Parole difficili da ascoltare. Ma chi ha veramente inclinazione per il Dhamma non ha bisogno di aggrapparsi a nulla e vive in pace. Questa è la verità.

La verità è che in questo nostro mondo non c'è nulla che fa qualcosa a qualcuno. Non c'è niente per cui stare in ansia. Niente per cui valga la pena piangere, niente di cui ridere. Niente, di per sé, è tragico o delizioso. Ma è così che la gente vive le cose normalmente.

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Il nostro linguaggio può essere ordinario; ci rapportiamo agli altri secondo il modo di vedere ordinario. Ma se pensiamo alla maniera ordinaria, non ci darà che lacrime.

In verità, se davvero conosciamo il Dhamma e lo vediamo continuamente, non c'è niente che sia niente in particolare, c'è solo sorgere e svanire. Non c'è reale felicità o sofferenza. Allora il cuore è in pace, quando non ci sono felicità e sofferenza. Quando ci sono felicità e sofferenza, ci sono divenire e nascita.

Di solito creiamo un certo tipo di kamma, che è il tentativo di fermare la sofferenza e produrre la felicità. E' questo che vogliamo. Ma quello che vogliamo non è vera pace: è felicità e sofferenza. Lo scopo degli insegnamenti del Buddha è praticare per creare un tipo di kamma che porti al di là di felicità e sofferenza e conduca alla pace. Ma non siamo capaci di pensare in quei termini. Riusciamo solo a pensare che la felicità ci porterà la pace. Se abbiamo la felicità, ci sembra che basti.

Perciò noi esseri umani ci auguriamo di avere in abbondanza. Se otteniamo molto, benissimo. In genere è così che pensiamo. Ci si aspetta che fare il bene porti a buoni risultati, e se li otteniamo siamo felici. Crediamo che non ci sia altro da fare, e ci fermiamo lì. Ma a che conclusione ci porta il bene? Il bene non dura. Continuiamo ad andare avanti e indietro, sperimentando il bene e il male, sforzandoci giorno e notte di afferrare quello che crediamo essere buono.

Il Buddha insegnò che prima di tutto dobbiamo rinunciare al male e praticare il bene. Dopodiché, disse che dovremmo rinunciare non solo al male ma anche al bene, non attaccarci nemmeno a quello perché è un'altra forma di combustibile. Se c'è qualcosa di combustibile, prima o poi prenderà fuoco. Il bene è combustibile. Il male è combustibile.

La gente non sopporta discorsi del genere. Non riesce a seguire. Perciò dobbiamo ricominciare dall'inizio e insegnare la moralità. Non fatevi del male a vicenda. Siate responsabili nel vostro lavoro, senza danneggiare o sfruttare gli altri. Il Buddha ha insegnato così, ma questo non basta a fermarsi.

Perché ci ritroviamo qui, in questa condizione? In conseguenza della nascita. Come ha detto il Buddha nel suo primo sermone, il 'Discorso che mette in moto la ruota del Dhamma': "La nascita è esaurita. Questa è la mia ultima esistenza. Non c'è nascita futura per il Tathagata".

Non sono molti quelli che tornano su questo punto e riflettono per capire in linea con i principi della via del Buddha. Ma se abbiamo fede nella via del Buddha, ci ripagherà. Se veramente ci affidiamo ai Tre Gioielli, praticare è facile.

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Si può fare del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Dal libro "Everything Is Teaching Us" Traduzione di Chandra Livia Candiani.

PER FAVORE, PERSUADETE ORA LA MENTE AD ASCOLTARE IL DHAMMA. Oggi è, secondo la tradizione, la giornata di dhammasavana. E’ una buona occasione per noi buddhisti per studiare il Dhamma e accrescere così la presenza mentale e la saggezza. Da molto tempo, diamo e riceviamo insegnamenti. Le attività usuali di questa giornata, cantare l’omaggio al Buddha, prendere i precetti morali, meditare e ascoltare gli insegnamenti, andrebbero intese come metodi e principi per lo sviluppo spirituale. Niente di più.

Riguardo ai precetti, per esempio, un monaco li recita e i laici fanno voto di seguirli. Non fraintendete però: in verità, l’etica non può essere data. Non la si può richiedere o ricevere da qualcun altro. Nel nostro gergo, si sente dire: "Il venerabile monaco ha dato i precetti" e "noi abbiamo ricevuto i precetti". Questo è il nostro modo di esprimerci qui in campagna e ha finito per diventare anche il modo comune di comprendere le cose. Se pensiamo in questo modo, che veniamo a ricevere i precetti dai monaci, nei giorni di osservanza secondo il calendario lunare e che se i monaci non ce li danno, non abbiamo moralità, allora dai nostri antenati abbiamo ereditato solo una tradizione d’illusione. Pensare in tal modo significa rinunciare alla propria responsabilità, non avere salda fiducia e convinzione in noi stessi. Va a finire che lo trasmettiamo anche alla generazione successiva e così anche loro vengono a ‘ricevere’ i precetti dai monaci. E i monaci finiscono per credere di essere coloro che ‘danno’ i precetti ai laici. Ma moralità e precetti non sono questo, non sono qualcosa che può essere ‘data’ o ‘ricevuta’, anche se in occasione di momenti di cerimonia per guadagnare meriti, la usiamo come una forma rituale tradizionale e utilizziamo questa terminologia.

In realtà, la moralità risiede nelle intenzioni. Se avete la determinazione cosciente di astenervi da azioni dannose e sbagliate del corpo e della parola, allora la moralità è presente dentro di voi. E’ dentro di voi che dovreste saperlo. I voti possono essere presi con un’altra persona. Ma potete anche concentrarvi da soli sui precetti. Se non sapete quali sono, chiedeteli a qualcuno. Non sono qualcosa di complicato o di remoto. Quindi, quando desideriamo veramente ricevere la moralità e il Dhamma, in quel preciso momento, li abbiamo. E’ come l’aria che ci circonda. Ogni volta che la respiriamo, la introduciamo in noi. Lo stesso accade con ogni forma di bene e di male. Se desideriamo fare il bene, possiamo farlo in qualsiasi posto e in qualsiasi

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momento. Da soli o insieme agli altri. Lo stesso vale per il male. Possiamo farlo in tanti o in pochi, di nascosto o apertamente. E’ così.

Queste cose esistono già. Per quanto riguarda la moralità, dovremmo considerarla un fatto normale che tutta l’umanità dovrebbe praticare. Una persona senza moralità non è diversa da un animale. Se decidete di vivere come un animale, allora, ovviamente, per voi non esiste né bene né male, perché un animale non ha alcuna conoscenza di questo genere di cose. Un gatto acchiappa i topi, ma non diciamo che commette il male, perché non ha concetti o conoscenza del bene e del male, del giusto e dello sbagliato. Questi esseri non rientrano nella cerchia degli esseri umani. Appartengono al regno animale. Il Buddha ha insegnato il Dhamma agli umani. Se non abbiamo moralità e conoscenza di questi aspetti, allora non siamo molto diversi dagli animali, dunque è appropriato studiare e imparare questi argomenti e diventarne esperti. Così si trae profitto dalla preziosa conquista dell’esistenza umana e la si porta a compimento.

Il Dhamma profondo insegna che la moralità è necessaria. Quando c’è etica, c’è un fondamento sulla cui base possiamo progredire nel Dhamma. Per moralità si intendono i precetti riguardo a quanto è proibito e quanto è permesso. Il Dhamma tratta della natura e della conoscenza umana della natura, cioè di come le cose esistono secondo natura. La natura non è qualcosa che creiamo noi. Esiste così com’è in accordo con le sue condizioni. Un esempio semplice sono gli animali. Una certa specie, per esempio i pavoni, nasce con i suoi comportamenti abituali e i suoi colori. Non sono stati creati così o modificati dagli esseri umani, sono semplicemente nati così in accordo con la natura. Non è che un piccolo esempio del funzionamento della natura.

Tutte le cose della natura esistono nel mondo; questo genere di discorso appartiene ancora a una comprensione dal punto di vista mondano. Il Buddha ci ha insegnato il Dhamma per conoscere la natura, per lasciarla andare e lasciare che esista secondo le sue condizioni. Questo discorso riguarda il mondo materiale esterno. Riguardo a nāmadhamma, la mente, non si può lasciarle seguire le sue condizioni. Va addestrata. In ultima analisi, possiamo dire che la mente è il maestro del corpo e della parola, dunque va ben addestrata. Lasciare che segua i suoi impulsi naturali fa di noi degli animali. Va istruita e addestrata. La mente dovrebbe arrivare a conoscere la natura, ma non essere lasciata semplicemente libera di seguire la natura.

Siamo nati in questo mondo e tutti noi sperimentiamo le afflizioni del desiderio, della rabbia e dell’illusione. Il desiderio ci fa bramare svariate cose e fa sì che la mente sia in uno stato di squilibrio e di agitazione. La natura è così. Non farà che lasciare che la mente segua gli impulsi del desiderio. Non condurrà che a collera e angoscia. E’ meglio addestrarsi nel Dhamma, nella verità.

Quando sorge in noi l’avversione, vogliamo esprimere la rabbia contro qualcun altro; possiamo arrivare al punto di aggredire o di uccidere. Ma non la ‘lasciamo semplicemente andare’ in accordo con la sua natura. Conosciamo la natura di quanto

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accade. Lo vediamo per quel che è e lo insegniamo alla mente. Questo è studiare il Dhamma.

Lo stesso accade con l’illusione. Quando sorge, le cose ci appaiono in modo confuso. Se lasciamo tutto così, restiamo nell’ignoranza. Dunque, il Buddha ci ha insegnato a conoscere la natura, a insegnare alla natura, ad addestrarla e adattarla, a conoscere esattamente cosa sia.

Per esempio, le persone nascono con una forma fisica e una mente. All’inizio questi aspetti nascono, a metà cambiano, e alla fine si estinguono. E’ un fatto ordinario; è la loro natura, non possiamo fare granché per cambiare questi fatti. Addestriamo la mente come possiamo e quando arriva il momento, dobbiamo lasciar andare tutto questo. E’ al di là della capacità degli esseri umani cambiarlo o superarlo. Il Dhamma insegnato dal Buddha è qualcosa da applicare mentre siamo qui, per rendere azioni, parole e pensieri corretti e appropriati. Significa che il Buddha insegnava alla mente delle persone in modo che non si illudessero riguardo alla natura, alla realtà convenzionale e alle opinioni. Il Maestro ci ha insegnato a vedere il mondo. Il suo Dhamma è un insegnamento al di sopra e al di là del mondo. Noi siamo nel mondo. Siamo nati in questo mondo, il Buddha ci ha insegnato a trascenderlo e a non essere prigionieri delle modalità e delle abitudini mondane. E’ come un diamante che cade in una pozza di fango. Per quanto sudiciume e sporcizia lo coprano, la sua radiosità non può essere distrutta, né i suoi colori e il suo valore. Anche se il fango lo ricopre, il diamante non perde niente, resta com’era in origine. Fango e diamante sono due cose separate.

Così il Buddha insegnò a essere al di sopra del mondo, il che vuol dire conoscere il mondo con chiarezza. Col termine ‘mondo’, infatti, non voleva indicare tanto la terra e il cielo e gli elementi, ma piuttosto la mente, la ruota del samsāra dentro il cuore delle persone. Voleva indicare questa ruota, questo mondo. E’ questo il mondo che il Buddha conosceva con chiarezza; è di questo che parliamo quando si parla di conoscere con chiarezza il mondo. Se si fosse trattato d’altro, il Buddha sarebbe andato di qua e di là, per ‘conoscere il mondo con chiarezza.’ Non si tratta di questo, ma di conoscere un solo punto. Tutti i dhamma si riducono a un solo punto. Come le persone, uomini e donne. Se osserviamo un solo uomo e una sola donna, conosciamo la natura di tutte le persone nell’universo. Non sono poi così diverse.

