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PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2016

Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it [email protected] Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

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NOTA

Questo libro è ispirato alla storia vera di mia nonna Eratò Espielidis Tatsos e della sua famiglia.

Sono trascorsi oltre cent’anni dagli eventi narrati. Ho cercato di documentarmi attraverso fonti storiche pre-cise per creare uno scenario verosimile per i protagoni-sti di questo racconto. Quanto alle vicende familiari, ho privilegiato i fatti, ove esisteva una testimonianza speci-fica; quando le informazioni scarseggiavano o erano poco dettagliate, ho integrato con la fantasia ma nel ri-spetto della verità storica, rifacendomi a testimonianze e contributi di altri profughi greci del Ponto.

Alcuni personaggi di questa storia sono inventati; altri corrispondono per nome, età e relazioni familiari a quanto mi è stato trasmesso. Molte persone sono morte prima della mia nascita, oppure non le ho mai frequentate per motivi di lontananza. Il ritratto che qui fornisco di loro è frutto di fantasia e non intende es-sere lesivo dell’immagine delle persone reali che sono state.

Lo scenario storico in cui è ambientata la vicenda dei greci del Ponto e della loro espulsione dalla Turchia è tuttora oggetto di controversie fra storici. In particolare, la Turchia attuale non riconosce il concetto di genocidio dei greci del Ponto. Le fonti a cui ho attinto provengo-

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no dalla storiografia greca e dalle posizioni dei greci del Ponto in Grecia e della diaspora.

Spero che questo racconto contribuisca a far cono-scere la vita dei greci del Ponto, una minoranza dell’Im-pero ottomano poco nota al di fuori dei confini ellenici, la loro tragedia di profughi e perseguitati, ma anche la storia e la vita di un popolo laborioso e felice prima della cacciata dalle proprie terre.

*

Nella trascrizione dei nomi delle città del Ponto, ho scelto la traslitterazione dal greco, e non la versione at-tuale turca o quella italiana, qualora esista. La motiva-zione è storica: la narrazione è ambientata in un’epoca in cui erano ancora presenti le comunità greche, che spesso avevano fondato queste città, e fra di loro utiliz-zavano il nome greco, pur conoscendo la denominazio-ne turca. Per esempio, Trapezounta è l’attuale Trabzon (Trebisonda), Kotyora è Ordu, Kerasounta è Gire - sun, Amassia è Amasya, Tripoli è Tirebolu, Amissos/Sampsounta è Samsun, Pafra è Bafra ecc.

La maggioranza dei cognomi greci del Ponto si carat-terizza per il finale in « -idis ». Il cognome associato a un nome femminile in greco viene declinato al genitivo (diventando « -idou »). Per non complicare troppo la lettura, ho preferito lasciare tutti i cognomi al nomina-tivo maschile.

La lettera gamma ha una pronuncia gutturale davan-ti a tutte le lettere; quando è seguita da « e » e « i », sebbene il suono sia più simile a « y », è stata resa con « gh » per attenersi a una convenzione grafica consoli-

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data; si pronuncia « gh » come in « ghianda » solo se è doppia.

Per i nomi propri, in italiano non ho tenuto conto delle declinazioni, che impongono, per esempio, una variazione se il nome è usato al vocativo (Themistoklìs diventerebbe Themistoklì senza la « s » finale). Inoltre, nomi e cognomi dei protagonisti sono stati riportati con l’accento, che ne indica la corretta pronuncia, solo nel prospetto intitolato I personaggi principali di questa storia. Nel corso del testo, per non appesantire la lettu-ra, ho scelto di mantenere l’accento solo sui nomi ossi-toni (Eratò, Rodì ecc.).

Ho lasciato i nomi dei santi e di chiese e monasteri in originale. Aghios significa « santo, san ». Ove necessario, ho inserito in nota la traduzione.

Le date relative a nascita e morte dei membri della mia famiglia in Turchia sono presunte. Gli archivi ana-grafici della popolazione ottomana espulsa sono andati perduti.

Questo testo è un'anteprima del libro. Il numero delle pagine è limitato.

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I.

