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PROPRIETÁ INTELLETTUALE, ESTERNALITÁ E RENDITA Il caso del brevetto Giuseppe Clerico JEL Classification: H10, H23, K11, O31, O34 Parole chiave: brevetto, diritti di proprietà, proprietà intellettuale, esternalità, rendita 1. Introduzione L’analisi economica dimostra che una risorsa scarsa deve essere impiegata nel rispetto del criterio di efficienza sia a livello allocativo che produttivo. A livello allocativo si tratta di impiegare la risorsa per l’alternativa d’uso che offre il maggior rendimento netto atteso. A livello produttivo il criterio di efficienza richiede che l’impiego della risorsa sia fatto così da massimizzare la produzione. L’approccio standard alla teoria economica (ossia l’approccio neoclassico marginalistico basato sulla teoria della scelta razionale e massimizzante) mostra che la presenza di diritti di proprietà privata sulla risorsa scarsa in linea di principio è in grado di garantire e comunque di favorire il rispetto del criterio di efficienza. Più in generale si dimostra che la presenza di diritti di proprietà definiti e garantiti è alla base dell’esistenza del mercato stesso e del suo naturale funzionamento secondo le libere preferenze dei soggetti. Queste considerazioni si applicano in particolare a un bene privato, ossia a un bene che è facilmente escludibile (colui che non paga il prezzo non consuma) ed è rivale nel consumo (due o più persone non possono usare simultaneamente lo stesso bene). Si tratta ora di valutare se queste considerazioni sono valide nel campo della cosiddetta proprietà intellettuale (si pensi al brevetto, al copyright, al marchio commerciale) in cui il diritto di proprietà riguarda un bene dalle peculiari caratteristiche: sostanzialmente o un’informazione o più in generale un bene frutto della creatività della mente umana. L’informazione è un bene privato in quanto non è rivelata (in proposito si pensi al segreto commerciale). In quanto rivelata, ed anche in un ambiente caratterizzato da incertezza e da asimmetria informativa, l’informazione di fatto assume le caratteristiche di un bene pubblico, ossia di un bene non rivale e non escludibile. In proposito, tuttavia, l’esperienza concreta rivela che, almeno Professore ordinario di Scienza delle finanze, Università del Piemonte orientale ‘Amedeo Avogadro’, Facoltà di Giurisprudenza (Sede di Alessandria), Dipartimento di Scienze giuridiche ed economiche e Università di Torino - Dipartimento di Economia; E-mail [email protected] 1

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PROPRIETÁ INTELLETTUALE, ESTERNALITÁ E RENDITA Il caso del brevetto

Giuseppe Clerico•

JEL Classification: H10, H23, K11, O31, O34 Parole chiave: brevetto, diritti di proprietà, proprietà intellettuale, esternalità,

rendita 1. Introduzione

L’analisi economica dimostra che una risorsa scarsa deve essere impiegata nel rispetto del criterio di efficienza sia a livello allocativo che produttivo. A livello allocativo si tratta di impiegare la risorsa per l’alternativa d’uso che offre il maggior rendimento netto atteso. A livello produttivo il criterio di efficienza richiede che l’impiego della risorsa sia fatto così da massimizzare la produzione. L’approccio standard alla teoria economica (ossia l’approccio neoclassico marginalistico basato sulla teoria della scelta razionale e massimizzante) mostra che la presenza di diritti di proprietà privata sulla risorsa scarsa in linea di principio è in grado di garantire e comunque di favorire il rispetto del criterio di efficienza. Più in generale si dimostra che la presenza di diritti di proprietà definiti e garantiti è alla base dell’esistenza del mercato stesso e del suo naturale funzionamento secondo le libere preferenze dei soggetti. Queste considerazioni si applicano in particolare a un bene privato, ossia a un bene che è facilmente escludibile (colui che non paga il prezzo non consuma) ed è rivale nel consumo (due o più persone non possono usare simultaneamente lo stesso bene).

Si tratta ora di valutare se queste considerazioni sono valide nel campo della cosiddetta proprietà intellettuale (si pensi al brevetto, al copyright, al marchio commerciale) in cui il diritto di proprietà riguarda un bene dalle peculiari caratteristiche: sostanzialmente o un’informazione o più in generale un bene frutto della creatività della mente umana. L’informazione è un bene privato in quanto non è rivelata (in proposito si pensi al segreto commerciale). In quanto rivelata, ed anche in un ambiente caratterizzato da incertezza e da asimmetria informativa, l’informazione di fatto assume le caratteristiche di un bene pubblico, ossia di un bene non rivale e non escludibile. In proposito, tuttavia, l’esperienza concreta rivela che, almeno

• Professore ordinario di Scienza delle finanze, Università del Piemonte orientale ‘Amedeo Avogadro’, Facoltà di Giurisprudenza (Sede di Alessandria), Dipartimento di Scienze giuridiche ed economiche e Università di Torino - Dipartimento di Economia; E-mail [email protected]

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all’interno dell’area OCSE, i prodotti frutto della creatività della mente umana sono tutelati dalla legge attraverso forme di diritto di proprietà privata. Si tratta, quindi, di spiegare la ragione di una simile scelta pubblica. La ragione più convincente è la seguente: l’attribuzione di un diritto di proprietà privata sulle opere dell’ingegno rappresenta un incentivo per la creatività e per l’invenzione.1 Si tratta, quindi, di valutare, come già sosteneva Thomas Jefferson nella seconda metà del diciottesimo secolo, se il beneficio dell’invenzione vale per la collettività il costo connesso al diritto di sfruttare privatamente l’invenzione stessa (Lemley, 2004a). Consapevole del costo sociale del beneficio privato (ossia della rendita garantita al titolare del diritto sulla proprietà intellettuale) l’Autorità politica limita l’esercizio del diritto privato in termini di tempo, di dimensione della tutela, di caratteristiche necessarie per potere usufruire della tutela e così via. A livello sia politico che giudiziario l’opera dell’ingegno è considerata come un modo d’essere della proprietà reale (così come accade per la gran parte dei beni d’uso quotidiano) piuttosto che come una forma di tutela legale su un bene avente le caratteristiche del bene pubblico. Il diritto di proprietà reale in particolare serve: per evitare forme di sfruttamento eccessivo del bene scarso con il rischio di esaurimento della risorsa così come può avvenire nel caso di un commons puro; per evitare e limitare i fenomeni di congestione nell’accesso all’uso di una risorsa scarsa; per fare sì che il proprietario internalizzi completamente le esternalità con particolare riguardo a quelle negative. Inoltre, il diritto di proprietà privata è sostenuto come antidoto al fenomeno del free riding, allo scopo di impedire che un soggetto ottenga un beneficio privata dall’uso di un bene il cui costo ricade su altri. Ad un’analisi pacata queste ragioni giustificative del diritto privato appaiono meno convincenti quando l’oggetto della protezione legale è l’informazione (come nel caso del brevetto), ossia un bene con caratteristiche tipiche del bene pubblico. L’informazione è fonte di esternalità positive (ossia di benefici per la collettività): più l’informazione è diffusa ed usata più, ceteris paribus, tende a crescere il beneficio sociale. Il diritto di proprietà sull’informazione, quindi, implica l’internalizzazione delle esternalità positive ponendo un limite alla diffusione e al livello del beneficio sociale. In caso di esternalità negative l’attribuzione di un diritto di proprietà privata consente di internalizzare gli effetti dell’uso della risorsa scarsa. Il proprietario privato, ad esempio, non ha alcun incentivo a sfruttare eccessivamente il banco di pesca piuttosto che un prato o una foresta (è così garantito il rispetto dell’efficienza produttiva).2 In

1 Ai fini dell’analisi svolta in questo lavoro usiamo in modo intercambiabile, anche se impropriamente, i termini invenzione e innovazione. 2 La proprietà privata se da un lato garantisce il rispetto dell’efficienza produttiva dall’altro lato non risolve tout court il problema delle esternalità negative (ossia dei costi sociali aggiuntivi a quelli privati). Al fine di costringere il proprietario ad internalizzare interamente i costi sociali può essere necessario l’intervento pubblico sotto forma di regolamentazione e

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presenza di proprietà privata il proprietario può usare il bene, ma tutti gli altri sono esclusi dall’uso del medesimo. In sostanza, con la proprietà privata ci si trova in un ambiente caratterizzato da un gioco a somma zero. Il proprietario privato si trova a sopportare interamente i costi (ivi incluse le esternalità negative, ossia il danno per terzi in caso di intervento pubblico) e i benefici connessi all’uso della risorsa. La proprietà privata dell’informazione implica però la internalizzazione delle esternalità positive. In tal caso possono emergere due rischi: il fenomeno della rent-seeking e, quindi, lo spreco di risorse impiegate per catturare interamente i benefici sociali; il minor livello del beneficio sociale (a causa dell’esclusione dall’uso dell’informazione) con impatto negativo sul benessere sociale. In sostanza, nel caso del brevetto l’obiettivo della tutela legale non è tanto quello di garantire la cattura dell’intero beneficio sociale quanto quello di garantire all’inventore un adeguato profitto (un adeguato ritorno economico per lo sforzo e il capitale impiegato) dal risultato conseguito così da favorire e rafforzare l’incentivo all’innovazione.

Questo lavoro si pone come obiettivo precipuo quello di valutare criticamente, in termini di una valutazione costi e benefici sociali, il ricorso al brevetto come strumento per tutelare l’innovazione frutto dell’ingegno umano.