Oppure, vogliamo imparare a conoscere il calore. Se ne conosciamo un aspetto, la qualità dell’essere caldo, allora non importa quale sia la fonte o la causa del calore; la condizione del ‘caldo’ è questa. Conoscendo chiaramente questo solo aspetto, ovunque ci possa essere calore nell’universo, sappiamo che è così. Dunque, il Buddha conosceva un solo punto e perciò la sua conoscenza comprendeva il mondo. Sapendo che la freddezza è in un certo modo, quando incontrava la qualità della freddezza in qualunque luogo del mondo, la riconosceva. Insegnava un solo punto, per gli esseri che vivono nel mondo: a conoscere il mondo, a conoscere la natura del mondo. E a conoscere le persone, conoscere gli uomini e le donne, conoscere il modo di esistere degli esseri nel mondo. La sua conoscenza era così. Conoscendo un punto, conosceva

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tutte le cose. Il Dhamma che il Maestro esponeva mirava ad andare al di là della sofferenza. Ma cosa significa ‘andare al di là della sofferenza’? Cosa dovremmo fare per ‘sfuggire alla sofferenza’? E’ necessario fare uno studio, dobbiamo studiare i pensieri e le sensazioni nel nostro cuore. Tutto qui. Si tratta di qualcosa che al momento siamo incapaci di modificare. Se potessimo cambiarlo, saremmo liberi da ogni sofferenza e insoddisfazione nella vita, cambiando semplicemente quest’unico punto: la nostra abituale visione del mondo, il nostro modo di pensare e di sentire. Se riusciamo ad avere un nuovo senso delle cose, una nuova comprensione, allora trascendiamo le vecchie percezioni e comprensioni.

L’autentico Dhamma del Buddha non mira a qualcosa di lontano. Insegna riguardo ad attā, il sé, e che le cose non sono in realtà il sé. Ecco tutto. Tutti gli insegnamenti del Buddha dimostrano che " questo non è un sé, questo non appartiene a un sé, non esiste niente di simile a ‘noi’ o a gli ‘altri’." Ora, quando incontriamo questo insegnamento, non riusciamo veramente a leggerlo, non ‘traduciamo’ il Dhamma correttamente. Pensiamo ancora: "Questo è me, questo è mio." Ci attacchiamo alle cose e gli attribuiamo un significato. Quando lo facciamo, non riusciamo a districarcene; il coinvolgimento diventa più profondo e la confusione non fa che peggiorare. Se sappiamo che non c’è un sé, che il corpo e la mente sono in realtà anattā, come insegnò il Buddha, se continuiamo a investigare, alla fine arriveremo all’effettiva realizzazione dell’assenza di un sé. Comprenderemo veramente che non c’è né sé né altro. Il piacere è semplicemente piacere. La sensazione è semplicemente sensazione. La memoria è solo memoria. Pensare è solo pensare. Sono solo ‘semplicemente’ così. La felicità è semplicemente felicità; la sofferenza sofferenza. Il bene non è che bene; il male non è che male. Ogni cosa esiste semplicemente così. Non c’è vera felicità o vera sofferenza. Ci sono solo le condizioni che semplicemente esistono. Semplicemente felice, semplicemente doloroso, semplicemente caldo, freddo, semplicemente un essere o una persona. Dovreste continuare a osservare per vedere che le cose sono solo così. Solo terra, solo acqua, solo fuoco, solo aria. Dovremmo continuare a ‘leggere’ queste cose e a investigare questo punto. Alla fine, la nostra percezione cambierà; avremo una sensazione diversa riguardo alle cose. La ferma convinzione che ci sia un sé e cose che appartengono al sé gradualmente si dissolve. Quando questo senso del sé è finito, allora la percezione opposta continuerà costantemente a crescere.

Quando la realizzazione di anattā giunge a piena maturazione, sapremo relazionarci alle cose di questo mondo, ai nostri più cari possessi e coinvolgimenti, agli amici e alle relazioni, alle ricchezze, ai raggiungimenti e alla nostra posizione sociale, come fossero dei vestiti. Quando camicie e pantaloni sono nuovi, li indossiamo; si sporcano, e li laviamo; quando dopo un po’ si rompono, li scartiamo. Non c’è niente di strano, di continuo ci liberiamo di vecchie cose e usiamo nuovi indumenti. Riguardo alla nostra esistenza in questo mondo, avremo la stessa identica sensazione. Non piangeremo né ci lamenteremo per i fatti della vita. Non ne saremo tormentati né oppressi. Restano gli stessi fatti di prima, ma la nostra sensazione e comprensione di essi è cambiata. Ora la nostra conoscenza sarà elevata e vedremo la verità. Avremo

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raggiunto la suprema visione e l’autentica conoscenza del Dhamma che è necessario conoscere. Il Buddha insegnò il Dhamma che abbiamo bisogno di conoscere e di vedere. Dov’è il Dhamma che ci serve conoscere e vedere? E’ proprio qui dentro di noi, in questo corpo e mente. Ce l’abbiamo già; dobbiamo arrivare a conoscerlo e a vederlo.

Per esempio, tutti noi siamo nati in questo regno umano. Qualunque cosa conquistiamo qui, la perderemo. Abbiamo visto le persone nascere e le abbiamo viste morire. Lo vediamo accadere, ma non lo vediamo con chiarezza. Quando c’è una nascita, gioiamo; quando qualcuno muore, piangiamo. Non c’è una fine. Va avanti così e non c’è fine alla nostra stoltezza. Di fronte alla nascita, siamo sconsiderati. Di fronte alla morte siamo sconsiderati. C’è solo questa stoltezza senza fine. Proviamo a osservarla. Sono accadimenti naturali. Contemplate qui il Dhamma, il Dhamma che dovremmo conoscere e vedere. Questo Dhamma esiste proprio ora. Siate determinati. Esercitate la rinuncia e l’autocontrollo. Ora, siamo immersi nei fatti della vita. Non dovremmo aver paura della morte. Dovremmo temere i regni inferiori. Non abbiate paura della morte; piuttosto, temete di finire all’inferno. Dovreste aver paura di fare qualcosa di sbagliato mentre siete vivi. Sono vecchi temi che affrontiamo, non sono nuovi. Molte persone sono vive, ma non si conoscono affatto. Pensano: "Che importanza ha cosa faccio ora; non posso sapere cosa succederà quando muoio." Non pensano ai nuovi semi che creano per il futuro. Vedono solo il vecchio frutto. Si fissano sull’esperienza presente, non comprendendo che se c’è un frutto, deve provenire da un seme e i semi che sono dentro il frutto che abbiamo ora sono i semi del frutto futuro. Questi semi aspettano solo di essere piantati. Le azioni che nascono dall’ignoranza perpetuano in questo modo la catena, ma quando mangiate il frutto non pensate a tutte le implicazioni.

Ogni volta che la mente ha un forte attaccamento, proprio in quel momento sperimenteremo un’intensa sofferenza, una profonda angoscia, una forte difficoltà. Il luogo in cui sperimentiamo maggiori problemi è il luogo di cui abbiamo più attrazione, desiderio o interesse. Per favore, cercate di persuadervene. Ora, mentre ancora respirate e siete vivi, continuate a osservarlo e a leggerlo, finché non riuscite a ‘tradurlo’ e a risolvere il problema.

Qualsiasi cosa sperimentiamo come parte della nostra vita ora, un giorno, ne saremo separati. Dunque, non sprecate il tempo. Praticate la coltivazione spirituale. Scegliete questo allontanamento, questa separazione e perdita come oggetto di contemplazione, ora, nel presente, finché non diventate abili ed esperti, finché non lo trovate normale e naturale. Quando vi viene ansia o rammarico, abbiate la saggezza di riconoscere i limiti di quest’ansia e di questo rammarico, sapendo cosa sono alla luce della verità. Se riuscite a considerare le cose in questo modo, emergerà la saggezza. Ogni volta che c’è sofferenza, proprio lì, può nascere la saggezza, se investighiamo. Ma solitamente, le persone non vogliono investigare.

Dovunque accadano esperienze piacevoli o spiacevoli, lì, può sorgere la saggezza. Se conosciamo la felicità e la sofferenza per quel che veramente sono, allora conosciamo

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il Dhamma. Se conosciamo il Dhamma, conosciamo con chiarezza il mondo; se conosciamo il mondo con chiarezza, conosciamo il Dhamma.

In effetti, se qualcosa non ci piace, noi, di solito, non vogliamo conoscerla. Restiamo intrappolati nell’avversione. Se qualcuno non ci piace, non vogliamo vedere la sua faccia, né andargli vicino. E’ un segno di stoltezza, di incapacità; non sono i modi di una persona buona. Se qualcuno ci piace, allora, ovviamente, vogliamo stargli vicino, facciamo di tutto per stargli insieme, la sua compagnia ci fa piacere. Anche questa è stoltezza. Si tratta della stessa cosa, come il palmo e il dorso della mano. Quando giriamo la mano in su e ne vediamo il palmo, il dorso resta nascosto. Quando giriamo la mano dall’altra parte, è il palmo a restare nascosto. Il piacere nasconde il dolore e il dolore nasconde il piacere. L’errato nasconde il giusto e il giusto nasconde l’errato. Se consideriamo solo un lato, la nostra conoscenza non è completa. Finché siamo in vita, è bene fare le cose con interezza. Continuate a osservare, separando la verità dalla falsità, notando come sono realmente le cose, arrivando alla cessazione, raggiungendo la pace. Quando arriverà il momento, saremo capaci di concludere e di lasciar andare completamente. Ora dobbiamo cercare con fermezza di separare le cose e continuare a cercare di andare oltre.

Il Buddha ha dato insegnamenti sui capelli, le unghie, la pelle e i denti. Ha insegnato a separarli. Una persona che non sa creare separazioni sa solo tenerli attaccati a se stessa. Finché non ci siamo ancora separati da queste cose, dovremmo essere prudenti nel meditare su di esse. Non abbiamo ancora abbandonato questo mondo, dunque dovremmo essere accorti. Dovremmo contemplare molto, fare parecchie offerte caritatevoli, recitare le scritture, praticare tanto: sviluppare la visione profonda dell’impermanenza, dell’insoddisfazione e dell’assenza di un sé. Anche se la mente non vuole ascoltare, dovremmo continuare a separare le cose in questo modo e a conoscere nel presente. Possiamo farlo in modo molto preciso. Si può realizzare una conoscenza che trascende il mondo. Siamo invischiati nel mondo. Questo è un modo per ‘distruggere’ il mondo, contemplando e vedendo al di là del mondo, così da poterlo trascendere nel nostro essere. Anche mentre viviamo in questo mondo, la nostra visione può essere al di sopra di esso.

In un’esistenza mondana, creiamo sia il bene che il male. Noi cerchiamo di praticare la virtù e di rinunciare al male. Quando il bene risulta compiuto, non si dovrebbe restarne soggetti, ma riuscire a trascenderlo. Se non lo trascendete, diventate schiavi della virtù e dei vostri concetti di cosa sia il bene. Sarete in difficoltà e le vostre lacrime non avranno fine. Non importa quanto abbiate praticato il bene, se siete attaccati ad esso, ancora non siete liberi e le lacrime non avranno fine. Ma chi trascende il bene e il male non ha più lacrime da versare. Si sono asciugate. Sono finite. Dovremmo imparare a usare la virtù, non a esserne usati.