RITORNO IN GRECIA

Ghiannitsà, settembre 2015

Il sole è ancora infuocato in questi giorni di fine estate. Ieri sono scesa all’aeroporto internazionale Ma-kedonia di Salonicco da un aereo pieno di turisti italia-ni pronti a dirigersi verso le acque cristalline della peni-sola Calcidica. Non nascondo di aver provato una punta di invidia, ma questa volta la mia trasferta in terra ellenica non ha una motivazione vacanziera.

Mi trovo qui per indagare su una storia, legata a un tema di estrema attualità che sta dividendo l’Europa: l’essere profugo, esule dalla propria terra, in fuga da una guerra. Mentre l’Europa litiga su come affrontare l’e-mergenza di chi si allontana da terre dilaniate da con-flitti, diverse isole greche sono diventate la porta d’in-gresso nel nostro continente per migliaia di disperati. Durante il 2015 la Grecia, che annaspava per non usci-re dall’euro e dall’Unione Europea, ha dovuto anche soccorrere oltre 800mila migranti approdati sulle sue coste.

Non è la prima volta che le autorità elleniche affron-tano una simile emergenza umanitaria. Quasi cent’anni fa, un’immane marea di profughi si riversò, per lo più via mare, nei porti di Salonicco e di Atene, in cerca di

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un rifugio dagli orrori della guerra. Venivano dalla Tur-chia, ma erano greci e cristiani, sopravvissuti a una delle prime operazioni di pulizia etnica del Novecento. È la loro storia, che è anche la storia della mia famiglia, che vorrei raccontare.

La fuga dalle terre anatoliche è sempre stata un ar-gomento tabù a casa nostra. Al punto che soltanto qualche anno fa, quando i protagonisti di questa vicen-da erano ormai scomparsi, ho scoperto per puro caso (facendo una ricerca su Internet) di essere discendente di un popolo che è stato vittima di un vero e proprio genocidio.

Il viaggio della memoria incomincia qui, a una cin-quantina di chilometri dalla più grande metropoli della Grecia settentrionale, davanti alle tombe di mio nonno Nikolaos, detto Nikos (1896-1947) e di mia nonna Era-tò (1896-1989), nonché di due dei loro cinque figli.

A una decina di chilometri da Ghiannitsà, si trovano le rovine di Pella, capitale dello Stato macedone, da cui Alessandro Magno nel IV secolo a.C. partì per conqui-stare il mondo, arrivando fino alla valle dell’Indo e creando uno degli imperi più vasti della storia. A Tessa-lonica, l’odierna Salonicco, Thessaloniki in greco, pre-dicò l’apostolo Paolo e da qui i due santi e fratelli Ciril-lo e Metodio partirono nel IX secolo per evangelizzare i Paesi slavi. Quello stesso mondo slavo oggi dista da Ghiannitsà quanto Salonicco. In un’ora d’auto si rag-giunge il confine con Idomeni/Gevgelija, nella Macedo-nia ex jugoslava, assurta all’onore delle cronache per il flusso di profughi alla frontiera. Ghiannitsà oggi è un prospero centro agricolo, in una delle aree più produt-

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tive di tutta la Grecia, la cui popolazione si è arricchita negli anni Settanta con la coltivazione del tabacco e del cotone.

Qui sono sepolti i miei nonni paterni, insieme a Ste-fanos e Pigmalion, i loro figli minori. Il primogenito, Christos1, riposa in uno dei cimiteri di Salonicco. Gli altri due fratelli, Panaghiotis – scomparso nel 1949 a soli ventisei anni durante la guerra civile greca – e Pietro, mio padre, da piccoli gli davano del « turco » quando litigavano. Christos, infatti, era l’unico dei cinque ma-schi dei Tatsos a essere nato in Anatolia, sulle sponde del Mar Nero, e non in Grecia. Questo piccolo aneddo-to di storia familiare me l’aveva raccontato mio padre stesso, il più cosmopolita della famiglia, che negli anni Cinquanta studiò all’università di Bologna e, con la sua laurea in farmacia in tasca, si innamorò di Como e del suo lago, determinando anche il mio destino di bambi-na, nata e cresciuta sulle sponde del Lario. Il mio viaggio della memoria non posso condividerlo neppure con lui, scomparso troppo presto, quando ero ancora una ven-tenne poco curiosa di alberi genealogici e di polverose storie di famiglia.