Il lavoro è così organizzato. Il paragrafo successivo esamina analiticamente la natura e le caratteristiche salienti della proprietà intellettuale. Il secondo paragrafo è dedicato all’analisi dell’informazione come infrastruttura sociale. Le considerazioni finali sintetizzano i risultati principali del lavoro. 2. La natura della proprietà intellettuale

L’uso del termine proprietà intellettuale (P.I.) è andato via via crescendo a partire dal 1968, anno di fondazione da parte dell’ONU del World Intellectual Property Organization. Questo evento ha contribuito a rafforzare la tendenza a considerare la P.I. come un diritto di proprietà reale (Kitch, 1977, 2000; Epstein, 1989; Dam, 1995; Landes e Posner, 2004; Léveque e Ménière, 2004; Lemley, 2004a, 2004b; Merges e Ginsburg, 2004; Posner, 2005; Menell e Scochmer, 2005). In generale, la P.I. riguarda ogni output dell’attività creativa dell’uomo. In particolare l’analisi giuseconomica della P.I. concentra la propria attenzione su tre forme essenziali di proprietà: il brevetto, il copyright, e il marchio commerciale. In questo lavoro l’analisi prende in considerazione unicamente il brevetto. Di fatto il brevetto è

imposizione tributaria (approccio alla Pigou). In alternativa all’intervento pubblico e in presenza di costi di transazione trascurabili la contrattazione privata fra le parti (approccio alla Coase) può consentire la soluzione più efficiente al problema delle esternalità negative.

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un’informazione su una data scoperta. Al fine di ottenere il brevetto il richiedente deve, infatti, comunicare interamente tutte le informazioni inerenti la scoperta così da consentire una replica della scoperta stessa. Nella sostanza, il brevetto implica l’attribuzione temporanea di un monopolio legale in merito allo sfruttamento economico dell’innovazione. Nel caso del monopolio la teoria economica insegna che il monopolista, contrariamente a quanto accade nel caso della concorrenza pura e perfetta, non ottiene solo il normale profitto, ma un extraprofitto. Nel caso della P.I. il brevetto consente al titolare di godere di una rendita temporanea, in particolare anche sotto forma di royalties che tutti coloro che sfruttano economicamente l’informazione devono pagare, su base contrattuale, al titolare stesso (naturalmente il titolare del brevetto può sfruttare unicamente a titolo privato il brevetto conseguito). Il brevetto consente al titolare il diritto di escludere dallo sfruttamento dell’innovazione coloro che non sono disposti a pagare la royalty concordata. L’obiettivo della normativa sul brevetto è quello da un lato di incentivare l’innovazione e dall’altro lato quello di consentire l’accesso all’uso dell’informazione attraverso il libero scambio di mercato governato da un contratto. A livello sociale la P.I. dell’informazione solleva il seguente trade-off: incentivo individuale alla creazione e produzione (che giustifica il brevetto) versus accesso libero all’informazione stessa (che il brevetto contrasta). La soluzione del trade-off non può prescindere dalla natura dell’informazione (Arrow, 1962). L’informazione è un bene formalmente non escludibile e non rivale nel consumo. In particolare, la non rivalità nel consumo implica che il costo marginale per soddisfare un consumatore addizionale è zero. L’informazione è, quindi, un bene pubblico puro la cui libertà di consumo consente idealmente la massimizzazione del benessere sociale. Il brevetto è uno strumento legale per escludere dal consumo in generale tutti gli altri e in particolare chi non è disposto a pagare un prezzo (la royalty). Pertanto, il brevetto in quanto esclude e comporta un prezzo positivo per il consumo addizionale impedisce la massimizzazione del benessere sociale: soggetti che avrebbero tratto beneficio dall’uso dell’informazione non possono, ad esempio in quanto non disposti a pagare il prezzo, accedere alla medesima. Inoltre, il brevetto influenza il livello di efficienza sia a livello statico che a livello dinamico. L’efficienza statica richiede la massimizzazione del surplus totale (surplus del consumatore + surplus del produttore). L’efficienza dinamica riguarda l’impatto che l’innovazione ha sulle tecniche di produzione (un’innovazione, ad esempio, può favorire processi di produzione con costi unitari inferiori o consentire la produzione di un nuovo bene). A livello di efficienza statica la presenza del brevetto garantisce una rendita al produttore. Tale rendita si esaurisce quando il brevetto scade consentendo così un incremento della produzione e una riduzione del prezzo (con conseguente incremento del surplus del consumatore). Tuttavia, a livello di efficienza dinamica, in assenza del

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brevetto l’innovazione potrebbe non manifestarsi. Consideriamo, ad esempio, il caso di un’innovazione di processo che consente una riduzione del costo unitario di produzione. In assenza di brevetto e con un mercato concorrenziale l’innovazione favorirebbe una riduzione del prezzo del bene con vantaggio esclusivo del consumatore e con danno dell’innovatore che non sarebbe in grado di recuperare il costo di investimento dell’innovazione. In definitiva, la rendita temporanea del produttore appare come il prezzo che la collettività deve pagare per incentivare il processo di invenzione e di innovazione (Léveque e Ménière, 2004).

A livello sociale, inoltre, il brevetto solleva un ulteriore problema: la possibile duplicazione delle risorse impegnate dagli innovatori per arrivare primi a depositare il brevetto. Infatti, solo chi ottiene per primo il brevetto può godere della rendita temporanea che consente il recupero dell’investimento sostenuto. Per gli altri concorrenti l’investimento in ricerca può diventare un sunk cost (ossia un costo non recuperabile). La corsa al brevetto in quanto comporta una duplicazione nell’uso delle risorse solleva il tipico problema del commons: nella fattispecie l’impiego eccessivo di risorse scarse per cercare di ottenere per primo il brevetto (Denicolò, 1996, 2000; Denicolò e Zanchettin, 2002).3 Il risultato della ricerca è un’informazione che ha le caratteristiche del bene pubblico puro (non escludibile e non rivale nel consumo). Queste caratteristiche sollevano immediatamente un problema paradossale: per ovviare al problema della non escludibilità il periodo di protezione legale del brevetto dovrebbe essere infinito (nella realtà è intorno ai 20 anni), mentre la non rivalità nel consumo richiede che tale periodo sia nullo. In presenza di un bene pubblico la teoria economica suggerisce o la produzione pubblica diretta o un finanziamento del costo di investimento attraverso un sussidio o un premio pagato dallo Stato al privato (Plant, 1934; Samuelson, 1954; Shavell e Ypersele, 2001; Clerico 2002a). Il sussidio pubblico, però, da un lato non risolve il problema della duplicazione delle risorse e dall’altro lato solleva altri due problemi. In primo luogo, emerge il problema della determinazione del livello del sussidio. In teoria, esso dovrebbe essere ancorato al valore sociale dell’innovazione, ossia al valore attuale netto dei benefici dell’innovazione medesima. In proposito, tuttavia, va rilevato che la stima del valore sociale in condizione di incertezza è molto rischiosa (ad esempio, è difficile prevedere la natura e il livello del successo economico della scoperta). Come risultato il sussidio pubblico può sottocompensare (con un impatto negativo sull’efficienza dinamica) o sovracompensare l’inventore (con un impatto positivo sull’efficienza statica, ma con un costo eccessivo per lo Stato). Inoltre, il sussidio pubblico deve essere finanziato. In quanto il finanziamento proviene dall’imposizione

3 Sul problema della tragedia dei commons si rimanda, fra gli altri, ai saggi di Gordon (1954); Hardin (1968); e Parisi et al.(2003).

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tributaria dal valore del beneficio lordo della scoperta bisogna sottrarre non solo il costo dell’investimento dell’innovatore, ma anche il costo delle distorsioni (sui prezzi relativi e, quindi, sull’allocazione delle risorse) causate sul mercato dal prelievo tributario. Il prelievo tributario oltre all’ovvio effetto reddito causa anche un effetto sostituzione (modifica i prezzi relativi) in particolare quando l’imposizione è di natura indiretta. Al crescere del sussidio pubblico, quindi, possono crescere anche gli effetti distorsivi sul mercato con inevitabili effetti negativi sia sull’efficienza produttiva che su quella allocativa. In alternativa al brevetto o al sussidio l’inventore può cercare di conseguire una rendita attraverso il segreto commerciale (Friedman et al., 1991; Clerico 2002b). In tal caso in quanto la scoperta non è individuata anche dai concorrenti (attraverso fughe di notizie, processi di reverse engineering ecc.) la rendita per l’innovatore è perpetua, ma il benessere sociale è inferiore al valore potenziale.

L’informazione protetta da un diritto di proprietà privata attribuisce al titolare un potere di mercato (la rendita ne è la conseguenza). Emerge così un altro interessante problema: la relazione fra diritto di proprietà e forma di mercato (concorrenza versus monopolio). In sostanza si tratta di valutare quale delle due antitetiche forme di mercato incentiva maggiormente l’innovazione. L’argomento è molto discusso tra gli economisti. In proposito, va, in particolare, richiamata l’opposta visione sul problema di due grandi economisti quali Schumpeter (1947) favorevole al monopolio e Arrow (1962) favorevole alla concorrenza. Secondo Arrow la preferenza per la concorrenza parte dalla constatazione che su un mercato concorrenziale (con prezzo uguale al costo marginale) non sussistono extraprofitti, ma solo il normale profitto. In concorrenza, quindi, l’innovatore si appropria interamente del profitto dell’innovazione. Si pensi ad esempio ad una innovazione di processo che riduce il costo unitario. Il prezzo del bene è determinato sulla base del costo marginale del competitore meno efficiente. Pertanto, l’innovatore ottiene una rendita data dalla differenza fra prezzo di mercato e costo di produzione relativamente inferiore (in virtù della scoperta). La realtà è diversa nel caso del monopolio che parte da una situazione in cui già gode di un extraprofitto. L’innovazione gli garantisce un ulteriore guadagno. Tuttavia, a fronte di una curva di domanda elastica, il beneficio netto dell’innovazione per il monopolista (differenza fra profitto ex ante e profitto dopo l’innovazione) è inferiore al profitto netto per l’innovatore in concorrenza perfetta. Ceteris paribus, quindi, il monopolista ha un minore incentivo all’investimento in ricerca. In realtà, questo risultato dipende dal livello di competizione sul mercato. Il monopolista che teme l’entrata sul mercato di nuovi produttori, attratti dalla rendita dell’innovazione, fronteggia un maggiore incentivo all’investimento in innovazione.