In sintesi, il punto nell’insegnamento del Buddha è di trasformare la propria visione. E’ possibile cambiarla. Basta osservare le cose e accade. Essendo nati, sperimenteremo l’invecchiamento, la malattia, la morte e la separazione. Queste cose sono qui presenti. Non c’è bisogno di alzare lo sguardo al cielo o di abbassarlo a

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terra. Il Dhamma che ci serve vedere e conoscere può essere scorto proprio qui dentro di noi, ogni attimo di ogni giorno. Quando qualcuno nasce, siamo colmi di gioia. Quando qualcuno muore, ci addoloriamo. E’ così che passiamo la vita. Queste sono le cose che ci serve conoscere, ma non le abbiamo veramente esaminate e non vediamo la verità. Siamo profondamente immersi nell’ignoranza. Chiediamo: "Quando vedremo il Dhamma?", ma è proprio qui, pronto per essere visto, nel presente.

Questo è il Dhamma che dovremmo imparare e vedere. E’ questo che insegnò il Buddha. Non parlò di dei, demoni e nāga, le divinità protettrici, dei semidei gelosi, degli spiriti della natura e via dicendo. Insegnò le cose che andrebbero conosciute e viste. Sono queste le verità che dovremmo essere capaci di comprendere. I fenomeni esterni sono così, rivelano le tre caratteristiche. Anche i fenomeni interni, cioè il corpo, sono così. La verità può essere vista nei capelli, nelle unghie, nella pelle e nei denti. Prima erano in pieno rigoglio. Ora vanno degenerando. I capelli diventano più sottili e ingrigiscono. E’ così. Ve ne accorgete? O dite che è qualcosa che non riuscite a vedere? Con una piccola investigazione dovreste riuscire di sicuro a vederlo.

Se proviamo un vero interesse verso tutto questo e lo contempliamo seriamente, possiamo arrivare a un’autentica conoscenza. Se fosse stato qualcosa di impossibile, il Buddha non si sarebbe preso la pena di parlarne. Quante decine e centinaia di migliaia dei suoi discepoli arrivarono alla realizzazione? Se si è veramente disposti a osservare le cose, si arriva a conoscerle. Il Dhamma è così.

Viviamo in questo mondo. Il Buddha voleva che conoscessimo il mondo. Vivendo nel mondo, è dal mondo che possiamo trarre la nostra conoscenza. Un attributo del Buddha è lokavidū, colui che conosce il mondo con chiarezza. Significa vivere nel mondo, ma non essere presi nelle vie del mondo, vivere in mezzo all’attrazione e all’avversione, ma non essere catturati nell’attrazione e nell’avversione. Si può parlare e spiegare tutto questo col linguaggio ordinario. E’ così che insegnò il Buddha.

Normalmente, parliamo in termini di attā, di sé, parlando di me e di mio, ma la mente può restare ininterrottamente nella realizzazione di anattā, l’assenza di un sé. Pensateci. Quando parliamo ai bambini, parliamo in un modo; quando abbiamo a che fare con gli adulti in un altro. Se usiamo parole adatte ai bambini per parlare con gli adulti o parole adatte agli adulti per i bambini, non sarà efficace. Per un uso appropriato delle convenzioni, dobbiamo sapere quando parliamo con dei bambini. Può essere appropriato parlare in termini di me e di mio, di te e di tuo e così via, ma interiormente la mente è Dhamma, dimora nella realizzazione di anattā. Dovreste avere questo fondamento.

In questo senso, il Buddha disse che dovreste prendere il Dhamma come fondamento, come base. Vivendo e praticando nel mondo, prenderete come base voi stessi, le vostre idee, desideri e opinioni? Non è giusto. Il Dhamma dovrebbe essere il vostro modello. Se prendete voi stessi come modello, vi rinserrate in voi stessi. Se prendete

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come modello qualcun altro, siete semplicemente infatuati da quella persona. Essere ammaliati da se stessi o da qualcun altro non è la via del Dhamma. Il Dhamma non tende verso nessuna persona e non segue la personalità. Segue la verità. Non si accorda semplicemente con le simpatie e antipatie delle persone; queste reazioni abituali non hanno niente a che fare con la verità delle cose.

Se riflettiamo veramente su tutto questo e investighiamo profondamente per conoscere la verità, allora intraprenderemo il sentiero corretto. E corretto diventerà il nostro modo di vivere. Il pensiero sarà corretto. Le nostre azioni e parole lo saranno. Dunque dovremmo veramente osservare tutto questo. Perché soffriamo? Per mancanza di conoscenza, perché non sappiamo dove le cose hanno inizio e dove fine, non comprendendo le cause; questa è ignoranza. Quando c’è questa ignoranza, sorgono vari desideri, e lasciandoci trasportare da essi, creiamo le cause della sofferenza. Allora, il risultato non può che essere la sofferenza. Quando raccogliete la legna e le avvicinate un fiammifero, se vi aspettate che non prenda fuoco, che probabilità avete? State creando un fuoco, non è vero? Questa è l’origine.

Se lo comprendete, allora la moralità nascerà di conseguenza. Nascerà il Dhamma. Dunque, preparatevi. Il Buddha ci consigliò di prepararci. Non c’è bisogno di nutrire chissà che preoccupazioni o ansie riguardo alle cose. Semplicemente osservate. Considerate il luogo senza desideri, il luogo senza pericolo. Nibbāna paccayo hotu, ha insegnato il Buddha: lasciate che sia una causa per il Nibbāna. Essere una causa per la realizzazione del Nibbāna significa osservare il luogo in cui le cose sono vuote, arrivate a maturazione, dove hanno raggiunto la fine, dove sono esaurite. Osservate il luogo dove non ci sono più cause, dove non c’è più né sé né altro, me o mio. Questa osservazione diventa una causa o condizione, una condizione per raggiungere il Nibbāna. Allora praticare la generosità diventa una causa per realizzare il Nibbāna. Ascoltare gli insegnamenti diventa una causa per realizzare il Nibbāna. Dunque, possiamo dedicare tutte le nostre attività del Dhamma perché diventino cause di Nibbāna. Ma se non abbiamo come meta il Nibbāna, se miriamo al sé e all’altro e all’attaccamento e al desiderio senza fine, questo non diventa una causa per il Nibbāna.

Quando abbiamo a che fare con gli altri ed essi parlano di sé, di me e di mio, di quel che è nostro, immediatamente siamo d’accordo con questo punto di vista. Immediatamente pensiamo: "Sììì, è proprio giusto!" Ma non è vero. Anche se la mente dice: "Giusto, giusto.", dobbiamo controllarci. E’ come un bambino che ha paura dei fantasmi. Mettiamo che anche i genitori ne abbiano paura. Ma non va bene che ne parlino; se lo fanno, il bambino sentirà di non avere protezione e sicurezza. "Ma no certo, il papà non ha paura. Non temere, c’è il papà. Non ci sono fantasmi. Non c’è niente di cui aver paura." Magari il padre ha davvero paura. Se cominciasse a parlarne, si agiterebbero tutti quanti per i fantasmi e salterebbero su e scapperebbero via, il padre, la madre e il bambino, e finirebbero per restare senza casa.

Questa non è intelligenza. Dovete osservare le cose con chiarezza e imparare a relazionarvi con esse. Anche quando sentite che le apparenze illusorie sono reali,

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dovete dirvi che non lo sono. Andate contro di esse. Insegnatevi interiormente. Quando la mente sperimenta il mondo in termini di sé, dicendo: "E’ vero", dovete riuscire a ribattere: "Non è vero." Dovete galleggiare al di sopra dell’acqua, e non restare sommersi dai flutti dell’abitudine mondana. L’acqua ci inonda il cuore, se rincorriamo le cose; guarderemo sempre quello che scorre? Ci sarà qualcuno che ‘guarda la casa’?

Nibbāna paccayo hotu: non si ha bisogno di mirare né di desiderare alcunché. Basta mirare al Nibbāna. Ogni sorta di divenire e di nascita, di merito e di virtù in senso mondano, non entra nel Nibbāna. Per crearsi meriti e un buon kamma, sperando di ottenere uno stato migliore, non abbiamo bisogno di desiderare un mucchio di cose; basta mirare direttamente al Nibbāna. Volendo sīla, desiderando la tranquillità, finiamo nello stesso vecchio punto. Non è necessario desiderare queste cose, dovremmo semplicemente desiderare il luogo della cessazione.

E’ così. A causa di tutto il nostro divenire e nascere, siamo tutti così tremendamente ansiosi riguardo a così tante cose. Quando c’è una separazione, quando c’è la morte, piangiamo e ci lamentiamo. Mi viene solo da pensare a quanto sia stolto. Di cosa piangiamo? Dove immaginate che se ne vadano le persone? Se sono ancora imprigionate nel divenire e nella nascita, non vanno via in realtà. Quando i figli crescono e si trasferiscono nella grande città di Bangkok, non smettono di pensare ai loro genitori. Non sentiranno la mancanza dei genitori di qualcun altro, ma dei loro. Quando ritornano, vanno a casa dei loro genitori, non di quelli di qualcun altro. E quando ripartono, continueranno a pensare alla loro casa qui a Ubon. Avranno nostalgia di qualche altro posto? Cosa pensate? Così, quando il respiro cessa e noi moriamo, non importa nel corso di quante vite, se le cause del divenire e della nascita continuano a esistere, la coscienza tende a cercare e a nascere in un posto che le è familiare. Penso che abbiamo troppa paura di tutto questo. Dunque, non piangete troppo su questi fatti. Riflettete. Kammam satte vibhajjati, il kamma conduce gli esseri nelle loro varie nascite, non vanno molto lontano. Si gira avanti e indietro lungo il ciclo delle nascite, ecco tutto, si cambia aspetto, apparendo con una faccia diversa la volta successiva, solo che non lo sappiamo. Si viene e si va, si va e si ritorna nel cerchio del samsāra, in realtà senza andare da nessuna parte. Si resta qui. Come un mango che viene fatto cadere dalla pianta, come una rete che non riesce a catturare il nido delle vespe e cade a terra: non vanno da nessuna parte. Restano lì. Il Buddha disse: Nibbāna paccayo hotu: fa che il tuo solo scopo sia il Nibbāna. Sforzati intensamente per raggiungerlo; non finire come il mango che cade a terra e non va da nessuna parte.

Trasforma così il senso che dai alle cose. Se riesci a trasformarlo, conoscerai una grande pace. Cambia, te ne prego; arriva a vedere e a conoscere. Ci sono cose che vanno viste e conosciute. Se vedi e conosci, dove hai mai bisogno di andare? Arriverà la moralità. Ci sarà il Dhamma. Non c’è niente di remoto; dunque, investiga.

Quando trasformi la tua visione, comprendi che è come osservare le foglie che cadono da un albero. Quando invecchiano e si fanno secche, cadono dall’albero. E

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quando arriva la stagione, rispuntano di nuovo. Si piange quando le foglie cadono, o si ride quando spuntano? Se lo facessi, saresti matto, no? E’ la stessa cosa. Se riusciamo a vedere le cose in questo modo, staremo bene. Sapremo che è solo l’ordine naturale delle cose. Non importa a quante nascite siamo sottoposti, sarà sempre la stessa cosa. Quando si studia il Dhamma, si arriva a una chiara conoscenza e si sperimenta una trasformazione della visione del mondo in questo senso, si realizza così la pace e la libertà dalla confusione riguardo ai fenomeni di questa vita.

Ma la cosa essenziale è che ora, in questo momento, abbiamo la vita. In questo momento sperimentiamo i risultati di azioni passate. La nascita degli esseri nel mondo è la manifestazione di azioni passate. La felicità o la sofferenza che gli esseri vivono nel presente è il frutto di quel che hanno fatto in precedenza. Nascono dal passato e vengono sperimentate nel presente. L’esperienza presente diventa inoltre la base per il futuro, in quanto creiamo ulteriori cause sotto la sua influenza e dunque l’esperienza futura ne è il risultato. Anche il movimento da una nascita all’altra accade in questo modo. Va compreso.