È troppo tardi, ormai, per interrogare chi non c’è più. Ma la trama di quel passato che conosco solo a grandi linee e che vorrei riportare alla luce appartiene anche a me. E stavolta, a cinquant’anni, sento che è giunto il momento per fare i conti con una parte della mia storia, per mettermi sulle tracce di chi ho conosciuto, ma anche

1 Chrìstos (con l’accento sulla prima sillaba) è un nome proprio in greco moderno, da non confondersi con Christòs (con l’accento sull’ultima sillaba), che indica Gesù Cristo.

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di quei nomi che hanno un volto solo grazie a poche fotografie sbiadite dal tempo.

È rimasta solo lei, zia Elpida, vedova dello zio Pig-malion, a custodire queste tombe. Con abnegazione, sfidando gli acciacchi e il ginocchio che le duole, viene ad accendere ceri e a portare fiori.

« Non li lascio soli », mi dice. « Ogni anno, nell’anni-versario della loro scomparsa, vengo con il prete per il mnimosino2 ».

Nel cimitero situato nella zona a nord di Ghiannitsà, ci sono le tombe del ramo materno della mia famiglia. Sono tutti lì: i miei nonni, gli zii, i bisnonni, forse anche qualche trisnonno o prozio che non ho mai cercato, a dire il vero. Loro erano macedoni autoctoni, gente del posto. Da generazioni, sono nati e vissuti qui, a Ghian-nitsà. Questa è la loro terra. Nel cimitero dei miei non-ni paterni, invece, non è possibile risalire più indietro: prima di loro, c’è il vuoto.

La marea dei profughi

Questa stridente differenza rappresenta una linea di demarcazione fra chi a Ghiannitsà – come in altre loca-lità della Grecia – c’è da sempre e chi invece appartiene all’immane massa dei profughi greci anatolici, sradicati dalla propria terra. Nel 1923, e negli anni immediata-mente precedenti, oltre un milione e 200mila persone si riversarono in una Grecia che allora aveva solo quattro milioni e mezzo di abitanti, creando un’emergenza apo-

2 La preghiera e i riti ortodossi per l’anima del defunto.

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calittica. Ad attendere i profughi, c’era un Paese povero e logorato dalla partecipazione alla Prima guerra mon-diale, alla quale era seguito un conflitto con l’Impero ottomano3, conclusosi con una rovinosa sconfitta per i greci.

Questa Grecia sull’orlo del tracollo d’improvviso si trovò a dover nutrire, offrire un tetto e assicurare un futuro a un numero immenso di connazionali fuggiti da tutta l’Asia Minore: non solo dalle sponde e dall’entro-terra del Mar Nero, nel nord della Turchia, ma anche dalla Cappadocia, dalla costa egea – dove Smirne riful-geva come una piccola Parigi di cultura ellenica –, dalla Tracia orientale, dall’area dei Dardanelli e del Mare di Marmara. Poco importava se alcune di queste comuni-tà4, per vari motivi legati alla loro storia, non sapessero parlare greco, perché questa sorta di pulizia etnica lan-ciata dal movimento dei Giovani Turchi al grido di « la Turchia ai turchi » avvenne su base religiosa. Chi era cristiano doveva morire, o andarsene. La nuova Turchia, nata sulle ceneri dell’Impero ottomano, apparteneva esclusivamente ai musulmani.

Il principio dell’omogeneità etnica e religiosa, che non lasciava spazio alcuno alle minoranze, fu poi sanci-to nero su bianco dal trattato di Losanna del 1923, in cui Grecia e Turchia, con il benestare delle grandi po-

3 La guerra greco-turca (1919-1922).4 Un esempio interessante sono i Karamanlides, greci ortodossi originari

della regione di Karaman e della Cappadocia, che parlavano un turco farcito di parole greche. Le loro origini sono fonte di dibattito: c’è chi sostiene che fossero discendenti di bizantini turchizzati, che avevano mantenuto la loro identità greca, e chi invece ritiene che originariamente fossero turchi, conver-titi al cristianesimo. Qualunque sia la verità, i Karamanlides giunti in Grecia parlavano solo turco.