Il diritto di proprietà dell’informazione facilita il trasferimento del bene e gli scambi di mercato favorendo così l’uso efficiente della risorsa scarsa

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(efficienza statica). L’informazione, però, in quanto esistente e diffusa, non è di per sé un bene scarso. La scarsità è il diretto risultato dell’esistenza del diritto di proprietà sull’informazione. La scarsità artificiale dell’informazione causata dal brevetto ostacola il perseguimento del massimo benessere sociale. Inoltre, la proprietà privata dell’informazione solleva il problema dell’anticommons, soprattutto quando la conoscenza e la ricerca sono di tipo cumulativo (Heller 1998, 1999; Heller e Eisenberg, 1998; Scotchmer, 1991, 1996, 2005; Scotchmer e Green, 1990; Parisi et al., 2003). In tal caso, infatti, il progresso scientifico può richiedere l’uso di informazioni molteplici ciascuna protetta da un brevetto. In quanto l’ultimo innovatore non riesce ad ottenere la licenza d’uso da tutti i precedenti titolari di brevetto può trovarsi nell’impossibilità di sfruttare economicamente la propria innovazione. L’impossibilità di sfruttamento può, ad esempio, essere la logica conseguenza del comportamento strategico dei titolari dei brevetti precedenti che intendono trasferire a sé stessi la gran parte della potenziale rendita dell’ultima innovazione. Il brevetto in quanto comporta un prezzo positivo per l’uso dell’informazione non consente al detentore del brevetto stesso di appropriarsi interamente del surplus sociale dell’informazione. Il prezzo ostacola l’uso dell’informazione facendo sì che il valore sociale effettivo dell’informazione sia inferiore al valore sociale potenziale.

La proprietà privata dell’informazione è anche concepita come uno strumento per ovviare alla cosiddetta “tragedia dei commons”, ossia al rischio di esaurimento della risorsa a causa dell’uso eccessivo della medesima. In proposito, tuttavia, va rilevato che la proprietà privata può costituire la soluzione alla tragedia dei commons quando si ha a che fare con una risorsa scarsa e non facilmente riproducibile e non con l’informazione che è un bene pubblico puro. La P.I., quindi, si differenzia dalla proprietà reale, in quanto è diversa la natura del bene oggetto del diritto di proprietà. Nel caso della proprietà reale Demsetz (1967, 2002, 2003) ha dimostrato che la proprietà privata favorisce l’internalizzazione delle esternalità, in particolare di quelle negative. L’obiettivo precipuo della proprietà privata è quello di internalizzare costi e benefici sociali nell’uso della risorsa scarsa e di eliminare il fenomeno del free riding. Il free riding è un tipico modo d’essere della tragedia dei commons. Non necessariamente, però, l’obiettivo di internalizzare le esternalità negative pone un’analoga esigenza di internalizzare le esternalità positive, così come accade nel caso della proprietà privata dell’informazione. In teoria è vero che in presenza di esternalità positive non internalizzate la produzione è subottimale: si può giustificare così un intervento pubblico sotto forma di sussidio. Questo risultato, tuttavia, riguarda, in particolare, i beni privati che sono rivali nel consumo e agevolmente escludibili. L’informazione, però, in quanto rivelata non è un bene rivale né si tratta di un bene facilmente escludibile. Nel caso dell’informazione, quindi, l’obiettivo sociale della proprietà privata non è

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tanto quello della completa internalizzazione delle esternalità positive quanto e, soprattutto, quello di garantire al titolare del diritto il recupero dei costi incluso un adeguato profitto. Paradossalmente, se si intende perseguire la completa internalizzazione delle esternalità positive si giustifica un mercato con monopolio discriminante a scapito del mercato di concorrenza. Il monopolista discriminante ottiene così il massimo livello di rendita a scapito del surplus del consumatore. La concorrenza, infatti, in quanto tutela il surplus del consumatore non favorisce la completa internalizzazione delle esternalità positive. Con monopolio discriminante le esternalità positive sono completamente internalizzate, ma il benessere sociale non è massimo. Nella realtà, è agevole constatare che sono molteplici i casi in cui le esternalità positive non sono internalizzate. Dal punto di vista sociale sarebbe inefficiente farlo ogniqualvolta il costo marginale per godere del beneficio è nullo. In tal caso, infatti, l’internalizzazione comporterebbe un costo sociale addizionale. L’analisi di Demsetz circa la preferenza della proprietà privata di una risorsa scarsa giustifica l’internalizzazione delle esternalità negative, ma non necessariamente delle esternalità positive. L’internalizzazione delle esternalità positive si giustifica, in particolare, nel caso della proprietà tangibile (reale) ove l’uso efficiente del diritto di proprietà richiede un sostanziale investimento fisso per godere del beneficio che non è escludibile. Questo è ciò che può accadere nel caso della produzione di un bene avente le caratteristiche tipiche del bene pubblico puro. Quando un bene ha le caratteristiche del bene pubblico puro o il bene è offerto gratuitamente dallo Stato (e finanziato in primis con il prelievo tributario) o lo Stato eroga un sussidio al privato che produce tale bene. Nel caso di un bene privato l’investimento nella proprietà reale, in presenza di un beneficio rivale ed escludibile, non richiede la completa internalizzazione delle esternalità positive, bensì solo un adeguato ritorno per recuperare il costo dell’investimento effettuato. Anche in presenza di esternalità positive non completamente internalizzate il privato ha l’incentivo ad investire qualora ottenga un adeguato beneficio dall’investimento stesso (recuperare il costo con un certo profitto).

L’informazione, in quanto bene pubblico puro, diversamente dal bene privato, genera per lo più solo esternalità positive (Lemley, 2004a). Nel caso dell’informazione non emerge il problema della tragedia dei commons in quanto l’informazione è un modo d’essere del bene pubblico. L’uso dell’informazione, per quanto grande ed eccessivo, non ne esaurisce la disponibilità poiché l’informazione è un bene il cui consumo non è rivale. Nel caso dell’informazione, quindi, non siamo di fronte ad una possibile tragedia dei commons, ma forse di fronte a una “commedia dei commons” in cui ogni attore (non necessariamente sempre il consumatore) ottiene il proprio tornaconto (Lemley, 2004a). In proposito, va con forza ribadito che sulla base degli insegnamenti di base dell’analisi economica l’eventuale uso

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eccessivo dell’informazione non ne esaurisce affatto la disponibilità per tutti. Il fenomeno del free riding, quindi, non è un problema di cui preoccuparsi nel caso del bene informazione. In quanto l’informazione genera per lo più solo benefici per i potenziali fruitori il problema delle esternalità non compensate è un falso problema. In proposito, anzi, lo Stato, al fine di massimizzare il benessere sociale, dovrebbe ridurre il ricorso al segreto commerciale e industriale come strumento per appropriarsi interamente della rendita informativa cercando di favorire la diffusione dell’informazione.

Nella realtà, l’informazione si differenzia dai beni tangibili ed ordinari in quanto il costo della sua riproduzione è trascurabile, pur potendo essere anche molto rilevante il costo della produzione iniziale. Proviamo a comparare il costo medio fisso (che tiene conto dell’investimento iniziale per produrre) e il costo medio variabile di un bene ordinario e del bene informazione. Nel settore industriale normalmente i costi medi variabili di produzione crescono al crescere della produzione. Conseguentemente tendono a crescere anche i costi medi totali. Obiettivo del produttore è, quindi, quello di accrescere la produzione fino al punto in cui il costo medio totale è minimo. Nel caso del bene informazione, invece, dato il costo fisso di produzione, il costo medio variabile è zero e, quindi, il costo medio totale tende a diminuire sistematicamente, al crescere della produzione, lungo l’intera curva di domanda. Nell’ambito di una logica privatistica ispirata al profitto, quindi, i soggetti sono propensi ad investire in ricerca se il rendimento netto atteso è positivo. Questo obiettivo non richiede affatto la completa internalizzazione delle esternalità positive. Essenziale è solamente il recupero del costo di investimento iniziale comprensivo di un adeguato tasso di profitto. A tale fine l’innovatore può vendere la scoperta sul mercato (è il caso delle innovazioni di prodotto) o trarre dallo sfruttamento diretto della stessa un vantaggio comparato rispetto ai concorrenti (è il caso delle innovazioni di processo). Lo scambio di informazioni implica la loro completa rivelazione. Una volta rivelate le informazioni possono essere usate da tutti gli interessati senza che emergano fenomeni di congestione o di eccessivo sfruttamento. Inoltre, dato il costo molto basso di distribuzione dell’informazione soprattutto al tempo di Internet, lo sfruttamento dell’informazione può non consentire prezzi di vendita eccessivi in quanto la competizione può fare sì che sia solamente temporanea la possibilità di praticare prezzi elevati per recuperare il costo dell’investimento iniziale. In tal caso la teoria economica mostra che potrebbe anche annullarsi ogni incentivo alla produzione. Ecco allora che emerge come opportuna e giustificata dal punto di vista economico la possibilità di tutelare giuridicamente l’opera dell’ingegno al fine di garantire l’incentivo all’innovazione attraverso una rendita, seppure temporanea, per il produttore dell’informazione. In proposito, tuttavia, va rilevato che il rischio paventato dalla teoria economica (carenza di incentivo alla ricerca date l’impossibilità o

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le difficoltà di recuperare l’investimento iniziale) si attenua fortemente se dall’analisi teorica passiamo all’esame della concreta realtà. Nel mondo reale, infatti, il mercato non è perfetto (il prezzo è superiore al costo marginale), i prodotti sono differenziati con l’uso di pubblicità, marketing e marchio commerciale, il produttore che arriva prima sul mercato acquisisce un vantaggio iniziale che è eroso solo parzialmente nel corso del tempo. L’insieme delle caratteristiche e delle imperfezioni del mercato effettivo offrono potenzialità concrete all’innovatore di ritenere prevedibile il recupero dell’investimento iniziale. La P.I., quindi, date le caratteristiche di bene pubblico dell’informazione, non è una scelta strettamente necessaria per contrastare le inefficienze allocative connesse alla scarsità della risorsa. Anzi, la P.I. crea artificialmente scarsità (e, quindi, rendita privata) per un bene con caratteristiche tipiche del bene pubblico puro non rivale e non escludibile. Certamente la P.I. favorisce un’ampia internalizzazione delle esternalità positive creando, però, una rendita privata, socialmente non opportuna e forse non necessaria, per l’innovatore.