Ascoltare il Dhamma dovrebbe risolvere i vostri dubbi. Dovrebbe rendere chiara la vostra visione delle cose e cambiare il vostro modo di vivere. Quando i dubbi sono sciolti, la sofferenza può aver fine. Si smette di creare desideri e afflizioni mentali. Allora, qualsiasi cosa sperimentiate, se vi dispiace, non ne soffrirete perché ne conoscerete la mutabilità. Se vi piace, non ne verrete trascinati e intossicati, perché conoscete il modo appropriato di lasciar andare le cose. Mantenete una prospettiva equilibrata, perché comprendete l’impermanenza, e sapete come risolvere le cose in accordo col Dhamma. Sapete che le condizioni, sia buone che cattive, sono sempre in mutamento. Conoscendo i fenomeni interni, comprendete quelli esterni. Non attaccandovi all’esterno, non vi attaccate all’interno. Osservare le cose dentro di voi o al di fuori di voi è assolutamente la stessa cosa.

In questo modo, possiamo dimorare in uno stato naturale, che è fatto di pace e tranquillità. Se siamo oggetto di critiche, restiamo imperturbati. Se veniamo lodati, pure. Lasciate che le cose scorrano in questo modo, non lasciatevi influenzare dagli altri. Questa è libertà. Conoscendo i due estremi per quel che sono, si sperimenta il benessere. Non ci si sofferma in nessuno dei due punti. Questa è autentica felicità e pace, trascendere tutte le cose del mondo. Si trascende sia il bene che il male. Al di sopra di causa ed effetto, al di là di nascita e morte. Nati in questo mondo, si può trascenderlo. Al di là del mondo, conoscendo il mondo: questo è lo scopo dell’insegnamento del Buddha. Il suo obiettivo non era che le persone soffrissero, ma che raggiungessero la pace, che conoscessero la verità delle cose e realizzassero la saggezza. Questo è il Dhamma, conoscere la natura delle cose. Natura è tutto quel che esiste nel mondo. Non c’è bisogno di essere confusi a riguardo. Ovunque siate, si applica la stessa legge.

La cosa più importante è che mentre siamo vivi, dovremmo addestrare la mente a essere equanime nei confronti delle cose. Dovremmo essere capaci di condividere ricchezza e proprietà. Quando si presenta l’occasione, dovremmo darne una parte a

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chi ne ha bisogno, come se la dessimo a dei figli. Condividendo quel che abbiamo ci sentiamo felici e se riuscissimo a dar via ogni nostro avere, allora in qualsiasi momento il nostro respiro abbia fine, non ci sarà attaccamento o ansia perché tutto è già andato. Il Buddha ha insegnato a ‘morire prima di morire,’ a finire con le cose prima che le cose finiscano. Allora, potete essere a vostro agio. Lasciate che le cose s’infrangano prima di andare a pezzi, lasciate che finiscano prima di essere giunte alla fine. Questa è l’intenzione del Buddha nell’insegnare il Dhamma. Anche se ascoltaste gli insegnamenti per centinaia o migliaia di eoni, se non comprendeste questi punti, non riuscireste a sciogliere la vostra sofferenza e non trovereste la pace. Non vedreste il Dhamma. Ma comprendere queste cose secondo l’intenzione del Buddha ed essere in grado di risolverle è vedere il Dhamma. La visione delle cose può mettere fine alla sofferenza. Può alleviare ogni animosità e angoscia. Chiunque si impegna con sincerità ed è diligente nella pratica, chi continua e si addestra e si sviluppa pienamente, raggiungerà la pace e la cessazione. Ovunque sia, non avrà sofferenza. Che sia giovane o vecchio, sarà libero dalla sofferenza. In qualunque situazione si trovi, qualunque lavoro faccia, non soffrirà, perché la sua mente ha raggiunto il luogo dove la sofferenza si è esaurita, dove c’è pace. E’ così. E’ un fatto naturale.

Perciò, il Buddha disse di trasformare le proprie percezioni, allora ci sarà il Dhamma. Quando la mente è in armonia col Dhamma, il Dhamma entra nel cuore. Mente e Dhamma non sono più distinguibili. Coloro che praticano devono realizzare il cambiamento della propria visione e l’esperienza delle cose. L’intero Dhamma è paccatam (da conoscere personalmente). Non può essere dato da nessun altro; è impossibile. Se lo riteniamo una cosa difficile, sarà difficile. Se lo consideriamo facile, è facile. Chiunque lo contempli e veda quest’unico punto essenziale, non ha bisogno di conoscere chissà quante cose. Vedendo l’unico punto essenziale, vedendo la nascita e la morte, il sorgere e il passare dei fenomeni in accordo con la natura, si conoscono tutte le cose. Questo si intende per verità.

Questa è la via del Buddha. Il Buddha offrì i suoi insegnamenti perché voleva essere di beneficio a tutti gli esseri. Voleva che andassimo al di là della sofferenza e raggiungessimo la pace. Non dobbiamo aspettare di morire per trascendere la sofferenza. Non si deve pensare di superarla solo dopo la morte: possiamo andare al di là della sofferenza qui e ora, nel presente. Possiamo trascenderla all’interno della nostra percezione delle cose, proprio in questa vita, attraverso la visione della nostra mente. Allora, sedendo, siamo felici; stando sdraiati, siamo felici; dovunque siamo, siamo felici. Viviamo in modo irreprensibile, non sperimentiamo risultati negativi, siamo in uno stato di libertà. La mente è chiara, limpida e tranquilla. Non c’è più oscurità o contaminazione. Così è colui che ha raggiunto la suprema felicità della via del Buddha. Vi prego di farne oggetto di personale investigazione. Tutti voi discepoli laici, contemplate quanto ho detto per realizzare comprensione ed esperienza. Se soffrite, praticate per alleviare la sofferenza. Se è grande, rendetela piccola e se è piccola, portatela a termine. Tutti devono farlo personalmente, dunque fate uno sforzo per riflettere su queste parole. Che voi possiate fare progressi e crescere.

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Tuccho Pothila: il venerabile "Dottrina Vuota"

del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Dal libro "Il Dhamma vivo" Traduzione di Letizia Baglioni.

Estratto del libro "Il Dhamma vivo", su gentile concessione dell'Editore Ubaldini.

CI SONO DUE MODI PER SOSTENERE IL BUDDHISMO. Il primo, chiamato āmisapūjā, è il sostegno materiale attraverso offerte di cibo, abiti, riparo e medicine. Si tratta in altre parole di contribuire alla sussistenza del Sangha monastico, di assicurare ai monaci e alle monache quel minimo di benessere che renda possibile la pratica del Dhamma. È un modo per incoraggiare l'applicazione concreta dell'insegnamento del Buddha, da cui dipendono le sorti della religione buddhista.

Il Buddhismo può essere paragonato a un albero, che ha radici, un tronco, rami, ramoscelli e foglie. Il tronco, i rami e ogni singola foglie ricevono nutrimenti dalle radici, che lo assorbono dalla terra e lo distribuiscono alle varie parti della pianta. Come la vita dell'albero dipende dalle radici, così pure le nostre azioni e le nostre parole dipendono dalla mente, la 'radice' che assorbe il nutrimento e lo distribuisce al 'tronco', ai 'rami' e alle 'foglie' affinché producano i 'frutti' nella forma di parole e di azioni. In qualunque stato si trovi, virtuoso e non virtuoso, la mente manifesta la qualità predominante attraverso le azioni e le parole.

Ciò significa che la forma di sostegno più importante consiste nel mettere in pratica l'insegnamento. Ad esempio, nella cerimonia della presa dei precetti l'insegnante elenca i comportamenti dannosi da cui ci si impegna ad astenersi. Se però ci limitiamo a recitare i precetti senza riflettere sul loro significato sarà difficile fare progressi, e perderemo di vista il vero spirito della pratica. Quindi il vero sostegno al Buddhismo consiste nell''offerta' della pratica (patipattipūjā), nella coltivazione della retta moralità, concentrazione e saggezza. Allora si capisce cos'è il Buddhismo. Se la

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comprensione non passa attraverso la pratica si resta ignoranti, anche se si conosce a menadito il Tipitaka.

Ai tempi del Buddha viveva un monaco di nome Tuccho Pothila, una persona estremamente colta che conosceva a fondi i testi e la dottrina. La sua fama gli aveva guadagnato ovunque estimatori, era a capo di diciotto monasteri. Il suo nome suscitava un timore reverenziale; nessuno si azzardava a mettere in discussione le sue parole, tanta era la stima per la sua grande padronanza della dottrina. Fra i discepoli del Buddha, Tuccho Pothila spiccava per erudizione.

Un giorno, Tuccho Pothila va a rendere omaggio al Buddha. Al suo inchino il Buddha risponde: "Ah, sei qui, venerabile Dottrina Vuota!...", né più né meno. Dopo una breve conversazione, giunto il momento del congedo, il Buddha lo saluta così: "Oh, te ne vai, venerabile Dottrina Vuota?".

Nient'altro. Vedendolo arrivare: "Buongiorno, venerabile Dottrina Vuota"; salutandolo: "Te ne vai, venerabile Dottrina Vuota?". Nessuna spiegazione, nessun altro insegnamento. Tuccho Pothila, il famoso maestro, è perplesso: "Perchè il Buddha mi ha parlato così? Che avrà voluto dire?". Pensa che ti ripensa, dopo aver dato fondo a tutto iol suo sapere, finalmente capisce: "Ma certo! 'Venerabile Dottrina Vuota!': un monaco che studia ma non pratica" E dopo un profondo esame di coscienza, Tuccho Pothila capisce di non essere molto diverso dalla gente comune. Nutriva le stesse aspirazioni, godeva delle stesse gioie. Non aveva lo spirito del samana [Samana è colui che si dona interamente alla pratica spirituale, in particolare che raggiunge grazie a questa pratica un certo grado di virtù. Nel linguaggio di Ajahn Chah, il termine si riferisce a qualcuno che gode della pace interiore], né alcuna qualità che lo motivasse sinceramente al Nobile Sentiero e gli donasse la vera pace.

La decisione di praticare era presa, ma non c'era nessuno a cui rivolgersi. Tutti gli insegnanti disponibili erano suoi discepoli e non se la sentivano di accettarlo. Di solito nei confronti del proprio insegnante si diventa timidi e deferenti, e quindi nessuno si azzardava a fargli da maestro.

Alla fine Tuccho Pothila incontra un giovane novizio, che era illuminato, e gli chiede di praticare sotto la sua guida. Il novizio accetta: "Puoi stare con me, ma solo a patto che tu sia sincero. Altrimenti, non ti accetterò". Tuccho Pothila si impegna a diventare suo discepolo.

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Poi il novizio gli ordina di vestirsi di tutto punto. Ora si dà il caso che lì nei pressi ci fosse una palude; indossate con cura le sue vesti, oltretutto piuttosto costose, Tuccho Pothila si sente dire: "Ora gettati nel fango, e non fermarti finché non te lo dico io. Se non ti dico di uscire, non uscire. Va', corri!".

Tuccho Pothila, vestito di tutto punto, si immerge nella palude e ci resta finché non è ricoperto di fango dalla testa ai piedi. Alla fine il novizio gli dà il permesso di uscire: "Va bene, ora basta". Tuccho Pothila si ferma. Ora tirati su!"... E Tuccho Pothila si tira su.

Era la prova che Tuccho Pothila aveva rinunciato al suo orgoglio. Ora era pronto a ricevere l'insegnamento. Se non fosse stato pronto a imparare non si sarebbe gettato nella palude, lui che era un maestro tanto famoso, ma invece lo aveva fatto. Ciò convinse il novizio che il suo proposito era sincero.

Una volta fuori dalla palude, Tuccho Pothila inizia il suo apprendistato. Il novizio gli insegna a osservare gli oggetti dei sensi, a essere consapevole della mente e degli oggetti dei sensi, ricorrendo alla parabola dell'uomo che cerca di acchiappare una lucertola nascosta in un termitaio. Immaginan che nel termitaio ci siano sei aperture, come farà ad acchiappare la lucertola? Dovrà chiuderne cinque e lasciarne aperta soltanto una. Poi si tratterà di aspettare, sorvegliando attentamente quell'unica apertura, finché la lucertola non esce e non si lascia agguantare.