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tenze europee, concordarono uno « scambio di popola-zioni »: i greci cristiani ancora vivi sul territorio turco avrebbero dovuto abbandonare le loro case e i loro villaggi per trasferirsi in Grecia, e allo stesso modo i musulmani residenti in territorio greco si sarebbero diretti in Turchia. Le uniche eccezioni ammesse dagli accordi di Losanna riguardarono la fiorente comunità greco-cristiana di Costantinopoli5 e delle isole di Imbros e Tenedos6, nonché la popolazione musulmana della Tracia occidentale greca7, alla quale fu consentito di restare.

5 I greci di Costantinopoli furono vittime di vari massacri e attacchi durante la dominazione ottomana e la successiva Repubblica di Turchia. Tra i più noti, gli eventi del 6-7 settembre 1955, la « Notte dei cristalli » della comunità greco-ortodossa della città. Negozi e case furono presi d’assalto da una folla inferocita, istigata dalla notizia (poi rivelatasi falsa) che i greci avevano messo una bomba al consolato turco di Salonicco, ospitato nella casa natale del padre della patria turco Mustafà Kemal (nato in Grecia, all’epoca territorio ottomano). Le vessa-zioni subite dai greci di Costantinopoli, nonostante la protezione prevista dal trattato di Losanna, hanno portato a un graduale calo della presenza greca, sce-sa da 65mila persone nel 1955 alle attuali 3000-4000 (dati 2008); la maggioranza ha scelto di trasferirsi in Grecia o di emigrare all’estero per motivi di sicurezza.

6 Imbros e Tenedos sono situate all’imbocco dello stretto dei Dardanelli. Il trattato di Sèvres (1920) le assegnò alla Grecia, ma dopo la sconfitta nella guerra greco-turca vennero restituite alla Turchia. In un’interrogazione presentata al Parlamento europeo, l’eurodeputato greco Ghiannis Kranidiotis ha ricordato la sistematica violazione del trattato di Losanna da parte turca: « Gli articoli 14, 38 e 42 del trattato prevedevano per entrambe le isole un regime speciale di au-todeterminazione e garantivano ai cittadini greci che vi abitavano la tutela della vita e dei beni, la libertà di usare la propria lingua, come pure la libertà religiosa. Mai la Turchia ha rispettato detti articoli del trattato di Losanna. Viceversa li ha sistematicamente violati determinando anzi condizioni di vita disumane per gli abitanti greci delle isole in questione. A partire dal 1964, nell’ambito di una vera e propria politica di pulizia etnica, le autorità turche hanno chiuso le scuole greche, confiscato il 90% della terra coltivabile per costruirvi colonie agricole e caserme, e ridotto il numero dei greci che vivevano a Imbros prima del 1964 da 7000 a soli 300 ». Bartolomeo I, l’attuale patriarca ecumenico di Costantinopoli, è originario di un villaggio greco dell’isola di Imbros.

7 Con il trattato di Losanna (24 luglio 1923) la Tracia risultava divisa in due parti, fra Grecia e Turchia.

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Per i profughi, in realtà, la Grecia era una terra sco-nosciuta. Un’entità presente solo nel loro immaginario, sollecitato dalle illustrazioni contenute nei libri e dalle cartoline postali. Un luogo fantasticato, con il quale sentivano una forte affinità, culturale e religiosa, ma molto diverso dalle « patrie » reali lasciate in Asia Mino-re. Da generazioni, pochi greci anatolici avevano rimesso piede in Grecia, e chi l’aveva fatto era stato spinto per lo più da motivi commerciali, non di certo per coltivare legami familiari, che difficilmente potevano esistere dopo secoli, se non millenni, di insediamento in terre lontane.

I miei nonni Eratò e Nikos, entrambi sarti, all’epoca erano due giovani appena più che ventenni, poco inte-ressati agli scenari della geopolitica che contrappone-vano Grecia e Turchia, e ancor meno alle dispute fra le grandi potenze. Sognavano di lavorare e vivere in pace nella loro città sulle sponde del Mar Nero, nonché di crescere al meglio il primo figlio, Christos. Invece, le loro esistenze furono travolte da questo uragano.