Naturalmente, rendendo, attraverso il brevetto, l’informazione un bene escludibile si contribuisce a creare valore per l’innovatore. La teoria giuseconomica che sostiene la validità sociale del brevetto, tuttavia, non spiega in modo convincente la ragione per cui la tutela giuridica della P.I. debba consentire al titolare del diritto un controllo completo del valore creato e non semplicemente garantire al medesimo un profitto sufficiente per recuperare l’investimento iniziale (così da recuperare i costi medi fissi). Ovviamente un profitto sufficiente è qualcosa di diverso dal controllo completo sul valore sociale. Considerare la P.I. alla stregua della proprietà reale, ossia assegnare un diritto di proprietà sull’informazione come se fosse un bene ordinario comporta quattro tipi di costo a livello sociale: inefficienza statica (il brevetto garantisce una rendita monopolistica seppure temporanea al titolare); inefficienza dinamica (in particolare nel caso di conoscenza cumulativa il brevetto può essere un ostacolo per la creatività altrui); rent-seeking (la prospettiva di godere di una rendita incentiva gli innovatori a cercare di conseguirla con conseguente spreco di risorse scarse); investimento eccessivo in ricerca (poiché il brevetto è concesso a chi lo deposita per primo emerge un incentivo a arrivare primo con il rischio di duplicazione delle spese). Alla luce di questi costi ogni forma di P.I. in grado di assegnare al titolare del diritto di proprietà un flusso di benefici superiore al costo medio fisso (comprensivo di un profitto sufficiente a coprire il rischio di impresa) può causare un costo sociale maggiore del beneficio.

Nell’ambito dell’analisi giuseconomica è sempre più diffusa la percezione non solo degli incentivi all’innovazione intrinseci al brevetto, ma anche degli ostacoli e delle distorsioni causate dal brevetto stesso. Particolare attenzione è dedicata: alla rendita monopolistica garantita dal brevetto; al fenomeno del rent-seeking per conseguire tale rendita; alla possibilità di ostacolare l’attività

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dei concorrenti attraverso il rifiuto di concessione della licenza d’uso. Emergono così potenzialità di contrasto fra normativa relativa alla P.I. e la normativa che governa la concorrenza nel sistema economico (normativa antitrust) (Pardolesi et al., 2004; Farrell e Weiser, 2004). Il brevetto crea inevitabilmente un contrasto tra la posizione di monopolio temporaneo garantita al titolare del brevetto e la normativa mirata a favorire la concorrenza. Il brevetto consente che sul mercato prevalga un prezzo superiore al costo marginale, mentre obiettivo fondamentale della normativa sulla concorrenza è quello di fare sì che in ogni settore produttivo il prezzo prevalente tenda al costo marginale. In proposito, tra gli studiosi è ormai diffusa la consapevolezza che le due normative devono convivere diventando degli strumenti complementari per favorire il benessere sociale. A tale fine è opportuno che non vi sia una netta prevalenza di una normativa sull’altra. Infatti, una netta prevalenza della normativa sulla P.I. rappresenta certamente un forte incentivo all’innovazione, ma in quanto attenua la competizione può, in definitiva, nuocere anche al processo di innovazione. Per contro, un forte prevalenza della normativa mirata a tutelare la concorrenza può essere di ostacolo all’innovazione. Alla luce di questi effetti non è affatto scontato (come di primo acchito si potrebbe dedurre dalla teoria economica) che dal punto di vista sociale la massimizzazione del benessere richieda, sic et simpliciter, che la normativa sulla concorrenza prevalga su quella concernente la P.I.. Il possibile contrasto fra le due normative può anche essere il frutto di una erronea percezione degli obiettivi eccessivamente semplificati delle medesime: la normativa sulla P.I, favorisce e protegge il monopolio; mentre la normativa sulla concorrenza proibisce il monopolio. In realtà, la normativa antitrust persegue l’obiettivo precipuo di impedire lo sfruttamento delle posizioni di potere in termini, ad esempio, di prezzi predatori, cartelli, contratti di esclusiva (Bolton et al, 2000, 2001). La normativa antitrust non sanziona di per sé il monopolio in quanto tale. Infatti, una posizione di monopolio può essere conseguita con merito dal produttore attraverso innovazioni di processo e di prodotto che riducono il costo di produzione, migliorano la qualità del prodotto o introducono sul mercato un nuovo prodotto. La normativa antitrust punisce, invece, tutte quelle pratiche commerciali e industriali mirate a rafforzare e consolidare ulteriormente la posizione dominante sul mercato. La possibilità di adottare un prezzo superiore al costo marginale è massima quando sul mercato non vi è un bene sostitutivo. Il potere monopolistico garantito dal brevetto è, quindi, massimo quando l’innovazione introduce sul mercato qualcosa di unico. In presenza di beni in qualche modo sostitutivi il brevetto di per sé non attribuisce affatto al titolare una posizione di monopolio. Pertanto, le Autorità incaricate di gestire la normativa sulla concorrenza devono in sostanza valutare due fatti: se la titolarità di un brevetto garantisce e favorisce una posizione di mercato

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dominante; se il titolare del brevetto abusa effettivamente di questa posizione dominante.

La normativa sulla P.I. e quella sulla concorrenza perseguono di fatto due obiettivi complementari. La normativa sulla P.I. in quanto incentiva l’innovazione favorisce l’efficienza dinamica. La normativa antitrust in quanto tutela il surplus del consumatore favorisce l’efficienza statica. Tuttavia, entrambe le normative cercano di bilanciare i costi e i benefici dei propri effetti. La normativa sulla P.I. mira anche a favorire l’efficienza statica prevedendo una durata limitata del brevetto. Anche la normativa sulla concorrenza cerca di bilanciare efficienza statica e efficienza dinamica seppure con misure il cui effetto non è immediatamente e facilmente percepibile all’esterno. Consideriamo, ad esempio, il fenomeno delle fusioni industriali. In line di principio, la fusione mira, in particolare, a: sfruttare le economie di scala e di scopo; ridurre il valore assoluto dei costi fissi. In teoria, quindi, la fusione, ceteris paribus può favorire il consumatore attraverso prezzi minori dato il minor valore del costo medio unitario. In realtà, la fusione, in quanto riduce la concorrenza sul mercato, può favorire la nascita e il consolidamento di forme di posizione dominante sul mercato che la normativa antitrust ha l’obiettivo di contrastare. La scelta dell’Autorità dell’antitrust, quindi, richiede una ponderata valutazione dei costi (possibile posizione dominante) e dei benefici (riduzione dei costi favorita dalle economie di scopo e di scala) della fusione. In termini di approccio e di orizzonte temporale le due normative sono sostanzialmente differenti. Infatti, la normativa antitrust (salvo il caso delle fusioni) si applica ex post, ossia dopo la constatazione in merito alla concreta possibilità che il comportamento di un’impresa sia lesivo del surplus del consumatore. La normativa sulla P.I., invece si applica ex ante: di fronte a una richiesta di brevetto l’Autorità competente deve valutare se il richiedente presenta tutte le caratteristiche previste dalla normativa. In linea di principio, tuttavia, è possibile che in presenza di un brevetto l’Autorità antitrust intervenga qualora lo sfruttamento del medesimo incentivi il titolare ad assumere comportamenti lesivi della competizione: ad esempio negando l’uso di una licenza o adottando clausole nel contratto di licenza vistosamente mirate a favorire il titolare del brevetto (Gilbert e Shapiro, 1990; Merges e Nelson, 1990, 1994; Pardolesi et al., 2004).

Il problema relativo alla concessione della licenza d’uso da parte del titolare del brevetto merita un’attenta valutazione economica in quanto gli effetti possono essere diversi a seconda delle circostanze (Lévéque e Ménière, 2004). In proposito sono almeno tre i quesiti essenziali cui fornire una risposta: a) il titolare del brevetto (licenziante) e l’impresa che acquisisce la licenza (licenziatario) operano in condizioni di monopolio? b) i prodotti

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dei due operatori economici sono complementari o sostitutivi?4 c) la concezione della licenza da parte del titolare del brevetto deve essere obbligatoria o discrezionale? Il problema della relazione fra licenziante e licenziatario può essere esaminato, seguendo l’approccio di Lévéque e Ménière (2004), considerando il caso più semplice, ossia quello di una licenza unilaterale fra i due soggetti in un contesto in cui gli effetti del contratto che governa la licenza sono valutati rispetto all’ipotesi benchmark di assenza di licenza.