Osservare la mente è qualcosa di simile. Si chiudono gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua e il corpo, lasciando aperta solo la mente. 'Chiudere i sensi' significa tenerli sotto controllo, raccogliersi, prendendo la mente come unico oggetto di attenzione. Meditare è come acchiappare la lucertola. Ci serviamo di sati per osservare il respiro. Sati è la capacità di riportarci al presente, come quando ci chiediamo: "Cosa sto facendo?". Sampajañña è la consapevolezza che in questo momento sto facendo questo o quest'altro. Osserviamo l'inspirazione e l'espirazione con sati e sampajañña.

La capacità di ricordarsi del presente si acquisisce con la pratica, non si può imparare sui libri. Siamo consapevoli delle sensazioni che emergono. La mente può restare inattiva per un po', poi sorge una sensazione. Sati si attiva in concomitanza con le sensazioni, riportandole alla mente. Ci si ricorda dell'intenzione di parlare, o di andare, o di sedersi e così via; poi subentra sampajañña, la consapevolezza che in questo momento cammino, mi sdraio, sperimento questo o quell'altro stato d'animo.

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Con queste due, abbiamo un quadro esatto della nostra mente nel momento presente. Sappiamo in che modo reagisce alle impressioni sensoriali.

Ciò che è consapevole degli oggetti dei sensi lo chiamiamo 'mente'. Gli oggetti 'penetrano' nella mente. Prendiamo un suono, come quello della pialla elettrica qui fuori. Il suono entra attraverso le orecchie e raggiunge la mente, che lo riconosce come il rumore di una pialla elettrica. Ciò che riconosce il suono si definisce 'mente'.

Ora, la mente che riconosce il suono è ancora a un livello piuttosto elementare. Si tratta solo della mente ordinaria. Forse in questo 'qualcuno' che riconosce emerge una sensazione di fastidio. Dunque bisogna educarlo perché diventi 'colui che conosce' secondo verità, il così detto 'Buddho'. Se non conosciamo chiaramente, in accordo con la verità, ci sentiremo infastiditi dai suoni prodotti dalla gente, dalle macchine, dalle pialle elettriche e via dicendo. Questa è la mente ordinaria non educata, che riconosce il suono con fastidio, che conosce sulla base delle sue preferenze, non della verità. Bisogna educarla ulteriormente perché conosca attraverso la comprensione e la visione profonda (ñāñadassana), che è la facoltà della mente purificata pe cui si riconosce il suono semplicemente come suono. Se non c'è attaccamento al suono, non c'è irritazione. Il suono nasce e noi ci limitiamo a notarlo. In questo caso possiamo dire di conoscere effettivamente gli oggetti sensoriali nel loro emergere. Se sviluppiamo 'il Buddho', prendendo coscienza del suono in quanto suono, non ci disturberà. È qualcosa che nasce sulla base di determinate condizioni, non è un essere, un individuo, un sé, 'noi' o 'loro'. È solo un suono. La mente molla la presa.

Conoscere così si definisce 'Buddho', conoscenza chiara e penetrante grazie alla quale lasciamo che il suono sia semplicemente suono. Non ci disturba affatto se non siamo noi a disturbarlo pensando: "Non voglio ascoltarlo, è fastidioso". La sofferenza deriva da pensieri di questo genere. È proprio qui l'origine della sofferenza, nel non sapere come stanno le cose, nel non avere ancora sviluppato 'il Buddho'. Ancora non siamo lucidi, non siamo svegli, non siamo consapevoli. Abbiamo a che fare con la mente grezza, non educata. E questa mente non può esserci ancora veramente utile.

Sicché il Buddha ha insegnato che la mente deve essere educata e allenata. La mente necessita di allenamento come il corpo, ma di tipo diverso. Per allenare il corpo lo esercitiamo, andando a correre la mattina e la sera e via dicendo. Come risultato dell'esercizio il corpo diventa più agile, più forte, la respirazione e il sistemo nervoso

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funzionano meglio. Per esercitare la mente non occorre farla muovere ma piuttosto fermarla, placarla.

Quando pratichiamo la meditazione, ad esempio, prendiamo come base un oggetto, come il respiro che entra ed esce, che diventa il fulcro della nostra attenzione e della nostra contemplazione. Osserviamo il respiro. Osservare il respiro significa seguirlo con consapevolezza, notare il suo ritmo, il suo andare e venire. Mettiamo consapevolezza nel respiro, seguendo il naturale movimento di inspirazione ed espirazione e lasciando andare tutto il resto. Come risultato della concentrazione su un solo oggetto, la mente si rivitalizza. Se invece la lasciamo libera di pensare a questo o a quello, la mente non si unifica, non si placa.

Dire che la mente si ferma significa avere la sensazione che si sia fermata, che non corre più da una parte all'altra. È come avere un coltello affilato. Se lo usiamo in maniera indiscriminata, ad esempio per tagliare pietre, mattoni ed erba, ben presto si spunterà. Il coltello va usato sugli oggetti appropriati. Lo stesso vale per la nostra mente. Se le permettiamo di andare appresso a pensieri e sentimenti senza valore e senza scopo, si stanca e si indebolisce. E quando la mente è priva di energia la saggezza non può manifestarsi, perché una mente senza energia è una mente senza samādhi.

Se la mente non è ferma è impossibile vedere con chiarezza gli oggetti dei sensi per quello che sono. La consapevolezza che la mente è la mente e gli oggetti sono soltanto oggetti è il nucleo originario della dottrina buddhista. È il cuore del Buddhismo.

Dobbiamo coltivare la mente, farla crescere, educarla alla calma e alla visione profonda. La educhiamo alla disciplina e alla saggezza consentendole di fermarsi e lasciando emergere la saggezza, conoscendo la mente per quella che è.

Sapete, noi esseri umani siamo un po' come bambini, e come tali ci comportiamo. I bambini sono inconsapevoli. Agli occhi di un adulto, i comportamenti, i giochi e l'esuberante attività dell'infanzia sembrano senza senso. La mente non educata è come un bambino. Parla senza consapevolezza e agisce senza saggezza. Possiamo distruggerci o provocare danni indicibili senza nemmeno rendercene conto. I bambini non sanno nulla, per natura sanno solo giocare. Anche la mente ignorante è così.

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Perciò occorre educarla. Il Buddha ha insegnato a educare la mente, a istruire la mente. Se il nostro modo di sostenere il Buddhismo si limita ai quattro requisiti, resta un sostegno superficiale, che interessa solo 'la scorza' o 'l'alburno' dell'albero. L'autentico sostegno passa attraverso la pratica, attraverso lo sforzo di armonizzare all'insegnamento le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri. Ciò è assai più fruttuoso. Se siamo onesti e sinceri, disciplinati e saggi, la nostra pratica sarà fonte di bene. Non darà adito a disprezzo e ostilità. La nostra religione ci insegna così.

Se prendiamo i precetti solo per tradizione, anche se il maestro insegna la verità la nostra pratica resterà carente. Magari sappiamo a memoria la dottrina, ma se vogliamo capire davvero dobbiamo metterla in pratica, questo nostro sapere ci impedirà di giungere al cuore del Buddhismo per un numero incalcolabili di esistenze future. La sostanza della religione buddhista continuerà a sfuggirci.

Sicché la pratica è una chiave, la chiave della meditazione. Se possediamo la chiave giusta, anche la serratura più ermetica cederà: basta infilarla nel lucchetto e girare. Ma senza chiave il lucchetto non si apre. E non sapremo mai cosa c'è nel baule.

La conoscenza è di due tipi. Che conosce il Dhamma non parla solo per abitudine, dice la verità. Di solito la gente comune parla per abitudine, e quel che è peggio parla con presunzione. Immaginate due amici che non si vedono da tanto tempo e che un bel giorno si incontrano per caso sul treno... "Ma che bella sorpresa! Pensavo proprio di venirti a trovare...". In realtà non è vero. Lo dicono nell'eccitazione del momento, ma la verità è che si erano completamente dimenticati l'uno dell'altro. A conti fatti è una bugia. Proprio così, mentono per distrazione. Mentono senza rendersene conto. È una forma sottile di contaminazione che si incontra di frequente.

Sicché, per quanto riguarda la mente, Tuccho Pothila seguì le istruzioni del novizio: inspirare, espirare... consapevole di ciascun respiro... finché incontrò il mentitore dentro di sé, la mente menzognera. Vide le contaminazioni nel loro emergere, come la lucertola che fa capolino dal termitaio. Le vide e ne percepì la reale natura nel momento stesso in cui emergevano. Notò come la mente ordisce di minuto in minuto trame sempre nuove.

Il pensiero è un sankhata dhamma, una cosa che è creata o tenuta in piedi da condizioni favorevoli. Non è l'asankhata dhamma, l'incondizionato. La mente ben allenata, perfettamente consapevole, non ordisce stati mentali. Una mente del genere

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penetra al cuore delle Nobili Verità e trascende il bisogno di dipendere dall'esterno. Conoscere le Nobili Verità è conoscere la verità. La mente iperattiva si difende dalla verità, dicendosi che una certa cosa è buona o bella; ma se è presente il Buddho non può ingannarci, perché la riconosciamo per quella che è. Non è più in grado di creare stati mentali illusi, perché c'è la chiara consapevolezza che tutti gli stati mentali sono instabili, imperfetti, fonte di sofferenza per chi ne fa oggetto di attaccamento.

Ovunque andasse, Tuccho Pothila portava con sé 'il conoscitore'. Osservava le più diverse creazioni della mente con intelligenza. Era consapevole dei molti modi in cui la mente sa mentire. Seppe cogliere l'essenza della pratica, comprendendo che è questa mente menzognera quella che va osservata, quella che ci induce agli estremi della felicità e della sofferenza e ci costringe a girare all'infinito sulla ruota del samsāra con il suo piacere o dolore, il suo bene e il suo male, che è lei la responsabile di tutto. Tuccho Pothila comprese la verità, afferrò il nocciolo della pratica come l'uomo della parabola la cosa della lucertola. Scoprì le trame della mente illusa.

Lo stesso vale per noi. Solo la mente conta. Ecco perché si dice che bisogna educarla. Ma se la mente è la mente, con quale strumento la educhiamo? Sostenendo sati e sampajañña con continuità, saremo in grado di conoscerla. Il 'conoscitore' è un passo oltre la mente, è ciò che conosce lo stato della mente. La mente è la mente. Ciò che la riconosce semplicemente come tale è 'il conoscitore', che trascende la mente. Il conoscitore trascende la mente, ed è per questo che può sorvegliarla e insegnarle cose è bene e cosa è male. Alla fine tutto si riconduce a questa mente iperattiva. Quando la mente resta coinvolta nella sua stessa proliferazione, la consapevolezza è assente e la pratica è sterile.

Dunque educhiamo la mente per udire il Dhamma, per coltivare il Buddho, la consapevolezza chiara e luminosa, ciò che sorpassa e trascende la mente ordinaria, che ne conosce tutte le vicissitudini. Ecco perché meditiamo sulla parola 'Buddho', per conoscere la mente oltre la mente. Osservate tutti i suoi movimenti, buoni o cattivi, finché il conoscitore comprende che la mente è soltanto la mente, non un sé o una persona. È ciò che si definisce cittānupassanā, la contemplazione della mente. Contemplando così scopriremo che è impermanente, imperfetta e priva di un proprietario. Che questa mente non ci appartiene.