Dovevano andarsene, se volevano avere salva la vita. La sorte toccata dopo il 1915 agli armeni aveva mostra-to ai greci di cosa erano capaci i turchi più fanatici. Nel giro di pochi anni, la comunità greca del Mar Nero fu cancellata per sempre dalla Storia. Le vite di Nikos ed Eratò entrarono a far parte, come minuscole tessere di un immenso mosaico, di quel milione e 200mila anime che si riversarono in Grecia. Furono tra i più fortunati, in realtà, perché vennero solo sradicati dalla loro terra natale. Non morirono nelle marce di deportazione toc-cate ad altri greci, né furono trucidati dalle truppe irre-golari turche che massacravano i cristiani del Mar Nero.

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E non perirono di fame, stenti o malattie durante il lungo viaggio per mare, tutt’altro che confortevole, verso la Grecia. Il piccolo Christos, che aveva solo due anni all’epoca, non si ammalò, a differenza delle centi-naia di bambini morti durante la navigazione o dopo lo sbarco. Tifo, malaria e malattie infettive, infatti, miete-vano vittime soprattutto fra i più deboli, e molte famiglie aggiunsero al dolore della perdita della loro vita prece-dente anche quello della scomparsa dei figli più piccini. È in virtù di questa buona sorte toccata ai miei nonni che oggi ho la possibilità di rievocare la loro storia.

L’esodo dei greci dell’Asia Minore fu un evento epo-cale. Se si rapporta questa situazione alla demografia dell’Italia di oggi, è come se di colpo ci trovassimo ad accogliere 15 milioni di profughi. Nel 2015, per esem-pio, in Italia tanti hanno gridato all’emergenza, ma il numero di migranti giunti via mare è stato solo di circa 150mila persone8. La Grecia di allora si sottopose a uno sforzo di accoglienza senza precedenti. Gran parte di questa immane fiumana si riversò in Macedonia, trasfor-mando per sempre la geografia umana della regione. Negli anni Venti, Salonicco cambiò pelle e divenne una città di profughi; tendopoli e baracche occuparono vaste aree periferiche, finché non furono sostituite da case più decorose.

A distanza di quasi un secolo dallo « scambio di po-polazioni », oggi rimangono solo gli anziani a serbarne il ricordo, custodi della memoria dei genitori che visse-

8 Per l’esattezza 150.317 secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (reso noto a dicembre 2015).

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ro in prima persona quegli eventi dolorosi. È un capito-lo della storia cittadina che difficilmente viene raccon-tato agli stranieri: la vicenda dei profughi e la loro accoglienza è una questione di storia locale, priva di interesse per i turisti. I tessalonicesi attuali si considera-no ellines, greci, e basta. Ma i profughi del Ponto – la regione affacciata sul Mar Nero da cui provenivano anche i miei nonni – e i loro discendenti sono i più te-naci fra i greci dell’Asia Minore nella difesa della loro identità. E non vogliono dimenticare la « patria » che hanno dovuto abbandonare a malincuore, né il tributo di sangue che hanno pagato.

Viaggio verso l’ignoto

« Prova a immaginarti qualcuno che bussa alla porta di casa tua e ti dà qualche ora, o qualche giorno, per portarti via poche cose e andartene per sempre. Era consentito prendere solo cibo, abiti, coperte e qualche oggetto personale, prima di affrontare il viaggio verso l’ignoto », mi dice zia Elpida più tardi, dopo la visita al cimitero, sorseggiando un caffè mentre rievochiamo le vicende dei profughi greci del Ponto. « Case che erano state testimoni della vita di generazioni, tramandate in eredità di padre in figlio, d’improvviso si svuotarono. In alcuni paesi vennero saccheggiate e poi bruciate dai turchi, ma le abitazioni più belle furono occupate non appena le famiglie greche se ne furono andate ».

Lasciarono tutto, questi sfortunati profughi del Pon-to: abitazioni, botteghe, barche, animali, mobili, libri, suppellettili... Portarono con sé solo quanto potevano

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INDICE

Prefazione pag. 9Nota » 13I personaggi principali di questa storia » 17

I. riTorno in GrEcia » 21Ghiannitsà, settembre 2015 » 21La marea dei profughi » 24Viaggio verso l’ignoto » 29

II. la « carnEficina bianca » » 33Ghiannitsà, settembre 2015 » 33La scelta del silenzio » 36Un’Auschwitz in movimento » 38

III. un’alTra bambina, chE sforTuna! » 42Kotyora (Ordu), autunno 1896 » 42Una neonata dalla pelle nivea » 47Lezioni di mandolino e di francese » 52