Schematicamente possiamo concepire quattro casi. Nel primo caso esaminiamo un contratto fra i due soggetti in cui il licenziante dispone di un effettivo potere di mercato (il brevetto è molto ampio), mentre il licenziatario opera in un mercato sufficientemente competitivo e produce il proprio bene attraverso la combinazione di molteplici input. Il contratto di licenza verticale ed esclusiva in simili condizioni molto verosimilmente non è tale da danneggiare la concorrenza in quanto il licenziatario è in competizione con altri produttori. La licenza, ad esempio, può riguardare un’innovazione di processo che consente una riduzione del costo medio unitario. Questa riduzione, data la competizione fra produttori, in definitiva, può essere fonte di beneficio per il consumatore. In alternativa alla concessione di una licenza esclusiva il titolare del brevetto può scegliere di sfruttare in proprio e direttamente l’innovazione. Invece di conseguire indirettamente una rendita attraverso la tariffa pagata dal licenziatario il titolare del brevetto ottiene un vantaggio economico producendo in proprio. In presenza di un mercato del bene competitivo il consumatore, rispetto allo scenario iniziale, consegue sostanzialmente lo stesso benessere. L’integrazione fra innovatore e produttore, però, può avere degli effetti negativi in termini di efficienza a causa del mancato completo sfruttamento dei vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro. Infatti, il titolare del brevetto può trovarsi a fronteggiare sia una carenza di competenza a livello produttivo sia l’impossibilità di sfruttare completamente le eventuali economie di scala e di scopo.

Il secondo scenario considera un contratto di licenza verticale ed esclusiva fra due soggetti che operano in condizioni di monopolio sui rispettivi mercati. Si tratta di una relazione contrattuale in cui riveste un ruolo essenziale la complementarietà dei beni. In proposito, Cournot (1838) ha dimostrato che la stretta collaborazione fra i due monopolisti consente simultaneamente sia un incremento del profitto congiunto sia una riduzione del prezzo pagato dal

4 Nel mercato si parla di bene sostitutivo quando due o più beni hanno caratteristiche sostanziali molto simili (si pensi a produttori di acque minerali, di utilitarie, di detergenti di ampio consumo e così via). In questo caso se un produttore aumenta il prezzo del proprio bene la domanda di mercato dei concorrenti tende a crescere. Possiamo, invece, parlare di beni complementari quando sul mercato al diminuire del prezzo di un bene cresce la domanda dell’altro bene (al diminuire in modo sensibile del prezzo dei carburanti tende, ceteris paribus, a crescere la domanda di autoveicoli).

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consumatore. In assenza di collaborazione fra i due soggetti, data la complementarietà dei beni, un aumento del prezzo di un bene causa una riduzione della domanda di mercato per l’altro bene con conseguente riduzione dei profitti. La collaborazione fra i due soggetti (o al limite la loro fusione) consente di superare questo effetto: ogni soggetto è infatti consapevole del fatto che ogni variazione del prezzo si riverbera sul profitto congiunto.

Il terzo scenario esamina una situazione in cui i soggetti operano entrambi in un mercato competitivo: in particolare l’innovatore dispone di un brevetto la cui ampiezza è molto ristretta. Non disponendo di un sostanziale potere di mercato l’innovatore adotta una tariffa di licenza uguale al costo marginale di produzione dell’innovazione. In simili condizioni, data la complementarietà dei beni, il contratto di licenza non può avere alcun effetto negativo sul benessere del consumatore.

L’ultimo scenario analizza un contratto di licenza orizzontale ed esclusiva fra due soggetti che operano sullo stesso mercato godendo di un sostanziale potere di mercato. In simili condizioni un contratto di licenza orizzontale verosimilmente contribuisce a rafforzare il potere di mercato dei contraenti con effetti deleteri sul benessere del consumatore: il prezzo di mercato tende infatti a crescere.

Il trade-off fra discrezionalità versus obbligo di concessione della licenza è un altro argomento molto dibattuto in merito al brevetto sia nella Comunità europea sia negli Stati Uniti (Léveque e Ménière, 2004). In linea di principio, in un’economia di mercato il contratto di licenza è ovviamente discrezionale, ossia frutto della libera contrattazione fra le parti. Tuttavia, in alcuni casi estremi l’Autorità competente può imporre al titolare di un brevetto la concessione di una licenza ad un altro produttore. Questa eventualità si verifica in particolare nel caso di “attrezzature e servizi essenziali”, ossia quando l’accesso ad una data risorsa è fondamentale per consentire a un produttore di operare sul mercato. In questi casi estremi il titolare di un brevetto può essere costretto a concedere la licenza d’uso al richiedente. Il principio delle attrezzature e servizi essenziali, originariamente concepito nella normativa antitrust degli USA, è dal 1992 applicato nell’ambito CEE. L’obbligo di licenza è applicato quando il rifiuto della licenza diventa fortemente lesivo della competizione sul mercato. L’applicazione di questo principio richiede normalmente tre condizioni: assenza di ragioni sostanziali e convincenti, in particolare dal punto di vista tecnico, in merito al rifiuto di concedere la licenza; il rifiuto può essere un utile strumento per eliminare i concorrenti; il bene oggetto della licenza, in assenza di un bene sostitutivo, è una risorsa essenziale per operare sul mercato. Il principio della risorsa essenziale è applicato solo in casi estremi. Infatti, l’obbligo di licenza di fatto diventa una sorta di esproprio legale della rendita monopolistica del titolare del brevetto. In proposito, abbiamo già ribadito che obiettivo della normativa

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sulla concorrenza non è l’abolizione del monopolio acquisito con merito sul mercato. Il principio della risorsa essenziale non è applicato negli USA nel settore della proprietà intellettuale. Negli USA, quindi, il titolare di un brevetto acquisisce normalmente il diritto ad un uso esclusivo e discrezionale del medesimo. Tuttavia, l’Autorità competente può intervenire in tre casi estremi: quando il brevetto è stato acquisito in modo fraudolento; quando il rifiuto di concessione della licenza in realtà maschera un comportamento anticompetitivo; quando l’uso del brevetto mira ad accrescere il potere di mercato del titolare e quando il titolare cerca di estendere l’ampiezza del brevetto medesimo. 3. L’informazione come infrastruttura sociale

L’analisi precedente ha evidenziato gli effetti negativi dal punto di vista sociale derivanti dalla considerazione dell’informazione come un bene privato quando, nella realtà, l’informazione, in quanto rivelata, è un bene non escludibile e non rivale. La risorsa informazione, in quanto bene pubblico, si presta ad essere gestita ed usata come un commons. L’opportunità sociale di gestire l’informazione come un commons si basa soprattutto sul fatto che l’informazione è fonte di un considerevole flusso di esternalità positive. In proposito, come sostiene Lessig (2001), si apre a livello intellettuale un grande dibattito di principio fra libertà e controllo, in sostanza fra accesso libero (così come accade nel commons puro) e accesso ristretto e vincolato (come avviene nel caso della proprietà privata) in merito all’uso e alla gestione delle idee e delle informazioni. Nella realtà il principio di libertà e di controllo possono e debbono coesistere. A livello operativo la scelta fra accesso libero e accesso vincolato dipende dalla natura e dagli effetti dell’informazione. L’accesso libero (commons) si giustifica, in particolare, quando è molto rilevante il flusso di esternalità positive generato dall’informazione (Frischmann, 2004). In tal caso, le informazioni possono essere considerate come una sorta di infrastruttura sociale fonte di benefici per tutti: si giustifica così l’accesso libero al commons (Benkler, 2003). In generale, con il termine infrastruttura possiamo indicare un sistema di risorse fisiche destinate al consumo pubblico: ad esempio, sistemi di trasporto e comunicazione, acquedotti, fogne, scuole pubbliche, sistemi di governo dell’interazione umana quali il sistema giudiziario. Tutti questi sistemi di servizi pubblici rientrano nel concetto tradizionale di infrastruttura. Il sistema tradizionale di infrastrutture presenta, in particolare, le seguenti caratteristiche essenziali: è normalmente finanziato dallo Stato attraverso il prelievo tributario; l’accesso al consumo è libero e gratuito; l’uso dell’infrastruttura genera un cospicuo flusso di esternalità positive (Papandreou, 1994). L’accesso libero è una condizione determinante per favorire il flusso delle esternalità positive. In merito al sistema delle

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infrastrutture l’analisi economica esamina il problema soprattutto dal lato dell’offerta allo scopo di giustificarne, in particolare, l’offerta gratuita e l’accesso libero. Un sistema di infrastrutture appare: essere costoso in termini di esclusione dal consumo dei soggetti che non vogliono pagare il relativo prezzo; presentare le condizioni tipiche del monopolio naturale (rendimenti crescenti di scala); consentire all’eventuale proprietario privato dell’infrastruttura ampie potenzialità di un comportamento anticoncorrenziale; generare un flusso di esternalità positive. L’analisi economica evidenzia come tale flusso è generato e le ragioni per cui è giustificata una fornitura pubblica. Nel caso delle informazioni appare preferibile concentrare l’analisi dal lato della domanda focalizzando l’attenzione, in particolare, su due caratteristiche: il flusso di esternalità positive; e il costo variabile di produzione nullo. Queste caratteristiche giustificano l’accesso libero alle informazioni considerate come un commons (nella realtà i due termini accesso libero e commons denotano lo stesso fenomeno e, quindi, possono essere usati in modo intercambiabile). La non rivalità nel consumo è una caratteristica essenziale dell’informazione intesa come infrastruttura sociale. Dal punto di vista sociale, quindi, è efficiente favorire l’accesso all’informazione come bene non rivale. Infatti, il consumo addizionale genera ulteriori benefici a costo zero. L’informazione come bene non rivale ha, quindi, una potenzialità infinita di produzione. Ciò è particolarmente vero quando l’invenzione comporta una conoscenza di tipo cumulativo. L’informazione come infrastruttura sociale è un input per molteplici output: come tale si giustifica un uso tipo commons. Più in particolare dal lato della domanda l’informazione come infrastruttura sociale soddisfa i seguenti criteri: può essere consumata simultaneamente; l’uso, anche simultaneo, è conseguenza del fatto che l’informazione entra come input nella produzione di una molteplicità di beni sia pubblici sia privati.