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Riassumendo: la mente è ciò che riconosce gli oggetti dei sensi, i quali sono distinti dalla mente; il conoscitore è ciò che conosce tanto la mente che gli oggetti dei sensi per quelli che sono. Dobbiamo ricorrere a sati per ripulire di continuo la mente. Tutti hanno sati; anche un gatto, quando va a caccia di topi. Un cane la possiede quando abbaia ai passanti. Anche questa è sati, ma non è quella del Dhamma. Benché tutti la possiedano, ne esistono diversi livelli, come ci sono molti livelli nel modo di guardare le cose. Come quando parlo della contemplazione del corpo; c'è che mi dice: "Ma cosa c'è da contemplare? È sotto gli occhi di tutti. Kesā e lomā li vediamo già. E allora?

La gente è fatta così. Certo che vede il corpo, ma è una visione distorta, non vede attraverso il Buddho, il conoscitore, il risvegliato. Vede con gli occhi fisici, alla maniera ordinaria. Vedere il corpo non è abbastanza. Limitarsi a questo è fonte di guai. Bisogna vedere il corpo dentro il corpo, allora si comincia a capire. Vederlo e basta ci espone ai suoi inganni, al fascino del suo aspetto esteriore. Quando non si vede l'impermanenza, l'imperfezione e l'assenza di un proprietario, si produce kāmachanda, il desiderio sensoriali. Ci si lascia sedurre dalle forme, dai suoni, dagli odori, dai sapori e dalle sensazioni. Vedere così è vedere con gli ordinari occhi di carne, che si spingono all'amore e all'odio e a discriminare fra piacevole e spiacevole.

Il Buddha ha insegnato che non basta. Bisogna vedere con gli occhi della mente. Vedere il corpo nel corpo. Provate a guardarci dentro... che disgusto! Ci sono le cose di oggi mischiate alle cose di ieri, non ci si capisce nulla. Vedere in quest'altro modo è molto più rivelante che vedere con gli occhi fisici. Contemplate, guardate con gli occhi della mente, con gli occhi della saggezza.

La capacità di comprensione varia da persona a persona. Per alcuni le cinque meditazione non hanno senso. Cosa c'è da contemplare nei peli, i capelli, le unghie, i denti e la pelle? A sentir loro li vedono già, ma in realtà li vedono solo con l'occhio carnale, con quest'occhio pazzo che guarda solo quello che vuole guardare. Per vedere il corpo nel corpo c'è bisogno di una vista molto più acuta.

Con questa pratica si può estirpare alla radice l'attaccamento ai cinque khandha. Sradicare l'attaccamento significa sradicare la sofferenza, dal momento che la sofferenza deriva dall'attaccarsi ai cinque khandha. Non dai cinque khandha in quanto tali, ma dal vederli come qualcosa che ci appartiene.

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Quando se ne vede chiaramente la natura attraverso la pratica meditativa, la sofferenza non fa più presa, come un bullone svitato. La mente fa lo stesso movimento del bullone, allenta la presa, si tira indietro dall'ossessione del bene e del male, del possesso, dell'approvazione sociale, della felicità e della sofferenza.

Ignorare la verità dei khandha è come avvitare il bullone sempre più stretto, finché a furia di stringere ci si conficca dentro e lacera, lasciandosi esposti a ogni genere di sofferenza. Prendendo atto della verità, svitiamo il bullone. Nel linguaggio del Dhamma questa esperienza si definisce nibbidā, disincanto. Le cose non ci attirano più, non ci seducono più. Tirandoci indietro, conosciamo finalmente la pace.

La causa della sofferenza è l'attaccamento. Occorre quindi rimuovere la causa, tagliarla alla radice per impedirle di generare altra sofferenza. Il problema è uno solo: l'attaccamento.

È sufficiente questo per spingere gli uomini a uccidersi a vicenda. Tutti i problemi, personali, familiari o sociali, nascono da quest'unica radice. Non ci sono vincitori... si scannano fra loro, ma alla fine non c'è guadagno per nessuno. Io non lo so perché la gente insista con questo inutile massacro.

Potere, ricchezza, prestigio, approvazione, felicità e sofferenza... questi sono i dhamma mondani, che divorano gli esseri mondani. Gli esseri mondani sono portati a spasso dai dhamma mondani: guadagno e perdita, plauso e biasimo, successo e insuccesso, piacere e dolore. Questi dhamma sono fonti di guai, e fanno soffrire che non riflette sulla loro vera natura. In nome della ricchezza, del prestigio o del potere la gente è capace di uccidere. Perché? Perché prende queste cose troppo sul serio. Il successo dà alla testa. Come quel tale che era diventato capo del villaggio. Era accecato dal potere, respingeva i vecchi amici dicendo che la situazione era cambiata, che dovevano mantenere le distanze.

Il Buddha insegnava a investigare la natura della ricchezza, del prestigio, dell'approvazione e della felicità. Prendetele come vengono, ma con un certo distacco. Non montatevi la testa. Se non le capite fino in fondo, vi lascerete raggirare dal potere, dai figli, dai parenti... da tutto! Se le comprendete chiaramente, vi accorgerete che sono tutte condizioni impermanenti. Diventano impure quando subentra l'attaccamento.

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Tutte queste cose arrivano dopo. Quando un individuo nasce, ci sono solo nāma e rūpa, tutto qui. 'Il signor Rossi' e 'la signora Bianchi' li inventiamo noi in un secondo momento, in ossequio a determinate convenzioni. Strada facendo si aggiungono nuovi accessori, come 'colonnello', 'generale' e via dicendo. Se non capiamo bene di che si tratta, finiamo per portarceli appresso come se fossero fatti reali. Ci portiamo appresso ricchezze, prestigio, nome e posizione sociale. Chi ha potere può fare il bello e il cattivo tempo... "Quello lì, fucilatelo! Quest'altro, gettatelo in prigione!"... Il potere è conferito dal grado. È su questo concetto di 'grado' che si innesta l'attaccamento. Chi arriva in alto nella scala sociale si sente subito in diritto di dare ordini; giusto o sbagliato che sia, agisce sull'onda dei propri impulsi del momento. Così non fa che ripetere i soliti vecchi errori, allontanandosi sempre di più dalla verità.

Chi comprende il Dhamma non agisce così. Bene e male esistono da tempi immemorabili... se incontrate sulla vostra strada ricchezza e prestigio, fate che restino ciò che sono, non lasciate che diventino la vostra identità. Servitevene semplicemente per ottemperare ai vostri doveri, nulla di più. Voi non cambiate. Se siamo capaci di renderlo oggetto di meditazione, non ci lasceremo ingannare da nulla di quanto incontriamo sulla nostra strada. Resteremo sereni, impassibili, equanimi. Dopo tutto, si tratta sempre delle solite cose.

È questo l'atteggiamento che ci chiedeva il Buddha. Qualunque cosa riceviamo, la mente non ci aggiunge del suo. Vi eleggono consigliere comunale? "Va bene, sono consigliere comunale... ma in realtà non lo sono". Vi mettono a capo della comunità? "Sì lo sono, ma non lo sono!". Cosa siamo noi, in fin dei conti? Alla fine, ci aspetta solo la morte. Non importa cosa vi fanno diventare, in fin dei conti non cambia nulla. Che dire allora? Se vedete le cose in questa luce avrete un solido rifugio e un autentico appagamento. Nulla è cambiato.

Questo succede quando non ci lasciamo ingannare dalle cose. Tutto ciò che incontriamo sulla nostra strada è solo una condizione relativa. Quando la mente è in questo stato, non c'è nulla che possa istigarla a lavorare di fantasia o a cedere alle lusinghe dell'avidità, dell'avversione e dell'illusione.

Sicché, essere autentici sostenitori del Buddhismo significa questo. Vi invito tutti, che siate nel gruppo di chi riceve (la comunità monastica) o in quello di chi offre (la

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comunità dei laici) a riflettere bene su quanto abbiamo detto. Coltivate voi il Silā-Dhamma. [Disciplina e Insegnamento: un altro termine per alludere all'insegnamento buddhista. Sul piano individuale, si riferisce alla coltivazione della virtù e della conoscenza della verità] È il modo migliore per sostenere il Buddhismo. Anche offrire cibo, riparo e medicine va bene, ma queste offerte si fermano solo all''alburno' del Buddhismo. Non dimenticatelo. Un albero ha una corteccia, un alburno e un durame, e queste tre parti sono interdipendenti. Il durame ha bisogno dell'alburno e della corteccia. Una parte non può esistere indipendentemente dalle altre, proprio come le tre parti dell'insegnamento: moralità, concentrazione e saggezza. La disciplina morale consiste nell'improntare alla rettitudine le proprie parole e azioni. La concentrazione, nel rendere stabile e salda la mente. La saggezza è la comprensione profonda della natura di tutte le condizioni relative. Studiate e praticate queste tre cose, e capirete la vera essenza del Buddhismo.

Diversamente, vi lascerete ingannare dalle ricchezze, dal ruolo sociale, da tutto ciò con cui entrate in contatto. Essere seguaci del Buddhismo solo esteriormente non potrà mai mettere fine ai conflitti e ai dissapori, agli odi e ai rancori, al ferirsi e aggredirsi a vicenda. Se vogliamo che tutto ciò finisca, dobbiamo riflettere sulla natura della ricchezza, del ruolo sociale, del prestigio, della felicità e della sofferenza. Dobbiamo contemplare la nostra vita e armonizzarla con l'Insegnamento, riflettere sul fatto che tutti gli esseri che sono al mondo fanno parte di un'unica realtà. Siamo come loro, sono come noi. Gioiscono e soffrono esattamente come noi. È lo stesso per tutti. E dalla riflessione scaturiranno pace e saggezza. È questa l'asse portante del Buddhismo.

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La nostra vera casa (consigli a una moribonda)

del venerabile Ajahn Chah

© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Dal libro "Il Dhamma vivo" Traduzione di Letizia Baglioni.

Estratto del libro "Il Dhamma vivo", su gentile concessione dell'Editore Ubaldini.

DISPONITI AD ASCOLTARE IL DHAMMA CON RISPETTO. Ascoltami con attenzione, come se di fronte a te ci fosse il Buddha in persona. Chiudi gli occhi, mettiti a tuo agio, raccogli la mente e concentrala. Con umiltà, fai spazio nel tuo cuore alla Triplice Gemma della saggezza, della verità e della purezza, per esprimere la tua devozione all'Illuminato.

Non ti ho portato alcun dono materiale; solo il Dhamma, l'insegnamento del Buddha. Rifletti: nemmeno il Buddha, che pure aveva tutte le virtù, poté sottrarsi alla morta fisica. Invecchiò e abbandonò il corpo, deponendo questo pesante fardello. Ora anche tu devi imparare a sentirti paga dei molti anni in cui hai potuto contare sul corpo. Ormai dovrebbero bastarti.

Pensa alle stoviglie che hai usato per tanti anni, tazze, piattini, posate .... quando le hai comprate erano nuove fiammanti, ma ora mostrano i segni dell'uso. Alcune si sono rotte, altre sono sparite, quelle che restano sono consunte, nessuna ha l'aspetto di una volta, perché questa è la loro natura. Anche il tuo corpo è così. Dal giorno della tua nascita ha subito continui cambiamenti, passando dall'infanzia all'adolescenza e infine alla vecchiaia. Accettalo. Il Buddha ha detto che nessuna delle condizioni, mentali, fisiche o esterne, rappresentano il sé: la loro natura è il cambiamento. Contempla questa verità con chiarezza.

Questa massa di carne che giace qui consumandosi è la realtà, è il saccadhamma. La vicenda del corpo è la realtà, è l'eterno insegnamento del Buddha. Il Buddha ci ha insegnato a contemplarla, ad accettarne la natura. Dobbiamo imparare a fare pace con il corpo, in qualunque condizione si trovi. Il Buddha ci ha insegnato a far sì che solo il corpo resti rinchiuso, e a non lasciare che la mente resti imprigionata con lui. Ora che il tuo corpo comincia a cedere agli assalti del tempo, non opporre resistenza; ma non lasciare che la tua mente si deteriori insieme a lui. Mantienila separata. Nutrila

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con l'esperienza diretta della verità, delle cose così come sono. Il Buddha ha insegnato che la natura del corpo è questa e non può essere altrimenti. Essendo nato, invecchia e si ammala e infine muore. È una grande verità quella che ti si sta rivelando. Osserva il corpo con saggezza e prendine coscienza.