IV. lE mani dEllE donnE dEl ponTo » 56Ghiannitsà/Thessaloniki,

settembre 2015 » 56La città dei Comneni » 57Ricamando la memoria » 60

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V. la bravaTa di chambashin pag. 64 Kotyora (Ordu), giugno 1906 » 64 La carovana della vacanza in marcia » 67 L’arresto di Agop, il fabbro armeno » 71 VI. il villaGGio bruciaTo » 79 Milano, ottobre 2015 » 79 VII. lEzionE di rEliGionE » 81 Kotyora (Ordu), ottobre 1906 » 81 Pellegrinaggio a Sumelà » 82 I mostri marini di Achilleas » 85 VIII. la madonna di sumElà

si è TrasfEriTa in GrEcia » 88 Thessaloniki, settembre 2015 » 88 Il monastero devastato e l’icona nascosta » 92 Per un giorno all’anno, si celebra la messa » 94 IX. la finE dEGli armEni » 97 Kotyora (Ordu), 1915 » 97 « La Turchia deve essere musulmana » » 99 « Lasciate gli armeni alla loro sorte » » 104 Eleftheria, la neonata da salvare » 106 X. un GravE luTTo in famiGlia » 110 Kotyora (Ordu), 1916 » 110 Due figlie in età da marito » 111 Un nuotatore in mostra » 113 Petros al centro di uno scandalo » 117 

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XI. bombE russE su KoTyora pag. 124 Kotyora (Ordu), 1916-1917 » 124 I capelli di Pinelopi » 128 Navi nemiche all’orizzonte » 132 In fuga al seguito dei russi » 135 XII. niKos scoprE lE suE carTE » 137 Kotyora (Ordu), 1917-1918 » 137 Il tesoro nascosto » 140 Una busta misteriosa » 143 Il monito dell’imam Murat » 146 XIII. fidanzamEnTo E nozzE in TEmpo di GuErra » 152 Kotyora (Ordu), 1918-1920 » 152 Topal Osman, l’Eichmann dei greci » 156 Una festa silenziosa » 161 Nostalgia di casa » 163 La scimmia e le sorti della guerra » 166 XIV. anKara ordina: « dEporTaTEli TuTTi » » 167 Kotyora (Ordu), 1921-1922 » 167 La macchina della morte si rimette in moto » 170 La carneficina di Beyalan » 176 XV. il calvario dElla marcia forzaTa » 180 Kotyora (Ordu), 1922 » 180 Le tazze da tè di Eratò » 183 Donne e bambini in marcia » 185 

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XVI. l’odissEa vErso una nuova paTria pag. 192 Ghiannitsà, settembre 2015 » 192 Un ospite inatteso bussa alla porta » 194 Perseguitati da Stalin in Unione Sovietica » 196 Epilogo » 203

Bibliografia essenziale » 207

Ringraziamenti » 209

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« Non ho mai saputo che mia nonna Eratò fosse una profuga, né che la mia famiglia paterna fosse stata costretta con la forza a lasciare il Paese dove era nata ». Così racconta Maria Tatsos, che solo da adulta ha scoperto di discendere da un popolo che è stato vittima di una delle prime operazioni di pulizia etnica del Novecento.

Ai tempi della vicenda raccontata in queste pagine, Eratò è una ragazza della comunità greca che da tempo immemorabile vive nel Ponto, la terra del filosofo Diogene e del re Mitridate, affacciata sul Mar Nero.

Quando negli anni Venti le autorità stabiliscono che la Turchia deve essere interamente musulma-na, Eratò, Nikos e il piccolo Christos, che sono cristiani, devono abbandonare tutto e fuggire, se vogliono avere salva la vita. Approderanno in una Grecia per loro sconosciuta, dove si costruiranno un futuro, senza mai dimenticare le loro radici.

« Questo libro vuol essere un tributo alla me-moria », scrive l’Autrice, « per non dimenticare e per capire quanto siano simili le tragedie di ieri a quelle di oggi. Ma è pure un inno alla speranza, perché anche i nostri nonni o bisnonni, in altri mo-menti della storia, sono stati profughi, immigrati e stranieri e, se hanno fatto fortuna in terre lontane, è perché qualcuno ha offerto loro un’opportunità ».