L’informazione come infrastruttura sociale assume le caratteristiche di un network e in quanto tale genera esternalità positive (Economides, 1996; 2003).5 Le esternalità positive sono il risultato di una condizione di complementarietà fra i componenti di un network. L’accesso libero all’informazione è l’antitesi della discriminazione del prezzo che, in quanto basata sulla volontà individuale a pagare, assorbe interamente il surplus del consumatore. L’accesso libero all’informazione facilita la ricerca di base soprattutto quando tale ricerca richiede lo sfruttamento della conoscenza cumulata nel passato (Scotchmer, 2005). In simili casi, con accesso ristretto all’informazione, e a seconda del profitto netto atteso per il licenziatario, può 5 La natura di un network è così descritta da Economides: “networks are composed of complementary nodes and links. The crucial defining feature of networks is the complementarity between the various nodes and links. A service delivered over a network requires the use of two or more network components. Thus, the network components are compelmentary to each other” (Economides, 2003).

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crescere fortemente il costo della licenza e il costo di transazione fra le parti al fine di pervenire alla firma di un contratto. Come risultato, potenziali usi efficienti dell’informazione possono non essere fatti a causa del livello del prezzo di licenza e del costo di transazione fra le parti. In presenza di innovazione cumulativa e sequenziale ogni innovazione agisce da propulsore per ulteriori innovazioni. Ogni inventore impara dagli inventori precedenti. In caso di innovazione cumulativa e sequenziale non è agevole compensare gli innovatori precedenti e, in particolare, coloro che hanno fatto innovazioni di base. In proposito, al fine di rispettare l’incentivo all’innovazione, è necessario che: gli innovatori nel loro complesso ottengano un profitto sufficiente a coprire i costi di investimento; il profitto, a ciascun stadio di ricerca, sia erogato al corrispondente innovatore. Nella realtà, quando l’innovazione è di tipo cumulativo e sequenziale emergono, in particolare, due problemi. Il primo problema riguarda le modalità di compensazione dell’innovatore a ciascun livello di innovazione e, in particolare, come compensare gli innovatori iniziali (Green e Scotchmer, 1995). In sostanza, il problema sorge dal fatto che l’innovatore iniziale non riuscendo a conseguire il profitto relativo agli sviluppi successivi non è in grado di appropriarsi del valore sociale della propria scoperta. Il rischio è che se i profitti attesi sono giudicati inadeguati per coprire i costi di investimento il processo di ricerca e di innovazione possa essere soffocato sul nascere. Il secondo problema nasce dal fatto che la competizione fra gli innovatori successivi al primo può contribuire ad erodere sensibilmente il profitto netto atteso. In sostanza, il rischio è che la competizione riduca il prezzo dei beni che incorporano i risultati della ricerca in ciascuna fase di sviluppo del prodotto così da rendere problematico per l’innovatore il recupero dei costi di investimento. I diritti di proprietà sulla P.I. devono, quindi, essere definiti in modo tale da coprire non solo i costi complessivi della ricerca, ma anche i costi di ciascun innovatore ad ogni fase della ricerca. Normalmente la gran parte dei profitti proviene dall’applicazione dell’innovazione e non dall’innovazione di base. Pertanto, al fine di incentivare il processo di innovazione, una quota cospicua dei profitti, in presenza di innovazione cumulativa e sequenziale, dovrebbe essere, in linea di principio, erogata al primo innovatore. Lo strumento della licenza serve allo scopo. In particolare, la licenza deve funzionare in modo tale che i profitti siano ripartiti in proporzione ai costi di investimento sopportati. Quando l’innovazione di base non ha valore di per sé, ma solo in quanto sviluppata e applicata successivamente, l’incentivo alla ricerca di base si ha solo se l’innovatore iniziale può trarre un beneficio dagli sviluppi successivi (ovviamente si parla di ricerca di base finanziata da privati e non dallo Stato). L’innovatore iniziale in possesso di brevetto può, in assenza di licenza, bloccare gli sviluppi successivi. In sostanza, il secondo innovatore, in quanto sviluppa l’idea di base, può brevettare il prodotto, ma così facendo e in assenza di licenza lede il brevetto del primo innovatore. La licenza risolve

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l’impasse, ma solleva il problema di definire i termini entro i quali procedere alla ripartizione del profitto totale derivante dallo sfruttamento del secondo brevetto. La contrattazione fra le parti che è alla base della concessione di una licenza dipende da due elementi essenziali: i punti di minaccia; e il surplus totale oggetto della contrattazione (Scotchmer, 2005). I punti di minaccia di ciascun innovatore dipendono dal profitto che ciascun innovatore può conseguire interrompendo la contrattazione. I punti di minaccia variano a seconda che la licenza sia ex ante (ossia precedente l’investimento in ricerca da parte del secondo innovatore) oppure ex post (ossia successiva all’investimento sostenuto dal secondo innovatore). Naturalmente, se la contrattazione è di tipo ex post lo sviluppo della ricerca da parte del secondo innovatore può essere a rischio a causa del ricatto del primo innovatore. Il ricatto, attraverso la pretesa del primo innovatore di spuntare un elevato reddito per la concessione della licenza, può impedire al secondo innovatore di recuperare i propri costi. In tal caso, il ricatto può essere di ostacolo al progresso della ricerca. La contrattazione ex ante può facilitare il compito del secondo innovatore attenuandone il rischio. In caso di innovazione cumulativa e sequenziale poiché entrambi gli innovatori devono recuperare almeno i propri costi di investimento la durata del brevetto deve essere maggiore rispetto a quella che si potrebbe avere qualora un unico soggetto avesse gestito in esclusiva le due fasi di ricerca. Questa esigenza deriva dal fatto che il profitto complessivo deve coprire i costi di investimento di entrambi gli innovatori. In linea di principio, quindi, il profitto totale, in presenza di due innovatori, deve essere maggiore. Allo scopo accrescere il monte profitti è necessario allungare la durata del brevetto. Per evitare il ricatto intrinseco nella concessione della licenza ex post si tratta di garantire con la licenza ex ante almeno la copertura dei costi di investimento del primo innovatore. In linea di principio, infatti, a livello sociale va favorito il primo innovatore senza il quale non si avrebbe il secondo. In proposito, tuttavia, una proposta di licenza presentata dal primo innovatore del tipo “prendere o lasciare” non è credibile se i due negoziatori hanno sostanzialmente lo stesso potere contrattuale. Una possibile soluzione al problema, peraltro vantaggiosa per il primo innovatore, può essere la seguente. Al secondo innovatore può essere consentito lo sviluppo della ricerca senza licenza, ma non la commercializzazione del bene eventualmente ottenuto con la ricerca stessa. Se il secondo innovatore intende sfruttare a livello commerciale il bene frutto della propria scoperta, avendo già sostenuto i costi di investimento della propria ricerca (si tratta di sunk costs) si trova, tuttavia, ad affrontare il rilevante potere contrattuale del primo innovatore. In proposito, va rilevato che la ripartizione del surplus totale dello sfruttamento commerciale dell’innovazione non necessariamente deve dipendere dai costi relativi degli innovatori. Quando i costi di sviluppo del secondo innovatore sono alti, dato il vincolo della copertura dei costi di investimento di entrambi, i termini di

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contrattazione della licenza devono essere favorevoli al secondo innovatore. Mutatis mutandis, ciò non è vero per il primo innovatore i cui costi di investimento in assenza di licenza non sono recuperabili (sunk costs). In proposito, certamente una maggiore lunghezza della durata del brevetto facilita la contrattazione fra le parti (i profitti attesi sono maggiori), ma in tal modo cresce anche la rendita monopolistica con effetti deleteri sul benessere sociale. Naturalmente, in presenza di due o più innovatori di secondo livello, la competizione fra i medesimi facilita il perseguimento dell’obiettivo privato del primo innovatore di godere di una quota maggiore del surplus totale anche se il primo innovatore non può appropriarsi dell’intero surplus attraverso la concessione di una licenza esclusiva. A fronte di N (> 2) secondi innovatori il primo innovatore può mettere all’asta una licenza esclusiva. Anche in tal modo, tuttavia, il primo innovatore può non essere in grado di appropriarsi dell’intero surplus se un secondo innovatore, uscito perdente dall’asta, può sperare di ottenere successivamente una licenza ex post. Ogni partecipante all’asta fronteggia un prezzo di offerta di equilibrio uguale alla differenza fra il profitto dell’offerente in caso di successo all’asta e il profitto in caso di insuccesso. Se il prezzo da pagare all’asta è maggiore di tale differenza è preferibile perdere l’asta e confidare in una contrattazione successiva con il primo innovatore avendo, nel frattempo, il secondo innovatore sconfitto all’asta sviluppato il nuovo bene. In definitiva, per fare sì che entrambe le generazioni di innovatori possano recuperare i costi del proprio investimento, data la scarsa possibilità di ripartire il profitto totale in percentuale dei costi di investimento sostenuti, può essere necessario prolungare la durata del brevetto.