Se la tua casa crolla o prende fuoco, di qualunque calamità si tratti, riguarda solo la casa. Se è travolta da un'inondazione, non lasciare travolgere la mente. Se scoppia un incendio, fa che il fuoco non ti bruci il cuore. È solo la casa che brucia, che si allaga, e la casa è fuori di te. Lascia che la mente abbandoni suoi attaccamenti. È il momento giusto.

Hai vissuto a lungo. I tuoi occhi hanno visto una quantità di forme e di colori, le tue orecchie hanno udito suoni a profusione, hai fatto tante esperienze. Esperienze, appunto, nient'altro. Hai mangiato cibi deliziosi, e tutti quei buoni sapori erano appunto buoni sapori, tutto qui. Quando l'occhio vede una bella forma, di questo si tratta... di una bella forma. Una brutta forma è soltanto una brutta forma. L'orecchio percepisce un suono carezzevole, melodioso, e non è nulla di più che questo. Un suono sgradevole, dissonante, è semplicemente un suono sgradevole.

Il Buddha insegna che nessun essere a questo mondo, ricco o povero, giovane o vecchio, umano o animale, può conservare a lungo il proprio stato. Cambiamento e perdita sono esperienza universali. È una realtà della vita rispetto alla quale non possiamo nulla. Ciò che invece possiamo fare, secondo il Buddha, è contemplare il corpo e la mente per coglierne la natura impersonale, vedere che nessuno dei due è 'me' o 'mio' ma che la loro è una realtà relativa. Pensa a questa casa: è tua solo sulla carta. Non puoi portartela appresso. Stesso discorso per le ricchezze, i beni e la famiglia: sono tuoi soltanto in teoria. In realtà non appartengono a te, ma alla natura.

Non pensare che questa verità riguardi solo te: siamo tutti nella stessa barca, compresi il Buddha e i suoi discepoli illuminati. L'unica differenza rispetto a noi è che loro accettano le cose per quelle che sono. Sanno che non potrebbero essere altrimenti.

Sicché il Buddha ci ha insegnato a perlustrare attentamente il corpo, dalla piante dei piedi alla cima della testa, e poi a ritroso dalla testa ai piedi. Osserva il corpo. Che cosa vedi? C'è qualcosa che sia intrinsecamente puro? Riesci a scorgere una qualche sostanza permanente? Tutto il corpo è in uno stato di costante degenerazione. Il Buddha ci ha esortato a vedere che non ci appartiene. È normale che il corpo si così, perché tutti i fenomeni condizionati sono soggetti al mutamento. E come potrebbe essere altrimenti? In realtà non c'è nulla di sbagliato nel corpo. La sofferenza non deriva dal corpo, ma da un modo di pensare sbagliato. Quando si vedono le cose in maniera distorta, la confusione è inevitabile.

Pensa a un fiume. L'acqua per sua natura scorre verso il basso, mai al contrario. È la sua natura. Se uno andasse a mettersi sulla riva di un fiume con la pretesa di veder

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scorrere l'acqua verso l'alto, sarebbe uno sciocco. E questo suo sciocco atteggiamento gli impedirebbe di trovare la sua pace, lì come altrove. La sua opinione infondata, quel suo pensare alla rovescia, lo farebbe soffrire. Se avesse una visione retta, capirebbe che l'acqua scorre inevitabilmente verso il basso e che senza comprendere e accettare questo fatto non può aspettarsi che confusione e frustrazione.

Il fiume che asseconda la pendenza è come il tuo corpo. È stato giovane, è invecchiato, e ora scorre incontro alla morte. Non desiderare che sia diverso, non c'è nulla che tu possa fare. Il Buddha ci esorta a vedere la natura delle cose e quindi a lasciar andare il nostro attaccamento a esse. Prendi rifugio nel lasciar andare. Medita incessantemente, anche se ti senti stanca e senza forze. Lascia che la tua mente si accompagni al respiro. Fai qualche respiro profondo e poi àncora l'attenzione al respiro, aiutandoti con il mantra "Buddho". Rendi la pratica continua. Più ti senti debole, più la concentrazione dovrebbe essere sottile e accurata, per poter fronteggiare le sensazioni dolorose che emergono. Quando cominci a sentirti stanca, sospendi tutti i pensieri, lascia che la mente si raccolga e poi rivolgiti alla consapevolezza del respiro. Continua a recitare mentalmente "Buddho, Buddho".

Dimentica le apparenze. Non afferrarti ai pensieri circa i tuoi figli o i parenti, non afferrarti assolutamente a nulla. Lascia andare. Fai che la mente converga su un solo punto e poi lasciala riposare tranquilla nel respiro. Lascia che il respiro diventi il suo unico oggetto. Concentrati fino al punto in cui la mente diventa sempre più sottile, le sensazioni diventano irrilevanti e senti nascere in te uno stato di grande chiarezza e vigilanza. Allora, a poco a poco, qualunque sensazione dolorosa cesserà spontaneamente.

Alla fine, tratterai il respiro come se fosse un parente che è venuto a trovarti. Quando un ospite se ne va, lo accompagniamo sulla soglia per salutarlo. Lo seguiamo con lo sguardo finché imbocca il viale e scompare alla vista, poi rientriamo in casa. Con il respiro facciamo lo stesso. Se è pesante, sappiamo che è pesante; se è sottile, sappiamo che è sottile. A mano a mano che diventa sempre più leggero continuiamo a seguirlo, risvegliando nel contempo la mente. Alla fine il respiro scompare del tutto e non resta altro che una sensazione di vigilanza. È allora che 'incontriamo il Buddha'. Abbiamo quella consapevolezza limpida e sveglio che chiamiamo 'Buddho', il conoscitore, il risvegliato, il luminoso. Questo è incontrare il Buddha, dimorare col Buddha, con saggezza e chiarezza. Il Buddha che è morto è solo quello storico. Il vero Buddha, quel Buddha che è chiara e splendente conoscenza, lo si può vedere e raggiungere ancora oggi. E quando lo raggiungiamo, il cuore è unificato.

Quindi molla la presa, lascia andare tutto, tutto tranne il conoscere. Non farti ingannare dalle immagini e dai suoni che possono emergere in meditazione. Lasciali cadere. Non trattenere assolutamente nulla, resta semplicemente con questa consapevolezza unificata. Non pensare al passato o al futuro, resta dove sei, e raggiungerai quel luogo dove non si avanza, non si torna indietro e non ci si ferma,

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dove non c'è nulla da afferrare o a cui aggrapparsi. E perché? Perché non c'è l'io, nessun 'me' e nessun 'mio'. Non c'è più nulla. Il Buddha ci ha insegnato a svuotarci così, a non portare nulla con noi... a conoscere, conoscere e lasciare andare.

Realizzare il Dhamma, la via della libertà dal ciclo di nascita e morte, è un'impresa che ognuno deve portare a termini da solo. Quindi persevera nello sforzo di lasciar andare e di comprendere gli insegnamenti. Metti energia nella tua contemplazione. Non preoccuparti dei tuoi cari. In questo momento sono così come sono, in futuro saranno come te. Nessuno può sfuggire a questo destino. Il Buddha ha insegnato a lasciar cadere tutto ciò che è privo di realtà intrinseca. Se lasci cadere tutto vedrai la verità, diversamente non la vedrai. È così che funziona. Ed è lo stesso per tutti. Quindi non aggrapparti a nulla.

Anche se ti scopri a pensare, va bene lo stesso, basta che sia un pensare saggio, e non insensato. Se pensi ai tuoi figli, pensaci con saggezza, non da ignorante. Considera con saggezza qualunque cosa diventi oggetto di attenzione, sii consapevole della sua natura. Conoscere con saggezza significa lasciar andare e non alimentare la sofferenza. La mente è radiosa, gioiosa e serena. Una volta abbandonate le distrazioni, non è più frammentata. In questo momento l'aiuto e il sostegno che ti occorrono puoi averli dal tuo respiro.

È un lavoro che spetta a te e a nessun altro. Lascia che gli altri facciano il loro. Hai il tuo compito, il tuo dovere da compiere, non accollarti quelli che spettano alla tua famiglia. Non farti carico di nient'altro, lascia andare tutto. Lasciar andare calmerà la mente. Adesso la tua unica responsabilità è concentrare la mente e renderla tranquilla. Tutto il resto lascia agli altri. Forme, suoni, odori, sapori... che ne se occupino gli altri. Lasciati tutto alle spalle e fai il tuo lavoro, adempi al tuo dovere. Qualunque cosa emerga nella mente, paura del dolore, paura della morte, preoccupazione per altre persone, sia quel che sia, dille: "Non disturbarmi. Ora non mi interessi più". Quando vedi emergere quei dhamma, continua semplicemente a ripeterti questo.

Cosa si intende per dhamma? Dhamma è tutto, non c'è nulla che non sia un dhamma. E il 'mondo' che cos'è? È esattamente lo stato mentale che ti assilla in questo momento. "Cosa faranno? Chi si prenderà cura di loro quando non ci sarò più? Riusciranno a cavarsela?" Tutto questo non è altro che il mondo. Anche il semplice emergere di un moto di paura rispetto al dolore o alla morte, è mondo. Sbarazzatene! Il mondo è così com'è. Se gli permetti di dominare la tua mente la renderà offuscata e incapace di conoscersi. Quindi, qualunque cosa appaia nella mente, pensa soltanto "Non mi riguarda. È impermanente, insoddisfacente, impersonale":

Se pensi che vorresti vivere ancora a lungo, soffrirai. Ma anche pensare che sarebbe meglio morire subito o il prima possibile non va bene. È sempre sofferenza, no? Le condizioni non ci appartengono, obbediscono alle leggi di natura. Non puoi fare nulla per cambiare il corpo. Puoi abbellirlo un pochino, renderlo momentaneamente attraente e pulito, come le ragazze che tingono le labbra, e si lasciano crescere le

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unghie; ma quando arriva la vecchiaia, ci ritroviamo tutti nella stessa barca. Il corpo è così, non è possibile cambiarlo. La mente, invece, possiamo renderla migliore e più bella.

Una casa di legno e mattoni può costruirla chiunque, ma il Buddha ha detto che quella non è la nostra vera casa, è nostra per modo di dire. È casa nostra nel mondo, e obbedisce alle leggi del mondo. La nostra vera casa è la pace interiore. Una casa esterna, materiale, può essere bella, ma non è un vero luogo di pace. C'è sempre qualche preoccupazione, qualche ansia. Perciò quella non è la nostra versa casa, è qualcosa di esterno. Presto o tardi ci toccherà abbandonarla. Non possiamo viverci in eterno perché in realtà non appartiene a noi, appartiene al mondo. Stesso discorso per il corpo. Immaginiamo che sia il nostro 'io', che sia me o mio, ma in realtà non è affatto così, è un'altra casa del mondo. Fin dalla nascita il tuo corpo ha fatto il corso naturale; ora è vecchio e malato e non puoi fare nulla per impedirglielo. È così che vanno le cose. Volerle diverse sarebbe sciocco, come pretendere che un'anatra assomigli a un pollo. Prendere atto che è impossibile, che un'anatra è un'anatra e un pollo è un pollo, che un corpo necessariamente invecchia e muore, dona coraggio e forza. Per quanto desideri che il corpo continui a durare, non lo farà.

Il Buddha ha detto: "Aniccā vata sankhārā/ uppāda vaya dhammino/ uppajjitvā nirujjhan'ti/ tesam vūpasamo sukho". [Formula tradizionale che si recita in occasione delle cerimonie funebri: "Tutte le condizioni, ahimè, sono impermanenti/ sorgono e passano/ essendo nate dovranno morire/ la cessazione delle condizioni porta la pace"]

Il termine sankhārā si riferisce al corpo e alla mente. I sankhārā sono impermanenti e instabili. Appaiono e scompaiono, sorgono e passano, eppure tutti vorrebbero che fossero permanenti. È pura follia. Guarda il respiro. Dopo essere entrato, esce, è la sua natura, è così che dev'essere. L'inspirazione e l'espirazione devono alternarsi, il cambiamento è necessario. L'esistenza delle condizioni si deve al cambiamento, non puoi impedirlo. Rifletti: potresti espirare senza inspirare? Sarebbe piacevole? Potresti fermarti all'inspirazione? Vogliamo che le cose siano permanenti, ma è impossibile. Una volta entrato, il respiro deve uscire. E una volta uscito entra di nuovo; è naturale, no? Essendo nati invecchiamo e moriamo, ed è assolutamente naturale e normale. Il genere umano è sopravvissuto fino a oggi perché le condizioni hanno fatto il loro mestiere, perché inspirazione ed espirazione hanno continuato a darsi il cambio.

Non appena nasciamo moriamo. Nascita e morte sono indissolubili. Pensa a un albero: dove ci sono radici ci sono rami, dove ci sono rami ci sono radici. Sono inseparabili. È curioso vedere quanto cordoglio e angoscia susciti la morte e quanta allegria e contentezza susciti invece la nascita. È pura illusione, nessuno considera i fatti lucidamente. Secondo me, l'occasione più adatta per piangere è quando nasce un bambino. La nascita è morte, la morte è nascita; il tronco è la radice, la radice è il tronco. Se proprio vuoi piangere, piangere per la radice, per la nascita. Rifletti: se non ci fosse nascita non ci sarebbe morte. Capisci?

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Non preoccuparti troppo delle circostanze, pensa semplicemente: "Le cose stanno così". È il tuo unico compito. In questo momento nessuno può aiutarti, famiglia e beni non possono far nulla per te. Adesso solo la pura consapevolezza può esserti di aiuto. Perciò, non esitare. Lascia andare. Liberarti di tutto.

Tanto, se anche non lo fai tu, le cose ti stanno lasciando comunque. Te ne accorgi di come le varie parti del tuo corpo, zitte zitte, se la stanno svignando? I capelli, ad esempio. Da giovane li avevi neri e folti. Ora iniziano a diradarsi. Ti lasciano. I tuoi occhi erano sani e forti ma ora sono deboli e non vedono più tanto bene. Quando ne hanno abbastanza, i vari organi ti salutano e se ne vanno, non abitano qui in pianta stabile. Da bambina avevi i denti sani e robusti, ora tentennano o forse hai la dentiera. Gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, tutto vuole andarsene, perché non è casa sua. È impossibile abitare in pianta stabile nelle condizioni, ci si può solo fermare un poco prima di ripartire. Come un inquilino miope che fa la guardia alla sua casupoletta. Ha i denti malandati, la vista difettosa, acciacchi dappertutto, niente che voglia restare al posto suo.

Perciò, non devi preoccuparti di nulla, perché questa non è la tua vera casa, è solo un riparo provvisorio. Dal momento che sei venuta in questo mondo, rifletti sulla sua natura. Tutto quanto si prepara ad andarsene. Guarda il tuo corpo. Vedi qualcosa che sia ancora com'era prima? La tua pelle è la stessa di un tempo? E i tuoi capelli? Non sono più gli stessi, vero? Dove sono finiti? È la natura, la realtà delle cose. Quando arriva il momento, le condizioni se ne vanno per i fatti loro. A questo mondo non si può fare affidamento su nulla, è un circolo interminabile di agitazione e ansia, di piacere e dolore. Non c'è' pace.

Quando ci manca una vera casa siamo come viandanti senza meta che vagabondano di luogo in luogo, fra una breve sosta e una nuova partenza. E finché non ritorneremo a casa, quella vera, ci sentiremo smarriti, come chi lascia il paesello natio sapendo che solo al suo ritorno potrà trovare agio e sicurezza.

È impossibile trovare la pace autentica in questo mondo. Non ce l'ha il povero e non ce l'ha il ricco; non ce l'ha adulto e non ce l'ha il bambino; non ce l'ha ignorante e non ce l'ha il professore. Da nessuna parte c'è pace, la natura del mondo è questa. Chi ha poco soffre, chi ha molto soffre lo stesso. Bambini, adulti, vecchi e giovani... soffrono tutti. La sofferenza della vecchiaia, la sofferenza della gioventù, la sofferenza della ricchezza, la sofferenza della povertà... sempre e soltanto sofferenza.

Se osservi la realtà in questa luce vedrai anicca, l'impermanenza, e dukkha, l'insoddisfazione. Perché le cose sono impermanenti e insoddisfacenti? Perché sono anatta, non-io.

Tanto il tuo corpo malato e dolorante quanto la mente che è consapevole della malattia e del dolore si definiscono dhamma. Ciò che è senza forma, come pensieri, sentimenti e percezioni, si definiscono nāmadhamma. Quello che è vittima di

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acciacchi e dolori si definisce invece rūpadhamma. Materia e non materia sono entrambi dhamma. Sicché viviamo con i dhamma, nei dhamma, e siamo dhamma. Fondamentalmente non esiste alcun 'io', ci sono solo dhamma che sorgono e passano continuamente com'è nella loro natura. A ogni istante subiamo nascita e morte. È questa la realtà delle cose.

Quando pensiamo al Buddha, alla verità delle sue parole, sentiamo che è veramente degno di devozione e di rispetto. Ogniqualvolta vediamo la verità, siamo di fronte al suo insegnamento, anche se non abbiamo mai praticato il Dhamma. Però, se ancora non abbiamo visto la verità, quand'anche conoscessimo la dottrina e l'avessimo studiata e praticata, saremmo ancora dei senzatetto.

Cerca di afferrare questo punto. Tutte le persone, tutte le creature viventi, sono sul piede di partenza. Dopo aver vissuto un appropriato periodo di tempo, devono fare il loro corso. Tutti, ricchi, poveri, giovani e vecchi, dovranno affrontare questo cambiamento.

Quando ti rendi conto che la sua natura è questa, il mondo comincia a sembrare privo di attrattiva. Quando ti accorgi che non c'è nulla di intrinsecamente reale su cui fare affidamento, provi un senso di sazietà e di disincanto. Disincanto non significa provare avversione; la mente è limpida e vede che non c'è nulla da fare per rimediare a questo stato di cose, che è semplicemente la natura del mondo. Prenderne coscienza ti permette di lasciar andare l'attaccamento, lasciar andare con una mente che non è né felice né triste ma accetta serenamente le condizioni poiché ne vede saggiamente la natura mutevole. "Anicca vata sankhārā": tutte le condizioni sono impermanenti.

Per dirla in breve, l'impermanenza è il Buddha. Se vediamo una condizione impermanente per quello che è, scopriamo che è permanente. È permanente nel senso che è soggetto invariabilmente al mutamento. Questa è la permanenza che possiedono gli esseri viventi. C'è una trasformazione continua, dall'infanzia alla vecchiaia, e proprio quella impermanenza, quella tendenza al mutamento, è permanente e invariabile. Se ti metti in questa prospettiva, conoscerai la pace del cuore. È un destino comune a tutti, non riguarda solo te.

Viste in questa luce, le cose perderanno la loro attrattiva e nascerà il disincanto. Il compiacimento per la dimensione sensoriale svanirà. Capirai che possedere molto significa avere molto da lasciarsi alle spalle. Chi ha poco, ha poco da abbandonare. La ricchezza è solo ricchezza, una vita lunga è solo una vita lunga... niente di speciale.

Quello che conta è costruirci una casa come ci ha insegnato il Buddha, costruircela con il metodo che ti ho spiegato. Edifica la tua casa. Lascia andare. Lascia andare finché la mente raggiungerà quella pace che è libera dall'avanzare, dal tornare indietro e dal restare fermi. Il piacere non è la tua casa, il dolore non è la tua casa. Piacere e dolore si consumano e svaniscono.

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Il grande Maestro vide che tutte le condizioni sono impermanenti e quindi ci esortò a liberarci dai nostri attaccamenti. Quando arriviamo al termine della nostra vita non abbiamo scelta comunque, non possiamo portare nulla con noi. Perciò, non è meglio mollare tutto prima? È un carico pesante da trasportare, perché non sbarazzarcene subito? A che scopo trascinarcelo appresso? Lascia andare, rilassati, e lasciati accudire dai tuoi familiari.

Chi accudisce gli infermi cresce in bontà e in virtù. Il malato che offre agli altri questa opportunità dovrebbe sforzarsi di non creare complicazioni. Se soffre, se è in difficoltà, lo comunichi apertamente e conservi uno stato mentale positivo. Chi si prende cura dei genitori malati farebbe bene a coltivare premura e gentilezza badando di non cadere nell'avversione. È una buona occasione per ripagare il debito nei loro confronti. Dal giorno della nascita e per tutta l'infanzia fino all'età adulta siete dipesi dai vostri genitori. Il fatto che oggi siate qui si deve alle mille forme di sostegno che vostro padre e vostra madre vi hanno dato. Dovete a entrambi una sconfinata gratitudine.

Dunque mi rivolgo a voi, figli e familiari, che vi trovate riuniti qui quest'oggi: pensate che vostra madre adesso è vostra figlia. Prima eravate figli suoi, ora le fate da madre. Invecchiando, giorno dopo giorno è tornata bambina. La memoria vacilla, la vista è debole, l'udito non proprio perfetto. A volte farfuglia parole incomprensibili. Non prendetela a male. Anche voi che accudite la malata dovete imparare a lasciar andare. Non siate rigidi, lasciatela fare a modo suo. A volte, quando un bambino fa i capricci, i genitori gliela danno vinta per amore del quieto vivere, per farlo contento. Ora vostra madre è come una bambina. Ricordi e percezioni le si accavallano nella testa. A volte confonde i nomi, o vi chiede di portarle una tazza quando magari le serve un piatto. Succede, non prendetela a male.

Dal canto tuo, tieni presente la gentilezza di chi ti accudisce, e sopporta il dolore con pazienza. Allena la mente, non lasciarla dispersa e confusa, e non creare complicazioni a che si prende cura di te. Voi che la accudite, coltivate la virtù e la gentilezza. Non provate ripugnanza per i compiti più ingrati, come ripulirla da muco, catarro, urina e feci. Fate del vostro meglio. Datevi una mano fra voi.

È l'unica madre che avete. Vi ha dato la vita, vi ha fatto da maestra, da medico e da infermiera; è stata tutta per voi. Crescere i figli e assicurare loro un avvenire è il grande merito dei genitori. Ecco perché il Buddha insegnò le virtù di kataññū e katavedī, la capacità di riconoscere il proprio debito di gratitudine e la volontà di ripagarlo. Sono due dhamma complementari. Se i nostri genitori sono indigenti, malati o in difficoltà, faremo del nostro meglio per aiutarli. Questa è kataññū-katavedī, la virtù che fa girare il mondo, che preserva l'unità della famiglia donandole stabilità e armonia.

Oggi, in occasione della tua malattia, ti ho portato il dono del Dhamma. Non ho oggetti materiali da offrirti, quelli che vedo in questa casa sembrano più che

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sufficienti. Quindi ti offro il Dhamma, un bene il cui valore dura nel tempo, un bene inesauribile. Dopo averlo ricevuto lo puoi spartire con chi vuoi, non si resta mai senza. È la natura della Verità. Sono felici di avere avuto la possibilità di offrirti il dono del Dhamma e spero che ti dia la forza per affrontare il dolore.