Non potendo siglare un contratto di licenza ex ante la durata del brevetto deve essere ulteriormente prolungata così da consentire al secondo inventore di recuperare i propri costi. La contrattazione fra le parti per giungere alla concessione di una licenza può essere, in particolare, ostacolata dall’asimmetria informativa in merito al valore dell’invenzione. Problemi possono sorgere in quanto il secondo inventore può rivelare, in sede di contrattazione, forti costi di investimento (elevati sunk costs) così da spingere il primo inventore a concedere una licenza ex ante data la minaccia del secondo inventore di non investire. La concessione di una licenza ex ante, tuttavia, è a sua volta ostacolata dal fatto che, data l’asimmetria informativa, il primo inventore deve basarsi sulle rivelazioni del secondo inventore circa i costi di investimento e il valore atteso dell’innovazione; il secondo inventore ha l’incentivo a rivelare un elevato livello dei costi di investimento e un valore relativamente basso del valore della scoperta. A livello operativo una possibile soluzione del problema dell’asimmetria informativa può essere quella di collegare la concessione di una licenza ex ante al pagamento di royalties collegate alla vendita del bene ottenuto dal processo di ricerca.

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In generale, nel caso della concessione della licenza d’uso da parte del primo inventore può manifestarsi il fenomeno dell’anticommons (Heller, 1998, 1999; Murray e Stern, 2005). Questo fenomeno può emergere allorquando il secondo inventore per sviluppare il proprio prodotto deve necessariamente ottenere la concessione di una licenza d’uso da parte di numerosi primi inventori. In simili condizioni e in un ambiente caratterizzato da asimmetria informativa e da comportamento strategico il desiderio dei primi inventori di appropriarsi di una quota cospicua del valore netto atteso creato dal secondo inventore può vanificare l’obiettivo del secondo inventore di commercializzare il nuovo bene anche quando il valore di tale bene è superiore al costo totale di investimento. Una possibile soluzione al problema dell’anticommons è costituita dall’integrazione industriale (con proprietà congiunta) fra diverse imprese impegnate ai diversi livelli del processo di ricerca e sviluppo. Un’altra possibile soluzione consiste nella creazione di una holding che abbia il controllo di un pool di brevetti così da evitare il potenziale comportamento strategico dei vari detentori di brevetti iniziali. In proposito, tuttavia, la costituzione di una holding che controlli un pool di brevetti può consentire alla holding stessa di acquisire un forte potere di mercato tale da fare scattare il ricorso alla normativa antitrust. In realtà, se i diversi brevetti necessari per la ricerca e lo sviluppo del secondo inventore sono fra loro complementari il problema del potere di mercato della holding appare non del tutto fondato. Infatti, la complementarietà fra le varie tecnologie tutelate dal brevetto comporta che la volontà di pagare di ciascun utilizzatore per ciascuna tecnologia sia maggiore quando impiega le altre tecnologie. In sostanza, questo implica che la domanda di ciascuna tecnologia tende ad aumentare quando il prezzo delle restanti tecnologie decresce; nel caso di beni sostitutivi si ha l’effetto inverso. La complementarietà comporta che tutte le tecnologie siano simultaneamente necessarie per proseguire l’attività di ricerca e sviluppo. In definitiva, in caso di complementarietà, per un utilizzatore una tecnologia ha valore solo se può simultaneamente usare anche le restanti. Nel caso di tecnologie complementari il prezzo congiunto per il pool di brevetti è minore quando tale pool è ceduto da un unico proprietario rispetto al prezzo da pagare ai diversi proprietari di ciascun brevetto. La proprietà congiunta o un accordo per lo sfruttamento congiunto fra i diversi proprietari di tecnologie complementari consente loro, in definitiva, di godere di un profitto maggiore pur in presenza di un minor prezzo che incentiva però la domanda del secondo inventore. L’intuizione del suddetto risultato apparentemente controintuitiva è la seguente. Consideriamo uno scenario con due primi inventori A e B. Data la complementarietà fra le tecnologie, se A aumenta il proprio prezzo per la concessione della licenza riduce la domanda del secondo inventore e, quindi, addossa un’esternalità negativa a B. La domanda globale del mercato si contrae riducendo i profitti totali di A e di B anche se A, dato il maggior prezzo, può conseguire un

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ricavo maggiore. In un simile scenario anche l’inventore B ha l’incentivo ad accrescere il prezzo, trascurando l’esternalità negativa su A, contribuendo così a ridurre drasticamente la domanda del mercato. In definitiva, così operando A e B scelgono un prezzo privato che è superiore al prezzo in grado di massimizzare il loro profitto congiunto.

In caso di innovazione cumulativa e sequenziale il fenomeno dell’anticommons può, quindi, ridurre la probabilità che un’ulteriore idea basata sulle idee già esistenti favorisca un ulteriore progresso della conoscenza. D’altro canto, però, va rilevato che nel processo creativo delle idee ogni sviluppo della conoscenza modifica i rapporti di potere fra le imprese detentrici di brevetto. A fronte di un’idea sotto il controllo, attraverso il brevetto, di un’impresa diverse altre imprese possono agire per migliorarla. Pertanto, data la scarsità delle idee, la rivelazione di un’idea attraverso il brevetto aumenta la probabilità di miglioramento dell’idea già esistente. Più è veloce il processo di miglioramento delle idee più può diventare breve il potere di mercato, garantito dal brevetto, di ciascun innovatore. In sostanza, quindi, si può ridurre la durata effettiva del brevetto indipendentemente dalla durata formale del medesimo. Questa prospettiva può disincentivare l’investimento privato in ricerca in quanto il miglioramento rapido delle idee può rendere problematico per ogni inventore il recupero dei costi di investimento sostenuti. Nella realtà, un rapido miglioramento delle idee può implicare, ad esempio, un sensibile miglioramento nella qualità del prodotto tale da rendere rapidamente obsoleto il prodotto basato su un’idea ormai superata dal progresso scientifico. Questo evento è tanto più verosimile quanto più il proprietario della nuova idea sceglie un prezzo per il nuovo bene non così elevato e, quindi, tale da non lasciare ancora una rilevante quota di mercato per il prodotto sostanzialmente superato. In proposito, supponiamo che il prezzo di un bene sia determinato così da riflettere l’incremento di qualità del bene stesso. In questo scenario, in caso di beni succedanei, l’ultimo innovatore può ridurre sensibilmente la quota di mercato del penultimo innovatore semplicemente praticando un prezzo per il proprio bene leggermente inferiore a quello in grado di riflettere interamente l’incremento di qualità connesso all’innovazione. Naturalmente, ogni incremento di qualità favorito dal progresso tecnico costituisce la base da cui potenzialmente si sviluppa ogni successivo incremento di qualità. In sostanza, quindi, ogni incremento non è destinato a durare in perpetuo, ma è incorporato e superato dal progresso tecnico che genera il nuovo bene. Come conseguenza, può esistere il rischio che se il periodo in cui ogni inventore può applicare un prezzo tale da riflettere l’incremento di qualità sia così breve da impedire almeno il recupero dei costi di investimento sostenuti. Un simile rischio è tanto più elevato quanto maggiore è il turnover delle idee, ossia quanto più rapido è il processo di innovazione. Come conseguenza, è possibile che idee che sarebbe efficiente sviluppare (in quanto il valore

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attuale supera il costo di investimento) non lo siano a causa dell’elevato turnover delle idee stesse.

L’analisi finora svolta si basa sull’ipotesi che ogni miglioramento, per quanto piccolo, di un’idea possa essere brevettato. In caso contrario gli imitatori potrebbero appropriarsi dell’intero flusso atteso di profitti. In un simile scenario ogni innovatore dovrebbe ottenere una licenza dal precedente innovatore. Naturalmente, al fine di evitare la competizione sul mercato entrambi gli innovatori preferiscono una licenza esclusiva. In virtù del continuo miglioramento delle idee si ha una sequenza di innovazioni tale da fare sì che ogni innovatore che ha ottenuto una licenza d’uso dal precedente si trovi successivamente nelle condizioni a sua volta di concedere una licenza all’ultimo innovatore e così via. In questo scenario il rischio è che il flusso totale atteso dei profitti (ivi incluso il valore atteso della rendita della licenza) per ciascun innovatore non sia tale da coprire almeno i costi di investimento disincentivando così la spesa per la ricerca. Al fine di contrastare questo rischio i diritti di proprietà di alcuni miglioramenti sequenziali possono essere consolidati (ossia concentrati) in un unico soggetto così da garantire almeno la copertura dei costi di ricerca sostenuti. Tuttavia, la concentrazione dei diritti non deve essere eccessiva poiché in tal caso il prezzo dei beni sul mercato sarebbe troppo elevato. Questo processo di concentrazione dei diritti della P.I. implica una maggiore ampiezza del brevetto (ossia un maggior grado di copertura) tale da fare sì che ogni innovatore, data la maggiore ampiezza del brevetto, possa disporre di un diritto di blocco, entro certi limiti, sugli sviluppi futuri dell’idea. Questo diritto di blocco (che riguarda solo una sequenza limitata di miglioramenti tecnici) può essere superato da un successivo innovatore solo ottenendo una licenza d’uso dal titolare del diritto. Tuttavia, quando il miglioramento dell’idea è tale da superare in modo significativo i miglioramenti protetti dal diritto di blocco la vita effettiva del brevetto di fatto cessa (O’Donoghue et al., 1998).

Quanto sopra riportato si basa sull’ipotesi che ogni miglioramento di un’idea, per quanto piccolo, sia brevettabile. Più realisticamente, tuttavia, possiamo assumere che sia brevettabile solo un miglioramento sufficientemente significativo. In questo caso un innovatore che migliora l’idea esistente, ma in misura inferiore a quella necessaria per conseguire il brevetto ha sostanzialmente due scelte: immettere sul mercato il nuovo bene non brevettabile correndo, però, il rischio di essere imitato e non essere, quindi, in grado di recuperare almeno il costo dell’investimento; mantenere segreto il miglioramento dell’idea in attesa di un possibile nuovo miglioramento che gli consenta di ottenere il brevetto. La seconda scelta è quella privatamente ottimale, ma è socialmente inefficiente quando l’innovazione è cumulativa e sequenziale. Infatti, il ritardo nella diffusione dell’idea può ritardare la dinamica dei successivi miglioramenti in quanto

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inibisce l’accesso alla conoscenza.6 Per facilitare la diffusione dell’informazione può così essere utile lo strumento prima esaminato, ossia il diritto di blocco, per garantire almeno la copertura dei costi di ricerca.

I diritti di proprietà della P.I. sostanzialmente si propongono due obiettivi essenziali: incentivare il miglioramento delle idee; e garantire ad ogni innovatore almeno la copertura dei costi senza, però, garantire extraprofitti eccessivi. Il primo obiettivo (incentivi al miglioramento delle idee) può essere perseguito con la norma che stabilisce che solo miglioramenti oltre una data soglia sono brevettabili. In tal modo l’innovatore non ha incentivo ad investire in miglioramenti trascurabili. Il secondo obiettivo può essere perseguito manovrando l’ampiezza del brevetto così da garantire all’innovatore un diritto di blocco. In particolare, i diritti di blocco possono essere un efficace strumento per favorire la ricerca di base. Tuttavia, è possibile che i diritti di blocco se da un lato favoriscono il primo innovatore dall’altro lato siano lesivi dell’interesse sociale in quanto possono ostacolare la ricerca, soprattutto quando essa è di natura cumulativa e sequenziale. In sostanza, il problema è il seguente: il criterio di efficienza richiede che il primo innovatore sigli contratti di sfruttamento dell’idea con imprese efficienti. In presenza di licenze d’uso il numero delle imprese disposte a sfruttare economicamente l’idea del primo innovatore sono in numero minore a quelle che sarebbero propense a tale sfruttamento in assenza di licenze d’uso. In definitiva, quindi, la licenza d’uso può frenare l’impiego dell’idea e la rapidità del progresso scientifico. Ciò può accadere in quanto la licenza d’uso comporta un profitto per il primo innovatore contrariamente a quanto potrebbe accadere se l’idea fosse un bene pubblico puro finanziato dallo Stato. Inoltre, con la licenza d’uso è interesse del primo innovatore limitare la competizione fra gli utilizzatori dell’idea originaria. Infatti, maggiore è il profitto degli utilizzatori maggiori potranno essere le royalties. Per conseguire un flusso maggiore di profitti e un conseguente maggiore flusso di royalties è, quindi, preferibile per il primo innovatore un mercato meno competitivo. In definitiva, il brevetto sull’idea originaria da un lato può frenare la competizione nell’innovazione di base e dall’altro può attenuare la competizione fra gli utilizzatori della stessa. In teoria, quindi, sarebbe socialmente preferibile non ricorrere al brevetto, ma finanziare la ricerca di base con un finanziamento pubblico e consentire ad un innovatore che si propone di sviluppare ulteriormente l’idea originaria di farlo senza pagare royalties. Una simile scelta pubblica può causare ridondanza e duplicazioni nei costi di ricerca (molte imprese sono in competizione per reperire e

6 Naturalmente è possibile che un processo di reverse engineering possa portare alla scoperta della nuova idea mantenuta segreta. In tal caso le prospettive di recupero dei costi per l’innovatore diventano ancora più negative.

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sviluppare l’idea), ma evita i costi sociali relativi alla minore competizione derivante dal brevetto.

In conclusione, quando l’innovazione è di tipo cumulativo e sequenziale è socialmente opportuno che ciascun innovatore ottenga un’adeguata remunerazione per l’apporto fornito all’innovazione stessa. Quest’esigenza solleva il problema della ripartizione del profitto totale relativo allo sfruttamento commerciale dell’innovazione. In proposito, come già sostenuto in precedenza, è essenziale che ogni innovatore ottenga almeno un profitto in grado di garantire la copertura dei costi sostenuti per la ricerca. La licenza può diventare uno strumento utile a tale obiettivo. Tuttavia, la licenza può non funzionare adeguatamente quando: il lasso di tempo fra scoperta dell’idea e sfruttamento commerciale della stessa è troppo lungo; non è possibile siglare licenze ex ante così da evitare il problema dei sunk costs. Al fine di garantire un’adeguata remunerazione per il primo innovatore è possibile, accanto all’uso della licenza, manovrare sull’ampiezza del brevetto così da influenzare la durata effettiva del brevetto. Tuttavia, nel caso della ricerca di base appare preferibile il finanziamento pubblico in un ambiente in cui l’idea è un bene pubblico puro. Il miglioramento qualitativo dell’innovazione presenta un problema di incentivi diverso dall’innovazione di base. In merito alla qualità non sussiste una netta distinzione fra primo e secondo innovatore. Ciascun innovatore può trovarsi in entrambe le posizioni. In questo caso l’obiettivo socialmente primario è quello di garantire a ciascun innovatore almeno un’adeguata copertura dei costi di investimento in ricerca in un contesto in cui la competizione fra gli utilizzatori dell’idea riduce i profitti totali. In tal caso lo strumento dei diritti di blocco (manovra sull’ampiezza del brevetto) può contribuire a garantire un adeguato ritorno sull’investimento sostenuto anche se a livello sociale può essere frenata la rapidità del progresso scientifico. 4. Conclusioni

La scelta pubblica è spesso una scelta fra efficienza ed equità. Anche il problema della tutela della P.I. attraverso, in particolare, lo strumento del brevetto solleva questo trade-off. Infatti, nel caso del brevetto emerge un evidente trade-off fra incentivi all’innovazione (che comportano il rispetto del criterio di efficienza) e la rendita garantita dal brevetto (che contrasta in particolare con il principio di tutela del benessere del consumatore). Per favorire l’innovazione è socialmente necessario consentire all’innovatore un ritorno economico rispetto al costo dell’investimento in ricerca (questa è la principale ragion d’essere del brevetto). Il brevetto, però, almeno in linea di principio, attribuisce al titolare una rendita seppure temporanea. Il brevetto diventa, quindi, in buona sostanza, un ostacolo legale al libero uso del bene informazione che in quanto rivelata assume le vestigia del bene pubblico

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puro. L’impossibilità individuale di usare liberamente tale bene, esclusivamente sulla base di una valutazione economica, può essere di ostacolo al progresso tecnologico e scientifico e, in definitiva, comportare un prezzo di mercato dei beni superiore a quello che potrebbe prevalere in assenza della rendita tutelata dal brevetto. Avendo l’informazione diffusa le caratteristiche peculiari del bene pubblico si suggerisce di incentivare la produzione di tale bene attraverso l’intervento pubblico (sotto forma, ad esempio, di premi e sussidi per la ricerca) allo scopo di incentivare i soggetti a sostenere il costo dell’investimento in ricerca il cui risultato diventa un bene pubblico. L’intervento dello Stato, tuttavia, non è la soluzione agevole al problema, in particolare per due ragioni: è difficile calcolare il valore del sussidio-premio; il finanziamento di tale intervento con il prelievo tributario causa distorsioni nel sistema economico in termini di prezzi relativi e di allocazione delle risorse. Il brevetto rende scarso un bene, ossia l’informazione, che in quanto rivelata è un bene pubblico. Il brevetto, quindi, oltre che garantire una rendita al titolare contribuisce, ceteris paribus, ad accrescere il costo di produzione dei beni per la cui offerta è necessario usare il brevetto (pagando al titolare la relativa royalty). L’informazione rivelata, in quanto bene pubblico, è una sorta di infrastruttura sociale in grado di generare un consistente e crescente flusso di esternalità positive. Il ruolo di infrastruttura sociale appare ancora più evidente se si constata che l’innovazione è tendenzialmente un processo cumulativo e sequenziale. In tal caso, se da un lato è socialmente opportuno che ciascun innovatore ottenga un adeguato ritorno per l’investimento sostenuto dall’altro lato è anche socialmente opportuno che il comportamento strategico (in particolare dell’inventore che si colloca a monte della sequenza informativa) non freni l’uso e la diffusione dell’informazione stessa. A tale fine sembra socialmente vantaggioso che la concessione della licenza d’uso non possa essere una scelta discrezionale del titolare del brevetto, ma un obbligo, in presenza di richieste, sulla base di regole decise e gestite dallo Stato. Il brevetto di per sé non è in grado di garantire sic et simpliciter un adeguato ritorno per l’investimento sostenuto. Infatti, il progresso tecnico, favorito dall’invenzione e dall’innovazione, può rendere non economicamente vantaggioso, a causa dell’obsolescenza, lo sfruttamento commerciale di una certa invenzione impedendo così al titolare del brevetto di recuperare, in tutto o in parte, il costo dell’investimento effettuato. A livello operativo la soluzione concreta al trade-off fra incentivi alla ricerca e tutela del benessere del consumatore richiede che lo Stato: legiferi sulle caratteristiche che giustificano la domanda di un brevetto, sull’ampiezza e la durata del medesimo; controlli le modalità d’uso del brevetto (ivi incluso il problema delle licenze e delle royalties) al fine di contenere ogni indebita acquisizione di forme di controllo del mercato. Il brevetto è un’istituzione pubblica (una delle possibili regole del gioco) rispetto alla quale sarebbe socialmente utile

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un’adeguata valutazione costi-benefici. Infatti, mentre sussiste un ampio consenso sui benefici (in particolare sugli incentivi alla ricerca) una convincente valutazione economica appare ancora carente soprattutto in merito ai costi sociali ed economici causati dalla rendita privata del brevetto stesso. In proposito, tuttavia, e in conclusione non possiamo non richiamare l’osservazione di Machlup (1958) secondo il quale potendo fare tabula rasa sarebbe opportuno abolire il brevetto, ma trovandoci concretamente a scegliere in un ambiente in cui il brevetto è ormai un’istituzione diffusa e consolidata appare socialmente preferibile continuare ad impiegare tale istituzione.

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